Grice e Falzea – QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET
RIGOREM – il sentiment condiviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina).
Filosofo. Grice: “I like Falzea; for one he applies Apollonian principles to H.
L. A. Hart’s analysis of ‘discorso giuridico’ – alla ‘discorso musicale’ –
after all, there is ‘armonia’ in justice!” – Si laurea sotto Pugliatti a Messina.
Insegna a Messina. Lincei. Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare,
sempre ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica
con quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine
giuridico indispensabile alla co-esistenza pacifica di vita materiale, vita
spirituale e vita sociale. Fra i suoi maggiori risultati, la centralità della
nozione dell’’intersoggettivo”, “l’interazione” – “l’interpersonale” -- pensato
sia astrattamente che in relazione alle correlative persone la fondazione di
una etica giuridica e l'elaborazione di una assiologia del diritto, frutto
rispettivamente della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione
concettuale delle nozioni di ”valore“ da porre, al centro della sua filosofia
giuridica, assieme a quello di “interesse” (cf. Prichard), e di “categoria
giuridica” formale, quali nuclei fondanti del corpus dottrinario della
giurisprudenza. Da qui, la constatazione di principio secondo cui “il
giuridico”, nella sua accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e
non statico, si analizza nelle sue due componenti principali, quella ”formale“
e quella “materiale”, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale
equilibrio co-relativo garante di quella realtà umana fattuale del interesse e
del valore. Il perno epistemologico dell'impianto teorico, quale presupposto
ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi “stato di diritto”, è quello che fa
leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica
cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (forma), quel nucleo affettivo-emotivo
(materia) insito in ogni fatto umano consuetudinario della vita. Il diritto,
come realtà assiologica, è quella naturale concezione cui si perviene allorché
si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della giurisprudenza
la quale, invece, deve guardare alla realtà fattuale ed alle sue dinamiche
complesse e multi-fattoriali, ai suoi contenuti pragmatici, di valore ed d’interesse.
Da qui, la necessaria interdisciplinarità cui deve sottostarepur mantenendo la
propria autonomia la costante giurisprudenza per non cadere in un anacronistico
e sterile formalismo privo di materia. La forte, quasi esasperata dimensione
teoretica (ma mai grettamente dogmatica) espressa non solo da un punto di vista
meramente logico-formale ma sempre contestualizzata alla variegata
problematicità e storicità della realtà umana, si evince, in tutta la sua
evidenza, dagli scritti dedicati ai problemi di teoria generale del diritto,
affrontati, oltre che in alcuni suoi lavori monografici, in certe voci la lui
redatte per l'Enciclopedia del Diritto, sì da costituire dei classici della
letteratura giuridica contemporanea: fra queste, accertare, apparire, efficacia
giuridica, fatto giuridico. Fra i molti contributi dati da Falzea
all'elaborazione teorica dell'ordinamento giuridico, in raccordo a quanto detto
sopra, degno di nota è l'aver egli richiamata l'attenzione nella voce ”I fatti
del sentimento“, sulla scia di parte del pensiero di Pugliatti sulla rilevanza
giuridica del sentimento, inteso non come un principio generale
dell'ordinamento, bensì come un vero e proprio sentimento soggetivo ed
intersoggetivo – shared feelings -- fattualmente rilevante per l’interazione
interpersonale, che la norma giuridica, specie quelle del diritto civile, classificano
come un valore positivo, da rispettare dunque, o negativo (“disvalore”), da
reprimere invece. Da questa presupposizione quindi, con metodo contraddistinto
da ampiezza dell'indagine storica e improntato al rigore concettuale, consegue
uno dei suoi maggiori risultati, riguardante l'analisi del concetto generale di
diritto, quale diritto positivo, cioè effettivamente vigente, incardinato entro
un sistema assiologico fondato su un ordine razionale intersoggetivo che
rispetta il valore di una determinate intersoggetivo in un assegnato luogo ed
in un certo tempo (storicità del diritto), secondo una scala della loro
importanza. Quest'ordinamento razionale è un tratto distintivo sia del sistema
intersoggetivo che dei suoi sottosistemi, fra i quali preminenti son oil sistema
di comunicazione, e quello giuridico, che è il sistema normativo attualizzato
dell'interazione. Da questa prospettiva, anche sulla base di un parallelo
analogico-concettuale con la struttura della logica, perviene, tra l'altro, ad
una elementare quanto fondamentale distinzione meta-giuridica fra teoria
generale del diritto e dogmatica giuridica, argomentando solidamente a
favore della tesi per cui la teoria generale del diritto opera ad un livello
superiore di generalità rispetto a quello in cui si colloca la dogmatica
giacché quest'ultima è sempre inerente a diritti positivi storicamente
attualizzati, oggetti di studio della teoria generale che, in quanto tale, non
discende dunque da alcun diritto positivo particolare, e quindi neppure dalla
dogmatica. La teoria generale del diritto è piuttosto riflessione meta-teorica
su quei particolari sistemi vigenti di diritto positivo, sistemi che verranno
quindi interpretati speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione
giuridica) tramite metodi centrati sulla individuazione e ordinazione
concettuale. Solo in questi termini, si può allora più propriamente parlare di
”filosofia del diritto”. Altre opere: “L’intersoggetivo giuridico” Dott. A.
Giuffrè Editore, Milano); “L’intersoggetivo giuridico, Dott. A. Giuffrè
Editore, Milano); La separazione personale, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); L'offerta
reale e la liberazione co-attiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore,
Milano); Il fatto naturale, MILANI-Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova);
Voci di teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il gene
giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, Introduzione alle giurisprudenza
filosofica”. “Il concetto di diritto” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Teoria
generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,Ricerche di teoria
generale del diritto e di dogmatica giuridica,
Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, Scritti d'occasione, Dott. A. Giuffrè
Editore, Milano. giuscivilista. Il
civilista. Il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa normativa (ovvero, il
caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il suo possibile effetto
giuridico. norma giuridica Diritto e
interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto. Il diritto può essere
consuetudinario. consuetudine. Antropologia giuridica. diritto civile, Oltre il
”positivismo giuridico“, regola giuridica. Motivi volontaristici e
imperativistici sono presenti nel pratico e volitivo spirito dei romani.
Nemmeno tra i romani tuttavia troviamo formulate dottrine filosofiche che si
propongano di ricondurre compiutamente il diritto alla volontà o al comando. Il
lato imperativistico del diritto emerge piuttosto in singole tesi o massime di
giuristi. Si ricordi il noto passo di Modestino riportato nel Digesto: « Legis
virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire" (D. 1, 3, 7); o
l'altro detto, di Ulpiano, ancora piu indicativo sotto il profilo
volontaristico che sottolinea l'importanza della volonta del sovrano per la validita
della legge: "quod principi placuit legis habet vigorem" (D. 1, 4,
1). Ma le espressione forse piu significative si trovano in un luogo di Gaio,
nel quale egli, dopo aver distinto varie fonti del diritto romano, le
caratterizza cosi: "Lex est quod populus iubet atque constituit.
Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit... Senatusconsultum est quod
Senatus iubet atque constituit" (Gai 1, 3, 5). Il rapporto regola
giuridica-commando risulta ormai fissato in maniera esplicita, mentre e
IMPLICITAmente enunciato il rapporto tra il comando (iubere) e l'imperativo
(constituere). Rientra in questa configurazione volontaristica e
imperativistica del diritto la concezione della consuetudine come iussum
populi, un comando del popolo alla stessa stregua della legge: lex lata sine
suffragio. Ma e con la compilazione giustinianea che, associato al processo
politico dell'epoca imperiale, il volontarismo giuridico ottiene la sua prima
grande e compiuta affermazione. A cio concorsero due fattori strettamente collegati.
La volonta d'onde promana la regola giuridica e adesso individuata e
circoscritta nella persona dell'imperatore. La netta separazione, su piano
empirico, tra interpretazione e applicazione della legge e la regolar rigorosa
che riservava allo stesso imperatore il POTERE INTERPRETATIVO (nel senso di
risoluzione dei casi dubbi) esaltano il peso della volonta imperiale, impedendo
che altri, giurista o giudice che sia, possa sustituirsi, alterandola o
integrandola, a quella volonta. E ben noto il monito che Giustiniano, sulla
presunzione della completezza e perfezione della propria opera di legislatore,
rivolgeva ai giuristi: «... nullis iuris peritis in posterum audentibus
commentarios illi adplicare et verbositate sua supra dicti codicis
compendium confundere: quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est,
cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est
sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum subtilitatem quae paratitla
nuncupantur quaedam admonitoria eius facere nullo ex interpretatione eorum
vitio oriundo" (C. 1, 17, 1, 12); e quello ancor piu energico e perentorio
che gia in precedenza era stato fato ai giudici da Valentiniano e da Marciano:
"Si quid vero in idsem legibus latum fortassis obscurius fuerit, oportet
id imperatoria interpretatione patefieri duritiamque legum nostrae humanitati
incongruant emendari" (C. 1, 14, 9). La prassi non poteva non smentire
questo ambizioso proposito, la cui formulazione, tuttavia, giova a chiarire
come una concezione volontaristica possa trovare un effetivo riscontro nella
realta solo a patto che la VOLONTA legistlativa venga aggiunta a fonte unica
del diritto al di fuori di ogni condizionamento esterno e risultati garantita
nella sua fedele applicazione ed esecuzione. Può il diritto
penale di una moderna democrazia liberale essere invocato a tutela di
sentimenti? L’idea della protezione penale sembra di primo acchito stridere
nell’accostamento a oggetti come i sentimenti. Eppure, il problema non è
estraneo alla realtà normativa italiana: nel codice Rocco il sen- timento
religioso, il pudore, la pietà dei defunti, il sentimento per gli animali sono
gli esemp i più evidenti. Di fronte all’impiego legislativo di suddetta
terminologia, si apre il problema della definizione dell’oggetto di tutela: il
presidio è rivolto a stati psicologici individuali? Oppure l’evocazione di
sentimenti va ri- ferita alla collettività, quale salvaguardia di una
sensibilità che si as- sume come propria della maggioranza dei consociati? La definizione
in termini di sentimento comunica, in prima istan- za, l’attenzione verso
aspetti non strettamente materiali della vita de- gli individui: riconosce la
possibilità di recare offesa alla persona su versanti che trascendono la mera
fisicità. Un richiamo a fenomeni che interessano la sfera psichica, e che si
pongono di fronte al diritto come realtà da decifrare. La prima parte
dell’indagine sarà dedicata a una mappatura del- l’orizzonte conoscitivo,
attraverso contributi di conoscenza esterni al mondo del diritto. Cercheremo di
sviluppare un dialogo interdisciplinare esteso non soltanto alle scienze lato
sensu psicologiche, ma anche alle discipline sociologiche e filosofiche,
secondo un’apertura che dà rilievo ai ca- noni metodologici elaborati in seno
alla branca di studi della dottrina statunitense denominata ‘Law and Emotion’.
A seguito di tale sintetico ma importante excursus, entreremo nel- la
dimensione normativa, analizzando sia le fattispecie penali del- l’ordinamento
italiano in cui l’oggetto di tutela viene definito come ‘sentimento’, sia le
peculiari sfumature di significato che emergono dai discorsi dei giuristi.
Culminata tale parte della ricerca, la quale è finalizzata a delinea- XVI
Tra sentimenti ed eguale rispetto re il quadro di riferimento normativo e a
fissare le coordinate meto- dologiche di fondo, cercheremo di analizzare una
specifica declina- zione del problema della tutela di sentimenti: i rapporti
fra sensibilità soggettive e libertà di espressione. L’approfondimento di tale
questione assume oggi una peculiare ri- levanza dovuta alla crescente
conflittualità che si registra nel discor- so pubblico delle società
occidentali, con particolare riferimento ad argomenti ad alto tasso emotivo
dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. L’asserita
impossibilità che il diritto possa muoversi all’interno di coordinate
eticamente neutrali impone di riflettere attentamente sul- la dimensione
politica del problema penale, all’interno di una dialet- tica i cui poli opposti
sono rappresentati da posizioni di individuali- smo democratico contrapposte a
concezioni di tipo comunitarista- identitario. La parzialità dei sentimenti, la
loro mutevolezza, la loro essenzia- lità per la persona acutizzano il problema
degli equilibri fra coerci- zione e libertà. L’obiettivo è riuscire a
bilanciare esigenze di rispetto per le persone con la salvaguardia di forme e
contenuti comunicativi la cui libertà è anch’essa parte essenziale del
reciproco rispetto dovu- to da ciascuno a tutti. Una misurata e accorta
diffidenza verso il tessuto affettivo- emozionale è la premessa per un
approccio critico che metta il diritto penale in condizione di distinguere
richieste di riconoscimento da tentativi di sopraffazione, per «non confondere
il pensiero e l’auten- tico sentimento – che è sempre rigoroso – con la
convinzione fanatica e le viscerali reazioni emotive» 1. In questo senso, un
confronto con i sentimenti sarà forse utile a meditare sugli spazi per una
convivenza tra le diverse libertà che chiedono ascolto nella società
pluralista. 1 MAGRIS, Laicità e religione, in AA.VV., a cura di
Preterossi G., Le ragioni dei laici, Roma-Bari, 2006, p. 110. PARTE I
EMOZIONI E SENTIMENTI TRA FATTO E NORMATIVITÀ 2 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 3
CAPITOLO I FENOMENI AFFETTIVI E DIMENSIONE GIURIDICA: COORDINATE
EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE «se trascuriamo tutte le reazioni emozionali
che ci legano a questo mondo [...], noi trascuriamo anche gran parte della nostra
umanità, e precisamente quella parte che sta alla base del perché noi abbiamo
una legislazione civile e penale, e di quale aspetto essa prenda» NUSSBAUM
M.C., Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, p. 24 SEZIONE I
L’orizzonte di indagine SOMMARIO: 1. Diritto penale, sentimenti, emozioni:
panoramica dei problemi. – 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento
nella definizione dell’oggetto di tutela. – 2.1. Oltre il lessico legislativo.
1. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei pro- blemi «Anche se
nel diritto penale domina il fenomeno oggettivo ed esterno del comportamento,
si trovano in esso frequenti espliciti ri- chiami ai fenomeni soggettivi e
interiori del sentimento. Purtroppo si tratta di semplici richiami, dai quali
nessuno finoggi ha tentato di as- surgere a una trattazione sistematica
unitaria. Il peso di queste lacu- ne non può non accusarsi in sede di
teoria generale perché sono gli 4 Tra sentimenti ed eguale rispetto
istituti penalistici a offrire a uno studio giuridico del sentimento gli esempi
più numerosi e più importanti» 1. Con queste parole, nel 1972, il civilista e
teorico del diritto Angelo Falzea richiamava l’attenzione sulla rilevanza che i
fenomeni affettivi assumono nella dimensione penalistica, lamentando l’assenza
di stu- di specifici che avrebbero potuto giovare a un più esaustivo inqua-
dramento teorico dei fatti di sentimento nella sfera giuridica. A distanza di
decenni le parole di Falzea mantengono inalterato il loro valore di impulso a riflettere
su ruolo e significato del sentimen- to nel diritto penale. Ad oggi il tema non
è stato ancora compiuta- mente indagato in una prospettiva di sistema, per
quanto l’attenzione della dottrina penalistica italiana sia andata crescendo
negli ultimi decenni. I limiti dell’approfondimento, quasi una ‘presa di
distanza’ dai fat- tori affettivi, non costituiscono una peculiarità del
microcosmo pena- listico ma sono da contestualizzarsi in un atteggiamento del
pensiero occidentale che ha considerato sentimenti ed emozioni come un fat-
tore di distorsione del pensiero cognitivo e, conseguentemente, anche come
elemento distonico in rapporto all’asserita ‘razionalità’ degli isti- tuti
giuridici e delle riflessioni ad essi inerenti 2. 1 FALZEA, I fatti di sentimento,
in AA.VV., Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, vol. VI, Napoli,
1972, p. 353. 2 «Si è soliti associare al concetto di “decisione” il
qualificativo “razionale”, come garanzia di esattezza dei presupposti da cui
promana e di “bontà”/coerenza delle ripercussioni che intende provocare.
Ragione/razionalità come promessa di succes- so, di eliminazione dell’errore,
di metodo fondato su argomentazioni logiche e su- scettibili di controllo
critico», così CAPUTO, Occasioni di razionalità nel diritto penale. Fiducia
nell’“assolo della legge” o nel “giudice compositore”?, in Jus, 2/2015, p. 213.
Il tema della razionalità giuridica e penalistica affiora in innumerevoli
scritti che non appare possibile menzionare esaustivamente; per un quadro di
sintesi v. LA TORRE, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità,
ragionevolezza, Napoli, 2012; con riferimento all’ambito penalistico, v. ex
plurimis, LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, in AA.VV., Logos
dell’essere Logos della norma. Studi per una ricerca coordina- ta da Luigi
Lombardi Vallauri, Bari, 1999, pp. 1151 ss. Un eloquente monito a non dare per
scontata la razionalità del giuridico si deve a GRECO, Premessa, in BIANCHI
D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali
della giurisprudenza, Bari, 1970, p. 29: «nel mondo del diritto [...]
l’attenzione è tradizio- nalmente rivolta ai contenuti strettamente giuridici
delle leggi e della giurispruden- za e v’è una propensione ad attribuire
significati razionali o “ideali” non soltanto al reale giuridico, ma anche a
quello che tale non è. Ora in un mondo ampiamente dominato da leggi economiche
e dai corrispondenti dinamismi socio-politici, la pre- tesa di considerare il
fenomeno giuridico in linea generale negli stretti limiti della “scienza
giuridica” propriamente detta è illusoria e illusionistica». Per un’interes-
sante prospettiva sui rapporti tra razionalità dell’intervento penale ed
emozioni mo- Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 5 Il modo di
intendere le dinamiche del diritto, soprattutto del dirit- to penale, si è
fondato implicitamente, forse anche inconsciamente, su una ‘narrazione
convenzionale’ 3 che ha attribuito a sentimenti ed emozioni un ruolo negativo,
quasi antagonistico rispetto alla ragione, e che ha portato in questo senso a
marginalizzare il ruolo dei feno- meni affettivi, sia riguardo alla dimensione
di razionalità della con- dotta del reo4, sia (soprattutto) in relazione al
modo di concepire l’agire delle figure tecniche cui sono affidate le dinamiche
applicative del diritto 5: soggetti, questi ultimi, idealmente assimilati,
anche a li- vello di immaginario collettivo, a modelli di razionalità pura,
secon- do veri e propri stereotipi che caratterizzano il modello culturale di
diritto radicato nel mondo occidentale. Tale vulgata influisce tutt’og- gi
sull’insegnamento per la preparazione di giudici e avvocati, ten- denzialmente,
e forse talvolta ingenuamente, proiettati alla ricercadi una non ben definita
‘razionalità’, ma forse non ancora adeguata- mente messi in condizione di
conoscere, studiare e gestire la com- plessità delle euristiche del pensiero e
dei rapporti con l’emotività 6. rali v. MURPHY, Punishment and the Moral
Emotions, Oxford, 2012. Quale testo di riferimento per un inquadramento in
chiave socio-psicologica della razionalità umana, v. ELSTER, Ulisse e le
Sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità, tr. it., Bologna, 2005,
pp. 85 ss. 3 Definizione di BANDES, Introduction, in AA.VV., ed. by Bandes, The
Passion of Law, New York, 1999, pp. 1 ss. 4 Il tema è sviluppato principalmente
in ambito criminologico; per una sintesi v. FORTI, L’immane concretezza.
Metamorfosi del crimine e controllo penale, Mila- no, 2000, pp. 207 ss.; cfr.
PALIERO, L’economia della pena (un work in progress), in AA.VV., a cura di
Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, Mi- lano, 2006,
p. 594, il quale, in superamento di tale teorica, afferma che ormai non è
«pensabile immaginare un attore della scena penalistica che sia contempora-
neamente affekt-, tradition- e wert-frei». 5 È la critica di BANDES-BLUMENTHAL,
Emotion and the Law, in 8 Annual Re- view of Law and Social Science, 2012, p.
162. 6 HARRIS, “A(nother) Critique of Pure Reason”: Toward Civic Virtue in
Legal Education, in 45 Stanford Law Review, 1993, pp. 1773 ss.; per la critica
al modello di pensiero sotteso all’insegnamento del diritto nel panorama
occidentale vedi pp. 1785 ss. Emblematica è la figura del giudice, il quale per
definizione si dovrebbe differenziare da figure atecniche, prive di una
formazione giuridica e che dunque dovrebbero essere più esposte a
condizionamenti emotivi (testimoni, imputato, pubblico), ma che andrebbe più
realisticamente inteso, e studiato, anche come soggetto emotivo: «Judges are human
and experience emotion when hearing ca- ses», v. MARONEY, Emotional Regulation
and Judicial Behaviour, in 99 California Law Review, 2011, p. 1487; si veda
soprattutto pp. 1532 ss. per il discorso sulla gestione delle emozioni; EAD.,
Angry Judges, in 65 Vanderbilt Law Review, 2012, pp. 1258 ss.; cfr. BANDES,
Introduction, cit., p. 2. Sul tema delle emozioni del giu- 6 Tra
sentimenti ed eguale rispetto I tempi sembrano però essere cambiati: i saperi
sul mondo7, e dunque le scienze con cui anche il mondo del diritto deve
confrontar- si – utilizziamo il termine ‘scienze’ in un’accezione lata che
compren- de sia le scienze c.d. ‘dure’, sia le scienze sociali e le discipline
filoso- fiche – inducono oggi a un ripensamento di fondo: non solo relativa-
mente alla distinzione dicotomica ragione/emozioni 8, ma più in gene- rale al
ruolo che emozioni e sentimenti assumono anche in rapporto alla qualità morale
delle scelte di un individuo 9. dicante si veda anche WIENER-BORNSTEIN-VOSS,
Emotion and the Law: A Fra- mework for Inquiry, in 30 Law and Human Behaviour,
2006, pp. 236 ss. L’emo- tività del giudice viene analizzata anche nel panorama
italiano: fra le monografie v. FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. La
decisione tra ragione ed emozio- ne, Bologna, 2017, pp. 21 ss., 71 ss.;
CALLEGARI, Il giudice fra emozioni, biases ed empatia, Milano, 2017. Fra gli
articoli v. CERETTI, Introduzione, in Criminalia, 2011, pp. 347 ss.; LANZA,
Emozioni e libero convincimento nella decisione del giudi- ce penale, in Criminalia,
2011, pp. 373 ss.; BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità
penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e
della sanzione penale alla prova del processo, Napoli, 2014, pp. 116 ss. Per
una critica all’attuale formazione dei giuristi, e la proposta di introdurre le
scien- ze cognitive nel percorso di studi universitario v. PASCUZZI, Scienze
cognitive e formazione universitaria del giurista, in Sistemi intelligenti,
1/2007, pp. 137 ss.; si sofferma sulla debolezza del modello di ‘azione
razionale’ fatto proprio dal dirit- to, in una prospettiva mirata
principalmente al diritto civile, CATERINA, Processi cognitivi e regole
giuridiche, in Sistemi intelligenti, 3/2007, pp. 381 ss. 7 Traggo tale
definizione da PULITANÒ, Difesa penale e saperi sul mondo, in AA.VV., a cura di
Carlizzi-Tuzet, La giustizia penale tra conoscenza scientifica e sapere comune,
Torino, in corso di pubblicazione. 8 La bibliografia sul tema è sterminata. Ci
limitiamo a indicare alcune opere che, anche in virtù dell’attitudine
divulgativa, hanno contribuito a favorire un dia- logo interdisciplinare. Un
Autore che in tempi recenti ha impresso una svolta, an- che dal punto di vista
comunicativo, per la confutazione della dicotomia ragio- ne/emozioni è il
neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, a partire del cele- bre studio
intitolato L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, tr. it.,
Milano, 1995, al quale si sono aggiunti successivamente Alla ricerca di
Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it., Milano, 2003 e Il sé viene
alla mente. La co- struzione del cervello cosciente, tr. it., Milano, 2012. Si
vedano anche gli scritti di Joseph Le Doux, il quale pone lo studio delle
emozioni come base per la cono- scenza della mente umana, LE DOUX, Il cervello
emotivo. Alle origini delle emozio- ni, tr. it., Milano, 2014. Per una
prospettiva interdisciplinare, di taglio socio- filosofico, opera di
riferimento è NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, tr. it., Bologna, 2004;
per un quadro di sintesi di taglio prettamente divulgativo v. EVANS, Emozioni.
La scienza del sentimento, tr. it., Roma-Bari, 2004, pp. 27 ss. 9 «Il problema
non è mai stato, soprattutto da Hume in poi, ammettere che le emozioni possano
essere motivi dell’azione umana, ma semmai ammettere che ne siano ragioni
morali, che abbiano un’autorità, una forza normativa, pari a quella che il
razionalismo classico attribuiva a principi della ragione incontaminati
dalle Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 7 Non è possibile
in questa sede addentrarci nello sconfinato dibat- tito; riteniamo però di
poter sintetizzare lo stato dell’arte con un’elo- quente affermazione di
Jonathan Haidt, psicologo di matrice intui- zionista, e dunque incline a
riconoscere la primazia dell’intuizione emotiva nell’economia dell’agire umano:
«la razionalità umana di- pende in maniera cruciale da un’emotività
sofisticata: è solo perché il nostro cervello emotivo lavora così bene che i
nostri ragionamenti possono funzionare» 10. Un’‘emotività sofisticata’: se la
razionalità umana è il risultato di una complessa combinazione in cui anche la
dimensione emotiva ha un ruolo importante, ne deriva l’esigenza di un
ridimensionamento delle pretese di razionalità ‘pura’ che ci si ostina (o ci si
illude) a ri- cercare nei prodotti legislativi e anche nelle condotte degli
operatori del diritto (giudici, avvocati). In altri termini, appare tutt’altro
che in- scalfibile la plausibilità dell’impostazione veterorazionalistica cui
la tradizione giuridica occidentale 11 ha conformato i propri paradigmi e alla
cui ombra sembra ancora coltivare l’autorassicurante illusione della legge e
del sistema giuridico come dominio della ‘razionalità’ 12. passioni e che il
sentimentalismo, d’altra parte, finiva per trattare solo nella con- tingenza
del loro incidere su una ragione pratica», v. PAGNINI, Il rispetto al centro
della morale, in Il Sole-24Ore, 22/04/2012; sul rapporto fra emozioni e ragioni
mo- rali, un’opera che riassume lo stato dell’arte è AA.VV., ed. by Bagnoli, Morality
and the Emotions, Oxford, 2011. 10 HAIDT, Felicità. Un’ipotesi, tr. it.,
Torino, 2008, p. 16; per un’esplicazione più dettagliata v. ID., The Emotional
Dog and Its Rational Tail: A Social Intuitionist Ap- proach to Moral Judgment,
in 108 Psychological Review, 2001, pp. 814 ss. Il tema è sconfinato; per una
sintesi del dibattito v. MACKENZIE, Emotions, Reflection and Mo- ral Agency, in
AA.VV., ed. by Langdon-Mackenzie, Emotions, Imagination and Moral Reasoning,
New York-London, 2012, pp. 237 ss.; OATLEY, Psicologia ed emozioni, tr. it.,
Bologna, 1997, pp. 239 ss., 300 s. Una posizione che afferma l’esigenza di non
trascurare l’effetto di possibile alterazione della razionalità da parte delle
emozioni è quella di ELSTER, Emotions and Rationality, in AA.VV., ed. by
Mansted-Frijda- Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium,
Cambridge, 2004, pp. 30 ss. Un’efficace sintesi, anche sul piano comunicativo,
è il libro di GOLEMAN, Intel- ligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci
felici, tr. it., Milano, 2013. Da ultimo, v. MORIN, Sette lezioni sul pensiero
globale, tr. it., Milano, 2016, pp. 15 s. 11 Per un interessante quadro di
sintesi sull’atteggiamento del pensiero giuridi- co occidentale teso a prendere
le distanze dalla dimensione emotiva (senza peral- tro riuscirci), v. MUSUMECI,
Emozioni, crimine e giustizia. Un’indagine storico- giuridica tra Otto e
Novecento, Milano, 2015, pp. 15 ss. 12 «The mainstream notion of the rule of
law greatly overstates both the de- marcation between reason and emotion, and
the possibility of keeping reasoning processes free of emotional variables
[...] It is also likely that emotion, by its very nature, threatens much of
what law hopes to be. To the extent legal systems 8 Tra sentimenti
ed eguale rispetto È emblematico l’assunto con cui la giurista statunitense
Susan Ban- des apre un importante studio collettaneo intitolato ‘The Passions
of Law’: «[l]e emozioni pervadono il diritto»13. Possiamo dire che ne im-
pregnano sia la fase genetica sia la dimensione applicativa; la domanda
cruciale non è se emozioni e sentimenti diano luogo a forme di intera- zione
con la realtà giuridica, bensì in quali termini essi interagiscano e come
possano essere ‘gestiti’ a livello teoretico e in ambito applicativo. L’osservazione
della Bandes vale in misura ancora maggiore per il diritto penale, il quale
intrattiene con le emozioni un rapporto di problematica contiguità, poiché
coinvolge, e spesso travolge, beni che rivestono un ruolo importante nella
scala dei bisogni e delle prefe- renze soggettive: per proteggere interessi
rilevanti per la sopravviven- za e lo sviluppo della persona umana è chiamato a
incidere su inte- ressi altrettanto essenziali (le libertà) 14. thrive on
categorical rules, emotion in all its messy individuality makes such cat-
egories harder to maintain [...] The notion of the rule of law is based, at
least in part, on the belief that laws can be applied mechanically, inexorably,
without human fallibility», v. BANDES, Introduction, cit., p. 7. Nella cospicua
letteratura statunitense si vedano, ex plurimis, BRENNAN, Reason, passion, and
“the progress of the law”, in 10 Cardozo Law Review, 1988-1989, pp. 3 ss.;
DEIGH, Emotions, Values and the Law, Oxford, 2008, pp. 136 ss.; KARSTED,
Emotion and Criminal Justice, in 6 Theoretical Criminology, 2002, pp. 299 ss.;
MARONEY, The Persistent Cultural Script of Judicial Dispassion, in 99
California Law Review, 2011, pp. 630 ss. 13 BANDES, Introduction, cit., p. 1.
Per una panoramica di taglio generale si ve- dano anche i contributi pubblicati
in AA.VV., coord. Palma-Silva Dias-de Sousa Mendes, Emoções e Crime. Filosofia,
Ciência, Arte e Direito Penal, Coimbra, 2013. 14 Il problema della razionalità
del punire si identifica con anche l’esigenza di un equilibrato rapporto con la
dimensione affettiva: nella sua versione più primi- tiva e brutale, la pena si
manifesta come reazione istintiva a un torto: «Definendo la pena primitiva come
ragione cieca, determinata ed adeguata soltanto agli istin- ti ed agli impulsi
– in una parola, come azione istintiva – volevo innanzitutto ed in primo luogo
porre con ciò in rilievo, nella maniera più efficace possibile, una
caratteristica negativa della pena primitiva»: v. VON LISZT, La teoria dello
scopo nel diritto penale, tr. it., Milano, 1962, p. 15. Cfr. FERRAJOLI, Diritto
e ragione. Teoria del garantismo penale, IX ed., Roma-Bari, 2008, p. 327. Il
diritto penale costituisce il ramo dell’ordinamento in cui è maggiore è il
rischio di assecondare istanze vendicative o bramosie punitive slegate da una
razionalità strumentale e guidate da una ‘cieca’ emotività, esso vive in una
continua dialettica con l’irrazionale: cfr., ex plurimis, DONINI, “Danno” e
“offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza
come beni giuridici, a margine della categoria dell’“offense” di Joel Feinberg,
in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, pp. 1576 ss.; v. anche ID., Metodo
democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, in
AA.VV., a cura di Stortoni-Foffani, Critica e giustificazione del diritto
penale nel cambio di secolo. L’analisi critica della scuola di Francoforte,
Milano, 2004, p. 85; BARTOLI R., Il diritto penale tra vendetta e riparazione,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2016, pp. 101 Fenomeni affettivi e
dimensione giuridica 9 L’azione dello strumento penale è di per sé ‘emotigena’,
ossia fat- tore di stimolo a emozioni 15. Vale per la fase precettiva, ossia
l’espressione di divieti che, a se- conda degli interessi coinvolti, possono
suscitare negli individui atteg- giamenti emotivi di diverso tipo 16 i quali
finiscono per influire sul gra- do di adesione alla norma e dunque sulle
condizioni di osservanza del precetto, in una dimensione che potremmo definire
come ‘risvolto emozionale’ del problema della legittimazione delle norme penali
17. E vale, forse in modo più rilevante, per la fase applicativa, in cui si
accertano le responsabilità e la sanzione ‘prende corpo’. Non è un ca- so che
la dimensione emotiva nel diritto penale venga convenzional- mente collocata, e
sovente circoscritta, a fasi e momenti in cui emo- zioni e sentimenti risultano
più ‘visibili’18: la realtà delle aule di tri- ss.; PADOVANI, Alla ricerca di
una razionalità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1087 ss. 15
«In effetti, il reato è la mistura di un fatto che suscita reazioni immediate
negative e di un’imputazione dalle origini spesso motivate politicamente e
dagli effetti sempre stigmatizzanti», LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto
penale, cit., p. 1155. Per uno studio ad ampio spettro sulle emozioni suscitate
dal fatto crimina- le, con particolare riferimento al sublime, v. BINIK, Quando
il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società
contemporanea, Milano, 2017. 16 Sul richiamo ad atteggiamenti emotivi della
collettività come parte di un più ampio problema concernente adesione a valori,
consenso sociale e normazione penale, v., per tutti, PALIERO, Consenso sociale
e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/1992, pp. 852 ss. 17 Nella
letteratura italiana v. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della
legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013,
pp. 1125 ss. Sui rapporti fra la dimensione sociale delle emozioni e le scelte
di politica del di- ritto si soffermano BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law,
cit., p. 172. 18 Sui rapporti tra dimensione ‘visiva’ del crimine e ruolo delle
emozioni v., per un’ampia panoramica, AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La
televisione del crimi- ne, Milano, 2005; per l’analisi di un caso emblematico,
v. CERETTI, Il caso di Novi Ligure nella rappresentazione mediatica, in AA.VV.,
a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimine, cit., pp. 451 ss.; sul
tema v. anche PALIERO, Verità e distor- sioni nel racconto mediatico della
giustizia. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., a cura di Forti-Mazzucato-Visconti
A., Giustizia e letteratura, vol. II, Milano, 2014, pp. 671 ss.; più
diffusamente, ID., La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed
‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2006, pp. 523 ss.;
PALAZZO, Mezzi di comunicazione e giustizia penale, in Politica del diritto,
2/2009, pp. 193 ss.; volendo, v. BACCO, Visioni ‘a occhi chiusi’: sguardi sul
problema penale tra immaginazione, emozioni e senso di realtà, in The Cardozo
Electronic Law Bul- letin, 2/2015, pp. 1 ss. Sull’approccio ‘visuale’ in
criminologia v., per una sintesi globale e per le coordinate di fondo, v.
BROWN, Visual Crimonology, in http://- criminology.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190264079.001.0001/acrefore-
9780190264079-e-206?print=pdf, 4/2017, pp. 1 ss. 10 Tra sentimenti
ed eguale rispetto bunale e la dialettica spesso tumultuosa fra i soggetti del
processo 19. E infine il carcere, il dramma umano della pena, da sempre intriso
di atteggiamenti emotivi che si dividono fra vendetta, odio per il tra-
sgressore e compassione 20. Siamo solo alla punta affiorante di un intreccio
che affonda le proprie radici in un substrato per lo più invisibile 21. È bene
riflettere non solo sulle emozioni che il diritto penale su- scita, ma anche
sugli atteggiamenti emotivi e di pensiero che sono alla base e che modellano la
fisionomia dell’intervento punitivo22, nelle forme e nei presupposti23.
L’esigenza di riconoscere e proble- 19 Sulle emozioni della vittima, v. da
ultimo BANDES, Share your Grief but Not Your Anger. Victims and the Expression
of Emotion in Criminal Justice, in AA.VV., ed. by Abell-Smith, The Espression
of Emotion. Philosophical, Psychological an Legal Perspectives, Cambridge,
2016, pp. 263 ss. 20 Richiamiamo, nella sconfinata letteratura, alcune opere in
cui viene affron- tato lo specifico tema delle matrici affettive; per una
sintetica ricognizione filoso- fica, a partire da un’analisi etimologica, v.
CURI, I paradossi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1073
ss.; nella letteratura angloamericana, SOLOMON, Justice v. Vengeance. On Law
and the Satisfaction of Emotion, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law,
cit., pp. 123 ss.; POSNER, Emotion versus Emotional- ism in Law, in AA.VV., ed.
by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 317 ss.; MUR- PHY, Punishment and the
Moral Emotions, cit., pp. 94 ss.; NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni,
cit., pp. 525 ss.; EAD., Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr.
it., Bologna, 2017, pp. 284 ss. 21 «Emotions pervades not just the criminal
courts, with their heat-of-passion, and insanity defenses and their angry or
compassionate jurors but the civil court- rooms, the appellate courtrooms, the
legislatures. It propels judges and lawyers, as well as jurors, litigants, and
the lay public. Indeed, the emotions that pervade law are often so ancient and
deeply ingrained that they are largely invisible», v. BANDES, Introduction,
cit., p. 2. Cfr. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, in 94
Minnesota Law Review, 2010, pp. 2033 s. 22 Secondo l’istanza razionalistica che
è alla base del diritto penale postillumi- nistico, le emozioni sembrano subire
una sublimazione che ne rende più difficol- toso riconoscerne la presenza pur
avvertendone gli effetti: «The institutions of criminal justice thus find
themselves in a paradoxical situation. They offer a space for the most
intensely felt emotions – of individuals as well as collectivities – while
simultaneously providing mechanisms that are capable of ‘coolig off’ emotions,
converting them into more sociable emotions, or channelling them back into
reasonable and more standardised patterns of actions and thought», v. KARSTED,
Handle with Care: Emotions, Crime and Justice, in AA.VV., ed. by
Karsted-Loader-Strang, Emotions, Crime and Justice, Oxford and Portland, 2011,
p. 2. 23 Nella dottrina penalistica italiana è stata avviata una riflessione
concernente il raffronto fra la logica razionalistico-consequenzialista e una
diversa prospetti- va, più marcatamente intuitiva e a base emozionale,
nell’approccio a problemi di Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica 11 matizzare il ruolo della dimensione emotiva si pone dunque anche
in rapporto al processo di deliberazione delle politiche penali e più in
generale all’esercizio delle scelte pubbliche 24. Appare opportuna una
tematizzazione delle connessioni fra diritto penale e dimensione affettiva, in
relazione non solo al funzionamento di istituti del diritto vigente, ma più in
generale all’assetto logico e te- leologico delle categorie penalistiche, le
quali sono frutto di atteg- giamenti di pensiero e di cultura intrisi di
emotività. In altri termini, il ruolo delle emozioni e dei sentimenti va
concepito non solo come elemento da ‘incastrare’ all’interno di geometrie
concettuali tradizio- nali, ma soprattutto come fattore che contribuisce, e ha
contribuito fino ad oggi, a influire sulle geometrie. Le relazioni tra
emozioni, sentimenti e diritto penale non sono dunque confinabili a singoli
territori della c.d. ‘dogmatica’, né posso- no circoscriversi a particolari
settori della parte speciale del codice 25. Il rapporto fra dimensione
affettiva e diritto penale appare in defini- tiva come un intreccio di
questioni che si dispiegano da monte (fase genetica) a valle (fase applicativa)
dell’ordinamento normativo. Più radicalmente, è l’idea stessa della
responsabilità penale, il suo dover essere e i suoi obiettivi, a essere in
buona parte co-determinati da at- teggiamenti emotivi, dalla sensibilità
sociale e dal sentire dei legisla- tori: un presupposto fondamentale per ogni
riflessione penalistica, e che giustamente viene oggi evidenziato come dato
preliminare nella presentazione del problema penale 26. regolamentazione normativa
e a casi concreti: v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Diritto
penale, bioetica, neuroetica, Torino, 2009, passim; EAD., Una let- tura
evoluzionistica del diritto penale. A proposito delle emozioni, in AA.VV., a
cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, Padova, 2013, pp. 344 ss.
24 WESTEN, La mente politica, tr. it., Milano, 2008; più recentemente, sul
ruolo della componente emotiva nelle scelte politiche e nell’adesione a
orientamenti va- loriali, fedi, ideologie, si veda HAIDT, Menti morali. Perché
le brave persone si divi- dono su politica e religione, tr. it., Milano, 2013,
pp. 93 ss.; una sintesi dei proble- mi in ROSSI, Emozioni e deliberazione
razionale, in Sistemi intelligenti, 1/2014, pp. 161 ss. 25 Un’analisi del ruolo
del fattore emotivo nel contesto applicativo evidenzia come il richiamo a
emozioni sia ben presente nelle argomentazioni giurispruden- ziali anche al di
là di un definito inquadramento in particolari istituti, e rappre- senti in
questo senso un ausilio argomentativo polivalente, adoperato soprattutto in
relazione alla colpevolezza e ai criteri soggettivi dell’art. 133 c.p., v.
AMATO, Di- ritto penale e fattore emotivo: spunti di indagine, in Riv. it. med.
leg., 2/2013, pp. 661 ss. 26 FIANDACA, Prima lezione di diritto penale,
Roma-Bari, 2017, pp. 9 ss. 12 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2. Fulcro
dell’indagine: il richiamo al sentimento nella defini- zione dell’oggetto di
tutela La dottrina penalistica parla oggi espressamente di ‘ruolo delle emozioni
e dei sentimenti nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali’,
proponendo una classificazione dei profili di interazione fra stati affettivi e
diritto penale basata su cinque piani prospettici i quali possono a nostro
avviso sintetizzarsi in due macrocategorie: 1) profili pertinenti la genesi del
diritto, della legge penale, e il dover essere della pena (ruolo della
dimensione affettiva nelle scelte di politica del dirit- to e riflessi sulla
configurazione del bene oggetto di tutela penale; in- fluenza sul modo di
concepire i concetti o le categorie della teoria del reato, riflessi sul modo
di concepire significato e scopi della pena); 2) profili concernenti la
dimensione applicativa (ruolo di emozioni e sen- timenti nel giudizio di
colpevolezza; influenza della dimensione affet- tiva nella riflessione del
giudicante) 27. Questioni come l’influenza della dimensione affettiva sulla
teoriz- zazione dei concetti della categoria del reato, sul modo di concepirele
funzioni della pena e sulla graduazione della colpevolezza costitui- scono
tematiche che, secondo un gergo ‘endopenalistico’, orientano la riflessione
verso temi più vicini alla ‘parte generale’; appaiono maggiormente pertinenti a
problemi di ‘parte speciale’ profili riguar- danti il ruolo di sentimenti ed
emozioni nella configurazione di og- getti di tutela. Una prima ricognizione
può essere condotta attraverso uno sguardo al diritto penale vigente, al testo
prima che al contesto 28, alla ricerca di norme in cui vengano evocati fenomeni
psichici lato sensu riconducibili a sentimenti ed emozioni; ed effettivamente
nel codice penale italiano tali richiami non mancano. Un’avvertenza: partire da
una lettura delle norme è funzionale a fornire delle coordinate di base per
l’inquadramento delle questioni 27 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei
sentimenti nella genesi e nell’ap- plicazione delle leggi penali, in AA.VV. a
cura di Di Giovine O., Diritto penale e neu- roetica, cit., pp. 215 ss. 28
Adoperiamo la diade testo/contesto per indicare due distinti livelli di
analisi: il primo relativo alla dimensione letterale delle norme, il secondo,
che non affron- teremo nella presente indagine, relativo all’emersione del
lessico emotivo nelle applicazioni giurisprudenziali anche in relazione a
disposizioni e istituti che non richiamano espressamente stati affettivi. Sul
rapporto fra testo e contesto v. PA- LAZZO, Testo, contesto e sistema
nell’interpretazione penalistica, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi
in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 525 ss. Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica 13 che sono più strettamente legate al diritto
vigente, evidenziando in questo modo le connessioni più immediate, ma non
traduce una scel- ta metodologica tesa a ‘ontologizzare’ il lessico legislativo
e a farne la chiave di lettura prioritaria. Al contrario, il lessico delle
norme, con le sue approssimazioni, deve indurre a chiedersi quale sia, al di là
delle formule, il ruolo dei fenomeni affettivi richiamati nelle dinami- che
della penalità. Prendiamo le mosse dalla parte generale del codice penale29.
Ri- chiami al lessico dei sentimenti e delle emozioni emergono in istituti
relativi alla graduazione della colpevolezza: nel titolo relativo all’im-
putabilità, l’art. 90 c.p. parla di stati emotivi e passionali 30; fra le cir-
costanze del reato spiccano il riferimento allo ‘stato d’ira determinato da un
fatto ingiusto altrui’ e la ‘suggestione di una folla in tumulto’ (artt. 62
c.p. e 599, comma 2, c.p.). Menzioniamo le suddette norme poiché contengono
richiami testuali, senza allargare il campo a ulte- riori situazioni in cui gli
stati affettivi rappresentano un elemento che può concorrere a integrare, o a
influire dal punto di vista naturalisti- co, sulla configurazione di importanti
istituti: pensiamo al dolo e alla 29 Menzioniamo gli istituti e le fattispecie
in cui vengono richiamati espressa- mente fenomeni psichici definiti come
sentimenti ed emozioni, o comunque a essi riconducibili; non si tratta quindi
dell’elencazione di tutti gli istituti che rimandi- no a concetti psicologici;
per una sintesi in tal senso vedi di recente NISCO, La tu- tela penale
dell’integrità psichica, Torino, 2012, pp. 25 ss. 30 La norma che stabilisce
che gli stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità è una disposizione
controversa e dibattuta fin dalla genesi; per una sintesi v. MUSUMECI,
Emozioni, crimine, giustizia, cit., pp. 82 ss.; FORTUNA, Gli stati emotivi e
passionali. Le radici storiche della questione, in AA.VV., a cura di Vinci-
guerra-Dassano, Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, pp. 347
ss. La rigidità della disposizione normativa viene oggi criticata, fino a farla
definire da attenta dottrina come una delle finzioni più odiose del sistema, v.
DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del
senso comune, in www.penalecontemporaneo.it, 1/2017, p. 7; BARTOLI R.,
Colpevolezza: tra persona- lismo e prevenzione, Torino, 2005, pp. 137 ss.; ma è
tuttora ben solida nella giuri- sprudenza, v., ex plurimis, Cass. pen., sez.
VI, 20/04/2011, n. 17305, con nota di VISCONTI A., in Riv. it. med. leg.,
4-5/2011, pp. 1243 ss.; cfr. Cass. pen., 26/06/2013, n. 34089. L’unico spazio
di rilevanza per stati emotivi e passionali viene ammesso nel caso di fenomeni
già radicati in un pregresso quadro di infermità, v. EAD., loc. ult. cit., p.
1246. In relazione alle circostanze dello stato d’ira e della suggestione della
folla, secondo la giurisprudenza, nel primo caso lo stato emotivo deve corri-
spondere a un impulso incontenibile, v. Cass. pen., sez. I, 13/04/1982, n.
10696; Cass. pen., sez. I, 26/04/1988; Cass. pen., sez. I, 12/11/1997, n.
11124; per le spora- diche applicazioni dell’attenuante della suggestione della
folla v. Cass. pen., sez. VI, 27/02/2014, n. 11915; Cass. pen., sez. I,
13/07/2012, n. 42130. 14 Tra sentimenti ed eguale rispetto colpa e,
più in generale, a tutta la materia dell’imputazione soggetti- va 31. 31 È
oggetto di discussione se e in che misura la componente affettiva (emo- zioni e
sentimenti) sia da prendere in considerazione quale fattore costitutivo dei
coefficienti psichici che il diritto penale definisce ‘dolo’ e ‘colpa’, e, più
in genera- le, si discute sul grado di rispondenza fenomenica della categoria
della colpevo- lezza in rapporto allo stato soggettivo della persona; in
relazione a tale aspetto il concetto di colpevolezza assume un ruolo che è
stato definito ‘ambiguo’: «da un lato presidio del rilievo da attribuirsi allo
stato soggettivo reale dell’imputato, on- de evitare una condanna che si fondi
su mere istanze di esemplarità sanzionato- ria; ma nel contempo fattore che
autorizza, quando la colpevolezza non viene esclusa, l’insignificanza di quel
medesimo stato soggettivo (cioè della condizione vera in cui versi il soggetto
agente) rispetto al contenuto della condanna», così EUSEBI, Le forme della
verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità co- me
«approssimazione», in AA.VV. a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre-
cetto e della sanzione penale, cit., p. 173. L’impostazione dominante in
dottrina tende a escludere una rilevanza degli stati affettivi sul piano
normativo: «Estranei alla natura del dolo sono affetti, emozioni, motivi di
qualsivoglia natura che stan- no ‘a monte’ della decisione di agire [...] In
via di principio, elementi emozionali non servono a fondare il dolo, né valgono
a escluderlo», così PULITANÒ, Diritto pe- nale, VII ed., Torino, 2017, p. 282.
Cauta è l’apertura di FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle
categorie del diritto penale contemporaneo, in La Cor- te d’Assise, 1/2011, p.
87 il quale osserva che «[o]ccorrerebbe evitare, invero già nell’individuare
l’essenza generale o nucleo centrale del dolo nella coscienza e vo- lontà del
fatto, di concepire tali requisiti psicologici in termini eccessivamente
razionalistici e idealisticamente depurati da corrispondenti componenti
emotive». Appare difficilmente contestabile che a livello naturalistico la
componente affetti- va sia un fattore costitutivo degli stati psicologici che
fondano dolo e colpa; gli spazi per una eventuale considerazione del ruolo
degli stati affettivi nella fisio- nomia del dolo e della colpa penale
potrebbero eventualmente ampliarsi o re- stringersi a seconda che si propenda
per una concezione ‘normativizzante’ dei coefficienti psichici oppure per una
concezione più ‘naturalistica’, tema in rela- zione al quale il dibattito nella
dottrina penalistica italiana è amplissimo: si veda- no, ex plurimis,
VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, pp. 71 ss., 165 ss.; EUSEBI,
Formula di Frank e dolo eventuale in Cass., S.U., 24 aprile 2014 (Thyssen-
krupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2015, pp. 623 ss., e più ampiamente ID.,
Il dolo come volontà, Brescia, 1993; DE VERO, Dolo eventuale, colpa cosciente e
costruzione “separata” dei tipi criminosi, in AA.VV., a cura di
Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. II, Napoli, 2011,
pp. 883 ss.; DONINI, Il dolo eventuale, fatto-illecito e colpevolezza, in
Diritto penale contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2014, pp. 83 ss.; 103 ss.;
FIANDACA, Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio
oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, in Diritto penale
contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2012, pp. 152 ss.; DEMURO, Il dolo. II. L’accertamento,
Milano, 2010, pp. 3 ss.; PULITANÒ, I confini del dolo. Una riflessione sulla
moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2013, pp. 22 ss.
Per una riflessione sulla consistenza psicologica del dolo eventuale alla luce
delle più recenti acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze v.
BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura
di Forti- Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 15 Si tratta di
norme problematiche il cui specifico approfondimento non sarà oggetto della
presente indagine; nondimeno va dato conto della rilevanza di tali disposizioni
nell’impianto della responsabilità penale. Nella parte speciale del codice la
definizione di oggetti di tutela in termini di sentimento rappresenta
un’evidenza palmare: si parla di ‘sentimento religioso’, di ‘pietà dei
defunti’, di ‘sentimento per gli ani- mali’, di condotte atte a ‘deprimere lo
spirito pubblico’ (art. 265 c.p.), a ‘distruggere o deprimere il sentimento
nazionale’ (artt. 271 – dichia- rato illegittimo dalla Corte costituzionale32 –
e 272 c.p.) e a istigare all’odio fra le classi sociali (art. 415 c.p.), di
atti finalizzati a incutere ‘pubblico timore’ (art. 421 c.p.), di ‘comune
sentimento del pudore’ (art. 529 c.p.), di ‘perdurante e grave stato di ansia o
di paura e timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto’ (art.
612 bis c.p.), di ‘passioni di una persona minore’ (art. 649 c.p.). Allargando
lo sguardo al di là del codice, la legislazione comple- mentare offre ulteriori
esempi: la legge n. 47 del 1948, nota come ‘Legge sulla stampa’, parla di
‘sensibilità e impressionabilità’ di fan- ciulli e adolescenti e incrimina
condotte idonee a offendere il loro ‘sentimento morale’ (art. 14); sempre
nell’ambito del medesimo testo normativo, è considerata penalmente rilevante la
pubblicazione di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari
impressionan- ti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche
sol- tanto immaginari, ‘in modo da poter turbare il comune sentimento della
morale’ (art. 15). Estremamente significative sono infine le nor- me contro la
discriminazione razziale (legge n. 654 del 1975), nelle quali la tipicità della
condotta è fondata sulla nota caratterizzante di ciò che comunemente è definito
come un sentimento, ossia l’odio. Abbiamo constatato che «nel linguaggio
legislativo penale il rife- rimento a sentimenti è ben presente» 33 e che
«sentimenti e stati emo- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione
penale, cit., pp. 144 ss.; DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia
scientifica e psicologia del senso co- mune, cit.; per una sintesi del ruolo
delle scienze extranormative in rapporto al problema dell’imputazione
soggettiva, v. da ultimo FIANDACA, Prima lezione, cit., pp. 168 ss. Nondimeno,
nelle motivazioni dei giudici il richiamo alla dimensione affettiva figura
quale corollario argomentativo in relazione all’elemento soggetti- vo,
all’ipotesi di concessione di attenuanti generiche e più in generale in ordine alla
commisurazione della pena; per un quadro di sintesi v. AMATO, Diritto penale e
fattore emotivo, cit., pp. 662 s. 32 C. cost., 12/07/2001, n. 243. 33 PULITANÒ,
Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010, p. 41.
16 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivi non sono certo realtà
sconosciute al diritto penale»34: «i “senti- menti”, [...] ancorché di natura
psichico-emozionale, sono [...] delle realtà personalistiche innegabili» 35. Le
disposizioni della parte speciale (sentimento religioso, pudore, pietà dei
defunti, sentimento per gli animali, sentimento nazionale) rappresentano la
rispondenza più univoca e immediata di ciò che si suole definire ‘tutela di
sentimenti’, con una formula tanto accatti- vante quanto ambigua e problematica
nei contenuti, la quale soprat- tutto nell’attuale momento storico sta
riscuotendo un inedito interes- se da parte della dottrina penalistica italiana
36. Le norme codicistiche forniscono una prima cornice, un panora- ma dalla
capacità esplicativa simile a quella di una visione in contro- luce:
sostanzialmente definiti appaiono i contorni, il tratteggio ester- no che
inquadra il teatro dei fatti oggetto di interesse normativo; più nebuloso è il
nucleo interno, legato al retroterra dei fenomeni e alle loro dimensioni di
significato. Un primo ordine di problemi ha a che fare col profilo fattuale,
le- gato all’inquadramento e alla decifrazione di ciò che i saperi sul mondo, e
in particolare le scienze empirico-sociali, definiscono ‘sen- timenti’,
soprattutto in rapporto ad altri fenomeni affettivi, come ad 34 FIANDACA, Sul
bene giuridico. Un consuntivo critico, Torino, 2014, p. 81. 35 PALAZZO, Laicità
del diritto penale e democrazia “sostanziale”, in Quaderni co- stituzionali,
2/2010, p. 441. 36 Menzioniamo gli scritti che si sono dedicati ex professo al
tema, lasciando al momento da parte la cospicua produzione letteraria in cui
l’argomento viene tocca- to in modo incidentale. Oltre al già menzionato saggio
di FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215 ss., si
segnala del medesimo Autore un ulte- riore approfondimento in occasione dello
studio sul bene giuridico: v. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 81 ss. Si
vedano quindi DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti,
cit., pp. 1546 ss.; GIUNTA, Verso un rinnovato romantici- smo penale? I reati
in materia di religione e il problema della tutela dei sentimenti, in AA.VV., a
cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. III,
Napoli, 2011, pp. 1539 ss.; CAPUTO, Eventi e sentimenti nel delitto di atti
persecutori, in Studi in onore di Mario Romano, vol. III, cit., pp. 1373 ss.;
NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 69 ss.; PULITANÒ,
Introduzione alla parte speciale del diritto penale, cit., pp. 41 ss.; volendo,
BACCO, Sentimenti e tutela penale: alla ricerca di una dimensione liberale, in
Riv. it. dir. proc pen., 3/2010, pp. 1165 ss. Fra i costitu- zionalisti v.
GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero tra fatti di senti- mento
e fatti di conoscenza, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 851 ss. Per
un’ana- lisi del sentimento quale elemento che concorre a fondare ragioni e
struttura di di- sposizioni normative non solo penalistiche, v. ITALIA, I
sentimenti nelle leggi, Milano, 2017. Per una sintesi delle più recenti
posizioni della dottrina continentale, nel con- testo di un’analisi incentrata
sull’ordinamento spagnolo, v. ALONSO ALAMO, Senti- mientos y derecho penal, in
Cuadernos del polìtica criminal, I, 106/2012, pp. 36 ss. Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica 17 esempio le emozioni. In termini
complementari si pone un problema concettuale che riguarda le regole d’uso dei
termini sia nell’ambito extragiuridico e, di riflesso, nella specifica
dimensione giuridico-pe- nalistica: si tratta di prendere in considerazione le
tassonomie scien- tifiche in rapporto alle esigenze di normatività, alla
chiarezza defini- toria e alla funzionalità comunicativa del diritto. Un
secondo ordine di problemi concerne gli spazi di legittimità di norme
finalizzate a una tutela penale di interessi legati alla sfera af- fettiva
degli individui: tema che proietta verso percorsi differenti a seconda del
significato e del senso normativo attribuibile all’evoca- zione del peculiare sentimento
o dell’emozione, in un discorso che chiama in gioco pregiudiziali di tipo
filosofico, morale, politico. In questo senso la problematica si presta a
essere sviluppata ad un pri- mo livello su un piano generale (la tutelabilità
di sentimenti come problema di principio), e, successivamente, in una
prospettiva più circoscritta concernente lo specifico problema di tutela che
sia dato individuare dietro il richiamo alla dimensione affettiva della
persona. Come detto, prendere le mosse dalle norme positive è volto a faci-
litare l’inquadramento dei problemi; una volta fotografato l’esistente, il
lessico dei legislatori è destinato a divenire oggetto di analisi criti- ca,
nel tentativo di superarne la cortina di artificialità. 2.1. Oltre il lessico
legislativo Un primo obiettivo è dissolvere l’alone di retorica e guardare ‘in
trasparenza’, oltre le formule. La tendenza a costruire norme penali attraverso
richiami alla di- mensione affettiva, pur manifestatasi in momenti storici
differenti 37, rivela una sostanziale continuità 38, animata da variabili che
si legano a fattori sociali e culturali i quali hanno concorso a dare stimolo a
una sensibilità dei legislatori39. Si tratta di scelte culturalmente 37 Più
remoti sono il codice penale e la c.d. ‘legge sulla stampa’, distanti anche
culturalmente dall’attuale momento storico; più prossima cronologicamente è la
c.d. ‘Legge Mancino’ (incriminazione di condotte d’odio razziale), mentre è
relati- vamente recente la scelta di dare riconoscimento a esigenze di tutela
di animali non umani attraverso la formula ‘Delitti contro il sentimento per
gli animali’. 38 Una panoramica in MUSUMECI, Emozioni crimine, giustizia, cit.,
pp. 30 ss. 39 «I testi legislativi, che parlano di sentimenti, sono spia di un
sentire dei legi- slatori che, ieri come oggi, hanno adottato quel lessico»,
così PULITANÒ, Introdu- zione alla parte speciale, cit., p. 41. 18
Tra sentimenti ed eguale rispetto orientate, nel contesto di una complessità di
fondo 40 che è confluita in determinazioni di politica del diritto le quali,
secondo un processo ricorsivo 41, si caratterizzano a loro volta per un elevato
grado di pre- gnanza culturale e una forte valenza simbolica, nel senso che le
nor- me giuridiche a loro volta contribuiscono a modellare atteggiamenti di
pensiero ed emotivi. Seguendo le traiettorie del pensiero di Edgar Morin
troviamo un efficace quadro riassuntivo della complessità di ciò che chiamiamo
‘cultura’: «La cultura, peculiarità della società umana, è organizzata/organiz-
zatrice attraverso il veicolo cognitivo costituito dal linguaggio, a parti- re
dal capitale cognitivo collettivo delle conoscenze acquisite, dei sa- per-fare
appresi, delle esperienze vissute, della memoria storica, delle credenze
mitiche di una società. Così si manifestano “rappresentazio- ni collettive”,
“coscienza collettiva”, “immaginario collettivo”. E la cul- tura, sfruttando il
suo capitale cognitivo, instaura le regole/norme che organizzano la società e
governano i comportamenti individuali. Le regole/norme culturali generano
processi sociali e rigenerano global- mente la complessità sociale acquisita
dalla stessa cultura» 42. In che termini il giurista penale deve rapportarsi a
tale complessità? «[S]olo se lo si considera da una prospettiva esterna, il
diritto penale è un coacervo di norme: se si guarda con più attenzione, però,
esso si ri- vela come una parte della cultura in cui viviamo», ricorda Winfried
40 Nel senso in cui il concetto è stato sviluppato da Edgar Morin: «Complexus
significa ciò che è tessuto insieme; in effetti, si ha complessità quando sono
inse- parabili i differenti elementi che costituiscono un tutto (come
l’economico, il poli- tico, il sociologico, lo psicologico, l’affettivo, il
mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente, interattivo e
inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto, le parti e il
tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità è, perciò,
legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della nostra era
planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le sfide
della complessità», v. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del
futuro, tr. it., Mi- lano, 1999, p. 38; sempre Morin afferma che «Il problema
della complessità è quello che pongono i fenomeni non riducibili agli schemi
semplici dell’osser- vatore», v. ID., Scienza con coscienza, tr. it., Milano,
1987, p. 171; cfr. più diffusa- mente, ID., Introduzione al pensiero complesso,
tr. it., Milano, 1993, pp. 56 ss. 41 «I prodotti e gli effetti generati da un
processo ricorsivo sono contempora- neamente co-generatori e co-causanti di
tale processo», MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi,
tr. it., Milano, 1993, p. 88. 42 MORIN, Le idee: habitat, vita,
organizzazione usi e costumi, cit., p. 19. Fenomeni affettivi e
dimensione giuridica 19 Hassemer43. L’osservazione dello studioso tedesco è un
invito a riflet- tere sul diritto penale munendosi di ‘lenti’ che sappiano
mettere a fuo- co non solo norme ma anche la cultura che fa loro da sfondo: gli
uni- versi fattuali, valoriali, simbolici ed emotivi che la formano. Il
giurista penale dovrebbe volgere il proprio sguardo verso i fe- nomeni al fine
di costruire esplorazioni ‘a partire dal capitale cogni- tivo collettivo delle
conoscenze acquisite’: delle conoscenze che han- no contribuito a dare
un’impronta alla cultura, e dunque anche alla sensibilità dei legislatori; e
del panorama di conoscenze del tempo presente, con l’annesso potenziale
epistemico. Un approccio critico al lessico del diritto significa in questo
senso presa di distanza da ‘ontologismi giuspositivistici’ o da ‘riduzionismi
pangiuridici’ della realtà, e traduce l’esigenza di tenere ben presente la
distanza tra il diritto, inteso come ideale regolativo, e i fatti della vita 44.
L’‘inemendabilità’ di cui parla il filosofo Maurizio Ferraris, «il fatto che
ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasforma- to attraverso il
mero ricorso a schemi concettuali»45, suona per il giurista come un monito
aprendere sul serio la distinzione tra di- mensione ‘costruttivistica’ degli
schemi del diritto e il piano ontologi- co dei fenomeni 46. 43 HASSEMER, Perché
punire è necessario, tr. it., Bologna, 2012, p. 12. 44 «Non è vero e completo
giurista colui che, pure conoscendo con scientifica precisione il diritto
positivo di un determinato paese, non si rende conto della in- colmabile
distanza tra il diritto e la vita, ossia della assoluta impossibilità di sod-
disfare totalmente l’esigenza, presente in tutte le società, di razionalizzare
le azioni degli uomini dando a esse un ordine stabile mediante regole». v.
CESARINI SFORZA, Filosofia del diritto, Milano, 1958, p. 1. 45 FERRARIS,
Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, 2012, p. 48; si veda an- che la
riflessione di un filosofo del diritto di matrice analitica SCARPELLI,
Filosofia analitica, norme e valori, Milano, 1962, p. 52: «[l]e norme e le
asserzioni svolgono nell’esperienza dell’uomo una differente funzione, ma le
une e le altre possono svolgere la loro funzione solo se si riferiscono a stati
ed eventi dentro l’esperienza e distinguibili dagli altri stati ed eventi
dentro l’esperienza». 46 Non intendiamo prendere posizione sui rapporti tra
ontologia ed epistemo- logia, addentrandoci nel ginepraio di problemi legati
alla dialettica fra concezioni ‘realiste’ e ‘postmoderne’. Nella letteratura
italiana, oltre al citato ‘manifesto’ di Maurizio Ferraris, si veda ID.,
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, 2009, pp. 62 ss.;
per una cristallina sintesi del dibattito sul realismo vedi D’AGOSTINI,
Realismo? Una questione non controversa, Torino, 2013, pp. 12 ss., 59 ss. In
termini generali, segnaliamo come tale produzione letteraria sia da inquadrarsi
quale risposta al trend postmoderno che nella seconda metà del No- vecento ha
sottoposto i concetti di ‘verità’ e di ‘realtà’ a tentativi di destruttura-
zione da parte di correnti filosofiche che possiamo approssimativamente
definire 20 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nella dottrina
penalistica italiana si parla di ‘vincoli di realtà’ 47, e si potrebbero
definire tali istanze anche attraverso il richiamo a con- cetti meno abituali
ma oggi non più alieni al discorso penalistico, come quello di ‘verità’ 48. Lo
specifico caso dei sentimenti come pro- blema di tutela porta a riflettere
sulla «verità dei presupposti su cui si fonda il ragionamento funzionalistico
all’origine dei precetti»49. Si tratta di un impegno anche sul piano
metodologico: come approccio di studio che pone la conoscenza dei fenomeni a
fondamento di ana- lisi volte a testare la qualità delle scelte e delle
possibili risposte da parte del diritto, emancipandosi dalla prospettiva di
patenti ‘ontolo- giche’ alle formule coniate dal legislatore 50. Il punto di
osservazione dello studioso non dovrebbe pertanto col- locarsi in un’ottica del
tutto interna al linguaggio e agli schemi con- cettuali del diritto posto, ma,
come ogni punto di osservazione, ne- cessita di una collocazione anche esterna
rispetto all’oggetto che si come relativistico-ermeneutiche. La bibliografia è
sterminata; ci limitiamo a menzionare il testo forse più emblematico, e
raffinato, del trend postmoderno, ossia RORTY, La filosofia e lo specchio della
natura, tr. it., Milano, 2004. 47 «Come impresa ‘di ragione’, il diritto è
vincolato al principio di realtà. Il le- gislatore deve fare i conti con la
realtà che intende regolare, nella quale ha da ri- tagliare gli oggetti e
cercare le condizioni di una regolazione possibile e razionale rispetto agli
scopi. Nei concreti orizzonti storici, i vincoli di realtà (ontologici) si
traducono in vincoli epistemologici di razionalità rispetto al sapere
disponibile», v. PULITANÒ, Il diritto penale fra vincoli di realtà e sapere
scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2006, pp. 798 ss. 48 Le questioni di
fondo sono oggi compendiate nell’importante volume di AA.VV., a cura di
Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione pena- le, cit.; si
veda inoltre il denso scritto di DI GIOVINE O., A proposito di un recente
dibattito su “Verità e diritto penale”, in Criminalia, 2014, pp. 539 ss., quale
tentati- vo di superamento, nella prospettiva giuridica, della
radicalità insita nell’alter- nativa tra teorie corrispondentiste e
pragmatiste. 49 PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione. Fatti e valori
nella formulazione del precetto penale, in AA.VV., a cura di
Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p.
101. 50 Umberto Vincenti afferma la necessità di «combattere ogni formalismo
in- terpretativo che ha la pretesa, per malintese aspirazioni di autonomia
della scien- za giuridica, di risolvere ogni questione – e gli stessi casi
della pratica – ragionan- do esclusivamente all’interno del testo normativo,
levigando e combinando le sua parole, per comporre un certo prodotto
linguistico – una certa massima di deci- sione – da accollare all’esperienza:
alla nuova esperienza da conoscere e, nei fatti, destinata a rimanere, non
volendosi andare oltre le parole di un testo (o, anche, di molti testi), di
necessità sconosciuta (o quasi) perché impenetrabile attraverso il solo
strumento verbale», v. VINCENTI, voce Linguaggio normativo, in Enciclopedia del
diritto, Annali, vol. VII, Milano, 2014, pp. 683 s. Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica 21 vuole indagare: «a partire dall’insopprimibile
“eccedenza” della vita rispetto a tutte le forme», e nella consapevolezza che
il diritto, rispet- to ai fenomeni che ne costituiscono il campo applicativo,
«costituisce ormai una “semantica influente” in cui “quello di cui si parla” è
mol- to di più di “quello che si dice”» 51. 51 Le citazioni sono tratte
da RESTA, Diritto vivente, Roma-Bari, 2008, p. X. Si veda anche RODOTÀ, La vita
e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2007, p. 17, p. 31, il quale
sembra farsi sostenitore di istanze simili quando afferma che il ri- chiamo
alla ‘verità’ dei presupposti implica che è in gioco qualcosa di più profon- do
della precisione linguistica e dell’efficacia descrittiva di una norma: osserva
Rodotà che «In realtà il diritto è più che una regola. Prima di tutto è un
linguag- gio. Si può davvero dire tutto con le parole del diritto o è proprio
la grammatica dei diritti a dimostrarsi povera di fronte alla complessità
sociale e alla sua ric- chezza? [...] Il radicarsi del diritto nella realtà segue
itinerari complessi, e meno lineari, di quello che misura l’effettività della
norma unicamente da una sua diret- ta e immediata applicabilità in una
situazione determinata. Già la sola trascrizio- ne nell’ordine giuridico di un
valore o di un principio o di un fine pubblico porta con sé una variazione del
contesto in cui collocare gli atti della vita, del discorso giuridico a cui
fare riferimento, del sistema normativo con il quale misurarsi». 22
Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Percorsi concettuali e
interdisciplinari SOMMARIO: 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and
Emotion Theories’. – 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni
di linguaggio. – 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? – 4.2.
Sull’uso del termine ‘emozione’. – 5. Sinossi. 3. Spunti di riflessione
attraverso le ‘Law and Emotion Theories’ Un approccio orientato a
problematizzare il profilo ontologico- fattuale dei fenomeni affettivi, e
dunque a dialogare con ambiti disci- plinari diversi dalla scienza giuridica,
trova un importante punto di riferimento dal punto di vista metodologico nel
campo di studi di matrice statunitense denominato ‘Law and Emotion’ 52. Si
tratta di un’area di discussione orientata a rimeditare i termini dell’interazione
fra diritto e dimensione emotiva per ragioni che si le- gano non solo a un
complessivo aggiornamento delle conoscenze ex- tragiuridiche sul tema, ma
soprattutto per favorire una maggiore con- sapevolezza e un ‘uso’ più
intelligente delle emozioni nel campo giuri- dico («intelligent and responsible
engagement by law») 53. Secondo i teo- rici di ‘Law and Emotion’ i giuristi
tendono a non prendere sufficien- temente in considerazione le acquisizioni
delle scienze extragiuridiche sugli stati affettivi, rivelando
un’autoreferenzialità frutto di mentalità chiusa e una riluttanza ad apprendere
da altre discipline 54. 52 Per un inquadramento dei temi trattati e delle
diverse impostazioni v. BANDES- BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., passim;
MARONEY, Law and Emotion: A Proposed Taxonomy of an Emerging Field, in 30 Law
and Human Behavior, 2006, pp. 119 ss.; cfr. anche ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of
Law and the Emotions?, cit., pp. 1997 ss. 53 ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law
and the Emotions?, cit., p. 2000. 54 BANDES, Introduction, cit., p. 7.
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 23 Gli studi di ‘Law and
Emotion’ mirano a mettere in luce l’influenza che la dimensione affettiva
esplica sul modo di concepire ratio e struttura di istituti di diritto positivo
e, più in generale, sulle ragioni addotte per legittimare l’essere e il dover
essere del diritto 55, soprat- tutto del diritto penale. Si approfondisce la
conoscenza dei fenomeni affettivi attraverso una base epistemica che non si
limita alla dimen- sione bio-psicologica, ma che si apre alla sfera
sociologico-umani- stico-letteraria, attraverso la filosofia, la letteratura,
l’antropologia, la sociologia, in una prospettiva volta a dischiudere orizzonti
di senso 56 e a guardare ai fenomeni affettivi attraverso un filtro
interpretativo multidisciplinare 57. Ciò che sembra meglio riassumere l’istanza
sottesa agli studi di ‘Law and Emotion’ è la ricerca di un dialogo finalizzato
non solo a in- crementare consapevolezza e competenze dei giuristi sul tema
delle emozioni, e dunque a favorire una maggiore attendibilità scientifica dei
lavori dei giuristi, ma anche a promuovere un feedback virtuoso fra scienza
giuridica e saperi empirico-sociali sugli stati affettivi 58. I contributi di
‘Law and Emotion’ non si identificano con una li- nea teorica univoca 59, ma si
articolano in diverse correnti; una fra le 55 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and
the Law, cit., p. 162. 56 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 162;
MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss.; ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law
and the Emotions?, cit., p. 2033. 57 Sotto tale profilo sembrano esservi
sostanziali differenze rispetto ad altre branche di studi, affini ma distinte
da ‘Law and Emotion’: in particolare ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’,
le quali, peraltro, sembrano essere tenute in maggiore considerazione dai
giuristi. Una possibile chiave di lettura di tale atteg- giamento è il fatto
che ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’ sembrano basarsi su assunzioni
che sono più vicine al modello di razionalità ‘classica’ con cui i giuristi
hanno maggiore confidenza, v. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the
Emotions?, cit., p. 2018. 58 MARONEY, Law and Emotion, cit., p. 135: «We see as
well a persistent divide between empiricists and theorists. The lack of
dialogue across these dividing lines lessens opportunities for
cross-fertilization. We therefore would do well to foster dynamic
collaborations among social scientists, those trained in the life sciences,
philosophers, lawyers, and legal scholars. The exercise of forging such
collabora- tions would encourage creation of a common language, and resulting
scholarship would be both more complex and more accessible to those across the
range of implicated disciplines». 59 Quali caratteristiche deve avere uno
studio per potersi inquadrare come contributo su ‘Law and emotion’? Questa la
risposta di MARONEY, Law and Emo- tion, cit., p. 124: «The question as to at
what point any given project is sufficiently about both “law” and “emotion” to productively
be claimed for this particular en- 24 Tra sentimenti ed eguale
rispetto più autorevoli studiose, la giurista Terry Maroney, individua ben sei
tipologie di approccio60. Tale schematizzazione assume in primo luogo un valore
descrittivo, individuando snodi concettuali che carat- terizzano le peculiarità
dei singoli contributi nel contesto della pro- duzione scientifica sul tema;
sotto un diverso profilo, la tassonomia degli approcci possiede anche la
funzione di canone metodologico volto a evidenziare questioni fondamentali con
cui il singolo studioso che intenda approfondire il tema delle interazioni fra
diritto e dimen- sione affettiva si troverà a fare i conti 61. I percorsi
individuati da Ter- ry Maroney fissano in questo senso delle coordinate che
possono con- tribuire a suggerire al singolo studioso l’impostazione che meglio
si attaglia al tipo di indagine che intende affrontare: la conoscenza dei nodi
teorici fondamentali e, correlativamente, della possibilità di percorsi e di
approcci alternativi, dovrebbe costituire un impegno ad acquisire
consapevolezza riguardo l’impostazione adottata, anche al fine di renderne
esplicita l’adesione 62. clave is worthy of greater exploration than is
possible here. I offer, nonetheless, two premises, one pertaining to motivation
and the other to method. First, con- temporary law and emotion scholarship is
based on the beliefs that human emo- tion is amenable to being specifically and
searchingly studied, that it is highly rel- evant to the theory and practice of
law, and that its relevance is deserving of clos- er scrutiny than it
historically has received. Second, such scholarship explicitly directs itself
to both sides of the “and”; it takes on a question regarding law and brings to
bear a perspective grounded in the study or theory of emotions». 60 MARONEY,
Law and Emotion, cit., pp. 125 ss. Nel dettaglio, si parla di: 1) ‘emotion
centered approach’, come approccio che si focalizza su una singola emo- zione e
ne analizza le possibili interazioni con la dimensione giuridica; 2) ‘emo-
tional phenomenon approach’, il quale muove dallo studio di processi mentali e
comportamentali che non corrispondono propriamente a emozioni, ma che rap-
presentano condizioni per l’elicitazione o la esternazione di stati emozionali
3) ‘emotion theory approach’, approccio porta a sviluppare riflessioni in linea
con una o più teorie interpretative delle emozioni; 4) ‘legal doctrine
approach’, il quale mira a far interagire il sapere su emozioni e stati
affettivi con aree determinate del diritto o con particolari istituti; 5)
‘theory of law approach’, il quale studia i nessi tra emozioni e diritto a un
livello puramente teoretico, facendo interagire teorie sulle emozioni con
teorie generali sul diritto; 6) ‘legal actor approach’, il quale si occupa di
analizzare come la dimensione emotiva influisce sull’attività dei soggetti che
operano nell’ambito applicativo: giudici, avvocati, ecc. 61 MARONEY, Law and
Emotion, cit., pp. 123 ss. 62 «[c]areful consideration of the analytical approaches
potentially implicated in any given project will help identify blind spots or
force unstated assumptions to the surface, and may further encourage scholars
to justify why they make the choices they do. Thus, academic inquiry into the
intersection of law and emotion should identify which emotion(s) it takes as
its focus; carefully distinguish be- tween those emotions and any implicated
emotion-driven mental processes or Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica 25 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di
linguaggio Gli studi su ‘Law and Emotion’ mettono in evidenza questioni teo-
riche le quali riteniamo debbano essere prese in considerazione an- che nella
presente indagine: in particolare, un importante step è rap- presentato dalla ricerca
di punti di convergenza fra contributi di ma- trici scientifiche eterogenee, e
dunque dall’esigenza di uno sguardo d’insieme alle acquisizioni elaborate dalle
discipline che studiano gli stati affettivi. Sentimenti ed emozioni sono
fenomeni relativi al sentire della persona: per comprenderne i profili di
rilevanza nella dimensione del singolo e l’incidenza nelle dinamiche
relazionali il giurista penale de- ve necessariamente rivolgersi a saperi
esterni al diritto che potremmo definire lato sensu ‘psicologici’, ma che non
si limitano alla sola psi- cologia 63. Nell’attuale momento storico le
dinamiche interiori dell’in- dividuo sono poste sotto osservazione da una
molteplicità di punti di vista: un’interazione fra discipline che dà luogo a
complesse mappe epistemiche. Difficilmente potrà trovare appagamento la
bramosia di defini- zioni che spesso anima le operazioni intellettuali dei
giuristi quando si addentrano in campi di conoscenza diversi dal proprio. La
lettera- tura sugli stati affettivi non è semplicemente una sovrapposizione di
varianti tassonomiche e definitorie; differenti sono le discipline coin- volte,
con angolazioni prospettiche e linguaggi che valorizzano profili differenti e
complementari: non esiste un’unica ‘scienza dell’emozio- ne e dei sentimenti’.
Come modello di approccio penalistico alle scienze extranormati- ve si è
recentemente parlato di una prospettiva ‘separatista’ e di una ‘dialogante’64.
La soluzione a nostro avviso preferibile è la seconda; nel presente caso, il
dialogo si caratterizza per una particolare com- plessità, poiché le voci che
il giurista si trova di fronte rappresentano una variegata polifonia da cui
emergono prospettive di ricostruzione behaviors; explore relevant and competing
theories of those emotions’ origin, purpose, or functioning; limit itself to a
particular type of legal doctrine or legal determination; expose any underlying
theories of law on which the analysis rests; and make clear which legal actors
are implicated», v. MARONEY, Law and Emo- tion, cit., pp. 133 s. 63
Condividiamo in questo senso l’impostazione metodologica di NISCO, La tu- tela
penale dell’integrità psichica, cit., p. 18. 64 FIANDACA, Prima lezione,
cit., pp. 152 ss. 26 Tra sentimenti ed eguale rispetto e di classificazione
alquanto diverse. Sarebbe segno di chiusura cul- turale se ci si accontentasse
di identificare le rispondenze fenomeni- che del richiamo a sentimenti sulla
base del senso comune, senza ap- profondire le articolate classificazioni
proposte dai diversi saperi sul mondo 65; nondimeno, la non omogeneità del
panorama di conoscen- ze grava il giurista di un compito severo. In primo luogo
appare opportuno individuare le branche della co- noscenza che oggi tracciano
le coordinate di riferimento. Al fine di delineare i presupposti di
un’interazione fra scienza penale e saperi sugli stati affettivi, nella
dottrina penalistica italiana è stata proposta una schematizzazione utile a
mappare l’orizzonte conoscitivo. Tre le tipologie di approccio evidenziate: 1)
approccio psicologico; 2) ap- proccio neurofisiologico e neuroscientifico; 3)
approccio filosofico 66. La dimensione biologica e quella psicologica offrono
un quadro in- centrato sulle dinamiche interne alla persona, ossia relativo a
come gli stati affettivi si manifestano e a quale influenza possono avere sul-
l’agire, sull’autodeterminazione individuale e dunque nella globale eco- nomia
di vita di un soggetto. Prospettive come quella filosofica e so- ciologica
forniscono chiavi di lettura differenti, facendo luce non solo sulla dimensione
soggettivo-interiore e solipsistica dei fenomeni af- fettivi, ma proiettandoli
nelle complesse dinamiche della vita di rela- zione e dunque nella sfera
interpersonale. Nella prospettiva penalistica sono importanti entrambi i
profili, sia quelli più legati al ruolo degli stati affettivi nella dimensione
indi- viduale, sia quelli concernenti l’intersoggettività e la dimensione col-
lettiva, i quali potranno assumere una maggiore o minore pertinenza a seconda
dei problemi esaminati dal giurista. Rispetto ai temi oggetto della presente
indagine, la parte definitoria è in larga pare debitrice di contributi di
ambito psicologico; quanto al- lo sviluppo che riguarderà la specifica
connessione della tutela di sen- timenti al tema del rispetto reciproco e dei
limiti penali alla libertà di espressione, le traiettorie di pensiero a nostro
avviso più feconde risul- tano intrecciate alla filosofia politica e a recenti
sviluppi della filosofia fenomenologica. Non va infine dimenticata un’ulteriore
branca del sa- pere che si focalizza su dinamiche di intersoggettività nella
dimensione 65 Per una critica all’habitus culturale del penalista, talvolta
poco propenso al confronto con il mondo dei fatti, e una conseguente
esortazione a fare proprio uno spirito scientifico e una modalità di pensiero
diversi dal mero senso comune, v. FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 44 ss.
66 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 219 ss.; cfr.
NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 57 ss.
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 27 sociale: parliamo della
sociologia delle emozioni67, un campo di studi relativamente giovane68 e
alquanto promettente per le prospettive di interazione con la riflessione
giuridica 69. Nel prosieguo cercheremo di compiere un excursus, necessaria-
mente approssimativo, al fine di fare maggiore chiarezza sui tratti che
distinguono in particolare il sentimento da un’altra manifesta- zione del
sentire: l’emozione. Si tratta di un compito spinoso70. Eloquente è quanto
affermato nella letteratura psicologica italiana negli anni ’60:
«Nell’affrontare lo studio della vita emotiva si resta colpiti [...] dal
disaccordo che vi è tra gli psicologi sull’uso e sul si- gnificato dei termini
fondamentali, sulla classificazione e sui carat- teri differenziali degli stati
affettivi, sul meccanismo della loro pro- duzione» 71. L’ambiguità e la
vaghezza presenti nel linguaggio comune non do- vrebbero rinnovarsi nel
linguaggio scientifico 72, e, soprattutto, quan- do si tratta di gestire
l’interazione fra discipline differenti «le parole [non dovrebbero essere]
introdotte in un sistema di linguaggio scien- tifico, serbando a tradimento il
significato che loro viene dal modo in 67 Sul tema, amplius, v. AA.VV., a cura
di Turnaturi, La sociologia delle emo- zioni, tr. it., Milano, 1995. 68
TURNATURI, Introduzione, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle
emozioni, cit., p. 7. 69 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 174.
70 SCHERER, What are emotions? And how can they be measured?, in 44 Social
Science Information, 2005, p. 696. 71 ZAVALLONI, La vita emotiva, in AA.VV., a
cura di Ancona, Questioni di psico- logia. Principi e applicazioni per
psicologi, medici, insegnanti ed educatori, Milano, 1962, p. 367. Problemi di
natura terminologica sono posti in evidenza anche da ABBAGNANO, Storia
filosofica delle emozioni, in GALATI, Prospettive sulle emozioni e teorie del
soggetto, Milano, 2002, p. 36. 72 Oltre ai complessi rapporti tra definizioni
scientifiche, l’inquadramento di profili di rilevanza giuridica di sentimenti
ed emozioni richiede di non trascurare il vocabolario tramite cui gli attori
sociali connotano gli stati affettivi, e dunque le sfumature del linguaggio che
possono concorrere a illuminare dimensioni di sen- so dei fenomeni. In altri
termini, la ricerca di una tendenziale coerenza tra cate- gorie giuridiche e
concettualizzazioni scientificamente fondate dovrebbe essere veicolata anche
attraverso un esame di usi linguistici che, pur caratterizzati da approssimazioni
e da una logica comunicativa incline al ‘senso comune’ o alla c.d. ‘psicologia
ingenua’, possono nondimeno contribuire ad additare problemi di fondo e a
identificare l’area di significato dei termini. Sul ‘senso comune’ come
categoria che definisce ciò che è ritenuto ovvio e condiviso all’interno di una
cer- chia sociale, v., per tutti, JEDLOWSKY, “Quello che tutti sanno”. Per una
discussione sul concetto di senso comune, in Rass. it. sociologia, 1994, pp. 49
ss. 28 Tra sentimenti ed eguale rispetto cui sono usate in un altro
sistema, o nel linguaggio comune» 73. Tale monito, proveniente da un filosofo
italiano del diritto, trova rispondenza in ambito anglo-americano proprio negli
scritti legati a ‘Law and Emotion’ 74: il lessico degli stati affettivi muta a
seconda dei contesti di studio, e l’opera di consultazione di saperi esterni da
parte del giurista penale dovrebbe essere accompagnata da una rielabora- zione
dei contenuti, poiché le ipotesi definitorie e classificatorie pro- poste in ambito
extragiuridico possono non assumere una corrispon- dente rilevanza nella
prospettiva della valutazione penalistica75. I concetti di emozione e di
sentimento vanno conseguentemente mo- dulati sulla dimensione giuridica,
tenendo ben presente la base epi- stemica alla quale si sta facendo
riferimento, ma senza vincoli sul piano strettamente lessicale né concettuale.
Il problema non è certo inedito, e può essere ricollegato agli inter- rogativi
formulati, ormai qualche decennio fa, da autorevole dottrina, relativi a come
rendere metodologicamente compatibili il punto di vista normativo e quello
delle scienze empirico-sociali di fronte al- l’esigenza di definire la
rilevanza giuridica di fenomeni psichici 76. 73 Uberto Scarpelli richiama
l’attenzione sull’esigenza di ‘pulitura’, ed even- tualmente di
ri-strutturazione, del lessico giuridico, con l’importante avvertenza di non
limitarsi a importare terminologie ‘esterne’ in modo pedissequo e irrifles-
sivo, senza procedere a un’adeguata concettualizzazione: v. SCARPELLI, Scienza
del diritto e analisi del linguaggio, ora in AA.VV., a cura di Scarpelli-Di
Lucia, Il lin- guaggio del diritto, Milano, 1994, p. 89. 74 MARONEY, Law and
Emotion, cit., pp. 124 ss.; BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p.
163. 75 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 226: «il
giurista contemporaneo, se da un lato non può fare a meno di rivisitare i
concetti di emo- zione e sentimento alla luce delle acquisizioni scientifiche e
della riflessione filo- sofica più recenti, rimane per altro verso pur sempre
vincolato all’esigenza di ri- pensare i concetti elaborati in altri ambiti
disciplinari secondo la sua specifica ottica». Dello stesso avviso, BANDES,
Introduction, cit., p. 8, secondo la quale «it is also true that law has its
own set of purposes, demands and limitations. [...] The knowledge we gain about
emotion is usable in a legal context only if it can be translated in light of
law requities». 76 FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica
e scienze so- ciali, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia
penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova, 1988, pp. 29
ss. L’analisi di Fiandaca è in questo caso incentrata sui presupposti
soggettivi della responsabilità penale, e pone in evidenza due distinti ordini
di problemi: da un lato, il grado di affidabili- tà del sapere metagiuridico,
che, specie con riferimento alle scienze psicologiche, offre contributi i cui
esiti si prestano a letture non univoche. Dall’altro lato, evi- denzia come
determinate acquisizioni in ambito psicologico siano tali da porre in dubbio la
base fattuale di principi normativi come la colpevolezza, esponendone
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 29 Nello scenario contemporaneo,
l’ampliamento dell’offerta epistemi- ca, ossia l’incremento delle branche della
conoscenza che oggi si sof- fermano sullo studio dei fenomeni affettivi, rende
ancora più com- plesso tale compito. A fronte di tali difficoltà, e nella
consapevolezza che sia opportuno tenere distinte le finalità delle
categorizzazioni dei saperi sul mondo dalla teleologia delle categorie
penalistiche77, resta l’obiettivo di ridurre la distanza fra l’artificialità
delle concettualizza- zioni giuridiche e la realtà dei fenomeni 78, sia al fine
di individuare re- gole d’uso dei termini non ‘arbitrarie’, ossia fondate su
connessioni fra le diverse proposte in ambito extragiuridico le quali siano
adeguata- mente esplicative rispetto ai problemi in gioco; sia nella
prospettiva di dare anche un impulso alla rivisitazione di categorie e di
modelli con- cettuali presenti nel discorso giuridico 79 – non solo dei teorici
ma an- che, soprattutto, degli applicatori – che risentono di schemi di
pensiero legati al senso comune e alla cosiddetta psicologia ingenua 80. però a
rischio anche il ruolo individual-garantistico; oppure, con riferimento a un
possibile allineamento con quanto espresso da determinate teorie sociologiche,
rimarca il rischio di una funzionalizzazione del diritto penale all’ascolto di
istan- ze di mera difesa sociale. 77 Rileva tale problema, con riferimento al
tema dell’imputabilità, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel
sistema penale, Milano, 1990, pp. 25 ss., 44 ss. Sul tema della costruzione di
un modello di scienza penale integrale, non asservi- ta ai saperi empirici ma
comunque attenta a limiti epistemologici, v. DONINI, La scienza penale
integrale fra utopia e limiti garantistici, in AA.VV., a cura di Moccia-
Cavaliere, Il modello integrato di scienza penale di fronte alle nuove
questioni socia- li, Napoli, 2016, pp. 26 ss. 78 Anche aprendo la riflessione
verso un’eventuale ‘rivisitazione’ di categorie che dovessero risultare mero
riflesso di una psicologia cosiddetta ‘esoterica’: su tale definizione v. FIANDACA,
Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie, cit., p. 83; cfr.
VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, cit., pp. 71 ss. 79 BANDES-BLUMENTHAL,
Emotion and the Law, cit., p. 165. 80 Si è osservato che «il diritto può venire
considerato un caso particolarmente brillante di scienza “ingenua”. Esso
infatti impiega massicciamente una propria concezione della psicologia ma senza
dichiararne i teoremi ed i postulati», v. PE- RUSSIA, Criteri giuridici e
criteri psicologici: note sullo scambio epistemologico fra psicologia e
diritto, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la
fluidità del sapere, cit., p. 89. Per un quadro generale sulla ‘psicologia
inge- nua’, con cui si intende la capacità spontanea degli esseri umani «di
interpretare i comportamenti di un agente attribuendogli stati mentali quali
credenze, desideri, piacere, interesse», v. MEINI, Alle origini della
psicologia ingenua: interpretare se stessi o interpretare gli altri?, in
Sistemi intelligenti, 1/2001, p. 119; con riferimento alla dimensione
giuridica, v. di recente FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emoti- vo, cit., pp.
93 ss. Per una sintesi del ruolo della commonsense psychology nel di- ritto
penale, in una prospettiva tesa a non demonizzarne il ruolo ma ad analiz-
30 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.1. Quale concezione di emozione
per il giurista? Non si tratta dunque di effettuare un travaso lessicale che
intro- duca nomenclature e classificazioni ab externo; le diverse ‘emotion
theories’ si prestano a sviluppi fra loro profondamente differenti, e il
giurista non può limitarsi a importazioni passive di saperi 81. zarne i
risvolti positivi quale alternativa a prospettive ‘comportamentiste’ e ‘ridu-
zioniste’, v. SIFFERD, In defense of the Use of Commonsense Psychology in the
Cri- minal Law, in 25 Law and Philosophy, 2006, pp. 571 ss.; per un’opinione
differen- te v. COMMONS-MILLER, Folk Psychology and Criminal Law: Why We Need
to Repla- ce Folk Psychology with Behavioral Science, in 39 The Journal of
Psychiatry and Law, 2011, pp. 493 ss. Quando si parla di psicologia folk ci si
riferisce a un terri- torio che non corrisponde a un sistema armonico di
concetti (peraltro si tende anche a distinguere folk psychology da commonsense
psychology), ma che è un campo variegato, caratterizzato anche da incongruenze
interne, nel quale i saperi scientifici costituiscono l’humus di
concettualizzazioni che vanno ad assumere forme differenti in relazione ai
momenti storici; è più corretto parlare al plurale di ‘folk conceptions’
piuttosto che di un’unica visione ‘folk’ dei fenomeni affettivi. La dimensione
folk resta eminentemente esplicativa, ma non descrittiva: è condi- zionata da
un sapere approssimativo sulla fisiologia degli stati affettivi, e accom- pagna
tale gap epistemico con congetture che rivelano un approccio tendenzial- mente
valutativo del fenomeno emotivo, il quale trova espressione in immagini
significative che traspongono in termini metaforici i caratteri del fenomeno.
In generale possiamo affermare che la vita di relazione è in larga parte
regolata da deliberazioni interiori assunte sulla base di postulati di ‘folk
psychology’, in parte come frutto di competenze innate, e in parte effetto di
deduzioni influenzate della cultura. Si osserva che nella dimensione penalistica
la ‘folk psychology’ può rap- presentare un formante in relazione a tre
distinti profili: influisce sulla confor- mazione categorie generali del
diritto penale; influenza le argomentazioni degli studiosi di diritto; si
insinua concretamente nel sistema legale attraverso argo- mentazioni che gli
operatori pratici adoperano nella loro professione (giudici, av- vocati, e, con
riferimento al sistema americano, giurati), v. FINKEL-GERROD PAR- ROT, Emotions
and culpability. How the Law is at Odds with Psychology, Jurors, and itself,
Washington, 2006, p. 48. Sull’interazione fra senso comune e studio delle
emozioni, in una prospettiva che ne rimarca le reciproche implicazioni, v.
GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., pp. 93 ss. Si veda anche CALABI, Le varietà
del sentimento, in Sistemi intelligenti, 2/1996, pp. 274 ss., la quale afferma
che la psicologia del senso comune contribuisce a fornire una rappresentazione
del fe- nomeno emotivo che ne comunica la complessità in modo più coerente e
attendi- bile rispetto alle tendenze riduzioniste o eliminativiste. 81 Per il
giurista, oltre alla necessità di riuscire a districarsi fra gli ‘overlap- ping
fields’ sulle emozioni (secondo la definizione di BANDES, Introduction, cit.,
p. 8) si pone l’esigenza di non introdurre tali conoscenze in termini meramente
strumentali alla costruzione delle proprie teorie, importandoli e magari ‘co-
stringendoli’ all’interno di argomentazioni giuridiche senza renderne manifesto
il margine di opinabilità e la possibilità di ricostruzioni alternative, e
senza dunque osservare il dovuto rispetto per la complessità a cui si sta
facendo ri- Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 31 Il
richiamo a vincoli di realtà si potrebbe così articolare: un primo livello,
relativo all’esplorazione del panorama di conoscenze disponi- bili, all’esame
di nozioni, di tassonomie e di differenti prospettive di ricostruzione; un
secondo livello, incentrato su una concezione di sentimento e di emozione che
sia suscettibile di entrare in connes- sione con i fatti e con le dinamiche che
interessano i problemi di re- golamentazione penale. Nel complesso, a una fase
di ricognizione epi- stemica si aggiunge un processo interpretativo e al tempo
stesso ‘crea- tivo’, nel senso che il giurista finisce per concepire una
particolare idea di emozione e di sentimento. Una critica mossa ad alcuni fra i
primi contributi sul tema di ‘Law and Emotion’ è stata quella di non aver
adeguatamente problematiz- zato ed esplicitato un importante passaggio
metodologico, ossia di- scutere apertamente quale sia la concezione di emozione
assunta alla base delle riflessioni 82. Parallelamente a tale critica,
riteniamo che si attaglino anche al giurista le osservazioni del sociologo
Sergio Manghi, quando afferma che per lo studioso di scienze sociali non è
possibile limitarsi a de- scrivere il modo in cui le emozioni vengono
socialmente definite: allo stesso modo per il giurista non è possibile far
interagire la dimensio- ne giuridica con le diverse prospettive attraverso cui
emozioni e sen- timenti vengono socialmente e scientificamente definiti, senza
pren- dere al contempo una posizione che traduca maggiore o minore pre- ferenza
per una determinata impostazione. Va dunque inoculato an- che nella
riflessività dello studioso di diritto l’interrogativo di natura epistemologica
su quale sia la concezione di emozione alla base del proprio discorso:
«attraverso quale idea di ‘emozione’ parlo di ‘emozioni’? Essere o me- no
dotati di un’idea di ‘emozione’, o per dirla con una parola più im- pegnativa,
di una teoria delle emozioni, non è questione di scelta, per nessun essere
umano che ricorra alla parola ‘emozione’. A maggior ra- gione, non è una
questione di scelta per uno scienziato sociale. Una teoria c’è comunque.
Possiamo scegliere solo se mantenerla implicita, colludendo con il senso
comune, o [...] possiamo cercare di esplicitar- mando: «Legal scholars, as well
as lawyers, legislators, judges, need to guard against this temptation to
pillage other fields without regard for their full com- plexity and to use the
spoils selectively to make legal arguments», v. BANDES, Introduction, cit., p.
8. 82 LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, in 86 Cornell Law Re-
view, 2001, p. 981. 32 Tra sentimenti ed eguale rispetto la: ben
sapendo, beninteso, che l’esplicitazione non tocca che uno scam- polo del vasto
sistema delle nostre premesse implicite. L’assunzione di un’idea da altri
ambiti testuali rimane [...] comunque un gesto attivo, un atto linguistico
generativo, del quale non possiamo non assumerci la responsabilità
epistemologica» 83. Il problema non è solo definitorio ma implica una presa di
posi- zione sul piano epistemologico, con conseguenze sul merito delle ri-
flessioni84: tematizzare problemi concernenti i rapporti fra diritto e
dimensione affettiva porta anche il giurista a prediligere e a identifi- carsi
con una o più proposte ricostruttive. Formarsi un’idea di cosa siano l’emozione
e il sentimento, e in quale accezione si intenda in- trodurre tali concetti nel
discorso penalistico, rappresenta in primo luogo un’acquisizione importante dal
punto di vista della qualità epi- stemica dell’indagine e delle proposte
eventualmente avanzate, e co- stituisce un impegno sul piano metodologico. 4.2.
Sull’uso del termine ‘emozione’ Esigenze di chiarezza e di coerenza con le
fonti bibliografiche ri- chiedono una puntualizzazione sul piano lessicale, o
più precisamen- te, meta-lessicale. Nella lingua italiana i termini che
definiscono gli stati affettivi so- no diversi: ‘sentimento’ ed ‘emozione’ sono
quelli probabilmente più noti, cui si affiancano anche vocaboli come
‘passione’, ‘sensazione’, ‘impressione’, ‘affezione’, ‘stato d’animo’. In
lingua inglese il termine di uso più comune e dal significato più ampio è
‘emotion’, il quale, a seconda dei diversi contesti, sembra po- tersi tradurre
in italiano sia con ‘emozione’, sia con ‘sentimento’. Più circoscritto appare
l’uso del termine ‘feeling’, il quale si presta a esse- re tradotto
letteralmente come ‘sentimento’, al pari dell’ancor più univoco, ma meno
frequente, ‘sentiment’. Diffuso è inoltre l’uso del termine ‘passion’, il quale
sembra connotare un particolare modo 83 MANGHI, Le emozioni come processi
sociali. Considerazioni teorico-epistemo- logiche, in AA.VV., a cura di
Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Milano, 2000, p. 40. 84
LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, cit., p. 982: «The tax-
onomy issue is not a battle just about what goes on the list; the issue also
goes to the core of what constitutes an emotion and how emotions emerge and
transform». Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 33 d’essere
degli stati affettivi, ossia l’effetto condizionante nei confronti dell’agire
umano 85. Se si cerca una corrispondenza in lingua inglese con la formula
‘tutela di sentimenti’ non si trova praticamente mai il vocabolo ‘fee- ling’:
il discorso giuridico sugli stati affettivi è fondamentalmente in- centrato sul
termine ‘emotion’. Quando si parla di ‘Law and Emotion’, tale ultimo vocabolo
non si riferisce solo ai fenomeni psichici che possono ricondursi a emozioni in
senso stretto, ma comprende anche gli stati che, come avremo modo di osservare,
in lingua italiana corrisponderebbero a ‘sentimen- ti’. Le questioni che nel
panorama di studi giuridici in lingua italiana richiamano espressamente
‘sentimenti’ trovano dunque nella dottrina nordamericana una rispondenza col
termine, più generico e com- prensivo, ‘emotion’ 86. Tale ambivalenza, se da un
lato appare foriera di ambiguità, da un altro lato mostra una compenetrazione
fra i due fenomeni che sugge- risce, in fase di esposizione e di impostazione
dei problemi, l’uso del termine ‘emozione’ quale traduzione di ‘emotion’ in
tutta la sua porta- ta semantica87, e dunque in modo sostanzialmente
intercambiabile col termine ‘sentimento’. 85 Una panoramica in DIXON,
“Emotion”: The History of a Keyword in Crisis, in 4 Emotion Review, 2012, pp.
338 ss. Da notare l’interessante equivoco linguistico nella traduzione del
titolo del celeberrimo romanzo di JANE AUSTEN, Sense and Sensibility, tradotto,
come noto, in italiano come Ragione e sentimento. In realtà in inglese
‘sensibility’ indica la sensibilità come emotività; sarebbe stato preferibi-
le, come segnalato da Hugh Griffith e Helen Davies, autori di un saggio sull’opera
di Jane Austen citato in http://www.unteconjaneausten.com/senno-e-sensibilita-
piu-che-ragione-e-sentimento/, intendere ‘sense’ come risposta ragionata o
pratica a una situazione, mentre ‘sensibility’, come percezione emotiva di tale
situazione. Debbo la segnalazione di tale interessante questione all’amico
Alessandro Corda, che ringrazio. Sull’uso del termine ‘passione’ v. anche
infra, cap. II, nota 1. 86 Un’eccezione da noi riscontrata è relativa a un
saggio di FEINBERG, Senti- ment and Sentimentality in Practical Ethics, in 56
Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 1982, pp.
21 ss., nel quale il termine ‘senti- ment’ è utilizzato per indicare stati
affettivi non episodici, distinti dall’‘emotion’ sia per la durata, sia per la
presenza di un oggetto cognitivo. In controluce a tale impostazione emerge un
complementare uso del termine emotion volto a indicare stati psicologici privi
un oggetto cognitivo definito, in controtendenza dunque all’opinione di autori
come Kahan e Nussbaum (v. infra, cap. II, par. 2.2). 87 Osserva DE MONTICELLI,
L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, 2008, pp. 21 ss. che
«nella lingua franca della filosofia contemporanea la parte del leone affettivo
la fa oggi la parola “emozione”. È questo il termine che viene di pre- ferenza
usato con la stessa generosità onnicomprensiva di “passioni” in Cartesio, anche
se a volte l’uso italiano è stridente, come lo sono spesso, prima che
l’abitu- 34 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il problema di un uso
più sorvegliato si porrà al momento di in- quadrare i profili naturalistici che
caratterizzano il sentimento e l’emozione al fine di verificare, nella
prospettiva giuridica, il senso di una distinzione fra una ‘tutela di
sentimenti’ e una ‘tutela di emozio- ni’ (v. infra, cap. IV). 5. Sinossi Il
significato e il ruolo del sentimento nel diritto penale costitui- scono un
argomento poco esplorato, il quale può inquadrarsi all’in- terno di un
macroambito riguardante i rapporti fra diritto penale e stati affettivi.
L’insufficiente attenzione ad oggi riservata a tali temi si motiva anche come
effetto di un più generale atteggiamento del pen- siero occidentale tendente a
relegare la dimensione affettiva nella sfe- ra dell’indominabile e
dell’irrazionale; una vulgata attualmente in fa- se remissiva alla quale sta
subentrando una nuova considerazione di sentimenti ed emozioni come elementi
dotati di una peculiare forza non necessariamente negativa, ma anche
potenzialmente virtuosa, nelle dinamiche del pensiero e dell’agire umano. Fra i
diversi problemi concernenti il ruolo degli stati affettivi nella genesi e
nell’applicazione delle leggi penali, quello che ci sembra di più immediata
evidenza, quantomeno se si ha riguardo al lessico dei legislatori, ha a che fare
con la c.d. ‘tutela penale di sentimenti’, o, in termini meno retorici, con il
ruolo del sentimento quale oggetto di tutela. Per tematizzare tale problema, e
più in generale tutte le questioni concernenti i rapporti fra diritto e
dimensione affettiva, si rendono necessarie delle riflessioni preliminari sul
piano epistemologico e me- todologico, profili teorici su cui si è mostrata
particolarmente sensi- bile la dottrina giuridica statunitense attraverso il
filone di studi noto come ‘Law and Emotion’. Seguendo i percorsi tracciati dai
contributi afferenti al suddetto ambito, riteniamo che la presente indagine
debba prendere le mosse da un inquadramento dei fenomeni cui le norme fanno
richiamo. Un impegno che non dovrebbe limitarsi a un’importazione passiva di
sa- peri e definizioni, e che sollecita piuttosto il giurista a interrogarsi su
quale sia la concezione di emozione e di sentimento più funzionale e dine
spenga il disagio, gli anglicismi (sospettiamo infatti che il senso del termine
inglese “emotions” sia più lato di quello del suo falso amico italiano
[...])». Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 35 meglio
esplicativa rispetto ai diversi problemi in gioco. Vedremo nel prossimo
capitolo quali siano i principali criteri di differenziazione fra stati
affettivi, e quali profili distintivi appaiano più funzionali al discorso sul
problema del sentimento come oggetto di tutela. 36 Tra sentimenti
ed eguale rispetto CAPITOLO II SENTIMENTI ED EMOZIONI: CLASSIFICAZIONI E
DISAMBIGUAZIONI «Capire tu non puoi Tu chiamale se vuoi Emozioni» BATTISTI
L.-MOGOL, 1971 «Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali,
vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto
semplicemente di istinto e di raziocinio... una specie di cinghiale laureato in
matematica pura» DE ANDRÈ F., intervista tratta dal documentario ‘Dentro Faber,
l’anarchia’ SOMMARIO: 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua. – 2.
Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze.
– 2.1. Le emo- zioni come giudizi di valore: la concezione di Martha Nussbaum.
– 2.2. Con- cezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative dell’emozione:
profili di rile- vanza giuridica. – 2.3. La dimensione sociale delle emozioni.
– 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale. – 3.1. Il
pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpretazione fenomenologica. –
4. Emozioni e sen- timenti: il senso della distinzione concettuale. – 5.
Sinossi. 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua I termini
‘sentimento’ ed ‘emozione’ definiscono fenomeni appar- tenenti alla categoria
dei cosiddetti ‘stati affettivi’, e additano in que- sto senso differenze
fattuali il cui approfondimento richiede di attin- gere da saperi esterni al mondo
del diritto, tenendo presente che ri- spondere alla domanda ‘che cosa sia
un’emozione o un sentimento’ rappresenta ancora oggi una sfida continua 1, data
la difficoltà di cri- 1 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p.
163; cfr. SCHERER, What 38 Tra sentimenti ed eguale rispetto stallizzare
nozioni univocamente condivise a livello interdisciplinare. Nella prospettiva
giuridica è opportuno avere chiaro a quali fini si intenda evidenziarne le
differenze2: non si tratta di perseguire una fedeltà al linguaggio dei
legislatori ove adoperino una terminologia più o meno dettagliata, ma piuttosto
di dotarsi di strumenti episte- mici per un’adeguata interpretazione delle
situazioni descritte in eventuali norme e per una comprensione delle questioni di
fondo, anche in una prospettiva de jure condendo 3. Il rinvio alle scienze
psicologiche è funzionale a elaborare delle definizioni operative idonee a
essere impiegate quale chiave di lettura di problemi penalistici. Ad esempio,
in relazione a un interrogativo particolarmente rilevante nella presente
indagine: per quale motivo si tende a parlare di tutela di ‘sentimenti’ e non
di ‘emozioni’? Da un la- to vi è il riflesso condizionato dal lessico delle
disposizioni, ma si tratta ovviamente di una spiegazione insufficiente ad
accreditarne la coerenza. Appare invece necessario fare chiarezza sulla
distinzione fattuale tra i suddetti stati affettivi e sulle conseguenti
ripercussioni sul piano concettuale, al fine di chiedersi quali differenze
possano di- scendere dall’orientare un’eventuale prospettiva di intervento
sulle emozioni piuttosto che sui sentimenti. are emotions? And how can they be
measured?, cit., p. 696. Non adoperemo il ter- mine ‘passione’, il quale è
spesso utilizzato quale sinonimo di ‘emozione’ soprat- tutto in relazione agli
aspetti di reattività e di passività, ma assume un significato più esteso, il
quale non si limita al piano psicologico e fenomenico ma tende a includere una
dimensione sociale e culturale, specie nel discorso che storicamen- te
contrappone ‘passione’ e ‘ragione’. Come osserva BODEI, Geometria delle passio-
ni, Milano, 2007, pp. 7 s.: «“Ragione” e “passioni” [fanno] parte di
costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate [...] sono
cioè termini pre-giu- dicati, che occorre abituarsi a considerare come nozioni
correlate e non ovvie, che si definiscono a vicenda (per contrasto o per
differenza) solo all’interno di de- terminati orizzonti concettuali e di
specifici parametri valutativi»; cfr. CURI, Pas- sione, Milano, 2013, pp. 7 ss.
Il termine ‘passione’ connota in definitiva una tipo- logia di stati affettivi
caratterizzati dalla durata transitoria, fra cui rientrano an- che le emozioni,
ma non, ad esempio, i sentimenti; per una ricostruzione in tal senso v. GOZZANO,
Ipotesi sulla metafisica delle passioni, in AA.VV., a cura di Ma- gri,
Filosofia ed emozioni, Milano, 1999, pp. 13 ss. Vedi anche infra, nota 71. 2
Nella dottrina penalistica si soffermano sulla distinzione fra sentimento ed
emozione FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215
ss.; NI- SCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 54 ss.;
volendo si veda anche BACCO, Sentimenti e tutela penale, cit., pp. 1186 ss. 3
Si veda l’indagine di NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit.,
pp. 54 ss., il quale procede a una distinzione fra emozione e sentimento
nell’ambito di una più ampia analisi volta a definire i tratti identificativi
della ‘sofferenza’ come categoria esplicativa dell’offesa dei processi psichici.
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 39 Non si
possono sviluppare adeguatamente tali problemi affidan- dosi alla sola
psicologia del senso comune, senza tener conto di come i saperi sugli stati
affettivi configurano oggi il rapporto fra emozioni e sentimenti, e, più in
generale, il ruolo della dimensione affettiva nella vita della persona.
Cerchiamo pertanto di procedere a una di- sambiguazione che evidenzi i tratti
distintivi fra i fenomeni definiti ‘emozione’ e ‘sentimento’. 2. Emozioni. Un
quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze Prendiamo le
mosse dalle emozioni; la definizione di altri stati af- fettivi viene formulata
spesso in termini di comparazione e di differen- za con l’emozione, la quale
mostra pertanto una rilevanza primaria. Ripercorreremo in estrema sintesi
alcuni degli snodi fondamentali della storia delle emozioni, con particolare
attenzione alle teorie del- l’età moderna e contemporanea, ossia quelle
elaborate a partire da quando la psicologia ha assunto lo statuto di disciplina
autonoma 4. Non va però dimenticato che l’interrogativo su cosa siano le
emozioni ha interessato il pensiero umano fin dall’antichità, ed è a partire
dai classici del pensiero filosofico che si aprono oggi buona parte delle
trattazioni sulle emozioni 5. Osserva lo psicologo Dario Galati che lo studio
delle emozioni na- sce come indagine filosofica; i fenomeni affettivi sono
stati conside- rati da sempre una fondamentale chiave di lettura per lo studio
della natura umana, e anche nell’attuale variegato panorama di branche della
conoscenza la matrice filosofica mantiene una rilevanza pecu- liare: «[n]on si
può fare psicologia delle emozioni senza avere un’opi- nione generale – e
diciamo pure filosofica – su ciò che le emozioni sono, sul valore che hanno e
sul ruolo che svolgono nell’esistenza quotidiana degli esseri umani» 6. 4 RIMÈ,
La dimensione sociale delle emozioni, tr. it., Bologna, 2008, p. 29. 5 Un
importante esempio è l’opera di GRIFFITHS, What Emotions Really Are. The
Problem of Psychological Categories, Chicago, 1997; SOLOMON, The Philosophy of
Emotions, in The Psychologists’ Point of View, in AA.VV., ed. by
Lewis–Haviland- Jones, Handbook of Emotions, II ed., New York-London, 2004, pp.
3 ss. Per un’in- teressante prospettiva sulla ‘priorità’ delle emozioni da un
punto di vista filosofico si veda VECA, Sulle emozioni, in Iride, 2000, pp. 529
ss. 6 GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., p. 29. Sulla stessa linea
di pensiero v. 40 Tra sentimenti ed eguale rispetto In questa sede
possiamo solo limitarci a rinviare alle belle pagine con cui il filosofo Nicola
Abbagnano riassume la storia filosofica del- le emozioni, descrivendo la
concezione platonica del Filebo («la pri- ma analisi delle emozioni che la
filosofia occidentale ci ha dato») e la teorizzazione aristotelica della
Retorica («una delle più interessanti analisi di cui la filosofia dispone»)7.
Ai fini della presente indagine appare opportuno compiere un salto cronologico
a epoche caratte- rizzate da una più definita differenziazione tra approcci di
studio, e a prospettive che si estendono anche ai profili fisiologici e
‘corporali’ dei fenomeni affettivi. Arriviamo dunque all’Ottocento, cioè quando
lo studio delle emo- zioni viene a focalizzarsi su un approccio
empirico-sperimentale in relazione a movimenti corporei e pattern
comportamentali. L’opera di Charles Darwin segna in questo senso uno
spartiacque e la sua teoria evoluzionistica dell’emozione rappresenta il primo
studio pro- priamente moderno 8. Ma è soprattutto un articolo di William James
9 a consolidare l’approccio empirico, con la celebre teoria secondo cui lo
stato emotivo scaturisce dalla percezione dei cambiamenti biologi- ci e
neurovegetativi innescati da uno stimolo emotigeno. Il carattere innovativo, ma
anche l’aspetto più criticato di tale teoria, è l’inver- sione del rapporto tra
elaborazione cognitiva e stimolo viscerale: l’espe- rienza emotiva come esito
dalla percezione di mutamenti a livello corporeo, e non viceversa. Altrettanto
importante, ma di opinione opposta, è la posizione di Walter Cannon, il quale,
al contrario di James, riteneva che i centri di attivazione dei processi
emotivi siano localizzati in regioni periferi- che del corpo (da cui la
denominazione ‘teoria periferica’), propo- nendo un radicamento del processo di
elaborazione emotiva nella re- gione talamica, in un’area che interessa
principalmente le strutture dell’ipotalamo e dell’amigdala 10. Su tale ultima
regione del sistema limbico si sono concentrati gli studi in epoca contemporanea;
in particolare, secondo il neuroscien- FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, in
Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1997, pp. 559 s. 7 Sono parole di
ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni, cit., pp. 42 ss. 8 DARWIN,
L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it., Torino, 2012.
9 JAMES, What is an emotion, in 9 Mind, 1884, pp. 188 ss. 10 CANNON, The
James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative
Theory, in 39 The American Journal of Psychology, 1927, pp. 106 ss.
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 41 ziato Joseph
LeDoux, è l’amigdala ad assumere un ruolo primario nelle dinamiche dei fenomeni
emozionali: non solo nella generazione delle emozioni, ma anche nella gestione
della vita emozionale di un soggetto 11. Questi, in estrema sintesi, alcuni dei
contributi più significativi che orientano verso una descrizione che pone in
primo piano aspetti di attivazione a livello corporeo. Una prospettiva più
genuinamente psicologica 12 si deve agli studi condotti da Stanley Schachter
con la teoria c.d. ‘cognitivo-attivazio- nale’ 13. Lo psicologo statunitense
riconduce l’emozione all’attivazione di una componente di tipo
materiale-corporeo compresa fra due atti cognitivi: il primo è rappresentato
dalla percezione e dalla valutazio- ne di uno stimolo elicitante; il secondo,
successivo all’attivazione dell’arousal14, è costituito dalla riflessione sul
legame causale fra lo stimolo esterno e l’attivazione emozionale interna,
secondo un pro- cesso che viene letteralmente definito come ‘etichettamento’
(label- ling) e che corrisponde a un’elaborazione e a un’interpretazione del
rapporto tra stimolo emotivo ed arousal. Si tratta di un significativo passo
oltre la dimensione fisica delle emozioni, nel quale viene in considerazione
l’esperienza cognitiva del soggetto: l’emozione assu- me una fisionomia
complessa e multifattoriale rivelandosi come mo- mento dialettico fra mente e
corpo, secondo un’interazione guidata da processi non meramente istintuali. Su
tali premesse troveranno sviluppo teorie che assegnano impor- tanza centrale
alle elaborazioni cognitive e alle valutazioni di cui si compone l’esperienza
emotiva, meglio note come ‘teorie dell’appraisal’. Opera di riferimento è uno
studio di Magda Arnold15, che definì 11 LE DOUX, Emotion circuits in the brain,
in 23 Annual review of neuroscience, 2000, pp. 155 ss.; ID., Il cervello
emotivo. Alle origini delle emozioni, cit., pp. 49 ss. 12 Sulla definizione del
punto di vista psicologico sulle emozioni v. FRIJDA, The Psychologists’ Point
of View, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit., p. 60. 13 SCHACHTER-SINGER,
Cognitive, Social and Psychological Determinants of Emo- tional State, in 69
Psychological Review, 1962, pp. 379 ss. 14 L’arousal (significato letterale:
eccitazione, risveglio) rappresenta il risvolto più propriamente fisico
dell’emozione, ossia l’attivazione nervosa che viene per- cepita dal soggetto a
seguito di uno stimolo emotigeno, la quale può avere diverse gradazioni di
intensità e provocare differenti stati affettivi: ad esempio nell’emo- zione vi
sarebbe un intenso arousal provocato da eventi edonicamente rilevanti che
sollecitano una risposta comportamentale, v. voce Arousal, in Enciclopedia
della scienza e della tecnica, Roma, versione online. 15 ARNOLD, Emotion
and Personality, New York, 1960. 42 Tra sentimenti ed eguale rispetto
l’emozione come una spinta tendente all’attrazione o all’allontana- mento da un
determinato oggetto a seguito di una valutazione di es- so; tale fase,
cosiddetto ‘appraisal’, è seguita da una valutazione se- condaria, detta
‘reappraisal’, la quale di fatto implica una riflessività sugli stati che il
soggetto ha percepito. Nel solco tracciato delle teorie dell’appraisal si
sviluppano le elabo- razioni di Nico Frijda, secondo il quale le emozioni
costituiscono ri- sposte modulate sulla struttura di significato di una
determinata situa- zione: ‘significato’ da intendersi come attribuzione di
senso in termini di positività o negatività da parte di un individuo. Elemento
centrale dell’esperienza emotiva è la soggettività: la dimensione individuale è
chiave di lettura della complessità e della variabilità delle emozioni 16. Le
considerazioni di Frijda, e più in generale le teorie dell’appraisal, conducono
verso l’inquadramento delle emozioni come «mediatori complessi fra il mondo
interno e quello esterno [che] variano secon- do alcune dimensioni continue,
quali la valenza edonica (piacevolez- za o spiacevolezza), la novità (o meno)
degli eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei
medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento» 17. La
prospettiva intrapsichica si apre in questo modo all’inclusione di aspetti
cognitivo-valutativi che sono esito del continuo processo di giudizio che il
soggetto compie nel suo rapportarsi alla realtà: «l’indi- viduo è continuamente
impegnato in operazioni di valutazione cogni- tiva, con le quali egli mette a
confronto la sua percezione della situa- zione attuale con una sorta di visione
prospettica, che gli deriva dalla conoscenza del mondo, dalle sue credenze di
base, dalle norme a cui si conforma e dai diversi obiettivi temporanei e
permanenti che per- segue» 18. Negli anni a noi più vicini il panorama di
conoscenze e di approc- ci di studio è andato arricchendosi, anche a seguito
dell’avvento delle neuroscienze cognitive, una disciplina che nasce all’inizio
degli anni Ottanta del Novecento e che porta a una nuova auge la dimensione
neurobiologica19, grazie a innovative tecniche che consentono di vi- 16 FRIJDA,
voce Emozioni e sentimenti, cit., p. 568; più ampiamente v. ID., Emo- zioni,
tr. it., Bologna, 1990. 17 ANOLLI-LEGRENZI, Psicologia generale, Bologna, 2009,
p. 254. 18 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44. 19 DAMASIO,
Emotions and feelings: a neurobiological perspective, in AA.VV., ed. by
Mansted-Frijda-Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium,
Cambridge, 2004, pp. 49 ss. Sentimenti ed emozioni: classificazioni
e disambiguazioni 43 sualizzare l’attività del sistema neurale delle emozioni
20. Si deve soprattutto all’opera scientifica e divulgativa del neuro-
scienziato Antonio Damasio un importante tentativo di definire l’emo- zione e
di studiarne le strette connessioni con il ragionamento e con l’agire che
definiamo ‘razionale’. L’articolata proposta di Damasio per dare una fisionomia
all’emozione è la seguente: «l’insieme dei cambiamenti dello stato corporeo che
sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle cellule nervose, sotto il
controllo di un apposito sistema del cervello che risponde al contenuto dei
pen- sieri relativi a una particolare entità, o evento. [...] Per concludere,
l’emo- zione è frutto del combinarsi di un processo valutativo mentale, sem-
plice o complesso, con le risposte disposizionali a tale processo, per lo più
dirette verso il corpo, che hanno come risultato uno stato emotivo del corpo,
ma anche verso il cervello stesso [...] che hanno come risul- tato altri
cambiamenti mentali» 21. 20 Per un quadro generale v. DE PLATO, Il modello
delle emozioni, in AA.VV., a cu- ra di De Plato, Psicologia e psicopatologia
delle emozioni, Bologna, 2014, pp. 25 ss.; BELLODI-PERNA, Emozioni e
neuroscienze, in AA.VV., a cura di Rossi, Psichiatria e neuroscienze, in
Trattato italiano di psichiatria, Milano, 2006, pp. 35 ss. Fra gli studi sulle
emozioni che si avvalgono di tecniche neuroscientifiche possiamo includere i
già citati contributi di Antonio Damasio e di Le Doux (v. supra, nota 11); di
quest’ul- timo ricordiamo inoltre LE DOUX, Il Sé sinaptico. Come il nostro
cervello ci fa diven- tare quello che siamo, tr. it., Milano, 2002. L’oggetto
di studio delle neuroscienze co- gnitive si estende anche al di là delle
emozioni, e le acquisizioni delle neuroscienze sono sempre più frequentemente
oggetto di interesse da parte dei giuristi penali: per una sintesi v. GRANDI,
Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?,
Torino, 2016; BERTOLINO, Il vizio di mente tra prospettive neuro- scientifiche
e giudizi di responsabilità penale, in Rass. it. criminologia, 2/2015, pp. 84
ss.; EAD., Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale, in AA.VV., a
cura di Pa- lazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze. Non “siamo” i
nostri cervelli, Torino, 2013, pp. 145 ss.; EAD., L’imputabilità penale fra
cervello e mente, in Riv. it. med. leg., 2012, pp. 925 ss.; DI GIOVINE O., Chi
ha paura delle neuroscienze, in Arch. pen., 3/2011, pp. 842 ss.; EAD., voce
Neuroscienze (diritto penale), in Enciclopedia del dirit- to, Annali VII, 2014,
pp. 711 ss. EUSEBI, Neuroscienze e diritto penale: un ruolo diver- so del
riferimento alla libertà, in AA.VV., a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto
nelle neuroscienze, cit., pp. 121 ss.; CORDA, Riflessioni sul rapporto tra
neuroscienze e im- putabilità nel prisma della dimensione processuale, in
Criminalia, 2013, pp. 497 ss.; ID., Neuroscienze forensi e giustizia penale tra
diritto e prova (Disorientamenti giuri- sprudenziali e questioni aperte), in
Arch. pen. (Rivista web), 3/2014, pp. 1 ss.; ID., La prova neuroscientifica.
Possibilità e limiti di utilizzo in materia penale, in Ragion Pra- tica,
2/2016, pp. 355 ss.; FUSELLI, Le emozioni nell’esperienza giuridica: l’impatto
delle neuroscienze, in AA.VV, a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle
neuroscienze, cit., pp. 53 ss. 21 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit.,
pp. 201 s. 44 Tra sentimenti ed eguale rispetto Com’è evidente anche da
questa sintetica trattazione, la mole di approcci e di contributi è tale da
rendere difficoltoso definire l’emo- zione: è possibile individuare dei punti
di convergenza tali da poter indicare al giurista dei tratti caratterizzanti?
Nella dottrina giuridica americana gli studiosi Bandes e Blumen- thal, dopo
aver formulato il caveat metodologico di non avventurarsi alla ricerca di
‘definizioni universali’, propongono una sintesi di ciò che a loro avviso può
ritenersi condiviso nei diversi ambiti disciplina- ri, inquadrando le emozioni
come: «un insieme di processi valutativi e motivazionali, che coinvolgono
completamente il cervello, i quali ci aiutano a valutare e a reagire agli
stimoli, e che prendono forma, significato e vengono comunicati in un contesto
sociale e culturale. Le emozioni influiscono sul modo in cui selezioniamo,
classifichiamo e interpretiamo informazioni; influenza- no le nostre
valutazioni sulle intenzioni e sulla credibilità degli altri; e ci aiutano a
decidere cosa sia importante o abbia valore. Cosa forse più importante, ci
guidano nel fare attenzione ai risultati del nostro agire e forniscono
motivazioni per agire o per astenersi dall’agire nelle situazioni che
valutiamo» 22. Riteniamo tale definizione una buona base per il prosieguo
dell’in- dagine, in quanto l’ampiezza è tale da coinvolgere diversi profili
del- l’esperienza affettiva: è presente la dimensione neurobiologica, si fa
riferimento all’interazione col contesto sociale e culturale, viene evi-
denziato che le emozioni contribuiscono a guidare sia il pensiero co- gnitivo
sia, conseguentemente, l’azione umana. Approfondiamo alcuni dei suddetti
aspetti, a partire dal chiari- mento di cosa si intenda per emozione come
‘giudizio di valore’23, analizzando di seguito due prospettive di approccio
alle emozioni nel discorso giuridico, ossia la concezione meccanicistica e
quella valuta- tiva. 22 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 163
s. (traduzione del- l’autore). 23 Ex plurimis, v. VECA, Dell’incertezza. Tre
meditazioni filosofiche, Milano, 2006, pp. 301 ss. Sentimenti ed
emozioni: classificazioni e disambiguazioni 45 2.1. Le emozioni come giudizi di
valore: la concezione di Martha Nussbaum Un’opera che a nostro avviso
sintetizza emblematicamente la ri- scoperta della dimensione emozionale nella
vita di relazione, e so- prattutto nella dimensione politica, è lo studio di
Martha Nussbaum intitolato ‘Upheveals of Thought’24, autentico esempio di
approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni emotivi: psicologia
cogniti- va, neuroscienze, antropologia, etologia, filosofia morale vengono
convogliate in un flusso epistemico nel quale non si avverte disomo- geneità ma
sincretismo. Uno studio non collocabile in una corrente definita, il quale
interseca differenti campi e prospettive al fine di in- terpretare il ruolo
delle emozioni nelle scelte del singolo e nella di- mensione collettiva. Il
titolo italiano si distacca dalla traduzione letterale (‘sommovi- menti del
pensiero’25), e con enfasi retorica forse eccessiva recita ‘L’intelligenza
delle emozioni’; il messaggio dell’opera è più comples- so, ma il tema di fondo
può essere sostanzialmente identificato con una ricerca sull’intelligenza nelle
emozioni: un dato non scontato ma da valutarsi con attenzione, intendendo con
‘intelligenza’ un giudizio sulla ‘bontà’ e sull’affidabilità dell’emozione.
Secondo Martha Nussbaum l’emozione si fonda su un giudizio di valore: ha cioè
un contenuto proposizionale di tipo valutativo e una componente
intenzionale-cognitiva26 che la pone in relazione con un oggetto (c.d. ‘oggetto
intenzionale’). Non è un evento prettamen- te fisico, ‘meccanico’ e viscerale,
ma si articola in un giudizio sulla realtà esterna il quale è a sua volta
modulato sulle credenze del sog- getto. Sono le credenze a influire in modo
determinante sulla qualità dell’emozione, la quale non è giudicabile in sé come
‘vera’ o ‘falsa’ 27, bensì come più o meno appropriata. Credenze errate possono
gene- 24 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit. 25 Viene fatto notare
come tale traduzione avrebbe consentito di salvare la ci- tazione di Proust, il
quale definì le emozioni ‘soulèvements géologiques de la pen- sée’, v. FURST,
Sommovimenti del pensiero: la teoria delle emozioni di Martha Nus- sbaum, in
http://www.athenenoctua.it/sommovimenti-del-pensiero/. 26 NUSSBAUM,
L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 44. 27 Ciò che può essere valutato in
termini di verità o falsità sono le credenze re- trostanti l’emozione; credenze
false generano emozioni che possono essere valu- tate come più o meno
appropriate, ma si tratta comunque di emozioni ‘vere’, v. NUSSBAUM,
L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 68 ss. 46 Tra sentimenti
ed eguale rispetto rare emozioni inappropriate a seconda dei contesti: le
emozioni pos- sono essere dunque, a loro volta, valutate. Questo rapporto fra
‘nor- matività interna’ e ‘normatività esterna’ all’emozione risulta cruciale
per l’evoluzione degli sviluppi del pensiero della studiosa americana: è
infatti su tale presupposto che si fondano i successivi studi sull’affi-
dabilità politica delle emozioni. A quali condizioni un determinato
atteggiamento emotivo dei sin- goli e, soprattutto, della collettività – inteso
come emozione social- mente diffusa – può essere assecondato dalle istituzioni
e ‘riconosciu- to’ anche attraverso norme giuridiche? L’interrogativo rimanda
al raffronto tra il giudizio di valore sulla base del quale l’emozione si
genera, e l’orizzonte assiologico che si assuma a riferimento per gli assetti
sociali e istituzionali. Martha Nussbaum ha il merito di aver messo a tema la
dimensio- ne politica delle emozioni evidenziandone le profonde connessioni con
l’etica pubblica, con i valori costitutivi di un ordinamento e dun- que con la
genesi e le ricadute applicative di istituti giuridici, in un discorso che
attraversa numerose discipline ma che cerca costante- mente nel diritto e nella
teoria politica gli interlocutori privilegiati. La sua opera, dall’eloquente
titolo ‘Emozioni politiche’, rappresenta in questo senso una proposta teorica
ispirata ai canoni del liberali- smo, nella quale si esorta al buon uso delle
emozioni in sede pubblica quale strumento di pedagogia civile (vedi infra, cap.
VI) 28. Non vanno però dimenticati ulteriori contributi della studiosa
americana, incentrati su profili più vicini alla dimensione giuridica 29, e in
particolare sulla concezione di emozione che dovrebbe essere adottata dal
giurista come punto di partenza nelle riflessioni perti- nenti Law and Emotion,
alla luce dell’alternativa fra un modello bio- logico-meccanicistico e un
modello cognitivo-valutativo30. Vediamo in dettaglio quanto osservato in tale studio.
28 NUSSBAUM, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, tr.
it., Bologna, 2014. 29 Anche in relazione alla figura del giudicante e alle sue
emozioni, e con par- ticolare riguardo alla giusta compassione che dovrebbe
accompagnarne le deci- sioni, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit.,
pp. 525 ss.; NUSSBAUM, Giu- stizia poetica. Immaginazione letteraria e vita
civile, tr. it., Milano, 2012, p. 40. 30 KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of
Emotion in Criminal Law, in 96 Co- lumbia Law Review, 1996, pp. 269 ss.
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 47 2.2.
Concezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative del- l’emozione: profili
di rilevanza giuridica Nella prospettiva giuridica è fondamentale interrogarsi
sull’alter- nativa fra interpretazioni dell’emozione legate a paradigmi
stretta- mente fisicalistici e concezioni incentrate sull’emozione come giudi-
zio di valore. Dan Kahan e Martha Nussbaum riassumono tali ap- procci nella
diade composta da ‘concezione meccanicistica’ e ‘conce- zione valutativa’
(‘mechanistic’ and ‘evalutative’ conception). Secondo la visione
meccanicistica, le emozioni sono equiparabili a forze ‘non pensanti’ che
spingono una persona all’azione31; per la ‘evalutative conception’ invece
l’emozione scaturisce dalla relazione, definibile in base a un valore edonico
(ossia di maggiore o minore piacere), con un oggetto cosiddetto ‘intenzionale’.
Le emozioni sono ‘rivolte’ a un quid materiale, cognitivo o immaginativo: non
sono energie naturali prive di oggetto ma «sono in relazione (about) a qualcosa
[...] In secondo luogo l’oggetto è intenzionale: ovvero, esso appare
nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la per- sona che prova
l’emozione stessa» 32. L’approccio valutativo mostra una migliore rispondenza
in rap- porto ai fenomeni e trova oggi un maggiore consenso rispetto all’al-
ternativa meccanicistica. Ma quali conseguenze discendono dall’aval- lo di
concezioni valutative piuttosto che meccanicistiche in relazione ai problemi
penali? Ragionare in termini di approccio meccanicistico, e trattare le
emozioni come meri impulsi senza considerarne la componente co- gnitiva, non
offre strumenti per spiegare come le emozioni si possano differenziare
‘qualitativamente’ e dunque valutare. Come abbiamo precedentemente osservato,
il nucleo della concezione valutativa po- 31 «without embodying ways of
thinking about or perceiving objects or situa- tions in the world», v.
KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, cit., p. 278. 32
«thought of a particular sort, namely appraisal or evaluation and, moreover,
evaluation that ascribes a reasonably high importance to the object in
question», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 286; il
concetto è ripre- so in NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 50
ss.; cfr. CALABI, Le varietà del sentimento, cit., pp. 276 ss., la quale
ricostrusce il concetto di ‘razionalità’ del- l’emozione in base al rapporto
tra fondamenti cognitivi e antecedenti cognitivi. Sulla definizione di ‘cattive
emozioni’ intese come fallimentari dal punto di vista cognitivo, v. TAPPOLET,
Le cattive emozioni, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni- Konzelmann Ziv, Le
ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative, tr. it., Milano, 2013, pp. 16
ss. 48 Tra sentimenti ed eguale rispetto stula che l’emozione nasca
da un giudizio che il soggetto elabora sul- la base di credenze; si può parlare
in questo senso di una ‘razionalità’ dell’emozione in termini normativi, ossia
modulata su pretese e aspettative che hanno a che fare con gli equilibri della
convivenza 33. Secondo Kahan e Nussbaum il significato, e il disvalore, di una
condotta non coincidono semplicemente con le conseguenze prodotte ma sono
l’esito di una contestualizzazione che deve prendere in esame anche le
motivazioni, e dunque, la matrice emozionale dell’agire 34. Un’implicita
adesione alla concezione valutativa è alla base del modello di responsabilità
che fa leva sul principio di colpevolezza 35 e sulla rieducazione36: è l’idea di
emozione come giudizio di valore piuttosto che come moto irriflessivo a porsi
come criterio per la valu- tazione della responsabilità penale e anche come
chiave di lettura criminologica delle condotte 37. La concezione meccanicistica
non riesce a dar conto dell’intreccio fra stati soggettivi e percezioni di
valore, e configura una sensibilità meramente epidermica senza coloriture di
senso, la quale non appare funzionale a tematizzare la problematica
dell’attendibilità del giudi- zio sulla situazione che abbia cagionato
un’emozione negativa 38. 33 Rileva Martha Nussbaum che il diritto definisce
l’adeguatezza di una rea- zione emotiva adottando una prospettiva basata
sull’immagine di ‘uomo ragione- vole’, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il
disgusto, la vergogna, la legge, tr. it., Bari, 2007, p. 30. 34 KAHAN-NUSSBAUM,
Two Conceptions of Emotion, cit., p. 352. 35 La concezione normativa della
colpevolezza come ‘atteggiamento antidove- roso’ sottende la possibilità di un
giudizio concernente ciò che è stato fatto in rapporto a ciò che si sarebbe
dovuto fare. Le diverse articolazioni di questo giudi- zio, soprattutto il
nesso psichico (dolo e colpa) e la verifica dell’imputabilità, non
funzionerebbero se si attribuisse all’agente un’emotività priva di contenuti
cogni- tivi apprezzabili sotto il profilo della normatività, ossia
‘giudicabili’ in base a cri- teri di ragionevolezza e adeguatezza alle
situazioni; per una sintesi, v., ex pluri- mis, BARTOLI R., Colpevolezza, cit.,
pp. 47 ss., 70 ss. 36 L’approccio valutativo apre alla possibilità che le
emozioni di un soggetto si prestino anche a percorsi (ri)educativi, v.
KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., pp. 273 ss., 351 ss. 37 Per
un’analisi criminologica dei rapporti tra emozioni, riflessività ed agire
violento v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali,
Milano, 2009, pp. 326 ss. 38 È emblematico lo studio di FEINBERG, Sentiment and
Sentimentality, cit., pp. 19 ss., avente ad oggetto problemi del tutto
collimanti con la tutela di sentimenti del codice penale italiano, nel quale
l’Autore dichiara espressamente che la nozione di ‘sentimento’ da lui adoperata
si caratterizza per il fatto di avere un oggetto cogniti- vo, di essere
‘riguardo a qualcosa’: «there is an irreducible “aboutness” to it».
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 49 Anche con
riferimento al problema della tutela di sentimenti (e/o di emozioni), assumere
come presupposto la concezione meccanici- stica non avrebbe semplicemente senso,
poiché non consentirebbe di focalizzare l’attenzione sulla cause emotigene e
sugli oggetti inten- zionali, e non sarebbe pertanto funzionale allo sviluppo
di un discor- so sui criteri di rilevanza normativa (di adeguatezza e di
meritevolez- za) di un determinato atteggiamento del sentire. 2.3. La
dimensione sociale delle emozioni Analizzata l’emozione come giudizio di
valore, è importante prenderne in considerazione la dimensione sociale: una
prospettiva incentrata non sul versante solipsistico bensì sul piano interperso-
nale e collettivo, e dunque sul ruolo cognitivo e comunicativo delle emozioni
39, considerate come oggetto di costruzione sociale il quale è in grado di
influenzare, a sua volta, l’esperienza delle situazioni sociali 40. La
principale disciplina che si occupa di questi temi è la sociolo- gia delle
emozioni, la cui nascita viene convenzionalmente collocata a metà degli anni
Settanta 41. Ciò non significa che i sociologi avesse- ro ignorato le emozioni,
ma fino ad allora gli studi ad esse specifica- mente dedicati risultavano di
pertinenza di altre discipline. Il muta- mento di paradigma coincide con una
diversa considerazione del fe- nomeno emotivo, visto non più come espressione
irrazionale e di- storsiva dell’organizzazione sociale, ma come fattore
indispensabile per la comprensione dei fatti sociali. L’attore sociale si
sveste dell’aura di pura razionalità per divenire anche attore emozionale, il
quale non è in contrapposizione con l’attore razionale «ma ne è invece un’altra
faccia, una sua parte costi- tutiva e ineliminabile e non va inteso come un
soggetto spontaneo, 39 Per una panoramica di sintesi e per richiami
bibliografici su approccio in- tra-personale e inter-personale, v.
VELOTTI-ZAVATTINI-GAROFALO, Lo studio della regolazione delle emozioni:
prospettive future, in Giornale italiano di psicologia, 2/2013, pp. 249 ss.;
PULCINI, Per una sociologia delle emozioni, in Rassegna italiana di sociologia,
4/1997, p. 642. 40 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44;
WENTWORTH-RYAN, L’equilibrio fra corpo, mente e cultura: il posto dell’emozione
nella vita sociale, in AA.VV., La sociologia delle emozioni, cit., pp. 208 ss.
41 CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni nella riflessione sociologica, in
AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, cit.,
p. 19. 50 Tra sentimenti ed eguale rispetto libero da vincoli e
costrizioni»42. Da un lato le emozioni vengono considerate come un importante
elemento per la comprensione del- l’agire sociale 43, e simmetricamente l’ambiente
sociale si pone a sua volta come chiave di lettura di atteggiamenti emozionali
dei singoli, in un rapporto di influenza reciproca 44. Questa prospettiva
rappresenta un importante contributo non solo allo studio delle emozioni45, ma
anche in relazione all’approfondi- mento dei temi di Law and Emotion, poiché
gli approcci focalizzati sulla dimensione individuale rischiano di essere
limitanti, in ragione del fatto che esistono emozioni la cui genesi e le cui
dinamiche sono meglio definibili attraverso il riferimento all’ambiente sociale
46. Uno sguardo alla dimensione sociale e culturale dei fenomeni emotivi può
favorire un più esaustivo approfondimento delle intera- zioni fra emozioni e
diritto, aprendo la strada a molteplici traiettorie di ricerca, come sottolinea
la dottrina statunitense 47. Basta uno sguar- do ad alcuni dei capisaldi
teorici che la sociologa Gabriella Turnaturi inquadra come linee conduttrici
dell’analisi sociologica delle emo- zioni48 per individuare questioni che
possono intrecciarsi virtuosa- mente con la riflessione giuridica. Qualche
cursorio esempio: ci sem- 42 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle
emozioni, cit., p. 14. 43 DOYLE MCCARTHY, Le emozioni sono oggetti sociali.
Saggio sulla sociologia delle emozioni, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La
sociologia delle emozioni, cit., pp. 77 ss. 44 «Il termine sociale, molto
semplicemente, vuole qui richiamare l’idea che la parola “emozioni” possa/debba
evocare eventi e processi che hanno luogo entro contesti interattivi e
comunicativi, piuttosto che eventi e processi che hanno luo- go entro i confini
del singolo organismo e/o della singola psiche», v. MANGHI, Le emozioni come
processi sociali, cit., p. 40. 45 La sociologa Arlie Hochschild identifica
quale ostacolo a un serio studio sul- la natura delle emozioni la tendenza a
considerarle esclusivamente come un fe- nomeno affettivo individuale, v.
BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 172. Osserva KEMPNER, Social
Models in the Explanation of Emotions, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit.,
p. 45 che lo sviluppo di una larga parte di ciò che chiamiamo ‘personalità’ è
un prodotto sociale. 46 Pensiamo ad esempio alla vergogna, e al radicamento che
essa può raggiun- gere fino a connotare la fisionomia di una società; si parla
di questo senso di ‘cul- ture della vergogna’ in alternativa alle cosiddette
‘culture della colpa’. Su tale di- stinzione, originariamente elaborata
dall’antropologa statunitense Ruth Benedict, v., sintenticamente, CATTARINUSSI,
Sentimenti ed emozioni, cit., p. 28. Per un’ana- lisi della dimensione
pre-sociale della vergogna, v. NUSSBAUM, Nascondere l’uma- nità, cit., pp. 212
ss. 47 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 171 ss. 48 TURNATURI,
Introduzione, in La sociologia delle emozioni, cit., p. 17.
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 51 bra di
particolare interesse l’osservazione secondo cui ogni società ha delle regole
implicite concernenti le situazioni attivanti e le modalità espressive delle
emozioni: le cosiddette feeling rules 49. Ebbene, il te- ma potrebbe assumere
rilevanza anche in relazione al problema del sentimento quale oggetto di
tutela: le regole, più o meno implicite, che definiscono quali emozioni siano
giustificate, accettabili, dovero- se o immotivate rappresentano una coordinata
importante, forse l’elemento più significativo, per la definizione di quello
che il diritto penale ha spesso evocato sotto le forme del ‘sentire comune’ 50.
Po- tremmo in questo senso parlare di feeling rules come elemento del contesto
sociale che contribuisce a imprimere una fisionomia a ciò che i legislatori
hanno definito ‘sentimenti’. Ma sono diversi, e non analizzabili in questa
sede, gli ulteriori profili in rapporto ai quali l’analisi sociologica
dell’emozione può fornire importanti chiavi di lettura di problemi afferenti al
diritto pe- nale 51. Si tratta quindi di non limitare l’angolo visuale alla
dimensio- ne soggettiva del fenomeno emotivo, soprattutto in relazione a temi
in cui risulta fondamentale la riflessione sugli equilibri politico-
deliberativi e sulla ‘normatività’ delle emozioni. 3. Sentimenti: componente di
riflessività e dimensione morale Veniamo ora a esaminare il sentimento, e
prendiamo le mosse dalla dimensione neurobiologica. Sono d’aiuto ancora una
volta gli spunti di Antonio Damasio, il quale nel suo primo studio intitolato
‘L’errore di Cartesio’ ha definito l’emozione come processo valutativo mentale
che induce cambiamenti a livello corporeo, e ha successiva- mente distinto i
sentimenti in due categorie: ‘sentimenti delle emo- zioni’ e ‘sentimenti di
fondo’. I primi, strettamente legati alle emozio- ni, sono costituiti
dall’esperienza che il soggetto prova a seguito dei 49 Sulla genesi del
concetto, v. HOCHSCHILD, Emotion Work, Feeling Rules, and Social Structure, in
85 American Journal of Sociology, 1979, pp. 551 ss. 50 In questo senso si
potrebbero teorizzare connessioni anche con il tema pe- nalistico delle c.d.
Kulturnormen; v., per tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I,
Profili introduttivi e politico criminali, Padova, 1988, pp. 673 ss. 51 Si veda
ad esempio NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., p. 66, quando
afferma che «“strutturare” le emozioni, a partire dal tipo di situazione
sociale in grado di generarle, può aiutare, nell’analisi delle norme penali, ad
indi- viduare una soglia di rischio illecito all’interno della condotta
tipica». 52 Tra sentimenti ed eguale rispetto cambiamenti indotti
dalle emozioni: «l’essenza del sentire un’emo- zione è l’esperienza di tali
cambiamenti in giustapposizione alle im- magini mentali che hanno dato avvio al
ciclo» 52; mentre i ‘sentimenti di fondo’ appaiono come stati duraturi,
radicati nel soggetto e non legati a emozioni contingenti 53. La distinzione
viene affinata in uno studio successivo, ove si os- serva che nel sentimento vi
è qualcosa di più che la percezione di un oggetto intenzionale; secondo Damasio
ad essere oggetto di perce- zione è lo stato edonico che si manifesta a seguito
del contatto con un determinato stimolo emotigeno: «un sentimento [è] la
percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una
particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti»
54. Le emozioni sono movimenti in larga misura pubblici, ossia percepi- bili e
visibili; i sentimenti appaiono invece come moti di pensiero di tipo
riflessivo, «invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo pro- prietario
[...] Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i senti- menti in quello
della mente» 55. Al di là delle osservazioni sul piano neuroscientifico, ciò
che in questa sede è bene sottolineare sono le implicazioni su un piano più
propriamente antropologico-filosofico56, e in particolare sul ruolo che i
sentimenti assumono nelle dinamiche comportamentali. L’ipo- tesi di Damasio è
che il sentimento rappresenti una guida nei proces- si decisionali57, e risulta
particolarmente interessante l’osservazione secondo cui tale fenomeno affettivo
assume una funzione riflessiva in grado di fornire coordinate e criteri di
demarcazione fra piacere e do- lore più complessi e stratificati rispetto a
quelli che la mappe neurali trasmettono sulla base delle sole funzioni vitali a
livello biologico: «I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che
richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti
che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno
anche un sé autobiografico – il senso di un passato personale e di un 52
DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., p. 210. 53 DAMASIO, L’errore di Cartesio,
cit., p. 219. 54 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 108, 115 ss. 55
DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 40. 56 Per la verità tutt’altro che
trascurate dallo stesso Damasio, il quale inquadra la propria opera come ideale
prosecuzione del pensiero di Baruch Spinoza, v. DAMASIO, Alla ricerca di
Spinoza, cit., pp. 315 ss. 57 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p.
215. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 53 futuro
anticipato, senso noto anche come coscienza estesa – lo stato del sentimento
induce il cervello a porre in posizione saliente gli og- getti e le situazioni
legate all’emozione. Se necessario, il processo di stima che porta
dall’isolamento dell’oggetto al sorgere dell’emozione può essere rivisitato e
analizzato. Poiché hanno luogo in uno scenario autobiografico, i sentimenti
generano un interesse per l’individuo che li sperimenta. Il passato, il
presente e il futuro anticipato ricevono la giusta attenzione e hanno maggiori
possibilità di influenzare il ragio- namento e il processo decisionale» 58. La
teorizzazione di Damasio descrive sentimenti ed emozioni co- me parti
complementari di un processo, non come fenomeni dicoto- mizzati: richiamare
l’emozione significa additare l’esteriorità e la di- namicità di uno stimolo,
le contingenze dovute al contatto con un certo tipo di fattori emotigeni;
richiamare il sentimento significa en- trare ‘in interiore homine’,
confrontarsi con l’elaborazione che analiz- za lo stimolo emotivo e ne valuta
il peso nella soggettività dell’indi- viduo: «un sentimento [è] la percezione
di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità
di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 59. Il sentimento
appare in definitiva come esito di una mediazione riflessiva che può avvenire
non in tutti gli organismi, ma solo in quel- li che posseggono la capacità di
rappresentarsi il proprio corpo all’in- terno di sé stesso 60. 3.1. Il pensiero
filosofico e i sentimenti morali. Un’interpreta- zione fenomenologica Quanto
osservato in ambito neuroscientifico sembra accreditare la portata del tutto
peculiare che il sentimento assume nella dimen- sione affettiva dell’individuo
come momento di incontro tra perce- zione e riflessione, ossia come «medio
necessario tra il sentire sensi- tivo e l’intelligenza concettuale» 61.
Passando ora a un approccio incentrato più sulla dimensione teo-
retico-concettuale che sulla distinzione fenomenica, va specificato 58 DAMASIO,
Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 216. 59 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza,
cit., p. 108. 60 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 133 ss. 61
MASULLO, voce Sentimento, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Milano, 2010, p.
10500. 54 Tra sentimenti ed eguale rispetto che l’inquadramento di
una specifica nozione di sentimento non fi- gura nei classici della filosofia,
da Aristotele, a Cartesio e fino a Hu- me 62, ma comincia a delinearsi a
partire dal XVIII secolo. Sottolinea Aldo Masullo che un simile affinamento è
legato anche a sviluppi del- la teoria politica: «L’assunzione da parte del
sentimento di una sua specificazione forte è promosso dalla diffusa tensione
della cultura illuministica che, per la nuova esigenza storica di fondare
un’etica cosmopolitica, è assillata dal bisogno di scoprire un principio
coesivo razionalmente argomen- tabile e nient’affatto razionalmente
relativistico, generalmente ricono- scibile ma non dommaticamente irrigidibile»
63. Sono soprattutto alcuni studi dei cosiddetti filosofi moralisti in- glesi a
definire il sentimento ‘forma sintetica dell’universale’ e fon- damento
dell’umana convivenza, ossia principio coesivo nei rapporti umani, come recita
l’opera di Adam Smith sui sentimenti morali 64. Si tratta di un indirizzo
filosofico che ha come esponente di spicco Da- vid Hume, e che affonda le
proprie radici nel sentimentalismo inglese di Shaftesbury e Hutcheson 65. Idea
portante è la riconducibilità della moralità dell’agire a una matrice affettiva
(per Hume, il cosiddetto principio della simpatia) 66. 62 CURI, Passione, cit.,
p. 9. 63 MASULLO, voce Sentimento, cit., p. 10501 ss. 64 SMITH, Teoria dei
sentimenti morali, tr. it., Milano, 1995; per una riflessione sulle interazioni
fra le teorie smithiane, in particolare il concetto di ‘simpatia’, e il diritto
penale, v. CADOPPI, Simpatia, antipatia e diritto penale, in AA.VV., a cura di
Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, cit., pp. 241 ss. 65 MORRA-BONAN,
voce Sentimentalismo, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, vol. XVI, Milano,
2010, pp. 10497 ss. 66 Per una sintesi v. LECALDANO, Prima lezione di filosofia
morale, Roma-Bari, 2010, p. 27. L’Autore osserva che «non bisogna confondere il
piano della rico- struzione genealogica o genetica della nostra capacità di
trarre distinzioni mo- rali, con la riflessione su quali siano i giudizi morali
corretti». L’opzione per una teoria sentimentalistica ha una valenza in primo
luogo metaetica; a livello di etica sostantiva si apre infatti il problema di
«[affiancare] una concezione normativa sul contenuto da privilegiare come
moralmente rilevante», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 17; 79. Da ciò, la
critica a concezioni che, sulla base degli studi di neuroscienze, si sono mosse
nella direzione di offrire una ricostruzione in termini ‘realistico-emozionali’
del sentimentalismo morale: «queste ricerche [...] suscitano dubbi laddove
accampano la pretesa di aver identificato una base fisiologica o biologica a
cui l’etica può essere ridotta nella sua interezza [...] Il sentimento morale
non va caratterizzato sostantivamente, anche per non con-
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 55 Venendo a
sviluppi più recenti, relativamente ai rapporti tra senti- re e dimensione
morale appare a nostro avviso particolarmente inte- ressante per il giurista uno
studio di matrice fenomenologica67 di Roberta De Monticelli, nel quale il tema
del sentire diviene oggetto di un problema etico in relazione sia alla
formazione del singolo indivi- duo (l’etica del sentire intesa come qualità
etica – maggiore o minore ‘correttezza’ – delle disposizioni del sentire di un
soggetto) sia ad aspetti relazionali (la ricerca del giusto spazio – e dunque
di limiti eticamente tollerabili – alla ‘fioritura’ dell’individuo, intesa come
rea- lizzazione della sua personalità, resa unica e peculiare dalle disposi-
zioni del sentire). Secondo tale studio, l’esperienza affettiva è riconducibile
a due di- mensioni essenziali: il sentire e il tendere. Il sentire implica un
recepi- re, il tendere è invece un vettore d’azione: «se diciamo che una
persona è sensibile non intendiamo affatto dire che è eccitabile, e neppure che
manca di obiettività, al contrario intendiamo dire che è più di altri ca- pace
di discriminazione, e quindi di verità nell’esercizio del sentire» 68. Negli
individui non è infatti riscontrabile il medesimo livello di matu- razione
affettiva: «una sensibilità si attiva per strati o segmenti – e in- tendiamo
dire con questo che uno sentirà [...] più o meno realtà a se- conda che più o
meno “strati” della sua sensibilità siano attivati» 69. Ta- le soglia può
variare ed essere incrementata positivamente durante l’esistenza; nondimeno, la
diversità insita nelle molteplici varianti di sviluppo del sentire fonda le
diversità di ordini assiologici dei singoli, quella che è in definitiva la loro
identità morale 70. fonderlo con qualche emozione immediata: è invece proprio
del sentimento morale il punto di vista riflessivo su tutte le passioni che si
presentano senza qualificazione valutativa nella mente di una persona», v. ID.,
Prima lezione, cit., pp. 42 s. Per una differente impostazione, non
propriamente ‘riduzionista’ ma comunque orientata a ricercare dei fondamenti
naturalistici della morale v., ex plurimis, CHANGEUX, Il bello, il buono, il
vero. Un nuovo approccio neuronale, tr. it., Milano, 2013, pp. 75 ss., 101 ss.
67 La fenomenologia del sentire e l’approccio fenomenologico ai sentimenti sono
debitori dell’opera di SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale
dei valori, tr. it., a cura di Guccinelli, Milano, 2013, il quale inquadra il
sentimento come fattore costitutivo nell’ontologia della persona e come
interfaccia tra sogget- tività e valori. Per una sintesi dei tratti
caratterizzanti la fenomenologia come corrente filosofica v. GALLAGHER-ZAHAVI,
La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it.,
Milano, 2009, pp. 9 ss. 68 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 26. 69
DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 79. 70 «L’ethos di una persona è la
sua identità morale, ma questa identità morale 56 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Così definito il fenomeno del sentire e delle sue
manifestazioni, si pone il problema di inquadrare specificamente il sentimento:
è uno stato momentaneo? un evento? un atto? Roberta De Monticelli af- ferma che
esso è: «una disposizione reale – e non semplicemente virtuale – del sentire
[...] È una disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno
profondo all’essere di ciò che la suscita, un più o meno profon- do dissentire
da questo, e un atteggiamento caratteristico nei confron- ti di questo essere,
capace di motivare altri sentimenti, emozioni, pas- sioni, scelte, decisioni,
azioni, comportamenti» 71. Il sentimento è ciò che forma le risposte
all’esperienza dei valori: in questo senso viene definito ‘matrice di
risposte’. Le emozioni sono maggiormente legate all’attualità contingente,
poiché costituiscono un’alterazione reattiva e presuppongono l’attivazione di
uno strato minimo di sensibilità, anche di livello puramente sensoriale 72. I
sen- timenti hanno un ruolo fondante nell’approccio dei singoli alla realtà,
agli eventi, e, soprattutto, al rapporto con i propri simili: «[i] senti- menti
costituiscono lo strato del sentire propriamente diretto sulla realtà
personale. Se il sentire, in generale, è percezione di valore, i sentimenti
sono, o perlomeno implicano, disposizioni a sentire gli al- tri sotto l’aspetto
dei valori che la loro esistenza realizza o delle esi- genze che essa pone» 73.
[...] si manifesta primariamente nella vita affettiva che queste scelte e
comporta- menti motiva, e nella quale si esprime infine il modo di sentire che
le è irrepeti- bilmente, inconfondibilmente proprio. Il modo di sentire è
segnato da una storia individuale, “ancorato” agli incontri di una vita: è,
come vedremo, il profilo stesso dell’individualità essenziale»: v. DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 81. 71 DE MONTICELLI, L’ordine del
cuore, cit., pp. 113, 121. 72 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 124
ss. In presenza di una sensi- bilità strutturata la quantità di reazioni
affettive è maggiore, ed è anche possibile che da emozioni scaturiscano
risposte strutturanti, ossia che le emozioni stesse inducano alla formazione di
nuovi sentimenti. Diverso discorso per le passioni, le quali costituiscono una
manifestazione del volere e del tendere, e presuppongono la strutturazione di
sentimenti, v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 130 ss. La
tradizionale contrapposizione delle passioni alla ragione non è intrinseca alle
passioni stesse, ma risale a un livello precedente, ossia al sentimento di cui
quelle passioni sono manifestazione: «“irrazionali” sono dunque le passioni
nella misura in cui sono “disordini del cuore”, ovvero ordinamenti assiologici
perversi o inadeguati – per quanto difficile sia stabilire in positivo lo
standard rispetto a cui definire la deviazione»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del
cuore, cit., p. 131. 73 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p.
111. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 57 4.
Emozioni e sentimenti: il senso della distinzione concettuale In questa sede
non è nostro obiettivo individuare un’esaustiva on- tologia dei fenomeni, bensì
intendiamo verificare se vi siano diffe- renze che possano assumere una
rilevanza concettuale nella prospet- tiva giuridica. Sentimenti ed emozioni
hanno la funzione di classificare, in base al binomio piacere-dolore, le
esperienze del sentire individuale. Un punto di contatto utile al fine di
ricercare coerenza nella complessità delle de- finizioni, è il fatto che
entrambi i fenomeni – naturalisticamente distin- guibili in base a criteri
basati sull’intensità e la durata – da un punto di vista adattivo-funzionale
rappresentano ‘proiezioni del sé’, ossia marca- tori dell’originalità che rende
unico ogni individuo: «le emozioni guar- dano al mondo dal punto di vista del
soggetto, e [...] ordinano gli eventi in base alla cognizione della loro
importanza o valore per il soggetto» 74. Relativamente alle differenze, una
prima, fondamentale, distinzione tra sentimento ed emozione è relativa ad
aspetti di tipo ‘fisico-quan- titativo’, legati alla durata e all’intensità
dell’esperienza affettiva: più bre- ve e accentuata nell’emozione, più
duratura, ma meno intensa, nel sen- timento75. Secondo una definizione offerta da
uno studio di psicologia: «[s]entimento e umore si riferiscono a stati
affettivi di bassa intensità, durevoli e pervasivi, senza una causa
direttamente percepibile e con la capacità di influenzare eventi inizialmente
neutri»76. Il sentimento, co- me stato affettivo ‘radicato’, non si esaurisce
in stimoli momentanei. Un tratto caratterizzante l’emozione è la componente
reattiva: «il termine emozione dovrebbe indicare, in accordo anche con il senso
comune, stati affettivi intensi di breve durata, con una causa precisa, esterna
o interna, un chiaro contenuto cognitivo e la funzione di rio- rientare
l’attenzione» 77. Uno stato affettivo di durata limitata, diverso dunque da
stati duraturi 78. 74 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 53. Si
veda anche OATLEY, Psicologia ed emozioni, cit., pp. 77 ss., il quale parla di
‘condizioni di elicitazione’ per indicare che le emozioni insorgono sulla base
della valutazione soggettiva di un evento da parte dell’agente in relazione
alla sua condizione e ai suoi scopi. 75 Cfr. OATLEY, Breve storia delle
emozioni, tr. it., Bologna, 2015, p. 20. 76 D’URSO-TRENTIN, Introduzione alla
psicologia delle emozioni, Roma-Bari, 1999 p. 9; cfr. CATTARINUSSI, Sentimenti
ed emozioni, cit., p. 15. 77 PIETRINI, Dalle emozioni ai sentimenti: come il
cervello anima la nostra vita, in AA.VV., a cura di Colombo-Lanzavecchia, La
società infobiologica, Milano, 2003, pp. 322 ss. 78 Per un esempio di
tassonomia degli stati affettivi e per una conseguente ap- 58 Tra
sentimenti ed eguale rispetto Passando a un piano di lettura differente, non
limitato alla ‘di- mensionalità’ (intensità, durata), richiamiamo quanto
osservato in ambito neuroscientifico da Damasio, secondo il quale il sentimento
costituisce il momento della rappresentazione cosciente dell’emo- zione: la
percezione che il soggetto ha di sé stesso. Viene evidenziata in questo modo
una dimensione riflessivo-speculativa che trova ri- scontro anche nell’analisi
di un altro neuroscienziato, Joseph Le Doux, il quale osserva le emozioni sono
funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di
sopravvivere in un am- biente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono
un prodotto del- la coscienza, «stati di consapevolezza legati all’esperienza
interna dell’emozione»79. Emerge qui una differenziazione che attiene a un
piano funzionale, e che vede il sentimento come fenomeno che ha più a che fare
con la sfera cognitivo-riflessiva del soggetto 80. E veniamo infine a un terzo
criterio distintivo, quello forse più importante ai fini della presente
indagine. L’analisi fenomenologica di Roberta De Monticelli ha richiamato il
carattere disposizionale del sentimento, l’essere una matrice che può generare
e formare ulteriori stati affettivi. Introduciamo dunque l’importante distinzione
tra fe- nomeni affettivi ‘in atto’ e ‘disposizioni’ del sentire: «un’emozione
in atto è un episodio nel quale proviamo effettivamente collera, paura, gioia o
altro. Una disposizione emotiva è la suscettibilità a provare emozioni in atto»
81. Cosa significa ‘disposizionale’? Il concetto è stato approfondito in
particolare da Gilbert Ryle, secondo il quale le espressioni disposi- zionali
contengono l’affermazione che un uomo o un animale o una plicazione a un tema
penalistico-criminologico, v. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, Milano,
2008, p. 71. 79 LE DOUX, Feelings: What Are They & How does the Brain Make
Them?, in 144 Daedalus, 2015, p. 97. 80 Si osserva che «[l]e concezioni
speculative del sentimento, da Platone a Vi- co, sottolineandone l’ambiguità di
regione “intermedia” tra il senso e l’intelletto, cioè il suo partecipare
marginale tanto all’uno quanto all’altro, tematizzano il sen- timento come una
delle categorie o generi sommi della vita umana. Questa infatti è tale – umana
–, solo in quanto è “soggettività”, il modo di essere che consiste nel-
l’avvertire stimoli dal mondo esterno (senso) e ordinare gli avvertimenti in
rap- presentazioni generali e ben connesse (intelletto), avendo come necessaria
condi- zione il riferimento dei primi e delle seconde a un chiaramente o
oscuramente avvertito “sé”, ossia comportando un sentimento fondamentale», v.
MASULLO, vo- ce Sentimento, cit., p. 10500. 81 ELSTER, Sensazioni forti, tr.
it., Bologna, 2001, p. 32, il quale cita, quali esempi di disposizioni emotive,
la misoginia e l’antisemitismo. Sentimenti ed emozioni:
classificazioni e disambiguazioni 59 cosa ha una certa capacità o una certa
inclinazione, o è esposto ad una determinata tendenza 82. Le definizione
‘disposizionale’ può rap- presentare in questo senso un’antitesi rispetto a
‘episodico’, poiché «possedere una proprietà disposizionale non vuol dire
trovarsi in un certo stato particolare o essere soggetto a un certo
cangiamento» 83. Più in generale la distinzione fra stati ‘episodici’ e
‘disposizionali’ descrive una diversità funzionale nella complessiva esperienza
affet- tiva della persona, e si presta a evidenziare il rapporto fra mera reat-
tività soggettiva contingente e carattere fondativo e ‘personologico’ (vedi
infra, cap. IV) degli stati affettivi, i quali appaiono in questo senso come
strutture di base della soggettività. È questa a nostro avviso un’importante
chiave di lettura per la presente indagine: ciò che appare decisivo nel
problema della tutela di sentimenti non è capire se si debba far riferimento a
emozioni in senso stretto o ad altri fenomeni affettivi, ma è invece importante
de- cidere se il fulcro dei problemi debba riguardare la reattività emozio-
nale, oppure se si debba assumere quale vettore di senso l’affettività come
base di stati disposizionali non episodici, ossia come strutture portanti della
identità morale degli individui. Un richiamo alla sfera affettiva intesa come
‘struttura disposizionale’ orienta l’attenzione sul sentire quale marcatore
della personalità, e pone in questo modo sen- timenti ed emozioni al centro di
questioni concernenti la diversità di preferenze e di ordini assiologici fra
individui. Tale ultima opzione è quella a nostro avviso più funzionale a in-
staurare connessioni con le accezioni del termine ‘sentimento’ che emergono nel
discorso penalistico: l’uso dei legislatori e della dot- trina. Nel prosieguo
dell’indagine approfondiremo entrambi gli aspetti. 5. Sinossi Il panorama di
fenomeni che costituiscono il tessuto affettivo de- gli individui è oggetto di
definizioni dall’uso non univoco e talvolta polisenso. Il rimando a saperi lato
sensu psicologici, pur assumendo 82 RYLE, Il concetto di mente, tr. it.,
Roma-Bari, 2007, pp. 121 ss. 83 RYLE, Lo spirito come comportamento, tr. it.,
Roma-Bari, 1982, p. 34; cfr. ID., Il concetto di mente, cit., p. 27: «Le
tendenze sono cosa diversa dalle capacità e dalle suscettibilità».
60 Tra sentimenti ed eguale rispetto una notevole complessità, sembra
nondimeno costituire per il giuri- sta penale un indispensabile tassello. Lo
studio di contributi prodotti in ambito neuroscientifico, psico- logico e
filosofico evidenzia come, al di là di possibili aree di contat- to, sentimenti
ed emozioni non siano fenomeni del tutto accomuna- bili. Vi è una connessione
di fondo relativa al fatto che entrambi, pur in modo differente, sono
funzionali a classificare in base al binomio piacere-dolore le esperienze e le
inclinazioni del sentire individuale, e contribuiscono così a definire
l’identità e la peculiare originalità di ogni individuo. Da un altro lato,
emergono differenze relative sia al- l’intensità, sia alla consistenza e alla
durata. La distinzione che sembra maggiormente funzionale alla riflessio- ne
sul problema del sentimento come oggetto di tutela concerne la nozione di stati
episodici e disposizionali: con la prima accezione si definiscono fenomeni che
si esauriscono in una contingente reattività psichica, con la seconda si
indicano stati duraturi a loro volta matrici di ulteriori reazioni, i quali si
intrecciano con le trame costitutive del- la personalità. Alla luce di tale
ultimo distinguo cercheremo di trovare connes- sioni con le categorizzazioni
che emergono dal diritto positivo e dal discorso dottrinale. CAPITOLO III
DIMENSIONE CODICISTICA E FUNZIONE DISCORSIVA DELLA FORMULA ‘TUTELA PENALE DI
SENTIMENTI’ SOMMARIO: 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della
formula. – 2. Le tipolo- gie di interessi dietro le norme codicistiche:
‘sentimenti-valori’ e disagio psi- chico. – 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’.
– 2.1.1. Il sentimento religioso. – 2.1.2. Il pudore. – 2.1.3. La pietà dei
defunti. – 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio
fra le classi sociali. – 2.1.5. Il sentimento per gli animali. – 2.1.6. Il
comune sentimento della morale. – 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico:
sentimenti o emozioni? – 2.3. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà
di autodeterminazione. – 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione
simbolica negativa nel discorso penalistico. – 3.1. Una virtuosa prospettiva di
interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali. – 4.
Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula Volgiamo
ora lo sguardo alla dimensione giuridica e cerchiamo di inquadrare le
rispondenze della formula ‘tutela di sentimenti’. Sono a nostro avviso
distinguibili due accezioni: la prima, di tipo descrittivo-classificatoria, è
strettamente legata al diritto positivo, e si presta a sintetizzare le
disposizioni in cui l’interesse protetto viene de- finito nei termini di un
sentimento o di un’emozione: si pensi alle nor- me codicistiche che parlano di
sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti et similia. La seconda
accezione, che definiamo connotativa, è funzionale a tematizzare norme e
problemi di tutela in cui la matrice emozionale non traspare da definizioni
normative, ma emerge nei discorsi della dottrina penalistica in sede di
speculazione teorica o di interpreta- zione, tendenzialmente per richiamare
beni dalla fisionomia protei- forme, suscettibili di ricostruzioni
profondamente differenti in quan- 62 Tra sentimenti ed eguale rispetto to
esposte al condizionamento emotivo: interessi parificati dunque a sentimenti
per via di un’intrinseca inafferrabilità 1. L’accezione connotativa enfatizza
in chiave critica l’associazione tra fenomeni affettivi e oggetti di tutela dai
confini incerti, disancora- ti da una base oggettiva e tendenti a sfociare in
ricostruzioni di ma- trice soggettivistica. Parlare di sentimenti attiva nel
lettore e nell’in- terprete frames psicologici che risentono della nebulosità
epistemica che caratterizza le condizioni di conoscenza dei fenomeni psichici,
contribuendo in questo modo a comunicare una sostanziale diffiden- za: «[le]
parole non sono semplicemente dei mezzi per individuare gli oggetti. Le parole
intervengono nella nostra percezione degli oggetti, e infatti trasmettono
interpretazioni e attribuiscono senso ai loro refe- renti» 2. Associare un
oggetto di tutela penale a un sentimento equivale a sottolinearne il potenziale
di criticità, come coacervo di interessi ‘su- blimati’ che non rispondano a
requisiti di razionalità e coerenza ri- spetto a principi ‘di sistema’ 3.
Menzioniamo, per ora a titolo esempli- ficativo, il richiamo alla dignità
umana, e pensiamo anche alla cosid- detta ‘sicurezza pubblica’ la quale è stata
in tempi recenti associata criticamente a uno stato di tranquillità soggettiva
dei singoli; si può inoltre ascrivere a tale categoria anche il concetto di
onore, ben noto ai penalisti e da sempre oggetto di faticosi sforzi
ermeneutici. Si trat- ta di interessi che non a caso vengono additati come
‘problematici’ dalla dottrina4, i quali evidenziano tutti una forte connessione
con matrici emotive, tale da indurre a definirli anche come ‘sentimenti’. Nel
prosieguo approfondiremo gli ambiti e i problemi connessi sia all’accezione
descrittiva, sia a quella connotativa, a partire da una panoramica sulle
fattispecie dell’ordinamento italiano in cui il senti- 1 Con riferimento alla
dottrina tedesca si veda la ricostruzione di NISCO, La tu- tela penale
dell’integrità psichica, cit., p. 84, il quale sottolinea come anche in
Germania l’espressione ‘Gefühlschutzdelikte’ sia intesa in chiave
essenzialmente critica. 2 SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze
sociali, Bologna, 2011, p. 102. 3 Sulla specifica accezione del diritto penale
come ‘sistema’ – definizione che attiene al piano del dover essere piuttosto
che alla descrizione della realtà del- l’ordinamento – e sulle distinzioni tra
principi di rilevanza normativa che entrano in gioco nel diritto penale, v. per
tutti FIANDACA, Diritto penale, in FIANDACA-DI CHIARA, Un’introduzione al
sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, pp.
3 ss. 4 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 71 ss. Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 63 mento figura testualmente
come coordinata descrittiva dell’interesse protetto 5. 2. Le tipologie di
interessi dietro le norme codicistiche: ‘senti- menti-valori’ e disagio
psichico Nel codice penale il sentimento viene espressamente evocato dalle
norme poste a tutela del sentimento religioso, del pudore, della pietà dei
defunti, del sentimento nazionale; nella legislazione complemen- tare viene
menzionato come oggetto di tutela il ‘comune sentimento della morale’ 6. Oltre
a tali ipotesi, riteniamo, in accordo con autorevole dottrina, che la
problematica del sentimento come oggetto di tutela investa, pur con i dovuti
distinguo, anche una norma di più recente introdu- zione, ossia l’art. 612 bis
c.p., la quale incrimina il delitto di atti per- secutori. Si tratta di una
fattispecie la cui tipicità appare fortemente improntata in senso emotivistico:
‘perdurante e grave stato d’ansia e di paura’, ‘fondato timore’ sono eventi di
tipo psichico, e precisamen- te sono assimilabili a emozioni negative. Anche il
delitto di atti per- secutori appare orientato a tutelare un sentire, o, più
propriamente, 5 Non analizzeremo in questa sede ulteriori fattispecie codicistiche
il cui so- strato di offensività sembra rimandare a un retroterra di tipo
emozionale. Al di là dell’onore, che è unanimemente riconosciuto come interesse
della persona caratterizzato da un’evidente componente ‘di sentimento’ che la
dottrina si è impegnata a razionalizzare mediante il richiamo, comunque
problematico, alla ‘dignità sociale’, v. MUSCO, Bene giuridico e tutela
dell’onore, Milano, 1974, pp. 147 ss., vi sono altre norme la cui afferenza al
tema in esame appare meno uni- voca. Una recente ricostruzione include ad
esempio il vilipendio alla bandiera (come forma di offesa al sentimento
nazionale), la corruzione impropria susse- guente (offesa al sentimento di
onestà che dovrebbe guidare i pubblici ufficiali), l’ingiuria semplice,
l’incesto (offesa al sentimento della morale familiare), la pedopornografia
(sentimenti moralistici inerenti la sessualità) e infine il nega- zionismo: si
tratta di un panorama variegato ed eterogeneo, il quale meritereb- be una
dettagliata analisi volta a verificare in che termini dietro i casi menzio-
nati si possa davvero parlare di sentimenti, v. GIUNTA, Verso un rinnovato ro-
manticismo penale?, cit., pp. 1556 ss. 6 Si pongono al di fuori dell’area
concettuale della tutela di sentimenti le pro- blematiche concernenti gli stati
emotivi e passionali e le circostanze attenuanti fondate su emozioni; il
profilo che viene qui in gioco è il ruolo che i fenomeni af- fettivi possono
assumere in relazione alla graduazione della responsabilità pena- le,
attraverso gli istituti dell’imputabilità e delle circostanze del reato (vedi
anche supra, cap. I, nota 30). 64 Tra sentimenti ed eguale rispetto
presidia l’equilibrio emotivo di un soggetto in chiave strumentale ri- spetto
alla libertà di autodeterminazione 7. È plausibile definire tale ultima
fattispecie come una forma di tu- tela di sentimenti8 (fatte salve le criticità
che possono derivare da un’interpretazione meramente emozionale e
soggettivistica degli even- ti), ma è altrettanto evidente che rispetto alle
ipotesi precedentemen- te menzionate in cui il legislatore parla espressamente
di ‘sentimento’ vi sono delle differenze: nel caso della religione, del pudore,
della pie- tà dei defunti et similia, la parola ‘sentimento’ viene associata a
ulte- riori concetti che indicano valori e oggetti significativi per il singolo
e per la collettività, dando vita a un’entità in parte psicologica e in par- te
di consistenza prettamente socio-valoriale. Nel caso dello stalking lo stato
psichico assume una rilevanza autonoma, senza alcuna cor- relazione con
specifici oggetti del sentire, ed è proprio il turbamento emotivo a rivestire
importanza centrale nell’economia della fattispe- cie, precisamente come evento
tipico 9. Si tratta di due diverse declinazioni del sentimento come oggetto di
tutela, le quali necessitano di una trattazione distinta. 2.1. La tutela di
‘sentimenti-valori’ Con riferimento ai delitti contro il sentimento religioso,
contro il pudore e contro la pietà dei defunti, sia l’interpretazione oggi do-
minante in dottrina sia la realtà applicativa depongono per una li- nea
‘depsicologizzante’, secondo la quale il disvalore del fatto non dipende
dall’impatto della condotta tipica sullo stato psichico del soggetto passivo.
Si è osservato che l’ordinamento penale non tutela sentimenti, 7 Sul tema, pur
con diversità di accenti, v. MAUGERI, Lo stalking tra necessità
politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, p. 104; NISCO, La
tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 223 ss.; COCO, La tutela della
libertà indivi- duale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 116
s. 8 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 82 ss. 9 Uno tra gli aspetti più
discussi della fattispecie di atti persecutori concerne l’alternativa fra reato
di danno o di pericolo; per un’interessante prospettiva in- terpretativa
MAUGERI, Lo stalking, cit., pp. 153 ss.; sulla stessa linea di pensiero,
CADOPPI, Efficace la misura dell’ammonimento del questore, in Guida dir.,
19/2009, p. 52. In giurisprudenza tende a prevalere la qualificazione come
reato di danno; v., ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 16/04/2012, n. 14391;
Cass. pen., sez. V, 15/05/2015, n. 20363. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 65 «anche se talora lo stesso codice penale
si esprime in questi termini [...], ma [tutela] la loro obiettivazione in
situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della
percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescindere dalla
prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato» 10. Tale
osservazione è ineccepibile, e trova riscontro nel panorama applicativo: la
prova di un effettivo turbamento psichico soggettivo non è mai venuta
seriamente in considerazione11. Le situazioni de- scritte nelle disposizioni
codicistiche non richiedono la verifica di una concreta ‘elicitazione’ 12 della
sensibilità di singoli individui: l’as- serita attitudine lesiva della
sensibilità costituisce esito di un proces- so interpretativo di elementi di
fatto e di condizioni di contesto esa- minati alla luce di criteri di
adeguatezza e di tollerabilità modulati su parametri di tipo socio-culturale,
in base a un’ipotizzata sensibilità media dei consociati. Come osserva Angelo
Falzea, non è il mero fatto emozionale ad assumere ruolo decisivo, ma è piuttosto
la sua traducibilità in valori e disvalori secondo un punto di vista sociale.
Nel complesso, il senti- mento assume rilevanza sub specie iuris e non sub
specie facti: «Non ogni volta che il diritto pone a base delle sue regole il
sentimen- to si è in presenza di un fatto giuridico affettivo. Vi sono norme
giuri- diche ispirate all’esigenza di tutelare un sentimento condiviso dalla 10
DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p.
1578. 11 Si prendano a riferimento gli ambiti della tutela penale della
religione e del pudore, nei quali si registra un congruo numero di pronunce.
Per una panorami- ca sulla tutela del sentimento religioso in Italia fino agli
anni Ottanta v. SIRACUSA- NO, I delitti in materia di religione. Beni giuridici
e limiti dell’intervento penale, Mi- lano, 1983, pp. 96 ss.; per uno sguardo
sugli sviluppi più recenti v. BASILE, art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale
commentato, diretto da Dolcini-Gatta, vol. II, 4a ed., Milano, 2015, pp. 1461
ss.; PECORELLA, Delitti contro il sentimento religioso, in AA.VV., a cura di
Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la
persona, II ed., Torino, 2014, pp. 382 ss.; per una panoramica della
giurispruden- za in materia di offese al pudore v. PROTETTÌ-SODANO, Offesa al
pudore e all’onore sessuale nella giurisprudenza, Padova, 1972, pp. 3 ss.;
PULITANÒ, Il buon costume, in BIANCHI
D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio- culturali
della giurisprudenza, cit., pp. 172 ss.; FIANDACA, Problematica dell’osceno e
tutela del buon costume, Padova, 1984, pp. 33 ss.; sugli sviluppi più recenti
sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza
sessuale, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte
speciale, vol. I, I reati contro la persona, cit., pp. 300 ss. 12 In psicologia
è d’uso il termine ‘elicitazione’ per indicare l’azione di stimolo volta a
suscitare emozioni e/o a indurre comportamenti. 66 Tra sentimenti
ed eguale rispetto comunità o di reprimere un sentimento che la comunità
disapprova, ma nelle quali la considerazione del fenomeno emozionale resta al
li- vello dell’interesse normativo e non si traduce in elemento della fatti-
specie [...]: il sentimento tende allora a svincolarsi dalla necessità di una
sua specifica manifestazione e a confondersi coi valori etici ogget- tivi» 13.
Ciò che rileva è la ‘personalità affettiva comune’, ossia «l’insieme dei fatti
biologici e psichici che influiscono sul comportamento emo- zionale affettivo e
reattivo della persona» definito «in relazione al pa- trimonio sentimentale e
alla sensibilità che sono propri in linea di principio dell’intero gruppo
sociale» 14. Il sentimento viene in questo modo proiettato in una dimensione
collettiva come modo di sentire diffuso che accomuna più individui (c.d.
‘atmosfera emozionale’). Alla luce di tale fisionomia dell’oggetto di tutela,
il sentire indivi- duale viene filtrato «in funzione e sotto l’angolo visuale
del sistema dei valori di un gruppo diverso e più comprensivo [...] la
valutazione contenuta nel sentimento di certe persone o comunità diventa ogget-
to di un’altra valutazione contenuta nel modo di sentire o comunque nel sistema
dei valori di altre persone o comunità» 15. In definitiva, attraverso le
«regole e [gli] istituti con cui il legislatore predispone una tutela
penalistica a salvaguardia di sentimenti che nel- l’animo e nel costume dei
consociati assumono un alto valore» 16, il di- ritto penale finisce per
tutelare non un stato soggettivo della persona, bensì l’oggetto e il valore
impersonale che fonda quel dato modo di 13 FALZEA, I fatti di sentimento, cit.,
p. 368. 14 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 380. 15 FALZEA, I fatti di
sentimento, cit., p. 332. 16 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 356.
L’Autore inoltre distingue fra ‘reati di sentimento’, ossia quelli in cui il
diritto «punisce il disprezzo [...] verso valori ritenuti fondamentali», ossia
le varie forme di vilipendio alle istituzioni (Repub- blica, nazione, bandiera),
dai casi in cui il sentimento dell’agente è tale da influire sulla gravità
della pena in funzione di circostanza (crudeltà, futilità dei motivi etc.). A
ben vedere, una simile prospettazione potrebbe creare fraintendimenti: nella
definizione del vilipendio quale reato di sentimento (la cui ragion d’essere
trova dunque spiegazione nella mera censura di uno stato interiore considerato
contrario a valori ‘oggettivi’) l’occhio del penalista non può fare a meno di
riscon- trare una sottile caratterizzazione soggettivistica, secondo tecniche
di incrimina- zione tipiche del Gesinnungsstrafrecht. Il suddetto schema non
sembra inoltre funzionale ad una prospettiva di bilanciamento, poiché se l’aver
provato disprez- zo diviene motivo di incriminazione tout court, relegando in
secondo piano i pro- fili di turbamento del sentimento di altri, risulta assai
più difficoltoso procedere sulla strada di un equilibrio tra posizioni.
Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 67 sentire. Il
lessico degli stati affettivi si rivela dunque un orpello retorico volto a
porre sotto protezione penale gli oggetti del sentire, ossia valori e simboli
ritenuti socialmente significativi nella comunità: «nell’apprestare tutela a
determinati sentimenti, il codice non tende a proteggere stati affettivi
duraturi in quanto tali: si tratta, piuttosto, di sentimenti – individuali e/o
collettivi – concepiti altresì come atteg- giamenti intrisi di valore in una
accezione culturale e normativa. Sic- ché si può dire, da questo punto di
vista, che la legge penale mira a proteggere più che sentimenti in sé,
sentimenti-valori, se non valori tout court» 17. Vediamo nel dettaglio quali
sono i valori che, dietro le effigie del sentimento, sono entrati nel catalogo
dei beni tutelati dal diritto pe- nale italiano. 2.1.1. Il sentimento religioso
I delitti in tema di religione sono un elemento sintomatico del tas- so di
secolarizzazione del sistema 18. Nelle legislazioni penali moder- ne, la
religione è stata di rado identificata come bene di esclusiva per- tinenza del
singolo, e più frequentemente come forma di adesione collettiva o come
sentimento istituzionalizzato, ossia entità storica- mente e culturalmente
determinata nella quale sono trasfusi valori e patrimoni propri di una o più confessioni.
Il codice Rocco parla di ‘sentimento religioso’ 19, ma la legislazione del
1930, fedele nelle rubriche e nella sostanza alla sola religione di Stato, si
identificava nel modello di tutela definito come ‘bene di ci- viltà’ 20: era la
religione cattolica, affiancata dalla timida presenza dei culti ammessi, e non
un qualsiasi sentimento religioso individual- 17 FIANDACA, Sul ruolo delle
emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 18 FIANDACA, Laicità del diritto
penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi
in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, pp. 180 ss.; SIRACUSANO,
Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del
fattore religioso nell’ordinamento italiano, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La
Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Torino, 2009,
pp. 70 s. Per una panoramica, v. AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale
della libertà religiosa, Torino, 2010. 19 Cfr. MARCHEI, Sentimento religioso e
bene giuridico. Tra giurisprudenza costi- tuzionale e novella legislativa,
Milano, 2006, pp. 35 ss.; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose
dopo la legge 24 febbraio 2006 n. 85, Milano, 2007, pp. 16 ss. 20
SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., Milano, 1983, pp. 10
s. 68 Tra sentimenti ed eguale rispetto mente avvertito, a godere di un
privilegiato regime di tutela 21. L’impianto codicistico ha subito profonde
modifiche ad opera del- la Corte costituzionale, la quale, nel corso degli anni,
ha ‘rabbercia- to’ 22 il sistema dei reati riducendo le distonie con i principi
codificati nella Carta costituzionale. Particolarmente significativa è la linea
giu- risprudenziale inaugurata con la pronuncia n. 440/1995 (sulla con-
travvenzione di bestemmia) 23 e seguita dalle pronunce n. 329/1997 (equi-
parazione del trattamento sanzionatorio fra religione di Stato e culti ammessi,
in relazione all’art. 403 c.p.) e soprattutto n. 508/2000 (ablazione della
fattispecie di vilipendio della religione di Stato, art. 402 c.p.) 24:
decisioni che attuano un cambio di rotta rispetto alla giu- risprudenza
costituzionale che, fino a pochi decenni prima, ancora legittimava il
trattamento privilegiato della religione cattolica sulla base di criteri
quantitativi e sociologici 25. Argomentando sulla base del principio di
laicità, la Corte ha iden- tificato nella dimensione religiosa individuale il
corollario di una li- 21 In linea con l’afflato statocentrico che ispira
l’intera codificazione, le fatti- specie in tema di religione sono espressione
di autoritarismo etico da parte del governo fascista, congeniale al sodalizio
politico con la Chiesa Romana formaliz- zato nei Patti Lateranensi: «La
religione» dice Rocco «è [...] non tanto un feno- meno attinente alla coscienza
individuale, quanto un fenomeno sociale della più alta importanza, anche per il
raggiungimento dei fini etici dello Stato», v. Codice penale, illustrato con i
lavori preparatori, a cura di Mangini-Gabrieli-Cosentino, Roma, 1930, pp. 331.
Per una sintesi, v., ex plurimis, PACILLO, I delitti contro le confessioni
religiose, cit., pp. 6 ss. 22 L’espressione è di FIANDACA, Altro passo avanti
della Consulta nella rabbercia- tura dei reati contro la religione, in Foro
it., 1998, I, pp. 26 ss. Per un’ampia e pun- tuale sintesi della giurisprudenza
costituzionale vedi il saggio di VISCONTI C., La tutela penale della religione
nell’età post-secolare e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir.
proc. pen., 3/2005, pp. 1041 ss. 23 Sul tema v., ex plurimis, PALAZZO, La
tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della
dichiarazione di incostituzionalità della bestem- mia), in Cass. pen., 1/1996,
pp. 47 ss.; DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale:
sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2-3/1996, pp. 824 ss. 24 Ex plurimis, VENAFRO, Il reato di vilipendio
della religione non passa il vaglio della Corte Costituzionale, in Legislazione
penale., 2001, pp. 1073 ss. 25 Cfr. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento
religioso, entro la nuova tipici- tà dei delitti contro le confessioni
religiose, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà
religiosa, Torino, 2010, p. 33; MORMANDO, Religione, laicità, tol- leranza e
diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2005, pp. 657 ss.; MARCHEI, Sen-
timento religioso e bene giuridico, cit., pp. 95 ss. Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 69 bertà costituzionale 26;
parametro costituzionale decisivo che ha sup- portato le modifiche più
rilevanti è stato il principio di uguaglianza 27. La riforma del 2006, nel
dichiarato intento di superare l’anacro- nistico e illiberale modello del
codice fascista, ha eliminato il riferi- mento alla religione introducendo il
concetto di ‘confessione religio- sa’. In merito all’interesse protetto, la
lettura critica offerta dalla pre- valente dottrina individua una sostanziale
continuità con la vecchia normativa28, identificando l’oggetto di tutela in una
prospettiva che oscilla tra il bene di civiltà ‘pluriconfessionalmente
articolato’ e il sentimento collettivo della pluralità dei fedeli che si
riconoscono in una determinata confessione religiosa29. Non mancano però
letture alternative che cercano di armonizzare la duplice natura, individuale e
collettiva, del bene protetto, sottolineando come «la nozione di sen- 26 Pur
aderendo sostanzialmente al principio di laicità dello Stato, la giuri-
sprudenza costituzionale presenta sensibili oscillazioni circa l’effettiva
portata del concetto: cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici del discorso
pubblico, Torino, 2008, pp. 45 ss.; ID., La tutela penale della religione,
cit., p. 1050. Istanze personalistiche sono emerse quando si è parlato di
«sentimento religioso, [il] quale vive nell’in- timo della coscienza
individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate
tra loro dal vincolo della professione di una fede comune», v. C. cost. n.
188/1975; cfr. MARCHEI, Sentimento religioso, cit., p. 143. 27 Così PULITANÒ,
Laicità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato
di diritto, Milano, 2007, p. 309; cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit.,
p. 39. Sui rapporti tra uguaglianza e diritto penale, v. DODARO, Uguaglianza e
diritto penale. Uno studio di giurisprudenza costituzionale, Milano, 2013;
FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, in AA.VV, a cura di Cartabia-Vettor, Le
ragioni del- l’uguaglianza, Milano, 2009, pp. 115 ss. 28 Si rileva che la Corte
non ha assunto decisioni dirompenti, tali da condur- re all’abbattimento del
sistema esistente, talvolta riducendo a un semplice pas- saggio ermeneutico,
secondo alcuni Autori, lo stesso richiamo alla realtà reli- giosa individuale,
nei fatti seguito dalla (ri)legittimazione del paradigma esi- stente: cfr.
l’analisi di MARCHEI, Sentimento religioso, cit., pp. 143 ss. Osserva
PIEMONTESE, Offese alla religione e pluralismo religioso, in AA.VV., Religione
e re- ligioni: prospettive di tutela, tutela delle libertà, a cura di De Francesco-Piemon-
tese-Venafro, Torino, 2007, p. 230, che «la libertà individuale parrebbe
valoriz- zata, qui, solo in chiusura e ad abundantiam, all’interno di un iter
argomentati- vo volto a preservare comunque l’originaria dimensione pubblica ed
istituziona- le della tutela»; cfr. PADOVANI, Un intervento normativo
scoordinato che investe anche i delitti contro lo Stato, in Guida dir.,
14/2006, pp. 23 ss.; BASILE, art. 403 c.p., cit., pp. 1462 ss. 29 Nel primo
senso SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 83; per la
seconda opzione v. BASILE, art. 403 c.p., cit., p. 1471. Cfr. anche VISCON- TI
C., Aspetti penalistici, cit., p. 196. Ritiene che la riforma del 2006 abbia
fatto assurgere il sentimento religioso individuale a bene protetto in via
diretta e im- mediata, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose,
cit., p. 26. 70 Tra sentimenti ed eguale rispetto timento è
solamente un connotato – innegabile quanto imprescindi- bile – di un ben più
articolato valore di libertà religiosa» 30. 2.1.2. Il pudore Il richiamo al
sentimento è centrale nella definizione delle osceni- tà penalmente rilevanti:
sono da considerarsi osceni gli atti e gli og- getti che ‘secondo il comune
sentimento’ offendono il pudore (art. 529 c.p.). L’elemento normativo ‘comune
sentimento del pudore’31 attinge da un fenomeno di reattività interiore
dell’individuo: il pudo- re, genericamente definibile come disposizione
soggettiva che induce al riserbo su quanto attiene alla vita sessuale, fonda la
soglia sogget- tiva di eventuale disagio avvertibile di fronte a manifestazioni
della sessualità 32. Inteso nella dimensione comunitaria il pudore si emancipa
dal rapporto di implicazione emotiva individuale e dalla sua concreta
sussistenza, scivolando verso un’identificazione con concezioni della morale
sessuale: la valorizzazione normativa del pudore diviene in questo modo
funzionale a introdurre soglie atte a delimitare manife- stazioni e
rappresentazioni aventi contenuto sessuale 33. Il problema del buon costume e
della pubblica moralità quali beni di categoria in ambito penalistico ha finito
per tradursi nel richiamo a canoni di moralità sessuale 34, concetto
quest’ultimo la cui delimita- 30 È la condivisibile notazione di FALCINELLI, Il
valore penale del sentimento re- ligioso, cit., p. 48, la quale definisce
l’interesse protetto dalle norme post riforma 2006 come sentimento religioso
collettivo e al contempo individuale (pp. 39 ss.). 31 Sul tema degli elementi
normativi, e in particolare sui rapporti fra il coeffi- ciente di certezza
degli elementi normativi culturali e giuridici, v. lo studio di BO- NINI,
L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e
costitu- zionali, Napoli, 2016, pp. 320 ss.; sul tema v. anche RISICATO, Gli
elementi norma- tivi della fattispecie penale. Profili generali e problemi
applicativi, Milano, 2004. 32 Per un’analisi in chiave psicanalitica v., ex
plurimis, APPIANI, Tabù. Elogio del pudore, Milano, 2004, pp. 292 ss. 33
Fondamentale FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 4 ss. Sul proble- ma
definitorio del pudore, nella letteratura penalistica più risalente v. ALLEGRA,
Il “comune” sentimento del pudore, in Iustitia, 1950, pp. 78 ss.; LATAGLIATA,
voce Atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza, in Enciclopedia del
diritto, vol. IV, Mi- lano, 1959, pp. 49 ss.; VENDITTI, La tutela penale del
pudore e della pubblica decen- za, Milano, 1963; GALLISAI PILO, voce Oscenità e
offese alla decenza, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, pp. 204 ss.;
FARINA, Il reato di atti osceni in luogo pub- blico: tensioni interpretative e
prospettive personalistiche nella tutela del pudore, in Dir. pen. proc.,
7/2005, pp. 867 ss. 34 Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp.
78 ss. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 71
zione è però nondimeno ardua, al punto da costituire classicamente un luogo di
forti tensioni tra il diritto punitivo e i principi liberali 35. Ad oggi gli
sviluppi giurisprudenziali, incentivati e affinati da im- portanti contributi
della dottrina 36, depongono per una riconversione dell’interesse di tutela, il
quale è identificato nel diritto a essere pro- tetti da indebite violazioni del
proprio riserbo sessuale: esempio tipi- co, l’assistere a manifestazioni di
contenuto erotico senza avervi pre- ventivamente acconsentito. Ciò ha condotto
a un modello di interven- to incentrato non più su una lesione astratta e
potenziale del pudore collettivo, ma teso a reprimere solo le manifestazioni
oscene che si impongano a determinati soggetti senza che questi abbiano
prestato un preventivo consenso 37. È il carattere della pubblicità più o meno
indesiderata dell’atto o della pubblicazione, inteso come capacità di
diffusione e percepibilità da parte di soggetti non consenzienti, a fondare
l’illiceità, e non la sua natura eventualmente oscena. Si tratta di un
ragionevole distacco da modelli di intervento non 35 Sul punto rimarca
FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99, che «[...] il principio della
tolleranza ideologica e della tutela delle minoranze impediscono di trasformare
il diritto penale di uno Stato democratico in tutore della virtù. [...] Ciò
induce a dover giustificare sotto ogni aspetto l’assunto, secondo il quale la
punizione dell’immoralità non può rientrare tra gli scopi del diritto penale
con- temporaneo. Tanto più che l’esplicito riferimento, contenuto nella
Costituzione, alla tutela del buon costume potrebbe essere da taluno
interpretato – come di fat- to è avvenuto – appunto in chiave di “copertura”
costituzionale all’incriminazione di fatti lesivi di semplici valori morali».
Cfr. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di
orientamenti sociali di carattere assiologico? Pro- blemi di legittimazione da
una prospettiva europea continentale e da una angloame- ricana, in AA.VV., a
cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale. Culture
europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino, 2008, pp. 125 ss.
36 Il riferimento è sempre a FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit. 37 In
giurisprudenza, sentenza capostipite è quella del Tribunale di Torino,
2/04/1982, in Foro it., 1981, II, cc. 529 ss. Nella giurisprudenza di
legittimità, Cass. pen., sez. III, 21/01/1994, in Foro it., 1996, II, c. 21; v.
anche Cass. pen., SS. UU., 24/03/1995, in Foro it., 1996, II, c. 17 ss. Da
ultimo, v. Cass. pen., sez. III, 17/12/2004, n. 48532 e Cass. pen., sez. III,
6/07/2005, n. 34417, che conferma la per- cepibilità dell’osceno da parte del
pubblico come elemento costitutivo della fattispe- cie il cui onere probatorio
deve essere fornito dall’accusa. Per un avallo del suddetto orientamento da
parte della Corte costituzionale, v. la sentenza n. 368/1992, secon- do cui «la
misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di questo verso
gli altri, considerata in relazione alle modalità di espressione e alle
circostan- ze in cui l’osceno è manifestato», v. C. cost., n. 368/1992; sia
consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale,
cit., pp. 303 ss. 72 Tra sentimenti ed eguale rispetto compatibili
con uno Stato liberale e pluralista38. Ad oggi l’ordina- mento italiano non
tutela un moralistico pudore collettivo 39, ma ap- presta gli strumenti
affinché le persone non assistano a manifesta- zioni della sessualità per loro
indesiderate: l’equilibrio si fonda su po- tenzialità nell’agire che trovano un
limite nell’altrui pretesa di non subire contatti sgraditi. Vi è sì una
depsicologizzazione dell’interesse protetto, presentato nelle fogge di una
libertà negativa, ma va non- dimeno riconosciuto che il problema della tutela
del pudore resta profondamente legato, nella sua matrice, anche a una
sensibilità di tipo ‘epidermico’40, non semplicemente morale, ma saldamente in-
trecciata alla reattività emotiva della persona. 2.1.3. La pietà dei defunti
Pochi termini denotano un’appartenenza al lessico emozionale come la pietà:
traduzione del latino pietas, essa, al di là dell’uso gene- rico che connota il
sentimento di solidale comprensione nei confronti della sofferenza altrui,
designa ancora oggi la dimensione psicologica che scaturisce dall’esperienza
della morte dei propri simili, e fa la sua comparsa nel codice penale al capo
II del titolo IV. 38 Esigenze di riforma sono state invocate evidenziando un
ormai critico rap- porto tra il diritto vivente e la tipicità formale,
sottolineando come lo stesso rein- quadramento in termini personalistici del
bene giuridico disveli, in definitiva, un’irragionevole disparità sanzionatoria
tra l’offesa al pudore (rectius, libertà da visioni indesiderate) e altre
offese alla persona: v. FARINA, Il reato di atti osceni, cit., pp. 872 ss. 39 I
sentimenti individuali rimangono sullo sfondo, preservati nella loro auto-
nomia e senza dover render conto dei propri contenuti: le generalizzazioni e i
giudizi su base quantitativa dovrebbero rimanere al di fuori della norma,
poiché la libertà del singolo è anche libertà di usufruire e concedersi quello
che per molti dei suoi simili potrebbe apparire indecoroso o ripugnante,
ovviamente senza in- vadere le altrui sfere di libertà. Autorevoli esponenti
del pensiero liberale hanno affermato in questo senso la necessità di una
politica ‘anticollettivista’, nella quale cioè «gli interessi della maggioranza
non possono mettere a tacere i diritti fon- damentali dell’individuo, se non in
circostanze eccezionali, solitamente laddove siano ipotizzabili danni ad altre
persone o qualche grave pericolo per l’intera na- zione», v. NUSSBAUM, Disgusto
e umanità, tr. it., Milano, 2011, p. 68; cfr. HART, Diritto, morale e libertà,
tr. it., a cura di Gavazzi, Acireale, 1968, p. 97. 40 È stato osservato come
sia doveroso un approfondimento delle ragioni psi- cologiche alla base di
atteggiamenti repulsivi dell’altro, al fine di disvelare (e ar- ginare)
l’irrazionalità di fondo che, se trasfusa in dettami normativi, potrebbe
condurre a esiti discriminatori: un tipico esempio sono istanze di tutela che
tro- vino la propria motivazione in un mero ‘disgusto collettivo’, v. NUSSBAUM,
Na- scondere l’umanità, cit., pp. 95 ss. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 73 L’interpretazione consolidatasi in
dottrina individua in tali norme un presidio a un sentimento universale, non
una forma di difesa della salute pubblica 41. La tutela è incentrata su oggetti
materiali e postula la rilevanza simbolica delle res: oggetti la cui violazione
integra il pa- radigma delittuoso in quanto la materialità delle azioni assuma
il si- gnificato di dileggio alla memoria 42. Al di là della topografia
codicistica, pare opportuno rimarcare l’autonomia concettuale del sentimento di
pietà per i defunti dalle eventuali caratterizzazioni religiose43: è sul
presupposto di una di- mensione laica di tale sentimento 44, oltre il manto di
ritualità cultua- li, che si pone la discussione sulla legittimità e
opportunità di un pre- sidio sanzionatorio. Autorevole dottrina è critica nei
confronti della scelta politico criminale del codice Rocco: «la previsione
autonoma di delitti contro la pietà dei defunti non appare, nell’attuale momento
storico, perfet- tamente congrua con la funzione propria di un diritto penale
di uno Stato democratico e secolarizzato: il mero sentimento non sembra infatti
poter assurgere al rango di bene giuridico, non intaccando la sua semplice
violazione quelle condizioni minime della vita in comu- ne la cui salvaguardia
legittima l’uso dello strumento penalistico» 45. L’osservazione ha il merito di
evidenziare uno dei punti critici del rapporto tra sentimenti e tutela penale:
libertà che rischiano di essere soggette alla coercizione di fronte a moti
dell’animo umano, il cui turbamento, pur intenso, non dovrebbe essere
destinatario di una priorità assoluta all’interno di un contesto pluralista. 41
FIANDACA, voce Pietà dei defunti (Delitti contro la), in Enc. giur., vol.
XXIII, Roma, 1990, p. 1; per l’orientamento incline all’interpretazione della
norma come tutela della salute pubblica, v. GABRIELI, Delitti contro il
sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, 1961, p. 371. 42 ROSSI
VANNINI, voce Pietà dei defunti (delitti contro), in Dig. disc. pen., vol. IX,
Torino, 1995, p. 571. 43 Ex plurimis, cfr. FIANDACA, voce Pietà dei defunti,
cit., p. 1; ROSSI VANNINI, vo- ce Pietà dei defunti, cit., p. 570. 44 Non
potendo in questa sede offrire un quadro della sconfinata bibliografia, ci
limitiamo a segnalare le intense riflessioni contenute nella pubblicazione di
AA.VV., a cura di Monti, Che cosa vuol dire morire, Torino, 2010.
Argomentazioni condivise da parte di autori di estrazione laica e autori
cattolici emergono nei saggi di BODEI, L’epoca dell’antidestino, pp. 57 ss.; DE
MONTICELLI, La libertà di divenire sé stessi, pp. 83 ss.; per i secondi, v.
REALE, L’uomo non si accorge più di morire, pp. 25 ss.; MAN- CUSO, Se si ha
paura della morte, si ha paura della vita, pp. 109 ss. 45 FIANDACA-MUSCO,
Diritto penale. Parte speciale, vol. I, IV ed., Bologna, 2007, pp. 450 s.
74 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’attuale configurazione
normativa, tuttavia, la tutela del de- funto evoca sentimenti, ma non ha ad
oggetto stati psicologici di pa- renti o delle persone ad esso affettivamente
legate. Si tratta di un ri- conoscimento dovuto all’essere umano in quanto
tale, a prescindere da metafisiche ultraterrene, ma anzi ben ancorato a una
concezione secolare dell’esistenza, secondo cui il soggetto può e deve meritare
rispetto anche dopo il trapasso 46. È in quest’ottica che può eventual- mente
valutarsi l’opportunità del mantenimento di un presidio e i suoi limiti:
secondo logiche non pervasive ma ragionevolmente orien- tate alla salvaguardia
di un nucleo minimo di rispetto verso chi ha abbandonato la dimensione fisica
dell’esistenza. 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione
all’odio fra le classi sociali Fra i delitti contro la personalità dello Stato
troviamo menzionati lo ‘spirito pubblico’ e il ‘sentimento nazionale’. Si
tratta di fattispecie cadute ormai nel dimenticatoio e sostanzialmente
inapplicate: l’am- bito di operatività dell’art. 265 (disfattismo politico) è
circoscritto, per espressa previsione legislativa, al tempo di guerra; gli
artt. 271 e 272 (nella parte in cui faceva riferimento al ‘sentimento
nazionale’) sono stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità con le
senten- ze n. 87/1966 e n. 243/2001 47. Al di là del valore di ‘archeologia
giuridica’, fra gli elementi costi- tutivi delle suddette fattispecie troviamo
il cosiddetto ‘spirito pubbli- co’ e il ‘sentimento nazionale’: concetti
strettamente legati, i quali evocano una disposizione affettiva, ossia
l’atteggiamento di fede e di attaccamento del cittadino alla nazione. 46
GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., p. 1554.; cfr. DONINI,
“Danno” e “ offesa”nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1587, il
quale sot- tolinea la possibilità che dall’assenza di tali presidi scaturiscano
esiti negativi per la stessa pace sociale; ERONIA, La turbatio sacrorum tra
legge e cultura: il caso del- la riesumazione della salma di S. Pio, in Cass.
pen., 2/2009, p. 747. Nella relazione al progetto di riforma del codice penale
elaborato dalla commissione Pagliaro era stato osservato che: «il bene
personalistico della dignità della persona defunta appare costituire l’oggetto
primario e costante della tutela contro gli atti irriguar- dosi delle spoglie
umane e dei sepolcri, mentre il pur rilevante bene collettivo del suddetto
sentimento si presenta come bene secondario ed eventuale», v. Relazione alla
bozza di articolato per un progetto di riforma del Codice Penale, consultabile
in http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/riforma/relazionepagliaro.htm.
47 L’art. 272 c.p. è stato poi integralmente abrogato dalla legge n. 85 del
2006. Sul tema, v. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave
costituzionale, Milano, 2006, pp. 275 ss. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 75 Il concetto di spirito pubblico appare più generico
e va delimitato a contesti in cui, a causa dello stato di guerra, viene
richiesta al citta- dino fiducia nelle sorti del Paese. Non si tratta di una
disposizione da accertarsi in capo a singoli soggetti, bensì di un
atteggiamento di col- lettiva partecipazione al sostegno morale della nazione,
il quale, se- condo il legislatore del 1930, poteva essere frustrato dalla
diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose così da menomare la
resisten- za della nazione di fronte al nemico. Il ‘sentimento nazionale’,
secondo le parole della Corte costituzio- nale, è da intendersi come
corrispondente «al modo di sentire della maggioranza della Nazione e
contribuisce al senso di unità etnica e sociale dello Stato» 48. Anche in
questo caso il pensiero giurispruden- ziale rifugge da interpretazioni
emotivistiche e incentra la tutela pe- nale su un nucleo di valori
asseritamente condivisi. La natura puramente ideologica di tale oggetto di
tutela ne ha de- cretato l’incompatibilità con la libertà di manifestazione del
pensiero. Va però evidenziato che, mentre nella prima parte della motivazione
della sentenza n. 87/1966 la Corte descrive tale interesse in termini col-
lettivistici, al momento di decretare l’illegittimità della norma incrimi-
natrice la fisionomia dell’oggetto di tutela viene riproposta ponendo l’accento
in chiave critica sulla componente soggettivo-emozionale: di- ce infatti la
Corte che «è pur tuttavia soltanto un sentimento, che sor- gendo e
sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente
del mondo del pensiero e delle idealità». Facendo leva su tale carattere
impalpabile 49 viene affermata l’ille- gittimità anche dell’art. 27250 nella parte
in cui incrimina la propa- ganda per distruggere o deprimere il sentimento
nazionale, salvando invece (fino alla formale abrogazione del 2006)
l’incriminazione della propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura,
per la sop- pressione violenta di una classe sociale e per il sovvertimento
violen- to degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, rico-
noscendo in tali norme una tutela del metodo democratico da forme di pensiero
prodromiche ad azioni violente. Diversamente da altri ambiti in cui il richiamo
a un sentire collet- 48 C. cost. n. 87/1966. 49 Lo sottolinea, ex plurimis,
CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, i principi
di offensività e libera manifestazione del pensiero e la funzione della pena,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1009. 50 «Mero reato di opinione, sia
pure in senso lato» secondo VASSALLI, Propa- ganda “sovversiva” e sentimento
nazionale, in Giur. cost., 1966, II, p. 1100. 76 Tra sentimenti ed
eguale rispetto tivo è stato riconvertito dagli interpreti in una prospettiva
di tutela della persona, il sentimento nazionale non è riuscito a beneficiare
di alcun maquillage ermeneutico, e, dissipatosi il manto della retorica di
regime, è scomparso dai beni penalmente tutelati in quanto non in grado di
sostenere il confronto con la libertà di espressione. Una vicenda similare ha
caratterizzato la problematica disposi- zione dell’art. 415 c.p. (istigazione
all’odio fra le classi sociali), che la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere
at- tuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». L’eccezione
sollevata con riferimento al contrasto con l’art. 21 Cost. viene accolta dalla
Corte motivando che la norma, poiché non indica come oggetto dell’istigazione
un fatto criminoso specifico o un’attività diretta con- tro l’ordine pubblico o
verso la disobbedienza alle leggi, ma sempli- cemente l’ingenerare un
sentimento senza nel contempo richiedere che le modalità con le quali ciò si
attui siano tali da costituire perico- lo all’ordine pubblico e alla pubblica
tranquillità, «non esclude che essa possa colpire la semplice manifestazione ed
incitamento alla persuasione della verità di una dottrina ed ideologia politica
o filoso- fica della necessità di un contrasto e di una lotta fra portatori di
op- posti interessi economici e sociali» 51. Si tratta di una piana
applicazione di principi già evidenziati nella sentenza n. 87/1966 (v. supra),
che culmina in questo caso in una pronuncia additiva la quale di fatto espunge
dall’ordinamento l’incri- minazione dell’istigazione all’odio fra le classi
sociali, riconoscendo la preminenza del diritto di libertà alla manifestazione
di «teorie del- la necessità del contrasto e della lotta tra le classi sociali
[...] che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza e delle
concezioni e convinzioni politiche, sociali e filosofiche dell’individuo
appartengo- no al mondo del pensiero e dell’ideologia» 52. 2.1.5. Il sentimento
per gli animali Un ambito del tutto peculiare è costituito dalle norme
codicistiche a tutela del cosiddetto ‘sentimento per gli animali’. Nel 2004 è
stata introdotta nel codice penale la disciplina che sanziona, in forma di
delitto, le condotte di uccisione e maltrattamento di animali; stando alle
parole del legislatore, l’interesse tutelato sarebbe il sentimento 51 C. cost.,
n. 108/1974. 52 C. cost., n. 108/1974. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 77 per gli animali, ossia l’umana compassione
che scaturisce dal rappor- to con la sofferenza dell’animale. L’evidenza
testuale suggerisce una connessione con i problemi og- getto della presente
indagine, ma l’inquadramento dell’interesse pro- tetto in ossequio al verbo
legislativo appare una lettura superficiale. Le tesi dottrinali nel panorama
italiano sono espressione di diversi orientamenti53: il primo tendente a dare
rilievo alla definizione del legislatore 54; il secondo proiettato
all’affermazione di una soggettività giuridica dell’animale 55; un terzo
orientamento ‘di compromesso’ 56, e infine una quarta soluzione che appare
protesa al riconoscimento di una tutela diretta dell’essere non umano, senza
scivolare in proble- matiche (soprattutto da un punto di vista filosofico)
‘soggettivizza- zioni’ dell’animale, ma rimarcando come la tutela diretta
dell’animale non umano sia da contestualizzarsi all’interno di un quadro di
inte- ressi e controinteressi umani 57. Non potendo approfondire nel corso
della presente indagine l’amplissima questione, ci limitiamo ad alcune
osservazioni finalizza- te a definire il senso e la peculiarità dell’impianto
normativo della tu- tela del sentimento per gli animali in rapporto agli altri
‘sentimenti- valori’ presenti nel codice penale. In primo luogo la tipicità
delle fattispecie di cui agli art. 544 bis e 53 Secondo la ricostruzione di
FASANI, L’animale come bene giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2017, pp.
713 ss. 54 Così GATTA, Art. 544 bis c.p., in AA.VV., diretto da Dolcini-Gatta,
Codice pe- nale commentato, cit., pp. 2630 ss.; PISTORELLI, Così il legislatore
traduce i nuovi sentimenti e fa un passo avanti verso la tutela diretta, in
Guida dir., 2004, n. 33, p. 19. Per una sintesi della problematica, v.
VALASTRO, La tutela giuridica degli ani- mali, fra nuove sensibilità e vecchie
insidie, in Annali online di Ferrara, 1/2007, pp. 119 ss. Va evidenziata la
posizione di MANTOVANI F., Diritto penale, IX ed., Pado- va, 2015, p. 188, il
quale individua la ratio della tutela penale degli animali in una prospettiva
promozionale della stessa dignità umana, in quanto «la riduzione dell’immensa
crudeltà verso gli animali [...] attenuando la crudeltà complessiva del mondo,
se non rende l’animale più uomo, rende l’uomo meno animale e mi- gliore la
Terra». 55 POCAR, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti,
Roma-Bari, 2003, pp. 9 ss.; RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a
soggetti, Torino, 2005, pp. 9 ss. Testo di riferimento per l’introduzione alle
teorie animaliste è SINGER, Libe- razione animale, tr. it., Milano, 2015. 56
MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della
relazione uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, in
AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto-La
questione animale, Milano, 2012, pp. 697 ss. 57 FASANI, L’animale come
bene giuridico, cit., pp. 742 ss. 78 Tra sentimenti ed eguale rispetto
ss.58 non lascia spazio a valutazioni in termini emozionali; al senti- mento
umano di rispetto per gli animali può essere riconosciuto un ruolo propulsivo
nei confronti della scelta politico-criminale, ma per ricondurre l’oggetto
della tutela ad una sorta di pietas verso gli esseri non umani, dovrebbe essere
necessario richiedere nelle condotte quantomeno un grado di pubblicità tale da
riflettersi sul sentire col- lettivo. Ciò che fonda la tipicità degli artt. 544
bis e 544 ter è aver uc- ciso con crudeltà un animale o averlo maltrattato con
carichi di lavo- ro insopportabili: azioni che possono senz’altro indurre
sentimenti negativi nella gran parte degli esseri umani, ma che rilevano norma-
tivamente per il semplice fatto di essere state realizzate, e dunque quale
offesa ad animali non umani 59. 58 Per una panoramica v. VALASTRO, La tutela penale
degli animali: problemi e prospettive, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi
Vallauri, Trattato di biodi- ritto – La questione animale, cit., pp. 649 ss. 59
Sul tema, prima della riforma del 2004, vedi i saggi contenuti in AA.VV., a cu-
ra di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, Milano, 2001.
Sottolinea FIANDACA, Prospettive di maggiore tutela penale degli animali, in
AA.VV., a cura di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, cit., pp.
86 ss., che, al di là della possibile disputa circa un’ipotetica soggettività
giuridica animale, per legittimare una tutela penalistica possa essere
sufficiente «parlare di “interessi animali” degni di riconoscimento e tutela:
interessi considerati in una dimensione oggettiva, a pre- scindere dal problema
di una loro riferibilità all’animale come soggetto giuridico», ritenendo
plausibile che «gli animali [siano] portatori di due interessi fondamentali:
l’interesse alla sopravvivenza e l’interesse alla minore sofferenza possibile».
Il di- stacco da un’ottica antropocentrica, con implicita emancipazione da una
ratio di tutela incentrata sul sentimento umano per gli animali, appare
peraltro ravvisabile anche nella giurisprudenza, sia di merito che di
legittimità, relativa all’art. 727, il quale, prima dell’introduzione del
titolo IX bis, incriminava le condotte di maltrat- tamento di animali: v., in
particolare, Cass. pen., sez. III, 14/03/1990, in Cass. pen., 1992, p. 951, la
quale afferma che «in via di principio [...] l’art. 727, in considerazio- ne
del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove
si parla non solo di sevizie ma anche di sofferenze e di affaticamento) tutela
gli ani- mali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità
psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la
soglia di normale tollerabilità. La tutela è, dunque, rivolta agli animali in
considerazione della loro natura»; in senso conforme, v. Cass. pen., sez. III,
16/10/2003, n. 46291, in Dir. giust., 2003, pp. 46 ss.; Cass. pen., sez. III,
22/01/2002, n. 8547, in Nuovo dir., 2002, pp. 1071 ss., secondo cui «La “ratio”
della disposizione di cui all’art. 727 c.p. è quella di voler perseguire
condotte caratterizzate da un’apprezzabile componente di lesività dell’integrità
fisi- ca e-o psichica dello animale». Più contraddittoria appare invece la
giurisprudenza di legittimità dopo la novella del 2004: si veda, ad esempio,
Cass. pen., sez. III, 24/10/2007, n. 44822, ove si afferma che «La norma è
volta a proibire comporta- menti arrecanti sofferenze e tormenti agli animali,
nel rispetto del principio di evi- tare all’animale, anche quando questo debba
essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà ed
ingiustificate sofferenze», rimarcando tuttavia che «in Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 79 L’identificazione
dell’oggetto di tutela in un (non meglio identifi- cato) sentire comune
costituisce una lettura pregna di risvolti pro- blematici60, e sono in questo
senso condivisibili interpretazioni più ragionevoli che suggeriscono di
configurare l’interesse tutelato in termini di relazionalità e
‘interspecificità’: «andare oltre la dicotomia radicale e guardare nel mezzo
[...] cioè nel rapporto tra l’uomo e l’animale; lì si rinviene il bene
giuridico davvero tutelabile dal diritto penale, nel quadro delle garanzie
costituzionali. [...] L’animale non riempie, non esaurisce, l’orizzonte di
tutela (penale). L’uomo (che prova qualcosa davanti all’animale e che invoca
per quest’ultimo un dignitoso trattamento) non scompare dalla scena» 61. Nel
complesso, i problemi connessi alla tutela del sentimento per gli animali non
sembrano propriamente accomunabili a quelli ri- scontrati in relazione agli
altri ‘sentimenti’ tutelati dalle norme pena- li. Una differenza di fondo è che
le disposizioni a tutela della religio- ne o del pudore chiamano in gioco un
bilanciamento fra interessi in- terno al confronto fra esseri umani e basato su
entità immateriali come i valori normativo-ideali; dall’altra parte, per quanto
il ricono- scimento di una soggettività giuridica all’animale sia un problema
aperto, in sede di ricostruzione dell’oggetto di tutela appare preferibi- le
tenere conto della soggettività animale senza sublimarla né in un impalpabile
sentire dell’uomo né in un mero contenuto ideale, ma piuttosto come problema
che sollecita un approfondito studio delle condizioni di compatibilità fra
esigenze umane e rispetto della vita di esseri non umani. Per tali ragioni, il
tema del sentimento degli animali pone que- stioni non inquadrabili nella
tutela dei cosiddetti ‘sentimenti-valori’, né appare accostabile al tema del
disagio emotivo, rivelandosi piutto- sto la proiezione di un problema antico e
ancora attuale, concernente gli equilibri di vita e sopravvivenza fra uomo ed
ecosistema 62. tali disposizioni l’oggetto di tutela è il sentimento di pietà e
di compassione che l’uo- mo prova verso gli animali e che viene offeso quando
un animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze. Scopo dell’incriminazione
è quindi di impedire manifesta- zioni di violenza che possono divenire scuola
di insensibilità delle altrui sofferenze». 60 Ben evidenziati da MAZZUCATO,
Bene giuridico e “questione sentimento”, cit., pp. 697 ss. 61 MAZZUCATO, Bene
giuridico e questione “sentimento”, cit., p. 703. 62 Un’interessante lettura
sulla complessità del rapporto fra uomo e animali non umani è il libro di
HERZOG, Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli
animali, tr. it., Torino, 2014. Per un inquadramento dell’impianto di tutela
penale degli animali nel più ampio contesto dei reati contro l’ambiente e
80 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2.1.6. Il comune sentimento della
morale Passando all’ambito extracodicistico, le disposizioni normative in cui è
più evidente ed univoco il richiamo al sentimento quale oggetto di tutela sono
gli artt. 14 e 15 della legge n. 47 del 1948: l’art. 14 stabi- lisce la
rilevanza penale, ai sensi dell’art. 528 c.p., di pubblicazioni destinate ai
fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità e l’impressionabilità
ad essi proprie, siano idonee a offendere il loro sentimento morale o a
costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, al suicidio;
l’art. 15 si rivolge parallelamente alla tutela di soggetti adulti, vietando la
pubblicazione di stampati i quali descri- vano o illustrino, con particolari
impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche
soltanto immaginari, in modo da poter turbare il ‘comune sentimento della
morale’ 63. Punto centrale delle fattispecie, che ne determina (fortunatamente)
anche le difficoltà applicative, è l’esigenza di accertare l’idoneità delle
condotte alla causazione di eventi determinati («favorire il disfrenarsi di
istinti di violenza, diffondersi di suicidi o delitti»). Al fianco di tali
eventi si pone l’offesa o il turbamento al sentimento morale, formula tanto
eloquente quanto indeterminata: «fondata sopra un presupposto empirico e
nebuloso di morale corrente, essa reca con sé tutti i pericoli che le norme
ispirate a concetti vaghi, a intuizioni, a sentimenti porta- no sempre nella
loro applicazione concreta» 64. L’accostamento esplicito fra il sentire e la
morale trova probabil- mente la sua ragione nell’intento di introdurre una
disposizione il più possibile assonante con l’art. 529 c.p. (comune sentimento
del pudo- re), rielaborando in termini più estensivi i divieti stabiliti in
tema di buon costume sessuale65; una connessione che si motiva anche con
l’obiettivo di trovare un aggancio costituzionale esplicito a un inte- resse
che deve essere bilanciato con la libertà di espressione 66. l’ecosistema v.
RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino, 2016, pp. 293 ss. Per
una prospettiva socio-criminologica sul rapporto uomo-ambiente v. NATA- LI,
Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Milano, 2015
(in particolare v. pp. 252 ss.). 63 Sul tema, per tutti, NUVOLONE, Il diritto
penale della stampa, Padova, 1971, pp. 232 ss.; ID., I limiti della libertà di
stampa nell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, in Arch. pen., 1952, II,
pp. 555 ss. 64 NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 234. 65 Parla
di ‘triplice oggetto del reato’ (sentimento della morale, ordine familia- re,
ordine pubblico) NUVOLONE, I limiti della libertà di stampa, cit., p. 551. 66
La connessione fra sentire, morale e buon costume emerge anche in C. cost., n.
9/1965, la quale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità
costituzionale sol- Dimensione codicistica e funzione discorsiva
della formula 81 Le sporadiche applicazioni confermano la centralità a livello
teo- rico del nesso fra turbamento emotivo e offesa alla morale: appare
significativa ad esempio una pronuncia della Corte di Appello di Ro- ma nella
quale si nega la sussistenza della fattispecie in relazione alle immagini di
una donna col cordone ombelicale attaccato, sulla base della motivazione che
simili immagini non potrebbero provocare tur- bamento o orrore, e pertanto non
offendono la morale 67. Il più eloquente contributo alla definizione
dell’interesse protetto dall’art. 15 è la sentenza n. 293/2000, con la quale la
Corte costituzio- nale ha ritenuto inammissibile l’eccezione di
incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 21 Cost.: «L’art. 15
della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema ra- diotelevisivo
pubblico e privato dall’art. 30, comma 2, della legge 6 ago- sto 1990, n. 223,
non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli
stampati idonei a “turbare il comune senti- mento della morale”. Vale a dire,
non soltanto ciò che è comune alle di- verse morali del nostro tempo, ma anche
alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società
contemporanea. Tale contenuto mi- nimo altro non è se non il rispetto della
persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del
quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. [...] La descrizione
dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal
riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo
limite, sì che appa- re escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della
fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e
indeterminatezza» 68. Come è stato osservato in dottrina, tale sentenza ha
compiuto un’operazione di rivisitazione/trapianto, finendo per concepire come
vasi comunicanti il ‘comune sentimento del pudore’ e il ‘comune sen- timento
della morale’ attraverso il passepartout della dignità uma- levate in relazione
all’art. 553 c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione), osservando
in motivazione che «[n]on diversamente il buon costume risulta da un insieme di
precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di
relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del
pu- dore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della
dignità perso- nale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei
giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è
stato anche detto, può com- portare la perversione dei costumi, il prevalere,
cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti». 67 App. Roma, 13
maggio 1958, in Arch. pen., 1959, III, p. 166. 68 C. cost., n. 293/2000. Tali
conclusioni sono state confermate in una succes- siva ordinanza che ha
dichiarato la manifesta infondatezza della medesima ecce- zione di
costituzionalità, v. C. cost., n. 92/2002. 82 Tra sentimenti ed
eguale rispetto na69. La chiosa della Corte, quando esclude censure di
genericità e indeterminatezza, è alquanto frettolosa, per non dire
superficiale, e fonda il discorso su un valore sì fondamentale, ma tutt’altro
che defi- nito nei risvolti applicativi 70. Merita attenzione la triade concettuale
‘sentimento-morale-di- gnità’: l’evocazione del sentimento è disgiunta da
profili di reattività psichica, e dunque dall’aggancio a una dimensione
individuale, po- nendosi come sinonimo di minimum etico. Il delitto di cui
all’art. 15 della legge sulla stampa, pur essendo so- stanzialmente
inapplicato, riveste a nostro avviso importanza centrale, dal punto di vista
teorico, nel ‘microsistema’ delle disposizioni a tutela di ‘sentimenti’; ne
rivela i tratti più problematici, poiché attribuisce a stati affettivi come
disgusto e orrore il ruolo di parametro etico per la valutazione di cosa possa
considerarsi moralmente adeguato, ricono- scendo dunque a tali emozioni un
ruolo cognitivo-valutativo che oggi sappiamo essere tutt’altro che attendibile
(vedi infra, cap. IV). 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti
o emo- zioni? Un passaggio concettualmente importante consiste nel decodifica-
re il richiamo giuridico a emozioni e sentimenti in rapporto all’al- ternativa
fra concezioni meccanicistiche e concezioni valutative (v. supra, cap. II). A
nostro avviso la chiave di lettura più funzionale all’analisi delle norme che
l’ordinamento italiano pone a tutela di ‘sentimenti’ è la concezione
valutativa: gli interessi denominati dal legislatore ‘senti- menti’ acquistano
rilevanza normativa in virtù di una peculiare tra- iettoria dell’intenzionalità
dello stato affettivo 71. Si tratta di un modo di concepire il sentimento del
tutto simile al significato che Joel Feinberg propone quando analizza il cosiddetto
‘appello ai sentimen- 69 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 14. 70 Cfr.
TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propa- ganda
razzista, Torino, 2013, pp. 14 s. 71 Intendiamo il concetto di intenzionalità
secondo l’accezione proposta da John Searle, ossia «quella proprietà di molti
stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono
relativi a oggetti e stati di cose del mon- do», SEARLE, Sull’intenzionalità.
Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Mi- lano, 1985, p. 11. In
termini generali, sul concetto di intenzionalità v. GALLAGHER- ZAHAVI, La mente
fenomenologica, cit., pp. 166 ss. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 83 ti’ nelle questioni etiche: il filosofo americano
ritiene infatti che ciò a cui si fa riferimento non sia un mero stato emotivo,
ma la peculiare risposta soggettiva che gli individui possono provare nel
rapporto con determinati oggetti 72. È bene distinguere tra l’oggetto del
sentire e la sindrome affettiva, quali elementi costitutivi delle entità
psico-sociali che il diritto pren- de in considerazione. L’uso giuridico, in
accordo col senso comune, adopera la categoria del sentimento in un modo che
tende a fondere il profilo soggettivo dell’affettività con la sua proiezione
esterna e dunque con l’oggetto del sentire 73. La distinzione fra sindrome
affet- tiva e oggetto del sentire permette di tematizzare in modo separato i
profili pertinenti da un lato alla selezione degli ‘oggetti emotigeni’, e dall’altra
alla tipologia di stati affettivi che potrebbero eventualmente venire in gioco.
L’oggetto del sentire è ciò che definisce il substrato materiale o ideologico
dell’offesa: ad esempio si parla di sentimento religioso per dare rilevanza non
a un astratto sentire ma quel genere di esperienza emotiva che ha a che fare
con la fede religiosa. Stesso discorso per altri interessi definiti
‘sentimenti’: il sentimento del pudore come di- sposizione a provare un certo
tipo di reazioni soggettive in rapporto a manifestazioni della sessualità;
oppure il sentimento nazionale quale 72 FEINBERG, Sentiment and sentimentality,
cit., pp. 21 ss.: «Unlike some emo- tions, sentiments are not mere objectless
perturbations with subtle but neutral affective colorings. They too have an
essential polarity to them (pleasant-unpleasant, friendly-unfriendly,
postive-negative), though unlike attitudes, the positive or negative character
of sentiments is not simply a “pro” or “con,” “for” or “against” posture [...]
Some of the terms we apply to the objects of positive or negative sen- timents
are themselves definable not in terms of the inherent properties of those
objects but rather in terms of the sentiments they are thought naturally or
properly to awaken». 73 È significativo quanto osservato in ambito psicologico:
«[i]n genere, le per- sone dichiarano sentimenti patriottici più o meno intensi
in momenti diversi del- la loro vita; come sono tali sentimenti? L’ovvia
risposta a tale domanda è che que- sti sentimenti non hanno alcun senso di
esistere, per lo meno non al di fuori della tendenza del singolo a provare
altri tipi di sentimenti (orgoglio, dolore, vergo- gna), nei quali la sua vita
affettiva appare in linea con sorti della nazione. In tal senso, da un patriota
ci si aspetta che provi gioia e orgoglio quando la sua nazio- ne vince, dolore
o compassione quando essa è in crisi, rabbia se è ingiustamente diffamata, e
disperazione nella sconfitta umiliante. Pertanto, osservando atten- tamente la
vita interiore e le abitudini di un patriota, non vi si troverà mai una traccia
di quel sentimento particolare chiamato “patriottismo” al di fuori di quan- to
scritto sopra», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro mo- di
di pensare all’odio, in AA.VV., a cura di Sternberg, Psicologia dell’odio.
Cono- scerlo per superarlo, tr. it., 2007, Gardolo, p. 11. 84 Tra
sentimenti ed eguale rispetto forma di partecipazione affettiva, ‘patriottica’,
alle vicende della pro- pria nazione. Veniamo ad analizzare il versante della
sindrome affettiva: qual è il fenomeno che appare più aderente alle situazioni
descritte nel con- testo codicistico? Una importante differenza fra emozione e
sentimen- to è identificabile nella consistenza e nella durata: l’emozione,
secon- do quanto abbiamo precedentemente osservato in accordo con le ela-
borazioni delle diverse branche dei saperi lato sensu psicologici, rap-
presenta una componente dinamica del sentire, ossia uno stato men- tale di
breve durata, caratterizzato da una predominante componente reattiva; il
sentimento è uno stato più durevole e radicato (vedi supra, cap. II). Parlare
di una tutela di emozioni in senso stretto è improprio74; ma appare non del
tutto corretta con anche un’eventuale associazio- ne degli oggetti tutelati dal
codice a stati psichici più duraturi. L’accezione che in relazione ai
‘sentimenti-valori’ consente di in- staurare una connessione ‘non irrealistica’
con la dimensione feno- menica è rappresentata a nostro avviso dal concetto di
‘disposizione individuale del sentire’: non un accostamento a emozioni in senso
stretto e neanche a stati duraturi in quanto tali, ma piuttosto ad at-
teggiamenti che delineano l’orientamento affettivo e assiologico della persona
in conseguenza della maggiore o minore partecipazione emotiva nel rapporto con
determinati oggetti e situazioni. Entità co- me il sentimento religioso, il
sentimento del pudore et similia, ap- paiono funzionali a richiamare
disposizioni soggettive a provare emo- zioni 75. 2.3. Atti persecutori:
sofferenza psichica e libertà di autodetermi- nazione Parlando di sentimenti
come ‘disposizioni del sentire’ si potrebbe intendere il problema di tutela
anche come protezione delle condi- zioni di formazione del sentire, e dunque
come assenza di forme di coartazione psichica. In questo modo si finirebbe però
per identifica- re nella libertà morale l’interesse di fondo, accomunando in
modo improprio ambiti di intervento che restano ben distinti nel codice 74 Cfr.
FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 75 Si veda
anche l’impostazione di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, cit., pp. 21
ss. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 85
penale e che la dottrina ha contribuito anche di recente a definire nelle
rispettive sfere di autonomia 76. Ci sembra più adeguato tenere in evidenza la
distinzione concet- tuale e collocare la problematica dei ‘sentimenti-valori’ e
delle dispo- sizioni del sentire a uno stadio nel quale la libertà morale,
intesa co- me «libertà di conservare la propria personalità psichica, [...] di
ra- gionare con la propria testa, [...] di formarsi una propria fede religio-
sa politica e di conservarla come di mutarla [...]»77, sia da conside- rarsi
elemento acquisito, e dunque come precondizione delle situa- zioni in cui possono
eventualmente crearsi conflitti relativi al piano dei ‘sentimenti-valori’. Il
tema della tutela da forme di turbamento emotivo e di coarta- zione psichica
viene in gioco in relazione a un’altra fattispecie del codice italiano,
anch’essa formulata attraverso il richiamo a stati af- fettivi, ossia il
delitto di ‘atti persecutori’. La condotta tipica consiste nel porre in essere
azioni di minaccia o molestia tali da ingenerare un perdurante e grave stato
d’ansia e di paura, ossia stati psichici caratterizzati da un tono edonico
negativo e dunque in grado di alterare l’equilibrio emotivo dell’individuo e la
sua tranquillità 78. Si può parlare di tutela di sentimenti in un senso che
contribuisce a rimarcare che l’interesse protetto ha a che fare in primo luogo
con la dimensione affettiva del singolo; in questo senso si è ben sottoli-
neato che il delitto di atti persecutori rappresenta l’avvio di un trend
politico criminale «attento a consolidare la finora striminzita tutela
codicistica dei sentimenti di stampo individuale, in luogo della classi- ca e
per certi aspetti controversa tutela dei sentimenti di tipo colletti- vo [...]
virando verso una maggiore concretizzazione personologica del bene giuridico»
79. La rilevanza giuridica dello stato affettivo non è però qualificata
dall’oggetto del sentire, ma piuttosto dall’impatto 76 NISCO, La tutela penale
dell’integrità psichica, cit., pp. 66, 70, 83 ss., 151 ss.; VITARELLI,
Manipolazione psicologica e diritto penale, Roma, 2013, pp. 121 s. Quest’ul-
tima si sofferma in particolare sulle interferenze fra tutela della libertà
psichica e della libertà di manifestazione del pensiero osservando che il
semplice utilizzo della parola, in assenza di violenza e inganno, resta
comunque resistibile e dun- que non può considerarsi come forma di compressione
della libertà morale. 77 È la cristallina definizione di VASSALLI, Il diritto
alla libertà morale, in AA.VV., Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli,
vol. II, Roma, 1960, p. 1675. 78 Ex plurimis, MAUGERI, Lo stalking, cit., pp.
104 ss.; COCO, La tutela della liber- tà individuale nel nuovo sistema
‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 119 ss. 79 CAPUTO, Eventi e
sentimenti, cit., p. 1388 (nota 38). 86 Tra sentimenti ed eguale rispetto
sull’equilibrio psico-fisico del soggetto. Non sono in gioco ‘sentimen-
ti-valori’: nella fattispecie di atti persecutori il bene-sentimento as- sume
una connotazione più psicologica che simbolico-valoriale. Il richiamo a stati
affettivi nel delitto di stalking ha una funzione rilevante sul piano della
tipicità: gli eventi emotivi descritti nella fat- tispecie devono essere
oggetto di prova. L’alternativa di fondo è fra una concezione patologica,
secondo la quale è necessario un accer- tamento medico-legale della sussistenza
(quantomeno nel caso dello stato d’ansia) di disturbi diagnosticabili secondo
un paradigma me- dico-psicologico80, e un orientamento differente secondo il
quale è sufficiente un disagio accertabile in autonomia dal giudice 81. Appare
comunque riduttivo appiattire il disvalore dello stalking sullo stimolo di
sensazioni negative identificate attraverso standard cognitivi basati sul senso
comune 82. La tipicità penale è imperniata su un’interazione di tipo
psicologico e sulle conseguenti reazioni in- dotte nella vittima, e gli eventi
psichici assumono rilevanza in un’ot- tica strumentale all’evento finale,
sostanziandosi «in percorsi motiva- zionali diretti all’assunzione di una
decisione da parte del soggetto passivo» 83. Nel delitto di atti persecutori il
fatto emozionale assume rilievo quale causa potenzialmente condizionante il
comportamento e la vita di un soggetto. Non dovrebbe essere sufficiente un mero
stato edoni- co negativo, ma si dovrebbe, a nostro avviso, verificare la
sussistenza di stimoli emotivi tali da produrre alterazioni della funzionalità
di scopo nella complessiva economia di azione dell’individuo: forme di
turbamento psicologico che la dottrina penalistica ha collocato nella 80
BRICCHETTI-PISTORELLI, Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida dir.,
10/2009, pp. 58 s.; cfr. BARBAZZA-GAZZETTA, Il nuovo reato di atti persecutori,
in Al- talex, p. 3. 81 VALSECCHI, Il delitto di atti persecutori (il cd.
stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2009, p. 1389. A favore di una
concezione intermedia si pongono FIANDA- CA-MUSCO, Diritto penale. Parte
speciale, vol. II, tomo I, IV ed., Bologna, 2013, p. 231; CAPUTO, Eventi e
sentimenti, cit., p. 1406. In giurisprudenza è discusso se debba trattarsi di
uno stato tale da integrare gli estremi di una malattia mentale; per ora sembra
prevalere l’orientamento che non richiede l’accertamento di uno stato
patologico, ritenendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori «abbiano un
effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della
vittima», così Cass. pen., sez. V, 10/01/2011, n. 16864; cfr. Cass. pen., sez.
V, 01/12/2010, n. 8832; Cass. pen., sez. V, 11/11/2015, n. 45184. 82 In questo
senso la condivisibile posizione di NISCO, La tutela penale dell’inte- grità
psichica, cit., pp. 238 ss. 83 Così li definisce efficacemente CAPUTO,
Eventi e sentimenti, cit., p. 1400. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 87 categoria della ‘sofferenza psichica’,
corrispondenti a «un’alterazione della mente nella sua consistenza, né più né
meno di quanto possa accadere ad una macchina danneggiabile; ed un’alterazione
del fun- zionamento di questa ‘macchina’ come entità diretta ad uno scopo,
secondo una prospettiva nella quale la sofferenza emerge come misu- ra
eccessiva di frustrazione di tale scopo, a prescindere dal danneg- giamento
della macchina» 84. 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione
simbolica negativa nel discorso penalistico Attraverso un excursus sulle norme
di diritto positivo abbiamo cercato di dare una dimensione al versante
descrittivo della formula ‘tutela penale di sentimenti’. Passiamo ora a
considerare il profilo che abbiamo definito ‘connotativo’ e che attiene alla
dimensione teoreti- co-speculativa. Nel discorso penalistico è oggi frequente
l’uso della parola ‘senti- mento’ per definire in termini critici oggetti di
tutela la cui fisiono- mia appare difficilmente determinabile, esposti al
rischio di interpre- tazioni soggettivistiche e suscettibili di incentivare
problematiche espansioni dell’intervento penale; il lessico dei sentimenti non
emer- ge in questo caso da norme, ma dai discorsi dei giuristi. L’interrogativo
concernente la tutelabilità di sentimenti per mezzo del diritto penale ha
tradizionalmente suscitato la diffidenza della dot- trina penalistica, non solo
nel panorama italiano ma anche nel conte- sto europeo-continentale85: più in
generale, il pensiero penale che 84 NISCO, La tutela penale dell’integrità
psichica, cit., p. 68. 85 «Ampio consenso sussiste [...] circa il fatto che
l’utilizzo di norme penali è il- legittimo quando si tratti di tutelare
sentimenti o rappresentazioni morali o di valore», v. WOHLERS, Le fattispecie
penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere
assiologico?, cit., pp. 127 s. Nella dottrina tedesca, il richiamo a sentimenti
è presente nello storico saggio di BIRNBAUM, Über das Erfoderniß einer
Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer Rücksicht auf den
Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts, Neue Folge, 1834, pp.
189 s. Vi è poi l’analisi di MISCH, Der Strafrechtliche Schutz der Gefühle,
Frankfurt am Main-Tokyo, 1911 (ristampa del 1977), pp. 41 ss. Le opere
successive mantengono il focus sul problema della configurabilità come bene
giu- ridico (Rechtsgut) soffermandosi su un’analisi che privilegia l’aspetto
dogmatico piuttosto che la dimensione di politica del diritto; cfr. VOLK,
Gefühlte Rech- tsgüter?, in FS für Roxin zum 80. Geburstag, Band 1, Berlin-New
York, 2011, pp. 215 ss.; SEELMAN, Verhaltensdelikte: Kulturschutz durch Recht?,
in FS für H. Jung, 88 Tra sentimenti ed eguale rispetto identifichi
la propria guida assiologica nei principi liberali ha da sem- pre un rapporto
problematico con le norme a tutela di sentimenti 86. Le motivazioni non si limitano
a questioni di tassatività e deter- minatezza delle fattispecie, ma hanno a che
fare con ragioni di politi- ca del diritto: dietro gli oggetti di tutela
definiti ‘sentimenti’ i legisla- tori hanno di fatto apprestato forme di
presidio a valori, ossia a con- cezioni della vita buona, o della morale
sessuale, o in generale a con- cezioni normativo-ideali. Le norme a tutela di
sentimenti hanno dunque un altissimo coefficiente di pregnanza etica e
riflettono at- teggiamenti valoriali di fondo la cui tutela per mezzo del
diritto pena- le può rappresentare un fattore di alterazione degli equilibri
fra mag- gioranze e minoranze in un contesto pluralista 87. Non deve dunque
sorprendere il fatto che il problema della tu- tela di sentimenti rappresenti
un capitolo importante nel discorso sulla legittimazione delle norme penali,
per quanto spesso non venga richiamato attraverso la formula che qui stiamo
analizzan- do, ma si trovi inserito all’interno di altri macrotemi; ad esempio
nel discorso concernente i rapporti fra diritto penale e morale 88 o
Baden-Baden, 2007, pp. 893 ss.; più diffusamente HÖRNLE, Grob anstößiges
Verhalten. Strafrechtlicher Schutz von Moral, Gefühlen und Tabus, Frankfurt,
2005. Nella dottrina spagnola v. ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal,
cit., pp. 64 ss.; GIMBERNAT ORDEIG, Presentaciòn, in AA.VV., a cargo de Alcàcer
Guirao-Lorenzo- Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Fundamento
de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?,
Madrid-Barcelona, 2007, pp. 11 ss. 86 Cfr. HÖRNLE, La protecciòn de
sentimientos en el StGb, in AA.VV., a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo-Ortiz de
Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Funda- mento de legitimaciòn del
Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, cit., p. 383. 87 Cfr. TESAURO,
La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 972. 88 Il richiamo a sentimenti ed emozioni
intrattiene un legame particolarmente stretto con i problemi relativi al rapporto
tra diritto penale e morale; nella pro- spettiva liberale l’incriminazione di
condotte ritenute contrarie a dettami morali o a tabù in assenza di veri e
propri danni viene motivata, in termini critici, quale violazione di un
sentire. Se da un lato le incriminazioni, o le ipotesi di incrimina- zione, di
violazioni morali vengono definite criticamente come offese a sentimen- ti, non
bisogna tuttavia inferire frettolosamente la veridicità dell’eventuale per-
corso logico inverso, ossia che anche tutte le ipotesi di tutela di un
particolare sentimento costituiscano delle proiezioni del più ampio problema
della punizione della mera immoralità: sarebbe infatti una conclusione che
pecca di genericità e non consentirebbe di riservare la dovuta attenzione ai
diversi problemi di tutela, anche non meramente ‘moralistici’, che potrebbero
ragionevolmente emergere dietro l’evocazione di un sentimento. Sul tema della
punizione dell’immoralità, in una prospettiva che mette in dialogo i criteri di
legittimazione di matrice euro- peo-continentale e anglo-americana, v.
FIANDACA, Punire la semplice immoralità? Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 89 in relazione al problema del paternalismo
penale 89. Nella dottrina italiana le perplessità di fronte a istanze di tutela
caratterizzate da una componente emozionale sono inizialmente formulate in
contesti di analisi incentrati su temi di diritto positivo o di teoria generale
del reato, e mantengono un angolo visuale definibi- le come ‘endopenalistico’,
se non proprio ‘endocodicistico’. Risulta particolarmente significativo il
richiamo che viene fatto al sentimento in un autorevole studio sul bene
giuridico 90: nell’esporre Un vecchio interrogativo che tende a riproporsi, in
AA.VV., a cura di Cadoppi, Lai- cità, valori, e diritto penale. The Moral
Limits of The Criminal Law. In ricordo di Joel Feinberg, Milano, 2010, pp. 207
ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2/2016, pp. 938 ss. 89 CADOPPI, Paternalismo e diritto penale: cenni
introduttivi, in Criminalia, 2011, pp. 223 ss.; ID., Liberalismo, paternalismo
e diritto penale, in AA.VV., a cura di Fian- daca-Francolini, Sulla
legittimazione del diritto penale, cit., pp. 83 ss.; CANESTRARI- FAENZA,
Paternalismo penale e libertà individuale: incerti equilibri e nuove
prospettive nella tutela della persona, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità,
valori e diritto penale, cit., pp. 167 ss.; CORNACCHIA, Placing care. Spunti in
tema di paternalismo penale, in Criminalia, 2011, pp. 239 ss.; PULITANÒ,
Paternalismo penale, in AA.VV., a cura Forti- Bertolino-Eusebi, Studi in onore
di Mario Romano, I, cit., pp. 489 ss.; ROMANO, Danno a sé stessi, paternalismo
legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2008, pp. 984
ss.; SPENA, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibat- tito sui
principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2014, pp. 1209
ss. Con riferimento al tema del potenziamento cognitivo, v. ZANNOTTI,
Potenziamento umano: le considerazioni di un penalista, in AA.VV., a cura di
Palazzani, Verso la sa- lute perfetta. Enhancement tra bioetica e biodiritto,
Roma, 2014, pp. 134 ss. 90 ANGIONI F., Contenuto e funzioni del concetto di
bene giuridico, Milano, 1983, pp. 130 ss. Sul tema è d’obbligo il riferimento a
BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, pp.
7 ss.; v. anche MAZZACUVA, Diritto penale e Costituzione, in AA.VV., a cura di
Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti, Intro- duzione al sistema penale, III ed.,
Torino, 2006, pp. 83 ss. Fra le opere che hanno avuto maggiore rilievo per
l’elaborazione di un concetto di bene giuridico costitu- zionalmente orientato
v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit.: anche in questo caso il
problema nasce dalla problematica fisionomia dell’oggetto di tute- la, il quale
secondo alcune correnti interpretative viene fatto coincidere con un sentimento
soggettivo. Per una panoramica sui differenti sviluppi della teoria del bene
giuridico nei rapporti con la Costituzione, v. FIANDACA, Il bene giuridico come
problema teorico e come criterio di politica criminale, in AA.VV., a cura di
Mari- nucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, pp. 139
ss. (in parti- colare, pp. 161 ss.); DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione,
Padova, 1996, pp. 117 ss.; ID., Ragioni e limiti della fondazione del diritto
penale sulla Carta costitu- zionale, in ID., Alla ricerca di un disegno.
Scritti sulle riforme penali in Italia, Pado- va, 2003, pp. 37 ss.; per un
raffronto con la giurisprudenza costituzionale, v. PULI- TANÒ, Bene giuridico e
giustizia costituzionale, in AA.VV., a cura di Stile, Bene giu- ridico e
riforma della parte speciale, Napoli, 1985, pp. 135 ss.; MANES, Il principio di
offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio
ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, pp. 59 ss.
90 Tra sentimenti ed eguale rispetto la problematica relativa a
fattispecie penali che sembrerebbero rivol- gersi esclusivamente alla tutela di
principi etici, si osserva che «con la realizzazione di un fatto che contrasta
con quelle norme etiche si ur- ta in pari tempo, o si può urtare, contro i
sentimenti di quella parte della popolazione che in quei principi morali crede,
o che addirittura attribuisce loro tale rilievo da averne, come forza politica
o culturale organizzata, difesa la conservazione al rango di valori penali» 91.
Of- fendere valori può significare offendere i sentimenti di chi crede in quei
valori: questa, in sintesi, la motivazione che, secondo Angioni, sarebbe a
fondamento di norme quali, ad esempio, quelle a tutela del pudore e del
sentimento religioso. Il riferimento a sentimenti appare in questo caso
finalizzato a in- centrare il fuoco del disvalore su un bene della persona, così
da poter rinvenire una base di legittimità ancorata a una prospettiva persona-
listica di danno, o comunque non meramente moralistica. Non si tratta però di
una soluzione appagante, in quanto, rileva successiva- mente lo stesso Autore,
resta aperto il problema della necessità e del- la meritevolezza di pena: la
considerazione che l’offesa a un senti- mento sia un criterio di per sé
sufficiente a fondare il ricorso allo strumento penale sembra «cozzare contro
un naturale senso di pro- porzione e di misura» 92. L’argomentazione che
Angioni espone tramite categorie endope- nalistiche (principio di proporzione)
rimanda in ultima istanza a ra- gioni che hanno a che fare con valori di fondo
della democrazia libe- rale e con i principi costituzionali: ritenere che
l’offesa a meri senti- menti non sia sufficiente a fondare una
criminalizzazione legittima è l’esito di un ragionamento che assume a
presupposto un pacchetto di principi di ispirazione liberale, laicità ed
uguaglianza in primis 93. Ciò mostra come il discorso sia tutt’altro che
limitabile a un piano tecnico-giuridico, ma investa in pieno la dimensione
politica del pro- blema penale, anche in forza dei profondi nessi che legano,
in termini di interdipendenza, la presenza di oggetti di tutela ad alta pregnanza
etica, come i ‘sentimenti’, in rapporto alla laicità dell’ordinamento. 91
ANGIONI F., Contenuto e funzioni, cit., pp. 130 ss. 92 ANGIONI F., Contenuto e
funzioni, cit., p. 132. 93 È stato messo in evidenza come, soprattutto a
partire dagli anni Settanta e Ottanta, la riflessione sul dover essere del
diritto penale si sia fondata non tanto sull’affinamento di principi
‘endopenalistici’, compreso il c.d. ‘bene giuridico’, ma piuttosto sul
principio di uguaglianza, il quale ha assunto un ruolo decisivo nel contribuire
a delineare i cardini del costituzionalismo penale: v. DODARO, Ugua- glianza e
diritto penale, cit., pp. 97 ss. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 91 Sulla base di questa consapevolezza la dottrina
penalistica si è impegnata in un’opera di reinterpretazione delle diverse
disposizioni del codice Rocco, offrendo un importante contributo al consolida-
mento di un ideale di democrazia penale laica e costituzionalmente orientata
94. Esempi emblematici sono gli studi sui delitti di religione e sui rea- ti a
tutela del pudore, ad opera rispettivamente di Placido Siracusano e di Giovanni
Fiandaca. Con riferimento ai delitti di religione, Siracusano sottopone a cri-
tica il modello del cosiddetto ‘bene di civiltà’ e del sentimento religio- so
collettivo: «al bene giuridico sentimento religioso individuale si addice, di
regola, una protezione penale dalle caratteristiche fonda- mentalmente
“liberali”; o perlomeno dai tratti più aperti e tolleranti possibile» 95, tale
dunque da attribuirgli un respiro costituzionale che invece non è riconducibile
al paradigma del cosiddetto ‘bene di civil- tà’. L’approdo finale è di segno
abrogazionista, ossia a sostegno di un ordinamento penale che non contempli
fattispecie poste specifica- mente a presidio del sentimento religioso.
Siracusano lascia comun- que intravedere la possibilità che attraverso un
riorientamento in senso personalistico si possa realizzare una intervento
penale compa- tibile con i principi costituzionali, e precisamente come apertura
ver- so qualsiasi ideale di trascendenza, in quanto manifestazione della
coscienza ed espressione della personalità dell’individuo 96. Anche i reati
contro la cosiddetta ‘moralità pubblica’ e il comune sentimento del pudore sono
stati oggetto negli anni ’80 di un’analisi che, orientata a spezzare i legami
con l’impostazione del codice, so- stiene una riconversione in termini
personalistici dell’interesse pro- tetto: dalla moralità pubblica alla
riservatezza sessuale di quanti non intendano fruire di un certo tipo di
manifestazioni. Si deve a uno studio di Giovanni Fiandaca la critica decisiva
al moralismo conservatore che impregnava l’universo applicativo delle
fattispecie a tutela del cosiddetto ‘comune sentimento del pudore’, a sostegno
di un cambio di direzione per il rispetto di diritti di libertà 94 Come
autorevolmente osservato, «la laicità del diritto penale esprime in qualche
modo addirittura la sintesi e in un certo senso il coronamento del costi-
tuzionalismo penale [...] essa evoca lo “spirito” più profondo del
costituzionali- smo penale», V. PALAZZO, Laicità del diritto penale e
democrazia “sostanziale”, cit., p. 438. 95 SIRACUSANO, I delitti in materia di
religione, cit., p. 277. 96 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione,
cit., p. 272. 92 Tra sentimenti ed eguale rispetto che trovano
riconoscimento nella Carta costituzionale, e che risulta- vano compressi dai
modelli di intervento del codice Rocco e da orien- tamenti illiberali della
giurisprudenza. Presupposto di fondo è che in una società liberale e pluralista
lo Stato non debba ergersi a tutore della virtù 97. Il legame col sentimen- to
– schermo retorico che ammanta di una patina personalistica l’impianto di
tutela – viene radicalmente confutato: «non sarebbe suf- ficiente asserire che
il danno provocato dai comportamenti contrari al buon costume consiste
nell’“offesa ai sentimenti” [...] nel passag- gio dal bene moralità al bene
sentimento, il mutamento della dimen- sione qualitativa dell’oggetto della
tutela è appena percepibile: quest’ul- timo finisce infatti col trasferirsi nel
riflesso psicologico di una regola etica di condotta» 98. Sotto un profilo
metodologico l’angolo visuale adottato nei sud- detti studi appare ancora
definibile come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’: in altri
termini, la tematizzazione del pro- blema resta incentrata su profili che
attengono precipuamente le scelte di intervento del codice. In questo senso,
l’approccio muove dalla so- luzione normativa, e tende a seguire un percorso d’analisi
che man- tiene come referente primario gli schemi d’intervento descritti nelle
fattispecie di reato. Fulcro dell’interesse è la risposta normativa; più
circoscritto è lo spazio per l’analisi della dimensione extragiuridica del
fenomeno. In tempi più recenti, a partire dagli anni Duemila, il tema dei sen-
timenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina,
caratterizzato da mutamenti nell’apparato concettuale e da una maggior
propensione a estendere lo studio a profili extragiuridi- ci. Si tratta di un
ammodernamento che porta a superare lo statico quesito sulla configurabilità o
meno del sentimento come oggetto di tutela, andando a tematizzare in termini
più complessi la questione dell’incidenza dei fattori emotivi sulle scelte di
politica penale, ossia del rilievo della componente affettiva come elemento che
concorre a integrare l’oggetto di tutela anche senza identificarsi
espressamente con esso 99. In questo senso l’orizzonte di problemi additato
dalla formula ‘tu- tela di sentimenti’ viene esteso al di là degli ambiti
tradizionali, favo- rendo una riflessione critica sulla consistenza di
interessi di tutela 97 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99. 98
FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 104. 99 Si veda, ad esempio,
ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 39 ss.
Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 93 che
apparentemente non evidenziano una matrice affettiva, ma che ad uno sguardo
attento rivelano una forte pregnanza emozionale. È emblematico un saggio di
Giovanni Fiandaca dedicato ai rap- porti tra bioetica e diritto penale, nel
quale, definendo criticamente delle innovazioni legislative come riflesso di un
clima sociale e politi- co italiano tendente a una rieticizzazione del diritto
100, l’Autore rileva che ai sentimenti e ai fenomeni a essi correlati spetti un
ruolo tut- t’altro che secondario nell’economia del dibattito pubblico e
soprat- tutto nelle scelte di politica del diritto volte a disciplinare i
cosiddetti ambiti ‘eticamente sensibili’. Il terreno della bioetica si trova
infatti a essere soggetto a contrapposizioni fondate su «timori e reazioni emo-
tive che hanno a che fare con la sfera più irrazionale ed oscura di cia-
scuno»101, ossia reazioni di orrore, spavento, raccapriccio, disgusto, definite
dall’Autore «sentimenti e sensazioni»; reazioni emotive che possono indurre un
uso distorto della politica penale tramite divieti assimilabili a mero
palliativo psicologico per i cittadini. La parificazione di istanze di tutela
penale a meri sentimenti è una strategia di critica argomentativa che diverrà
sempre più fre- quente. Prendiamo ad esempio il discorso sulla dignità umana
102. Si tratta di un valore caratterizzato da una spiccata componente
emozionale che la rende strumento retorico particolarmente efficace, ma che la
100 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e
“post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2007, pp. 546; 549. 101
FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 554. 102
Ad oggi nel panorama penalistico lo studio più approfondito è quello di TE-
SAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 89 ss. Il tema della
dignità umana come bene penalmente tutelabile è oggetto di riflessioni critiche
in FIAN- DACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a
cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed
extrapenali, cit., p. 33; ID., Considerazioni intorno a bioetica e diritto
penale, cit., pp. 553 ss.; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista tra
dignità umana e libertà di espressione, in Jus 17@unibo.it, 1/2009, p. 195; pp.
202 ss.; più favorevole a un recupero (tramite un uso accorto e non
inflazionistico) del concetto di dignità umana, PULITANÒ, Etica e politica del
diritto penale ad 80 anni dal Codice Rocco, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2/2010, pp. 510 s. Nella dottrina tedesca si veda l’importante saggio di
HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana,
in Ars interpretandi, 2007, pp. 125 ss.; profili critici del concetto di
dignità in ambito pe- nalistico sono evidenziati anche in ZIPF, Politica
criminale, tr. it., Milano, 1979, p. 89. Nel panorama statunitense, per una
sintesi del dibattito v. MCCRUDDEN, Hu- man Dignity and Judicial Interpretation
of Human Rights, in 19 The European Journal of International Law, pp. 655 ss.;
per una panoramica di taglio più divul- gativo v. ROSEN, Dignità. Storia e
significato, tr. it., Torino, 2012, pp. 65 ss. 94 Tra
sentimenti ed eguale rispetto espone contemporaneamente al rischio di
tramutarsi in un «bene- ricettacolo dei sentimenti di panico morale o delle
reazioni emotive sgradite da cui veniamo sopraffatti di fronte a fatti (o
eventi) insoliti o nuovi che contraddicono modelli morali consolidati [...]
ovvero esu- lano da una radicata autocomprensione antropologica dell’identità
dell’essere umano» 103. Definire la dignità umana è certo impresa ardua, ma è
ragionevole ritenere che tale valore e il suo universo di significato non
debbano es- sere intesi come mero riflesso di percezioni soggettive (vedi
infra, cap. V). Si tratta di un rischio che trova esemplificazione in una
incrimina- zione oggi fortemente discussa, ossia il divieto di propaganda
razzista, definita «norma che si colloca a metà strada tra ‘tutela penale dei
sen- timenti’ e ‘funzione (pedagogico-)promozionale del diritto penale’» 104.
Altro interesse che rivela una problematica osmosi con la dimen- sione
affettiva è la cosiddetta ‘sicurezza’, la cui fisionomia è alquanto nebulosa e
rischia di essere intesa come «fonte di obblighi legislativi di penalizzazione
in funzione ansiolitica»105. Anche dietro il problema che nel discorso
penalistico è stato definito come ‘sicurezza pubblica’ si può scorgere una
matrice emotiva: la paura della criminalità, intesa come emozione di risposta a
una minaccia, reale o semplicemente percepita 106. Tale argomento è oggetto di
studio soprattutto in ambito criminologico107, nel quale è stato osservato come
la pervasività in ambito collettivo della paura non sia dovuta tanto alla
percezione dei singoli cittadini, ma finisca per essere esito di un’insicurezza
sovente manipolata108 attraverso stereotipi e modelli culturali che si incardi-
103 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 78. 104 TESAURO, Riflessioni in tema
di dignità umana, cit., p. 86. 105 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 95.
106 Benché non vada dimenticato che dietro le istanze securitarie mobilitate
dalla collettività vi possono essere, oltre a pretese meramente emotive, anche
bi- sogni reali di tutela, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit.,
pp. 913 ss. Sul tema, in un’ottica critica riguardante le manifestazioni del
trend securitario a partire dagli anni Duemila, v. CERETTI-CORNELLI, Oltre la
paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Milano, 2013, pp.
21 ss.; HASSEMER, Sicurezza mediante il diritto penale, tr. it., in Critica del
diritto, 2008, pp. 15 ss.; DONINI, Sicu- rezza e diritto penale, in Cass. pen.,
10/2008, pp. 3558 ss.; PULITANÒ, Sicurezza e di- ritto penale, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2/2009, pp. 547 ss.; per uno sguardo d’insie- me v. AA.VV., a cura
di Donini-Pavarini Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011. 107 Per tutti,
CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 75 ss. 108 DURANTE, Perché
l’attuale discorso politico-pubblico fa leva sulla paura?, in Filosofia
politica, 1/2010, pp. 49 ss. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 95 nano nelle strutture istituzionali o che vengono
diffuse attraverso i mass media 109, in un processo di circolarità dove
l’insicurezza è al con- tempo motivo di crisi e motore di legittimazione per le
istituzioni 110. Il problema della tutela di sentimenti ha portato la
riflessione penali- stica a meditare anche sugli strumenti concettuali per lo
sviluppo del di- scorso: da un lato la teoria del ‘bene giuridico’ di matrice
continentale, dall’altra lo Harm e l’Offense Principle di matrice
anglo-americana. È emblematico in questo senso un saggio di Massimo Donini il
qua- le evidenzia come anche il ricorso alle categorie anglo-americane sem- bri
deludere aspettative di oggettività delle scelte di criminalizzazione, in
quanto tali categorie «sono spesso definite mediante un utilizzo ambiguo della
categoria dei sentimenti. Troppi sentimenti sia nell’Of- fense (che si
definisce proprio in quanto più sentimentale che dannosa, più irritante che
dolorosa) e sia anche nello Harm, che si fonda pur sempre (specialmente in
Feinberg) sul postulato che la lesione dell’in- teresse produca un dolore, una
sofferenza nel suo titolare» 111. Sullo specifico punto concernente la tutela
di sentimenti la con- clusione dell’Autore è netta: «la tutela specifica dei
sentimenti [...] costituisce un esempio incon- gruo di diritto penale orientato
all’irrazionalità delle funzioni [...] il di- ritto penale non tutela meri
sentimenti anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini
[...], ma [tutela] la loro obiettiva- zione in situazioni sociali, in
interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto
che essi vengono tutelati a prescin- dere dalla prova di quella percezione in
capo a un qualche individuo determinato. [...] La ragione per la quale non è
possibile la tutela di- retta ed esclusiva come oggetto “giuridico”, dei
sentimenti, neppure ovviamente dei sentimenti “morali”, è costituita dal fatto
che essi non sono un oggetto giuridico, e non possono esserlo per carenza di
tassa- tività. È infatti necessario che il sostrato umano fondamentale in cui
si sostanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale
delle persone, si ancori a realtà socio normative più afferrabili e gestibili»
112. Così formulata tale osservazione sembrerebbe fondarsi prevalen- 109
CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 181 ss. 110 CORNELLI, Paura
e ordine nella modernità, cit., pp. 253 ss. 111 DONINI, “Danno” e “offesa”
nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1575. 112 DONINI, “Danno” e
“offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., pp. 1577 ss.
96 Tra sentimenti ed eguale rispetto temente su ragioni epistemologiche:
carenza di tassatività come ‘non afferrabilità’ e dunque sostanziale ‘non
verificabilità’ secondo i prin- cipi che sovrintendono la responsabilità penale.
Diverse le obiezioni avanzate in dottrina, le quali convergono so-
stanzialmente nell’osservare che il pur ragionevole argomento della
non-tassatività dei sentimenti non è decisivo, e rischia di anticipare troppo
con interrogativi sul piano della tipicità che paiono non offri- re adeguato
spazio alla problematica questione dei bilanciamenti che dovrebbero fondare la
legittimazione dei precetti. Si rischia, insom- ma, di «chiudere la partita
prima che cominci» 113. Il monito circa la carenza di tassatività coglie un
aspetto rilevante ma che non pare sufficiente a escludere in via di principio
la legitti- mità di interventi penali. La questione cruciale è «se e quale
tutela [sentimenti ed emozioni] possano chiedere, a fronte di comporta- menti e
manifestazioni espressive del sentimento di altri, nel contesto di una società
aperta» 114. Tirando le fila del discorso, appare evidente come il mainstream
penalistico mostri una sostanziale diffidenza nei confronti del tessuto
emotivo. Si tratta di caveat condivisibili, ma che riteniamo non deb- bano
essere letti, frettolosamente, come avallo di posizioni ‘veterora-
zionalistiche’ che ancora concepiscano in termini dicotomici i rap- porti fra
emozioni, sentimenti e diritto penale, o che intendano nega- re gli influssi
della dimensione affettiva sull’impianto teorico e prati- co della
criminalizzazione. La plausibilità di tali cautele trova una solida base in
studi che hanno evidenziato la possibile inaffidabilità delle emozioni a causa
di contenuti cognitivi falsi, abnormi o più semplicemente incompatibili con i
valori di un ordinamento liberale 115. 113 Così TESAURO, Riflessioni in tema di
dignità umana, cit., p. 90; cfr., FIANDA- CA, Sul ruolo delle emozioni e dei
sentimenti, cit., p. 229. A ben vedere, va ricono- sciuto che l’argomentazione
di Donini sembra andare oltre la questione della me- ra tassatività quando
richiede «che il sostrato umano fondamentale in cui si so- stanziano le offese
e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle per- sone, si ancori a
realtà socio-normative più afferrabili e gestibili: non solo da par- te della
magistratura, ma prima ancora da parte del legislatore, onde evitare i ri- schi
immanenti di un diritto penale irrazionale». Il richiamo a realtà socio-nor-
mative, e non meramente empirico-fattuali, lascia intendere un disvalore
leggibile non solo in termini di suscettibilità individuale, ma misurabile alla
stregua di va- lori che lo facciano apparire ragionevole e non semplicemente
riflesso di un so- lipsistico puntiglio. 114 PULITANÒ, Introduzione alla parte
speciale, cit., p. 42. 115 La studiosa che di recente si è impegnata a
rivendicare l’‘intelligenza Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 97 Si tratta di prendere atto di una complessità di
fondo, riflettendo su quali siano i contenuti di pensiero che possono rendere
l’emozione e il sentimento interlocutori inaffidabili per il diritto penale,
riser- vando però la dovuta attenzione anche a prospettive differenti, orien-
tate a vagliare anche il potenziale di interazione virtuosa che potreb- be
generarsi da un intelligente ‘ascolto’ delle emozioni e dei senti- menti. Tale
ultima istanza trova oggi riscontro anche nel panorama pena- listico italiano,
grazie a contributi che hanno messo a tema ipoteti- che, auspicabili
interazioni fra diritto penale e dimensione affettiva quale coordinata per una
più realistica e consapevole attenzione al profilo umano delle questioni
oggetto di interesse penalistico. 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione:
‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali Vi sono opere, di taglio
differente, che fanno espresso riferimento alla dimensione affettiva e al ruolo
positivo dell’emozione e del sen- timento quali elementi di comunanza e quali
possibili vettori di rico- noscimento reciproco fra essere umani; non si tratta
si riflessioni propriamente incentrate sul sentimento come problema di tutela,
ma di profili legati al rapporto fra emozioni, sentimenti, genesi e struttu- ra
dei precetti penali 116. delle emozioni’, affermandone l’imprescindibile ruolo
anche nelle strategie di politica penale, ha d’altro canto fornito una delle
più approfondite e convin- centi analisi sul potenziale anche negativo che
determinati atteggiamenti emotivi possono assumere in rapporto alla legiferazione
e all’applicazione di norme penali, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit.,
pp. 37 ss. 116 Merita menzione, per quanto sui generis, la posizione espressa
diversi de- cenni fa da Giuseppe Maggiore, la quale, pur derivando da un
retroterra episte- mico ed ideologico profondamente differente dalle
elaborazioni degli autori con- temporanei, costituisce nel panorama penalistico
italiano una emblematica af- fermazione del ruolo positivo del sentimento. In
una serrata critica al pensiero che vorrebbe ricondurre il diritto a mero
sillogismo, a puro «congegno di giudizi logici», lo studioso siciliano
rivendica l’importanza di una ‘vocazione affettiva’, di un quid che possa
offrire un senso alla mera logica formale: «Ogni mediocre in- terprete sa bene che
l’applicazione del diritto non si riduce a un accostamento meccanico tra la
legge e il caso concreto: ma che occorre valutare, ossia sentire giuridicamente
la fattispecie – in tutti i suoi lineamenti, in tutte le sue ombre e sfumature
– per ridurla sotto l’impero della norma [...] un giudizio puramente e
freddamente logico può essere iniquo: nel clima della nuda logica il jus può
trali- gnare facilmente in injuria», v. MAGGIORE, Il sentimento nel diritto, in
Giornale cri- tico della filosofia italiana, 1932, pp. 137, 135 ss., 138.
98 Tra sentimenti ed eguale rispetto Ad esempio, in relazione alle
condizioni di osservanza della legge penale si è definita la forma idealtipica
del diritto penale come «dirit- to del comune sentire (declinato rispettivamente
in forma di principi e di regole/precetti) che dovrebbe trovare cioè nei
consociati il più al- to grado di corrispondenza ideale, di consonanza
soggettiva e dunque di adesione spontanea» 117. Muovendo da presupposti
differenti, si è invece osservato, con ri- ferimento allo specifico ambito
della regolamentazione normativa in materia bioetica, che la ricerca di
risposte normative dovrebbe assu- mere a riferimento anche l’emozione che
scaturisce nei soggetti di fronte a un fatto bioeticamente rilevante. In altri
termini, viene ipo- tizzata una relazione tra la componente emotiva che
caratterizza le scelte individuali e la possibilità che, valorizzando nelle
statuizioni normative elementi fattuali suscettibili di attivare una comune
reatti- vità emozionale, sia possibile addivenire a una maggiore condivisibi-
lità dei precetti 118. In risposta all’opinione di chi non ritiene che il
diritto penale pos- sa tutelare sentimenti viene obiettato che «non può
escludersi [...] che, quanto meno in materia di bioetica, il diritto penale, se
vuole trovare la sua legittimazione, ben possa, anzi debba, tutelare, in un
certo senso, i sentimenti ed addirittura il sentimento del caso concre- to,
senza per ciò trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovvi- ste di
sostrato empirico, ma recuperando, al contrario, insieme alla concretezza,
altresì la prospettiva di un giudizio, se non condiviso, quanto meno diffuso»
119. Nelle linee tracciate da tali Autori viene attribuita al sentimento la
funzione di parametro per l’‘accreditamento etico’ delle norme penali 117
MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti: il lungo cammino del di-
ritto penale incontro alla democrazia, in MAZZUCATO-MARCHETTI, La pena ‘in
casti- go’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, 2006, p. 89. 118
DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 145 ss. Si tratta di un
programma teorico che propone «una rinuncia, pur con tutte le cautele del caso,
a parte della rigidità e della predeterminazione del precetto, per consentire a
quest’ultimo di plasmarsi sul fatto concreto, di valorizzarne le nuances» Un
ango- lo visuale che assume il fenomeno del sentire in una accezione che
potremmo de- finire ‘naturalistico-emozionale’. La funzionalità del precetto
sembra infatti legar- si alla condizione che esso arrivi a contenere elementi
fattuali ad ‘alta carica emo- tiva’: «si porrebbero così le condizioni perché
giochi una empatia che, facendo un punto di forza della sua natura
prosaicamente biologica ed umana, possa svolgere la [...] funzione di
coordinata epistemologica nei suddetti ambiti del penale», v. EAD., Un diritto
penale empatico?, cit., pp. 179, 181. 119 DI GIOVINE, Un diritto penale
empatico?, cit., pp. 78 s. Dimensione codicistica e funzione discorsiva
della formula 99 e più in generale per la legittimazione dell’intervento
penale. Tra le due posizioni sussiste però una profonda differenza: nella
prospettiva di Claudia Mazzucato il ‘comune sentire’ pare doversi intendere in
termini normativi, ossia quale richiamo a valori condivisi modellati su «dati
umani, stabili, trasversali, da sempre validi»120; la strada suggerita da
Ombretta Di Giovine fa riferimento a un sentire ‘natura- listico’, ossia a un
sostrato di reazioni emotive condivise che dovreb- bero costituire punto di
riferimento per le scelte del legislatore nelle materie eticamente sensibili. A
tali studi va affiancato un importante contributo dedicato al te- ma delle
ragioni extrapenali della legittimazione della legge penale 121, il quale,
sulla base di recenti acquisizioni della filosofia morale che evidenziano come
le emozioni siano fra le condizioni della nostra ri- cettività alle
considerazioni razionali e morali122, afferma che ogni concretizzazione del
giudizio penale, dalla previsione edittale fino al- la applicazione della
sanzione comminata, se non vuole limitarsi a pretendere la pura «obbedienza
degli uomini-bambini», debba espri- mere una qualche coerenza rispetto a un
tale ‘comune sentire’ 123. Ve- diamo come anche in questa teorizzazione le
emozioni figurino in una veste emancipata da negatività e irrazionalità, e si
propongano nel ruolo di coordinata epistemica per la ricerca di un terreno di
in- contro tra la forza motivazionale del giudizio morale e le ragioni di
un’osservanza dei precetti che sia ‘sentita’ e non solo imposta. Il rinnovato,
e per certi versi inedito, interesse che i fenomeni del sentire assumono oggi
in diverse branche del sapere – dalla psicolo- gia, alle neuroscienze, alla
filosofia morale – sta avendo dunque ri- flessi anche nel pensiero penalistico:
la prospettiva di analisi incen- trata sul sentimento come oggetto di tutela
resta tema classico, ma i suddetti ulteriori spunti rappresentano un’importante
base di rifles- sione che arricchisce, con promettenti intrecci con la
dimensione morale, il discorso sulla legittimazione delle norme penali e
sull’os- servanza dei precetti. 120 Così lo definisce MAZZUCATO, Dal buio delle
pene alla luce dei precetti, cit., p. 90. 121 FORTI, Le ragioni extrapenali,
cit., pp. 1108 ss. 122 BAGNOLI, Introduction, in AA.VV., ed. by Bagnoli,
Morality and the Emo- tions, cit., p. 16. 123 FORTI, Le ragioni
extrapenali, cit., p. 1120. 100 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.
Sinossi Addentrandoci nel microcosmo giuridico, emergono due possibili accezioni
nel significato della formula ‘tutela di sentimenti’: la prima, descrittiva,
concerne il panorama delle disposizioni in cui il senti- mento è espressamente
evocato quale oggetto di tutela; la seconda, connotativa, coincide con l’uso
che della categoria del sentimento viene fatto nel discorso penalistico, ossia
in una funzione prevalen- temente critica. L’accezione descrittiva ci conduce
verso l’analisi delle fattispecie codicistiche ed extracodicistiche: un
panorama variegato che con- templa due differenti declinazioni del sentimento.
La prima, del tutto tendente alla ‘depsicologizzazione’, nella quale non
entrano in gioco fenomeni psichici bensì ‘sentimenti-valori’; la seconda, più
vicina alla dimensione naturalistica del sentire, si ricollega a fattispecie
come gli ‘atti persecutori’, volte a tutelare la tranquillità psicologica come
bene strumentale rispetto alla libertà di autodeterminazione. Relativamente
all’accezione connotativa e ai discorsi dei giuristi penali, il tema della
tutela di sentimenti ha rappresentato uno dei terreni in cui si è giocata la
sfida culturale per il superamento dei modelli illiberali di incriminazione del
codice Rocco, fungendo in questo senso da ‘trampolino teoretico’ per il
consolidamento dell’in- terpretazione costituzionalmente orientata degli
interessi di tutela penale. Attualmente i rischi di torsioni illiberali
veicolate dall’appello a sentimenti ed emozioni si legano alla incerta
fisionomia di beni e in- teressi caratterizzati da una marcata componente
emozionale (digni- tà, sicurezza). A fronte di tali istanze di tutela il
mainstream penali- stico tende a mantenere una forte diffidenza. Non vanno
tuttavia trascurate anche le prospettive di interazione virtuosa fra dimensione
affettiva e diritto penale, concernenti in par- ticolare il ruolo di sentimenti
ed emozioni nelle dinamiche di adesio- ne e di osservanza del precetto.
PARTE II FRA DIRITTI ED EMOZIONI: ITINERARI E PROSPETTIVE 102 Tra
sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE I Sensibilità individuali e
libertà di espressione 103 CAPITOLO IV SENSIBILITÀ INDIVIDUALI E LIBERTÀ DI
ESPRESSIONE Espressioni ed emozioni: prospettive di approccio «Troppo spesso ci
capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un re- pertorio emozionale
adatto alle esigenze del Pleistocene» GOLEMAN D., Intelligenza emotiva, p. 23
SOMMARIO: 1. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuove
pro- spettive di analisi. – 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’. – 2.1. La
prospet- tiva dell’Offense secondo Joel Feinberg. – 3. Approccio ‘razionalistico-norma-
tivo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum. 1. Libertà
di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuo- ve prospettive di
analisi Le disposizioni del codice italiano nelle quali l’oggetto di tutela viene
definito in termini di sentimento, pur presentando affinità sul piano del
comune rimando a interessi legati alla sfera affettiva, pon- gono l’interprete
di fronte a questioni eterogenee. I problemi relativi al sentimento religioso,
al pudore, al sentimento nazionale, al comu- ne sentimento della morale, si
collegano a un comune substrato in quanto basati su conflittualità di tipo
espressivo-comunicativo e su forme di offesa ‘immateriali’; appare invece
differente il sentimento per gli animali, a tutela del quale vengono
incriminate aggressioni fisiche e maltrattamenti a esseri non umani. Riteniamo
preferibile accantonare per il momento il tema del sen- 104 Tra
sentimenti ed eguale rispetto timento per gli animali e focalizzare
l’attenzione sul retroterra che accomuna i restanti ambiti. Filo conduttore è
il coinvolgimento del piano comunicativo, in un senso non limitato a
espressioni verbali, ma esteso a comportamenti in grado di veicolare
significati1 e di esternare in termini simbolici prese di posizione che vanno a
intera- gire con aspetti profondamente radicati, potremmo dire ‘costitutivi’,
della personalità individuale e dell’identità morale di un soggetto. Tali
profili rimandano, in ambito giuridico, al tema della libertà di espressione,
ampiamente dissodato dalla dottrina non solo penalisti- ca 2. Nell’impianto del
codice Rocco, limiti alla libertà di espressione sono posti in primo luogo a
tutela di interessi dello Stato, mentre i risvolti personalistici dei conflitti
limitati al piano comunicativo tro- vano formale riconoscimento esclusivamente
nelle disposizioni sul- l’ingiuria (oggi abrogata) e sulla diffamazione: le
uniche collocate nel titolo dei reati contro la persona. Al di là delle
etichette legislative e della voluntas del legislatore, dietro reati come
quelli contro il senti- 1 Sull’equiparazione fra condotte verbali ed
espressioni fondate sul valore sim- bolico dei comportamenti, v. BERGER,
Symbolic conduct and freedom of speech, in Russel (ed. by), Freedom, Rights and
Pornography. A Collection of Papers by Fred R. Berger, Amsterdam, 1991, pp. 31
ss. Adotta tale impostazione nella recente let- teratura sulla libertà di
espressione BROWN A., Hate Speech Law. A Philosophical Examination, New York,
2017, p. 5. Nel panorama italiano si sofferma su tale di- stinzione STRADELLA,
La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e
“prassi”, Torino, 2008, pp. 21 ss., 59 ss. 2 Fra gli scritti più significativi
di taglio generale, provenienti, relativamente al contesto italiano, dall’ambito
costituzionalistico, v. ESPOSITO, La libertà di manife- stazione del pensiero
nell’ordinamento italiano, Milano, 1958; BARILE, Libertà di mani- festazione
del pensiero, Milano, 1975; DI GIOVINE A., I confini della libertà di manife-
stazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto
comparato come premessa a uno studio sui reati d’opinione, Milano, 1980;
PALADIN, Libertà di pensiero e libertà d’informazione: le problematiche
attuali, in Quaderni costituzionali, 1/1987, pp. 5 ss.; PUGIOTTO, Le parole
sono pietre? I discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto
costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 7/2013; CARUSO, La libertà di
espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico,
Bologna, 2013; fra i penalisti, v. BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà
di manife- stazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di
pensiero, Padova, 1966, pp. 1 ss.; NUVOLONE, Il problema dei limiti della
libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in AA.VV., Legge
penale e libertà di pensiero, cit., pp. 349 ss.; FIORE, I reati d’opinione,
Milano, 1972; PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale
giustizia?, 1970, pp. 187 ss.; ALESIANI, I reati di opinione, cit.; SPENA,
Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2-3/2007, pp. 689 ss.; VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit. Si vedano
inoltre, quale contributo collettaneo più re- cente, gli Atti del IV Convegno
dell’Associazione Professori di Diritto Penale dedica- to al tema ‘La
criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti’, pubblicati in Riv.
it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 859 ss. Sensibilità individuali e
libertà di espressione 105 mento religioso e contro la moralità pubblica sono
in gioco fenomeni relativi all’universo interiore dell’individuo, alla sfera
del sentire co- me nucleo da proteggere in positivo e in negativo, ossia
favorendone la ‘fioritura’ e la libera espressione, e anche, eventualmente, preser-
vandolo da forme di offesa. Ci sembra che il rispetto della reciproca
sensibilità in rapporto a contenuti espressivi in grado di offenderla
rappresenti il problema che con maggiore immediatezza logico-comunicativa può
identificar- si anche come ‘tutela di sentimenti’. Le questioni che possono
celarsi dietro il richiamo a stati affettivi sono molteplici, ma i rapporti tra
forme di espressione e sensibilità soggettive sembrano costituire oggi una
priorità nell’agenda penalistica. A suggerire un attento sguardo alle ‘guerre
per la libertà di espres- sione’3 è soprattutto l’importanza nello scenario
socio-politico con- temporaneo, il quale rivela un’inedita complessità
derivante dalla consistenza pluralista della società occidentale, anche di
quella ita- liana. È cresciuta la diversità sul piano quantitativo e
parallelamente sono aumentate le sensibilità, incrementando la possibilità di
attriti e portando a emersione, quale riflesso di difficoltà di integrazione in
rapporto agli ingenti flussi migratori, una conflittualità fortemente
radicalizzata in senso identitario4 e minacciata dal rischio del fon-
damentalismo: «l’esperienza comune della diversità e tanto più la comparazione
cul- turale specialistica mostrano che i modi stessi della sensazione e i ri- sultati
della sensibilità sono variabili da cultura a cultura e all’interno stesso di
società complesse, fino ai modi e ai risultati delle sensibilità individuali,
così importanti nella cultura occidentale moderna» 5. Si è detto che è
difficile trovare un argomento su cui si registri un accordo maggiore di quello
relativo alla libertà di espressione, «[a]l- meno finché non ci mette mano la
ricerca della saggezza»6. Nella 3 SULLIVAN, Free Speech Wars, in 48 SMU Law
Review, 1995, pp. 203 ss. 4 Sul problema vedi MANCINA, Laicità e politica.
Prove di ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e
multiculturalismo, cit., pp. 5 ss. Per una critica alle tendenze identitarie e
al concetto di identità, definita ‘parola avve- lenata’, v. REMOTTI, L’ossessione
identitaria, Roma-Bari, 2010. 5 ANGIONI G., Fare, dire, sentire. L’identico e
il diverso nelle culture, Nuoro, 2011, p. 224. 6 BENCIVENGA, Prendiamola con
filosofia. Nel tempo del terrore: un’indagine su quanto le parole mettono in
gioco, Milano, 2017, p. 17. 106 Tra sentimenti ed eguale rispetto
prospettiva delineata dal filosofo Ermanno Bencivenga tale ricerca coincide con
una paziente opera di analisi filosofica che allontani lo spettro dei luoghi
comuni, nella consapevolezza di non poter risolve- re i problemi con ‘sentenze’
o ‘ricette’ 7. Per quanto il giurista senta l’onere di fornire una prestazione
in- tellettuale che in qualche modo si identifichi in una ‘sentenza’ o in una
‘ricetta’, intese come proposte ‘risolutive’, riteniamo che in rela- zione ai
problemi in esame tale ambizione debba essere accompagna- ta dalla
consapevolezza del carattere contingente e parziale delle ri- sposte che
potranno essere eventualmente avanzate8. Non vi sono rimedi taumaturgici e
‘indolori’: se un atteggiamento di tipo repressi- vo potrebbe portare a
comprimere un diritto essenziale delle demo- crazie contemporanee, la
prospettiva opposta di evitare una regola- mentazione lascia aperta la
possibilità di ricadute comunque pro- blematiche. Condividiamo quanto osservato
da attenta dottrina, ossia che per rapportarsi a tali problemi occorra mettere
da parte l’ambizione di elaborare criteri di selezione del penalmente rilevante
di tipo assio- matico-deduttivo, e vada pertanto considerato se «l’approccio
tradi- zionale possa risultare decisivo nel circuito comunicativo delle de-
mocrazie contemporanee; oppure se non vada piuttosto ricalibrato, rivisto, o
quantomeno accompagnato da analisi e valutazioni che si facciano seriamente
carico della complessità culturale, sociale e poli- tica dei contesti locali e
globali in cui risultiamo oggi calati» 9. In altri termini, il tema dei
conflitti in materia di libertà di espres- sione è un significativo banco di
prova che impegna a rendersi fauto- ri di «una scienza non già autoreferenzialmente
chiusa nel giuoco elegante di una dogmatica formalistica, bensì intenzionata a
prende- re in qualche modo posizione sul merito contenutistico delle questio-
ni spinose che il tempo presente prospetta» 10. 7 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia,
cit., p. 11. 8 Parla di carattere ‘contestuale’ ROIG, Libertà di espressione,
discorsi d’odio, soggetti vulnerabili: paradigmi e nuove frontiere, in Ars
interpretandi, 1/2017, pp. 30, 45 ss. 9 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit.,
p. XIV. 10 FIANDACA, Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e
democrazia, in Foro it., 2011, V, p. 10. Afferma la necessità di un’analisi
calata nel contesto socio- politico BOGNETTI, La libertà di espressione nella
giurisprudenza americana. Con- tributo allo studio dei processi
dell’interpretazione giuridica, Milano, 1958, pp. 7 ss.; cfr. da ultimo ROIG,
Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabi- li, cit., p. 29.
Sia consentito il rinvio a BACCO, Dalla dignità all’eguale rispetto:
Sensibilità individuali e libertà di espressione 107 Riteniamo che
occorra dunque provare a immaginare nuovi per- corsi, mettendo in conto
l’irriducibile ‘politicità’ del tema, la quale mette a disagio il giurista che
ancora oggi coltivi l’ambizione (illuso- ria?) di riuscire a concepire proposte
e modelli di interpretazione as- seritamente ‘neutrali’ e avalutativi. È
ricorrente in sede teorica prendere le mosse dall’interrogativo sul perché la
libertà di espressione sia importante. Il livello di reattività emozionale, e
purtroppo anche di violenza fi- sica, che hanno caratterizzato alcuni recenti
episodi nel contesto eu- ropeo11, suggeriscono di affrontare il tema attraverso
prospettive di analisi che non si limitino a una, pur problematica, riflessione
su norme e principi 12. La complessità dei problemi esige un avvicinamento
anche al sub- strato umano dei conflitti e dunque alle emozioni e ai sentimenti
che si agitano sullo sfondo e che sono di fatto i vettori di senso che concor-
rono a guidare le preferenze e le scelte degli individui, e dunque la loro
posizionalità assiologica 13: un discorso che vale non solo per i destina- tari
di espressioni avvertite come offensive, ma che è funzionale a in- quadrare e
definire anche la posizione di chi esprime un pensiero14. libertà di
espressione e limiti penalistici, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 823
ss. 11 Su tutti, i violenti disordini seguiti alla pubblicazione di vignette
satiriche sulla religione musulmana in Danimarca, e il tragico attentato contro
il settima- nale francese Charlie Hebdo, colpevole, agli occhi dei
fondamentalisti, di aver pubblicato vignette blasfeme sull’Islam. 12 Il piano
prettamente giuridico, ossia il riconoscimento di libertà nelle Carte
costituzionali nazionali e in fonti sovranazionali, rappresenta una premessa
del problema; né del resto sembra essere risolutivo l’appello a teorizzazioni
classiche, come quella milliana, il cui pur apprezzabile ottimismo di fondo
dalle coloriture utilitaristiche appare oggi forse troppo irenistico. Ci
riferiamo all’obiezione di fondo con cui Mill critica la prospettiva di limiti
alla libertà di espressione, ossia che la compressione della libertà
limiterebbe la circolazione di eventuali verità che potrebbero arricchire il
patrimonio intellettuale di un popolo, v. MILL, Sulla libertà, tr. it., a cura
di Mollica, Milano, 2007, pp. 117 ss. 13 Traggo questo concetto dalla
teorizzazione fenomenologica di Roberta De Monticelli: definito il sentimento
come «disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo
all’essere di ciò che la suscita», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit.,
p. 121, è importante a nostro avviso legare tale concetto al tema della
posizionalità, per evidenziare come l’atto del consentire e dell’espri- mere
rappresenti una presa di posizione nella quale la persona è coinvolta in quanto
soggetto, v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Milano,
2009, pp. 187 ss. Si veda anche infra, nota 94. 14 Non può essere condiviso
l’assunto secondo cui la caratterizzazione di un’espressione di critica in
termini affettivo-emozionali la renderebbe per ciò solo 108 Tra
sentimenti ed eguale rispetto Anche in tempi in cui la considerazione della
dimensione emotiva non poteva avvalersi degli studi che oggi ne affermano la
rilevanza nelle scelte decisionali, e che ne riabilitano in buona parte anche
la salienza morale, nella dottrina penalistica italiana fu osservato che «è il
senti- mento, l’atteggiamento di adesione o indifferenza per questo o quel va-
lore, e non la ragione raziocinante che di per sé è uno strumento “neu- tro”, a
indicare all’azione i suoi possibili scopi e modi, e in tal modo addirittura a
caratterizzare diverse forme di civiltà» 15. L’atteggiamento dominante della
dottrina penalistica esorta con- divisibilmente alla cautela quando si tratta
di valutare input di politi- ca del diritto che rivelano una componente
emotiva. Ciò non significa cadere nell’eccesso opposto, ossia immaginare o
ipotizzare un diritto penale sordo e cieco rispetto a qualsivoglia istanza di
matrice emoti- va: un ideale ben poco plausibile, poiché la risposta
penalistica è ne- cessariamente anche una risposta a emozioni che si legano
inevita- bilmente ai fatti di vita su cui il diritto interviene, e dovrebbe in
que- sto senso cercare di acquisire una «capacità di rispettoso governo del- le
emozioni e dei sentimenti, come tale autenticamente liberale, ossia
costantemente sostenuta dalla consapevolezza di come lo stesso si- stema di
regolazione debba rassegnarsi, ma anche trarre vantaggio, da questa sorta di
“passività buona”» 16. Da ciò la rilevanza, in primo luogo per la riflessione
teorica, delle risonanze emozionali che trapelano dai conflitti
interrelazionali, fra cui anche quelli legati alla libertà di espressione.
L’obiettivo non è assecondare ciecamente le pretese di una delle incompatibile
con una ‘vera’ manifestazione del pensiero; tale posizione è esplici- tata in
NUVOLONE, Reati di stampa, Milano, 1971, p. 19: «poiché critica significa
dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui, sarà estraneo
all’at- tività critica ogni apprezzamento negativo immotivato o motivato da una
mera animosità personale, e che trovi, pertanto, la sua base in un’avversione
di caratte- re sentimentale e non in una contrapposizione di idee». Il problema
divise la dot- trina penalistica: si vedano a sostegno di un’apertura liberale
PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, cit., pp. 187 ss.; più
recentemente, PELISSERO, Reato po- litico e flessibilità delle categorie
dogmatiche, Napoli, 2000, pp. 212 ss.; per l’opi- nione opposta v. ZUCCALÀ,
Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della li- bertà di pensiero,
in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, pp. 81 ss. Tale
distinzione si lega alla categorizzazione fra manifestazioni del pensiero
‘pure’ e forme di sollecitazione all’azione, utilizzata anche dalla Corte
costituzio- nale ad esempio nella sentenza n. 87/1966; per una critica vedi
CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 95 ss. 15 PULITANÒ,
Spunti critici in tema di vilipendio della religione, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1969, p. 225. 16 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., p.
1114. Sensibilità individuali e libertà di espressione 109 parti, bensì
riuscire ad avere una migliore visuale sulle sfumature as- siologiche che ogni
singola vicenda lascia emergere. Come osservato da autorevole dottrina, vi è
l’esigenza di «riuscire a gettare luce al di là del magma dei sentimenti, nel
tentativo di trarre da essi ragioni argomentabili nella discussione pubblica e
nel dibattito politico cri- minale» 17. Riteniamo che affrontare problemi
concernenti la libertà di espres- sione anche attraverso una ragionevole
attenzione alla dimensione affettiva, possa arricchire i contenuti del
dibattito. In primo luogo, un attento sguardo alle dinamiche emozionali porta a
non perdere di vista la dimensione socio-antropologica dei conflitti, a non
perdersi nel ‘cielo dei concetti’ ma piuttosto a cercare di indagare le matrici
umane del dissenso, le eventuali cause e i potenziali effetti di una
conflittualità che oggi presenta tratti fortemente degenerati, con pre-
occupanti echi che attingono da un inquietante repertorio di odio e di
contrapposizioni. Sul piano della definizione dell’offesa, guardando i problemi
at- traverso la prospettiva dello scontro fra sensibilità emerge un dato di
fondo: non sono coinvolti beni primari quali la vita, l’integrità fisica o la
libertà di autodeterminazione; si attinge un livello non esiziale ma comunque
significativo, poiché dietro un’offesa a sentimenti si profi- la la possibilità
di una sofferenza – in termini di emozione negativa 18 – nel venire a contatto,
o anche semplicemente a conoscenza, di for- me di contrasto o di
disapprovazione che hanno ad oggetto idealità, visioni del mondo, valori. Con
le parole si possono toccare corde sen- sibili dell’animo, quando vengono
criticati o irrisi simboli, dogmi nei quali un individuo si riconosce, anche a
prescindere dal fatto che una data espressione sia rivolta a lui e quando colpisce
in modo indistinto una molteplicità di soggetti accomunati da una credenza.
Qual è l’elemento che può legittimare interventi normativi? È il disagio
emozionale soggettivo che scaturisce di fronte a manifesta- zioni di pensiero
che sostengono valori e visioni del mondo opposte a quella in cui ci si
identifica? O l’attenzione va posta su ragioni ulte- 17 FIANDACA,
Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 555. Giu- sto il
contrario, dunque, di un uso populistico e meramente retorico dell’appello a
sentimenti ed emozioni, il quale peraltro è assai frequente nel dibattito
pubblico come osserva D’AGOSTINI, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti
nel dibattito pubblico, Torino, 2010, pp. 122 ss. 18 Sul concetto di ‘polarità’
delle emozioni, o ‘valenza’, v., ex plurimis, TERONI, Più o meno: emozioni e
valenza, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre
dell’anima, cit., pp. 3 ss. 110 Tra sentimenti ed eguale rispetto
riori che non hanno un’univoca corrispondenza con il contenuto co- gnitivo
delle reazioni emotive suscitate? Le risposte a tali interrogativi possono
condurre ad approcci pro- fondamente diversi, sintetizzabili a nostro avviso in
forme paradig- matiche 19: da un lato un modello di intervento giuridico che
potrem- mo definire ‘naturalistico-emozionale’, e dall’altra un modello ‘razio-
nalistico-normativo’. Nel primo caso il sentire individuale è preso in
considerazione nella dimensione fisico-naturalistica, come coefficiente di
reattività psichica nelle interazioni relazionali e dunque come problema di so-
glie di sensibilità soggettiva da verificarsi sul piano empirico, secon- do
un’impostazione che individua il bene finale nella tranquillità emo- tiva della
persona. L’approccio alternativo, ossia il modello ‘razionalistico-normati-
vo’, cerca di identificare, attraverso le emozioni manifestate e i sen- timenti
chiamati in gioco, istanze e rivendicazioni che possano essere tradotte in
concetti razionalmente e normativamente filtrati, e valuta- te dunque in rapporto
a cornici assiologiche di riferimento 20. In altri termini, l’approccio
‘razionalistico-normativo’ si propone di inqua- drare i problemi in una
prospettiva nella quale la dimensione pret- tamente emozionale costituisce
elemento da tradurre in un contesto 19 Utilizzo il concetto di
‘modello-paradigma’ nell’accezione di SARTORI, Logica, metodo e linguaggio
nelle scienze sociali, cit., pp. 98 ss. 20 Si tratta di modelli di approccio
che evocano alla memoria del penalista soluzioni metodologiche e interpretative
elaborate in relazione all’inquadra- mento dell’interesse protetto nella tutela
penale dell’onore: le concezioni ‘fattua- le’ e ‘normativa’. La prima configura
l’onore come sentimento individuale, o, in riferimento alle condotte di
diffamazione, come elemento sociopsicologico su base collettiva; secondo la
concezione normativa, cui possono affiancarsi le successive rielaborazioni in
chiave di concezione ‘mista’, l’onore è da intendersi come riflesso del valore
dell’individuo in quanto tale, ossia come proiezione del- la dignità umana. Nel
discorso penalistico sull’onore emergono in nuce que- stioni di fondamentale
importanza: il rapporto tra dimensione fattuale e proie- zione normativa dello
stato psicologico associabile al concetto di onore non è altro che la ricaduta
settoriale di un nodo problematico che ricorre di fronte a ogni tipo di
sentimento evocato dal diritto come oggetto di tutela. Nella dottri- na
italiana, ex plurimis, MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., pp. 4
ss.; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, in
AA.VV., Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Milano,
1993, pp. 337 ss.; GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale.
Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, pp. 17 ss.;
per un’originale riela- borazione del tema, v. TESAURO, La diffamazione come
reato debole e incerto, To- rino, 2005, pp. 11 ss. Sensibilità
individuali e libertà di espressione 111 di diritti di libertà e doveri di
rispetto, con tutte le complessità che ne discendono in termini di
bilanciamento. Esporremo i tratti salienti di tali modelli sulla base del
pensiero di due autorevoli studiosi che hanno a nostro avviso contribuito a mo-
strarne le coordinate fondamentali. 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’
Intendiamo come ‘naturalistico-emozionale’ un modello di inter- vento che
assuma a riferimento primario la dimensione naturalistica del sentire,
identificata in manifestazioni di reattività emotiva cui il diritto attribuisca
rilevanza tramite la costruzione di precetti fondati su eventi di tipo
psichico. Una simile prospettiva, nel caso sia volta a preservare la sfera psi-
cologica degli individui da turbamenti emotivi dovuti alla semplice cognizione
o al contatto ravvicinato con esternazioni di opinioni, comunicazione di
contenuti di pensiero o più in generale con atteg- giamenti che suscitino
contrasto fra sostenitori di visioni del mondo diverse, appare un’opzione
fortemente problematica, e con buona probabilità impraticabile. Obiettare la
mancanza di un’offesa significativa dal punto di vista penalistico è però un
argomento non decisivo se si apre la riflessione alle concettualizzazioni di
matrice anglo-americana dei cosiddetti Harm Principle e Offense Principle 21:
da questo punto di vista non è af- 21 Constatata la crisi del cosiddetto ‘bene
giuridico’, anche nella dottrina italiana si è fatto sempre più concreto
l’interesse per le categorie dello Harm e dell’Offense, ricostruite soprattutto
sulla base del pensiero di Joel Feinberg. Nella letteratura ita- liana il
pensiero di Feinberg è stato fra i temi privilegiati di recenti studi
collettanei dedicati al tema della legittimazione del diritto penale: v.
AA.VV., a cura di Fianda- ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto
penale, cit.; AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale,
cit.; si veda lo studio monografico di FRANCOLINI, Ab- bandonare il bene
giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del di- ritto
penale, Torino, 2014, pp. 78 ss.; fra gli articoli in cui si ‘dialoga’ con le
categorie feinberghiane v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale,
cit., pp. 83 ss.; ID., Presentazione. Principio del danno (Harm Principle) e
limiti del diritto penale, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e
diritto penale, cit., pp. VII ss.; FORTI, Principio del danno e legittimazione
“personalistica” della tutela penale, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini,
Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 56 ss.; FIANDACA, Laicità,
danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La
Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 18
ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e tipi di democrazia, in AA.VV., a cura
di Fianda- 112 Tra sentimenti ed eguale rispetto fatto scontato che
una tutela di meri sentimenti, o, più propriamente, volta a evitare emozioni
negative, sia estranea all’ambito della penaliz- zazione legittima, ma si
tratta al contrario di un problema aperto. Le categorie del pensiero giuridico
anglo-americano sono partico- larmente efficaci nell’illustrare la
stratificazione di soglie di offesa che possono ipoteticamente essere addotte
per legittimare interventi penali: il discorso è infatti aperto non solo al
danno, lo Harm, ma anche a forme di interferenza con interessi della persona
meno incisive, ossia l’Offense, traducibile come ‘molestia’ 22. In particolare,
è l’Offense Prin- ciple la categoria che meglio si presta a riassumere il tipo
di offese che si legano al contatto sgradito con determinati atteggiamenti e
contenu- ti espressivi 23. ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto
penale, cit., pp. 153 ss. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale
dei sentimenti, cit., ROMANO, Danno a sé stessi, pa- ternalismo legale e limiti
del diritto penale, cit.; PULITANÒ, Paternalismo penale, cit.; ID., voce
Offensività del reato (principio di), in Enciclopedia del diritto, Annali VIII,
Milano, 2015, pp. 683 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, cit., pp.
938 ss. L’approccio feinberghiano ha suscitato interesse anche in Germania, per
quanto, come espressamente affermato da Tatiana Hörnle, fino ai primi anni
Duemila non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, forse anche,
secondo la Hörnle, per la mancata traduzione dei testi di Feinberg in tedesco,
v. HÖRNLE, Offensive Beha- viour and German Penal Law, in 5 Buffalo Criminal
Law Review, 2001, pp. 258 ss., anche per una sintetica analisi delle
concettualizzazioni feinberghiane in rapporto al diritto penale tedesco. 22 Va
specificato che l’atteggiamento di maggiore o minore apertura a principi di
legittimazione diversi dallo Harm Principle discende da pregiudiziali politico-
filosofiche: ad esempio, secondo una posizione di ‘liberalismo estremo’ solo il
principio del danno (Harm) dovrebbe costituire criterio legittimo di incrimina-
zione. In questo senso la posizione di Joel Feinberg si presenta più aperta,
poiché non esclude che fra le ‘buone ragioni’ vi possano essere criteri complementari
allo Harm: «[è] Feinberg, sostanzialmente, che amplia il discorso al c.d.
“offense prin- ciple”», v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo, cit., p. 92;
cfr. FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 156. 23 Il concetto
di Harm di matrice feinberghiana non corrisponde in toto a quel- lo che ha
trovato successivamente applicazione nel sistema statunitense: lo Harm è stato
oggetto di una dilatazione che ha portato ad allargarne lo spettro di rile-
vanza, e molti dei problemi collocati da Feinberg nell’Offense sono ricollocati
oggi in una versione più estesa dello Harm; per una sintesi v. DE MAGLIE,
Punire le con- dotte immorali?, cit., pp. 947 ss. Si veda anche infra, nota 65.
Sull’applicazione dello Harm a problemi concernenti la libertà di espressione
v. COHEN, Psychologi- cal Harm and Free Speech on Campus, in 54 Society, 2017,
pp. 321 ss. Harm e Of- fense non sono incompatibili fra loro, ma come principi
di sistema possono inte- ragire in termini di complementarietà, ossia è
possibile che alcune norme dell’or- dinamento penale si legittimino in nome
dello Harm Principle e altre in norme dell’Offense Principle. Non va peraltro
dimenticato che «I principi compendiano le ragioni morali che possono sostenere
le proibizioni penali [...] servono a circo- Sensibilità
individuali e libertà di espressione 113 Illustriamo tali concetti attraverso
un cursorio richiamo alla più importante elaborazione sul tema, ossia lo studio
di Joel Feinberg dedicato ai limiti morali del diritto penale e in particolare
al tema dell’Offense Principle 24. 2.1. La prospettiva dell’Offense secondo
Joel Feinberg Cominciamo da un’importante distinzione: secondo Feinberg quando
si parla di tutela della tranquillità psichica volta a evitare reazioni di
disgusto, di rabbia e altre emozioni negative, bisogna di- stinguere fra
molestie in cui vi è la compresenza di soggetto attivo e vittima, fondate su
percezioni di tipo visivo, uditivo o olfattivo, e altre condotte tali da poter
suscitare sensazioni sgradite pur senza un rap- porto di diretta percezione, ma
semplicemente a seguito della presa di conoscenza. Nel primo caso si tratta
della cosiddette ‘nuisance’, ossia offese ai sensi: nelle ‘mere offensive
nuisance’ il torto (wrong) coincide ed è in- scindibile dall’esperienza di percezione
visiva, uditiva, olfattiva o tat- tile 25. Nel secondo caso si tratta di forme
di molestia, cosiddette ‘pro- found offenses’, le quali attingono una
sensibilità di ordine più elevato e sono tali da indurre sofferenza e disagio
anche quando non vi sia percezione sensoriale diretta. Le ‘profound offenses’
si differenziano dalle nuisances in quanto potrebbero continuare a provocare
fastidio anche dopo l’iniziale presa di conoscenza 26: esempi addotti da Fein-
berg sono il voyeurismo, la propaganda nazista e razzista in generale, le
offese a simboli civili e religiosi, l’oltraggio a cadaveri; una dimen-
scrivere l’ambito all’interno del quale la restrizione della libertà dei
consociati è, secondo la concezione che li sostiene, moralmente legittima: ma non
escludono le ulteriori valutazioni di utilità sociale e di effettiva
opportunità che un determina- to legislatore positivo dovrà compiere prima di
decidere se dovrà emanare o me- no una norma penale», v. FRANCOLINI,
Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 78. 24 FEINBERG, The Moral Limits of
the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, New York-Oxford, 1985. Una
versione in nuce dell’elaborazione feinberghiana sullo Harm e Offense
Principle, precedente alla tetralogia sui limiti morali del di- ritto penale, è
contenuta in FEINBERG, Filosofia sociale, tr. it., Milano, 1996 (or. 1973), pp.
55 ss. 25 «[I]t is experiencing the conduct, not merely knowing about it, that
of- fends», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to
Others, cit., p. 58. 26 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol.
II, Offense to Others, cit., p. 51. 114 Tra sentimenti ed eguale
rispetto sione che potremmo definire di ‘sensibilità morale’ nella quale la le-
sione si lega a qualcosa di esterno al soggetto e viene definita ‘pro- fonda’ a
causa del suo impatto su una sensibilità non meramente ‘epidermica’, e che non
dipende dall’effettivo coinvolgimento emotivo di individui determinati. Quanto
all’eventuale rilevanza penale, per Feinberg le profund of- fenses che non
siano contemporaneamente anche nuisances, ossia commesse in un luogo pubblico e
percepite da soggetti terzi, non do- vrebbero rientrare nell’area di
criminalizzazione legittima coperta dall’Offense Principle 27. Con
un’importante conseguenza: se le offese a sensibilità di alto livello non
vengono realizzate attraverso condotte in grado di colpire anche la sensibilità
di soggetti presenti, potrebbe escludersi la loro incriminabilità secondo il
criterio dell’Offense, e si dovrebbe far ricorso a principi di legittimazione
differenti, e del tutto distonici rispetto alle prospettive liberali: il
moralismo giuridico 28. In secondo luogo, anche se si interpretasse il pensiero
feinber- ghiano ammettendo che le cosiddette ‘profund offenses’ possano teo-
ricamente costituire oggetto di incriminazione in quanto riconducibi- li
all’Offense Principle, resta il fatto che i criteri di bilanciamento che
Feinberg enuncia come ‘massime di mediazione’ porrebbero un serio ostacolo
all’incriminazione di offese a sensibilità di ‘alto livello’ 29. Fra 27 Per una
sintesi v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico?, cit., pp. 218 ss. 28 È
l’opinione di FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 221. Sui
rapporti tra Offense Principle e Harmless Wrongdoing v. FEINBERG, The Moral Li-
mits of Criminal Law, vol. IV, Harmless Wrongdoing, New York-Oxford, 1988, pp.
15 s.; ID., Filosofia sociale, cit., pp. 67 ss. Per una sintesi v. FIANDACA,
Punire la semplice immoralità?, cit., pp. 208 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte
immorali?, cit., pp. 945 ss. 29 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law,
vol. II, Offense to Others, cit., p. 60. Nella teorizzazione feinberghiana il
provare un’emozione negativa non è requisito che esaurisce gli elementi
costituitivi dell’offense: condotte in grado di suscitare nei terzi sensazioni
sgradevoli possono scaturire da attività che fanno parte dell’agire quotidiano
di ogni individuo, attività comprese nella normale vita di relazione, e che
tuttavia possono produrre quelli che sono dei cosiddetti ‘stati mentali
sgraditi’. Per ovviare a possibili eccessi, Feinberg rimarca l’esigenza di
elaborare dei criteri di bilanciamento che operino nel senso di restringere
l’ambi- to di criminalizzazione della molestia. Secondo le ‘massime di mediazione’
da lui elaborate, va esaminato il limite della cosiddetta seriousness della
molestia, e del- la reasonableness della condotta attiva: in sintesi, la
serietà della molestia dipende dalla sua intensità, dalla durata;
dall’estensione; dal grado di evitabilità (la diffi- coltà di sottrarsi senza
inconvenienti alla situazione in cui si è assistito alla mole- stia è un
parametro per la gravità della condotta attiva); dalla massima del con- senso,
per cui l’assunzione volontaria del rischio di incorrere nelle condotte
di Sensibilità individuali e libertà di espressione 115 i parametri
di selezione vi è infatti quello della ‘ragionevolezza’ del- l’offesa,
valutabile attraverso i criteri dell’importanza che la condotta riveste per
l’agente, e dell’eventuale utilità sociale della condotta stes- sa, con la
conseguenza che azioni pur offensive, ma che siano al con- tempo forme di
espressione dell’individuo, potrebbero essere consi- derate lecite in forza del
valore individualistico (importanza per l’agen- te) e collettivistico (utilità
sociale) della condotta 30. In relazione alla suscettibilità individuale,
Feinberg è categorico nel porre un’obiezione alla tutela di soggetti
caratterizzati da un’ab- norme emotività, definendoli ‘cavalli capricciosi’
(skittish horses): quan- to più un soggetto è emotivamente suscettibile, tanto
meno potrà pre- tendere che il diritto penale assecondi le sue pretese 31. Fin
qui la teorizzazione di Feinberg sembrerebbe sostanzialmente contraria
all’incriminazione di condotte che offendano valori e sensi- bilità di ordine
elevato. Se dovessimo proiettare le categorie feinberghiane nel diritto ita-
liano potremmo associare tendenzialmente la c.d. tutela di ‘sentimen-
ti-valori’ alle ‘profund offenses’, come offese ad aspetti concernenti il piano
dei valori costitutivi dell’identità morale che attingono strati profondi 32 e
relegano in posizione marginale, anche se forse non del tutto irrilevante, il
profilo della nuisance 33. offense esclude la rilevanza penale di queste, v.
ID., The Moral Limits of the Crimi- nal Law, vol. II, Offense to Others, cit.,
pp. 35 ss. 30 «no amount of offensiveness in an expressed opinion can
counterbalance the vital social value of allowing unfettered personal
expression», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense
to Others, cit., p. 39. 31 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol.
II, Offense to Others, cit., p. 34. Negli Stati Uniti si è recentemente
sviluppato un dibattito avente ad oggetto la libertà di espressione nei campus
e nei college, in relazione alla sensibi- lità degli studenti e alla
possibilità che un’assoluta deregolamentazione della li- bertà di manifestare
il proprio pensiero si riveli loro pregiudizievole: il tema è no- to come
‘Snowflakes’ (letteralmente ‘fiocchi di neve’, appellativo per gli studenti
sensibili). L’orientamento maggioritario tende a ritenere illegittime eventuali
re- strizioni alla libertà di espressione nei campus, adducendo il fatto che il
plurali- smo delle idee, e il confronto anche aspro, è ciò che deve contribuire
a formare e rafforzare la personalità degli studenti; per una sintesi di tale
posizione v. COHEN, Psychological Harm and Free Speech, cit., pp. 320 ss. 32
Cfr. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, cit., pp. 694 ss., il
quale ri- chiama le sensibilità di alto livello quale chiave di lettura dei
c.d. ‘reati d’opinione’. 33 Il profilo del turbamento da contatto visivo o
comunque fisico assume una rilevanza, quantomeno sul piano della costruzione
del tipo di reato, nel caso degli atti osceni; per quanto non si richieda la
verifica di un disagio concretamente esperito da qualcuno, la fisionomia del
fatto tipico resta basata su un’esperienza 116 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Inferire dalle teorie feinberghiane l’illegittimità tout court
di in- criminazioni come ad esempio la propaganda razzista sarebbe però
affrettato: va infatti rimarcato che Feinberg introduce una deroga espressa (ad
hoc amendment) alla sua costruzione teorica al fine di dare un fondamento di
legittimazione alla criminalizzazione di con- dotte di insulto rivolte a
minoranze etniche, razziali, e religiose. Se infatti in linea di principio egli
afferma che fra le massime di media- zione vada contemplato anche il cosiddetto
‘standard di universalità’, ossia la verifica che il comportamento offensivo
sia ritenuto tale da una considerevole maggioranza di persone prese a campione
dall’in- tera popolazione34, e dunque che l’offensività non debba essere de-
dotta dal capriccio di pochi, nondimeno egli ritiene che vada fatta una deroga
nel caso di offese indirizzate a certe minoranze, cui la mag- gioranza potrebbe
restare indifferente ma che, agli occhi di Feinberg, dovrebbero meritare una
rilevanza normativa. Se da un lato tale eccezione sembra introdurre una falla
nella com- plessiva coerenza dell’impianto teorico feinberghiano35, dall’altro
lato la deroga evidenzia come anche all’interno di posizioni fortemente li-
berali sia avvertita l’esigenza di lasciare aperta la possibilità di limiti a
determinate forme e contenuti espressivi: la motivazione non risiede
nell’eventuale turbamento emotivo (diversamente ricadrebbe nel di- scorso delle
nuisance), ma le ragioni sono più plausibilmente da ricer- carsi sul piano dei
principi normativi e, in particolare, in relazione alle modalità tramite le
quali una democrazia liberale dovrebbe tutelare le minoranze in una cornice di
uguaglianza sostanziale. Appare evidente che la partita decisiva si gioca su
valori; sia il principio dello Harm, sia il principio dell’Offense, non possono
fare affidamento una base oggettiva e neutrale al punto da poter prescin- dere
da una preliminare scelta assiologica su quali siano gli interessi la cui
lesione deve essere considerata rilevante 36 e soprattutto su co- visiva, e che
dunque richiede un contatto fra soggetti e non può limitarsi alla semplice
presa di conoscenza. 34 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol.
II, Offense to Others, cit., pp. 26 ss. 35 Per un’attenta critica v. MANIACI,
Come interpretare il principio del danno, in Ragion pratica, 1/2017, pp. 160
ss. 36 FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra
visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in AA.VV., a cura di
Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 315
ss.; sulla componente valoriale del concetto di danno cfr. FIANDACA, Punire la
semplice immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a ri- proporsi, in
AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori, diritto penale, cit., p. 225.
Sensibilità individuali e libertà di espressione 117 me debbano essere
bilanciate le opposte pretese. Nell’impostazione feinberghiana, comunque
incentrata su aspetti di sensibilità soggetti- va, tale ruolo è svolto, come
detto, dalle c.d. ‘massime di mediazione’; va però osservato che dopo Feinberg
l’evoluzione dell’Offense Princi- ple sarà caratterizzato da un processo di
‘depsicologizzazione’, il qua- le condurrà a definizioni normativamente più
pregnanti, per quanto ancor problematiche, come ad esempio quella proposta da
Andrew Von Hirsch 37. Tirando le fila del discorso, un approccio puramente
‘naturalisti- co-emozionale’ al problema della tutela di sentimenti appare
difficil- mente praticabile poiché finirebbe per incrementare la
conflittualità. Secondariamente, anche le declinazioni a nostro avviso più
vicine all’approccio naturalistico rivelano l’ineludibilità di un filtro norma-
tivo delle pretese, volto a distinguere fra atteggiamenti ragionevoli e
irragionevoli secondo una prospettiva di tollerabilità sociale. Il pas- saggio
al piano di una considerazione delle emozioni e dei sentimenti da un punto di
vista normativo è dunque inevitabile, così come è ine- vitabile far confluire
le diverse istanze in una prospettiva di bilan- ciamento. Tale esigenza viene
approfondita in particolar modo dalla statuni- tense Martha Nussbaum, e proprio
a partire dalle sue elaborazioni cercheremo di illustrare le coordinate di un
approccio alternativo. 37 VON HIRSCH, The Offence Principle in Criminal Law:
Affront to Sensibility or Wrongdoing?, in 11 King’s Law Journal, 2000, pp. 82
ss. Il correttivo adottato da Von Hirsch – il quale ritiene che, inteso come
‘affront to sensibility’, l’Offense Prin- ciple sia troppo espansivo – consiste
nel valutare la condotta ritenuta offensiva sia secondo parametri di
adeguatezza sociale, sia soprattutto includendo nel giudizio il principio
morale del reciproco rispetto: «All three reasons invoke convention to give
social meaning to the conduct, but entail a further reason of a moral kind,
concerned with treating others with proper respect»; v anche ID., I concetti di
“danno” e “molestia” come criteri politico-criminali nell’ambito della dottrina
pena- listica angloamericana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, cit.,
pp. 35 ss. Nel complesso, l’Offense feinberghiana è stata sottoposta a un
graduale processo di depsicologizzazione che ne ha ridotto in buona parte il
divario con lo Harm; osserva icasticamente HÖRNLE, Offensive Behaviour and
German Penal Law, cit., p. 268, che «If one does not view “offense to others”
as a psychological phenome- non, as does Feinberg, but as a normative concept,
the conceptual difference between harm and offense disappears». 118
Tra sentimenti ed eguale rispetto 3. Approccio ‘razionalistico-normativo’:
emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum Definiamo
‘razionalistico-normativo’ un approccio teorico che su- bordini la rilevanza
giuridica di atteggiamenti emotivi e di fatti di sentimento alla valutazione
dei relativi contenuti cognitivi, e in parti- colare alla verifica
dell’adeguatezza del giudizio di valore alla base dell’atteggiamento
emozionale, intesa come consonanza o compatibi- lità rispetto a principi base
della convivenza. Martha Nussbaum assume come presupposto l’innegabile rilevan-
za del fattore emozionale nel diritto e nelle questioni di etica pubbli- ca,
sostenendo la necessità di un ‘buon uso’ delle emozioni, non di un avallo
acritico, alla luce di ragioni che si intrecciano con profili di psicologia
sociale e con valori di fondo connessi ai sistemi politici e ai modelli di
democrazia. Per ora ci limitiamo a sintetizzare il cuore della prospettiva
politi- co-normativa della Nussbaum, al fine di evidenziare come, rispetto alla
teorizzazione di Feinberg, la componente sensoriale-emotiva ri- sulti decisamente
in secondo piano. L’obiettivo che emerge dalle ope- re della Nussbaum è
l’educazione dei legislatori e dei giudici a un ascolto critico e consapevole
delle emozioni individuali e collettive, finalizzato a gettare luce sul
riconoscimento di diritti e a non asse- condare atteggiamenti fondati su
generalizzazioni e stereotipi di- scriminatori che collidono con i valori di
una democrazia liberale. Secondo la Nussbaum, l’emozione ha un ruolo rilevante
nella for- mazione delle opinioni e dei giudizi dell’individuo, non è un moto
cieco e irriflesso ma implica credenze che possono essere più o meno
attendibili o ragionevoli (vedi supra, cap. II). È fondamentale inter- rogarsi
sui contenuti di pensiero alla base delle emozioni per poter maturare un
atteggiamento selettivo sul piano giuridico: «[i] giudizi sulle credenze
valutative sono essenziali per il ruolo giocato dalle emozioni nel diritto»38.
Conseguentemente, l’etica pubblica non do- vrebbe essere fondata su una matrice
puramente emotiva: risulta es- senziale un filtro normativo, ossia un passaggio
di confronto fra l’emozione in senso psicologico, i fondamenti cognitivi e
un’assiolo- gia di riferimento. È emblematico il caso di un’emozione
particolarmente radicata nelle società umane come il disgusto, il quale nella
sua dimensione primaria ha la funzione di proteggere l’essere umano da fattori
con- 38 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., p. 53. Sensibilità
individuali e libertà di espressione 119 taminanti, rappresentando un
fondamentale strumento di sopravvi- venza in rapporto a un’importante sfida
adattiva 39: quella di evitare il contatto con sostanze pericolose o nocive per
la salute, stando ad esempio lontano da corpi in decomposizione, non
abbeverandosi o nutrendosi da fonti di potenziali malattie et similia. Il
disgusto esiste per condurre l’essere umano a un approccio se- lettivo, la cui
traiettoria era, in origine, rivolta a oggetti cosiddetti ‘pri- mari’ (sangue,
feci, sperma, urina, muco, cadaveri), e che con l’evolu- zione dei contesti
culturali e delle norme sociali ha subìto un riadat- tamento in termini di
proiezione40. Si parla di disgusto ‘proiettivo’ per indicare il caso in cui
tale emozione si rivolga a individui o a gruppi di individui in virtù di
un’associazione immaginativa deter- minata da norme sociali o dallo stretto
contatto del gruppo con og- getti ‘primari’ del disgusto 41. In questo modo
esso rischia di farsi por- tatore di una carica discriminatoria poiché si lega
a idee di contami- nazione e a un rifiuto dell’animalità (e dunque della
limitatezza e del- la mortalità) umana che conduce all’emarginazione e alla
stigmatiz- zazione di ciò che può essere percepito come anomalo o ‘diverso’42,
fino all’avversione verso soggetti riconducibili a cosiddetti ‘gruppi
impopolari’ (minoranze razziali, ebrei, omosessuali, ecc.). Le riflessioni di
Martha Nussbaum rappresentano un’importante coordinata riguardo al problema
della tutela di sentimenti, per quan- to vadano fatte alcune precisazioni:
l’oggetto principale delle analisi della studiosa sono gli atteggiamenti
emozionali collettivi e i loro ri- flessi sul piano delle scelte di politica
del diritto e, in particolare, di politica penale. In che termini tali
indicazioni possono essere utiliz- 39 HAIDT, Menti tribali, cit., p. 159. 40
Come osservano gli antropologi Dan Sperber e Lawrence Hirschfeld, citati da
Jonathan Haidt, bisogna distinguere tra fattori di attivazione originari, ossia
gli oggetti per i quali la funzione adattiva è stata progettata
dall’evoluzione, e fat- tori scatenanti che possono accidentalmente attivare
quella reazione, anche in assenza di pericoli reali, in forza di percezioni
erronee dovute a distorsioni senso- riali o a condizionamenti socio-culturali.
Osserva Haidt che «[l]e variazioni cultu- rali della morale si possono in parte
spiegare con il fatto che le culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il
numero di fattori scatenanti attuali di un qual- siasi modulo», v. HAIDT, Menti
tribali, cit. p. 158. 41 NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., p. 86. 42
NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., pp. 98, 157. Per una diversa opinione,
volta a sottolineare aspetti in relazione ai quali l’emozione del disgusto può
risul- tare importante nel giudizio morale e, secondo gli esempi riportati
dall’Autore, anche nelle dinamiche del giudizio penale, v. KAHAN, The
Progressive Appropria- tion of Disgust, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions
of Law, cit., pp. 63 ss. 120 Tra sentimenti ed eguale rispetto zate
relativamente ai problemi concernenti la libertà di espressione e il rispetto
dei sentimenti altrui? Il suggerimento traibile dalle riflessioni della
Nussbaum concerne l’esigenza di verificare in quale misura eventuali richieste
di tutela per un dato sentimento trovino la propria matrice in atteggiamenti
che, ad un’attenta valutazione sul piano cognitivo-razionale, rivelano una
tendenza al rifiuto dell’altro, e dunque una portata sostanzial- mente
discriminatoria. Ci sembra un avvertimento quantomeno opportuno e ben spendi-
bile in rapporto alle odierne politiche penali, in cui l’ascolto di emo- zioni
collettive si è talvolta rivelato strumentale all’emanazione di provvedimenti
volti a raccogliere consenso43, senza valutare, o me- glio omettendo talvolta
volutamente di considerare, se e in che misu- ra certe emozioni siano il riflesso
di atteggiamenti che una democra- zia basata su libertà e uguaglianza non
dovrebbe assecondare. Il punto nodale per addivenire a un modello di intervento
orienta- to in termini non puramente emozionali è la previa ‘interpretazione’
delle dimensioni di significato di determinante emozioni e sentimen- ti, da
considerarsi dunque non nella loro ‘bruta’ naturalità, bensì soppesandone la
rilevanza soggettiva e sociale, e bilanciandola con un sistema di diritti di
libertà il quale è a sua volta il precipitato di scelte di valore. La questione
dell’orizzonte assiologico cui fare riferimento è cen- trale sia per inquadrare
la fisionomia del modello normativo sia per il successivo sviluppo del discorso
concernente gli equilibri relativi ai rapporti fra sensibilità soggettive e
libertà di espressione. 43 Il problema rimanda al tema del cosiddetto
‘populismo penale’: per una pa- noramica v. PULITANÒ, Populismi e penale.
Sull’attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013,
pp. 125 ss.; FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in
Criminalia, 2013, pp. 102 ss. Sensibilità individuali e libertà di
espressione 121 SEZIONE II Coordinate assiologiche «Quando sento parlare di
idee liberali mi meraviglio sempre di come gli uo- mini giochino volentieri con
parole vuote: un’idea non può essere liberale! Deve essere vigorosa, efficace,
in sé compiuta, in modo da adempiere alla sua divina missione di riuscire
feconda. Ancor meno può essere liberale il concetto; infatti ha un compito completamente
diverso» GOETHE J.W., Massime e riflessioni, p. 57 «Non possiamo mai né
atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o dell’individualismo,
né essere semplicemente comunitaristi o liberali, modernisti o postmodernisti;
dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora l’altra, a secon- da delle
circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio» WALZER M., Sulla tolleranza,
p. 154 «E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento?» PIRANDELLO L., Il fu
Mattia Pascal SOMMARIO: 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica. –
4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste. – 4.2. Dai
valori collettivi all’indivi- dualismo democratico. – 5. Sentimenti ed emozioni
come richiamo ‘metoni- mico’ e personologico. – 6. Sinossi. 4. Orizzonte
costituzionale e spazio della politica Il modello ‘razionalistico-normativo’
appare quello più funzionale allo sviluppo delle nostre riflessioni, e pone in
primo piano la que- stione di quali debbano essere gli assunti valoriali e i
principi-guida in rapporto ai quali valutare se determinati ‘sentimenti-valori’
possa- no ragionevolmente accreditarsi come meritevoli di una qualche pro-
tezione. Tale problema si articola in diversi piani di analisi: a un primo
li- 122 Tra sentimenti ed eguale rispetto vello l’inquadramento di una
cornice assiologica è funzionale all’in- terpretazione delle fattispecie
vigenti, e trova nella Carta costituzio- nale il referente primario. Come
abbiamo avuto modo di osservare, l’impronta ideologica che connota la fisionomia
dei reati a tutela di ‘sentimenti’ presenti nel codice penale mostra una
distonia rispetto ai principi della Costi- tuzione italiana: nei casi più
evidenti ciò ha condotto alla caduta di importanti disposizioni (si pensi
all’art. 402 c.p.44), mentre in altri ambiti vi è stata una radicale
reimpostazione, a livello giurispruden- ziale, della prospettiva di tutela (si
pensi ai reati a tutela della pubbli- ca moralità e del buon costume 45). Negli
esempi menzionati si è trattato di eliminare contrasti la cui evidenza ha reso
sostanzialmente agevole all’interprete capire quale potesse essere la strada
‘giusta’, o, più cautamente, la soluzione meno in contrasto con la Carta
fondamentale, facendo leva in particolare sul connubio fra uguaglianza e
laicità: l’uguaglianza ha costituito il parametro costituzionale
fondamentale46, mentre attraverso il prin- cipio supremo di laicità 47 la Corte
ha delineato la cornice assiologica di base, riconoscendo espressamente il
pluralismo come un valore, non solo come un dato di fatto 48. 44 V. supra, cap.
III, nota 24. 45 V. supra, cap. III, nota 37 per i riferimenti alla
giurisprudenza di legittimità e costituzionale. 46 Si basa sul principio di
uguaglianza il nucleo motivazionale della sentenza C. cost., n. 508/2000; per
una contestualizzazione di tale pronuncia nel quadro della giurisprudenza
costituzionale in materia di uguaglianza, v. DODARO, Ugua- glianza e diritto
penale, cit., pp. 152 ss. Relativamente al tema del buon costume, la
giurisprudenza costituzionale non è mai arrivata a pronunce di illegittimità,
ma solo perché «il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più
in casi in cui la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe,
quanto- meno per qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il
legislatore considera inequivocabilmente come illeciti penali – impone il
mantenimento in vita di una norma di legge quando a questa possa essere
riconosciuto almeno un significato conforme a Costituzione»: con queste parole
la Corte, con la sentenza n. 368 del 1992, ha salvato la norma che incrimina le
pubblicazioni oscene rimar- cando la necessità di un’interpretazione
adeguatrice coerente con gli artt. 21, 27, 2, 3, 13 e 25 Cost. 47 Sulla laicità
come principio supremo, o più precisamente come ‘meta- principio’, v., nel
contesto penalistico, PALIERO, La laicità penale alla sfida del ‘se- colo delle
paure’, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2016, pp. 1164 ss. 48 Questo il
messaggio fondamentale che ci sembra leggibile nel richiamo al principio di laicità
che «[caratterizza] in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il
quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e
Sensibilità individuali e libertà di espressione 123 Vi è poi un secondo
livello in cui l’individuazione di coordinate assiologiche ‘vincolanti’ a
livello costituzionale diviene più sfumato, e meno univoco: il problema emerge
sia in relazione al quadro di in- criminazioni oggi vigenti in cui vengono in
gioco bilanciamenti con la libertà di espressione – non solo l’ambito del
sentimento religioso ma anche le discusse norme sulla propaganda razzista – e
si proietta, con ulteriore complessità, nella riflessione de jure condendo. Il
sospetto di una illegittima compressione di spazi di libertà sem- bra richiedere
un onere argomentativo più gravoso poiché, pur te- nendo sempre ben presente la
bussola assiologica della Costituzione, il giurista penale si trova a doverne
constatare la limitata precettività, ossia la compatibilità con un ventaglio di
prospettive di segno diverso le quali potrebbero risultare tutte ‘non
illegittime’ 49. Proprio quando si fanno più stringenti le esigenze di
individuare soluzioni che ambiscano a una legittimazione costituzionale
‘forte’, e specialmente quando le materie da regolare chiedano al diritto prese
di posizione che implicano l’assunzione di un punto di vista ideologi- camente
pregnante50, la speranza di trovare nel testo costituzionale tradizioni
diverse», testualmente contenuto nella sentenza n. 508/2000 (ma si ve- da anche
l’inciso finale della sentenza n. 440/1995 sulla parziale illegittimità costi-
tuzionale dell’incriminazione della bestemmia). Per la distinzione tra
pluralismo come fatto e come atteggiamento v. MARCONI, Per la verità.
Relativismo e filosofia, Torino, 2007, pp. 89 ss.; BARBERIS, Etica per
giuristi, Roma-Bari, 2006, pp. 105 ss., 157 ss. Per una sintesi della portata
assiologica e costituzionale del principio di laicità v., ex plurimis, BARBERA,
Il cammino della laicità, in AA.VV., a cura di Ca- nestrari-Stortoni, Valori e
secolarizzazione nel diritto penale, Bologna, 2009, pp. 19 ss.; nell’ambito
penalistico, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Laicità del diritto penale,
cit., pp. 167 ss.; PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., pp. 283 ss.;
PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, cit., pp. 440
ss.; CANESTRARI, Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in
AA.VV., a cura di Dolcini- Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit.,
pp. 139 ss.; EUSEBI, Laicità e di- gnità umana nel diritto penale (pena,
elementi del reato, biogiuridica), in AA.VV., a cura di Bertolino-Forti,
Scritti per Federico Stella, Napoli, 2007, pp. 163 ss.; FORTI, Alla ricerca di
un luogo per la laicità: il “potenziale di verità” nelle democrazie libera- li,
in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto
pe- nale, cit., pp. 349 ss.; ROMANO, Principio di laicità dello Stato,
religioni, norme pe- nali, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e
secolarizzazione nel diritto penale, cit., pp. 209 ss. Sul tema della laicità
del diritto penale e delle connessioni con l’etica cattolica, v., per tutti,
STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in AA.VV., a cura di
Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, cit., pp. 317 ss. 49
FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1268. 50 FIANDACA, I temi eticamente
sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen.,
4/2011, pp. 1383 ss. 124 Tra sentimenti ed eguale rispetto una
risposta definitiva deve fare i conti con una vocazione pluralisti- ca della
Carta 51, la quale non addita soluzioni univoche ma è «suscet- tibile di subire
più interpretazioni e più modalità di attuazione, entro uno spazio di
discrezionalità politico-valutativa all’interno del quale nessuna
interpretazione o modalità di attuazione può vantare titoli per imporsi come
l’unica corretta o, al contrario, essere censurata perché scorretta» 52. Va
dunque ridimensionata l’ambizione di usare il testo costituzio- nale come
‘strumento di precisione chirurgica’ per tratteggiare diret- tive univoche che
consentano al giurista positivo di accreditare da un punto di vista
intraordinamentale risposte concernenti conflitti fra libertà di espressione e
sensibilità soggettive 53. Alla luce di tale panorama si è esortato a fare un
uso ‘avveduto e parsimonioso’ della Costituzione 54. A nostro avviso, tale uso
prudente potrebbe essere accompagnato, financo ‘compensato’, da una rifles-
sione che esplori un ulteriore livello di normatività, trascendente sia il
contesto codicistico sia l’orizzonte costituzionale 55, nella consape- 51 Sul
pluralismo della Carta costituzionale italiana, in termini problematizzanti, v.
ANGIOLINI, Il «pluralismo» nella Costituzione e la Costituzione per il
«pluralismo», in AA.VV., a cura di Bin-Pinelli, I soggetti del pluralismo nella
giurisprudenza costitu- zionale, Torino, 1996, pp. 14 ss. Fra i penalisti, con
particolare riferimento al carat- tere non esaustivo dei principi
costituzionali per la scelta degli oggetti di tutela, v. PALAZZO, Principi
costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in AA.VV., a cura
di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, cit., pp. 377 ss.;
MANES, Il principio di offensività nel diritto penale, cit., pp. 160 ss. 52
VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 244; cfr. DONINI, “Danno” e “offesa”
nel- la c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1576: «la fondazione positiva
[...] di ciò che può essere reato, esige una ricostruzione più complessa, che
trova nella Costi- tuzione, per es., solo alcuni, pur rilevanti parametri che
convergono insieme nel dare al reato anche un volto positivo di matrice
costituzionalistica». 53 Sulla teorizzazione di diversi modelli di rapporto e
di conflitto fra principi costituzionali (modello ‘minimalista’ e modello del
bilanciamento, a sua volta su- scettibile di essere declinato come modello
‘irenistico’ e modello ‘particolaristi- co’), v. CELANO, Diritti, principi e
valori nello Stato costituzionale di diritto: tre ipo- tesi di ricostruzione,
in Diritto e questioni pubbliche, 4/2004, pp. 8 ss. 54 Sono parole di VISCONTI
C., Aspetti penalistici, cit., p. 243. 55 Tale istanza metodologica viene
tematizzata ad esempio in FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1389
ss., quando parla di ‘coordinate teoriche e assio- logiche’ del diritto penale
contemporaneo facendo riferimento ai concetti di plu- ralismo, ‘ragione
pubblica’, costituzionalismo e laicità. Con riferimento all’ambito
costituzionalistico v. SILVESTRI, Dal potere ai princìpi. Libertà ed
eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, p. 36. Sul
ricorso ad argo- mentazioni morali sostanziali nell’applicazione di
disposizioni costituzionali, v. CELANO, Diritti, principi e valori, cit., pp. 2
s. Sensibilità individuali e libertà di espressione 125 volezza che
«l’interpretazione delle disposizioni costituzionali sui di- ritti non è
questione di pura tecnica giuridica: è questione politica in senso pieno» 56.
Tuttavia, anche una volta che ci si spinga al di là dello spazio normativo
della Costituzione per far riferimento all’offerta teorica proveniente
dall’ambito filosofico-politico i problemi non svaniscono. Nel discorso
penalistico è d’uso il richiamo al liberalismo quale teoria politica di
riferimento 57, ma anche tale soluzione non è suffi- ciente a definire
prospettive univoche: si parla oggi di «pluralità di liberalismi» 58. Un
generico richiamo al liberalismo rischia di dar luogo oggi a una ‘comfort zone’
teoretica la quale non favorisce il confronto fatico- so, e quasi traumatico,
con teorie filosofico-politiche che esorbitano da una prospettiva dicotomica
‘liberale-illiberale’. La diversità di vedute concerne principalmente, ma non
solo, gli equilibri di priorità fra ‘giusto’ e ‘bene’59, riflesso
dell’alternativa fra un liberalismo propriamente politico e un liberalismo
eticamente più ‘spesso’ 60. 56 PINTORE, I diritti della democrazia, Roma-Bari,
2003, p. 116. 57 Malgrado l’aspetto ossimorico dell’espressione ‘diritto penale
liberale’, v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., p. 331. 58
MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in DWORKIN-MAFFETTONE, I
fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, 2007, pp. 128 ss. L’osservazione si
riferi- sce in primo luogo alla coesistenza di correnti diverse interne
all’idea liberale, ma evidenzia come le distinzioni possano dipendere anche dal
contesto e dall’ambito disciplinare in cui viene spesa la nozione di
‘liberalismo’: esiste, ad esempio, an- che un «liberalismo dei giuristi [...]
più attento alle caratteristiche legali e istitu- zionali» (p. 129). 59 È il
problema nel quale si inscrive la dialettica fra posizioni à la Rawls, so-
prattutto il Rawls dell’opera ‘Liberalismo politico’, e posizioni
comunitariste. Te- sti di riferimento sono da un lato RAWLS, Liberalismo
politico, tr. it. a cura di Fer- rara, Roma, 2008, e per le posizioni
comunitariste v. per tutti SANDEL, Il liberali- smo e i limiti della giustizia,
tr. it., Milano, 1994. Per una panoramica, v. VECA, La filosofia politica,
Roma-Bari, 2009, pp. 92 ss. 60 In estrema sintesi, si definisce come
‘liberalismo politico’ la teoria che ritie- ne che lo Stato debba assumere a
proprio fondamento una concezione morale minimale su cui sia possibile trovare
un punto di incontro e di intersezione fra le diverse teorie morali presenti
nella società plurale. In questo senso lo Stato do- vrebbe tendere a una
neutralità. Dalla parte opposta, si argomenta come la ricer- ca di una
neutralità possa portare da un lato a una eccessiva ‘asetticità valoriale’ e
finisca per riservare un’attenzione insufficiente al discorso sulle preferenze
e sul benessere degli individui, concependo un idealtipo di essere umano eccessiva-
mente ‘vuoto’ e poco realistico. Nell’ampio panorama si vedano le declinazioni
del 126 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nel prendere atto di tale
realtà, il giurista penale è chiamato ad adottare uno sguardo più disincantato
anche di fronte all’assioma co- stituito dal richiamo a valori liberali. Dire
oggi ‘liberalismo’ equivale ad aprire un discorso gravido di implicazioni
problematiche: «[l]’Oc- cidente considera oggi scontato il liberalismo»61, ma
«[f]ra tutti i concetti etico-politici odierni, forse, non ve n’è uno che sia
più di- scusso del concetto di liberalismo» 62. Il liberalismo rappresenta la
cornice culturale, più meno consoli- data, nella quale il pensiero giuridico
occidentale, e anche il pensiero penalistico italiano, contestualizzano le
proprie riflessioni, ma «L’opzione per la democrazia liberale lascia aperti i
problemi della po- litica, anche della politica del diritto. Non addita
soluzioni obbligate di questioni eticamente sensibili, o anche solo
politicamente sensibili. [...] Delinea (e non è poco) una cornice nella quale
chiunque può con- frontarsi con ragioni presentate nel quadro di concezioni
comprensive anche molto diverse, ma che possano avere qualcosa da dire su punti
che interessano specificamente la politica del diritto» 63. È come dire che il
rifugio sotto l’ampio ombrello della dizione ‘li- berale’ non è sufficiente a
esaurire gli oneri argomentativi con cui il giurista contemporaneo dovrebbe
sostenere una posizione di fronte a temi ad elevato tasso di pregnanza etica ed
esposti a una marcata di- screzionalità politica 64. problema elaborate da
DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, in DWOR- KIN-MAFFETTONE, I
fondamenti del liberalismo, cit., pp. 14 ss. (strategia della ‘di- scontinuità’
e della ‘continuità’), e da MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del libera-
lismo, cit., pp. 133 ss. (liberalismo ‘critico’ e liberalismo ‘realista’). Sul
tema si ve- dano inoltre, ex plurimis, NUSSBAUM, Perfectionist Liberalism and
Political Libera- lism, in 39 Philosophy and Public Affairs, 2011, pp. 3 ss.;
KYMLICKA, Liberal Indivi- dualism and Liberal Neutrality, in 99 Ethics, 1999,
pp. 883 ss.; per una sintesi del dibattito a partire dalle critiche di Dworkin
a Rawls v. VIOLA, Liberalismo e libera- lismi, in Per la filosofia, 1999, pp.
67 ss. Sul tema della neutralità, o maggiore in- clusività del liberalismo
politico rawlsiano, v., ex plurimis, DEL BÒ, La neutralità politica in John
Rawls, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1/2009, pp. 241 ss.
In ambito penalistico, per un’approfondita rielaborazione di tali pro- blemi v.
FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., pp. 312 ss. 61 DWORKIN, I
fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., p. 7. 62 BARBERIS, Etica per
giuristi, cit., p. 88. 63 PULITANÒ, Diritto penale, V ed., Torino, 2015, p. 24.
64 Più diffusamente, FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1400 ss.;
1412 ss.; con approccio simile, sebbene con accenti differenti che lo pongono
più vicino alle posizioni rawlsiane, PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale,
in Riv. it. Sensibilità individuali e libertà di espressione 127 A
ben vedere un mero richiamo al liberalismo assume oggi una funzione metaetica,
ossia è un presupposto per avviare un discorso su problemi pertinenti la dimensione
etica sostanziale: le questioni più spinose prendono corpo in un contesto che
dà per acquisiti diritti di libertà, ma è sui contenuti e sulle modalità di
esercizio di determi- nati diritti nei rapporti fra individui che si annidano
le complessità 65. 4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e
collettiviste Alla luce del quadro descritto, è comprensibile che lo studioso
di problemi penali sia chiamato in definitiva a elaborare proposte ‘poli-
tiche’ nel senso nobile del termine, ossia a disegnare prospettive di politica
del diritto e a emanciparsi da abiti mentali «che postulano una sorta di
obbligo di prestazione scientifica consistente nel conce- pire modelli
dogmatici di interpretazione del (presunto) sistema su- scettibili in quanto
tali di fissare a priori, con nettezza e definitività, quel che è o non è
legittimo trarre penalmente ai sensi della Costitu- zione» 66. L’individuazione
di traiettorie assiologiche è l’esito di scelte che riflettono inevitabilmente
le precomprensioni e la posizione valo- riale dell’interprete, in un contesto
di non-neutralità. Cercheremo a questo punto di formulare ipotesi e proposte a
par- tire da quella che ci sembra essere l’alternativa di fondo su cui si è
imperniata fino ad oggi la discussione sul sentimento come problema di tutela
nel contesto italiano, ossia se esso debba intendersi come richiamo ad
atmosfere emozionali diffuse, e che si traducono in for- me di presidio a
ideologie e concezioni valoriali proprie della mag- gioranza, oppure se nel
richiamo al sentire umano sia rintracciabile dir proc. pen., 4/2013, pp. 1614
ss., 1633 ss., rimarca l’esigenza di tenere ben pre- sente a livello
concettuale la distinzione fra valori politici e valori morali, pur ri-
conoscendo l’impossibilità di posizioni neutrali. 65 Tale processo di
complessificazione della prospettiva liberale si riflette an- che su categorie
del pensiero giuridico. È importante notare come il principio del danno, lo
Harm, abbia subito un graduale ampliamento dovuto non a una rifor- mulazione
della struttura del concetto, bensì legato all’accentuarsi della proble-
maticità delle premesse politico-filosofiche che ne guidano l’applicazione: è
la ‘mappa del liberalismo’ a essere cambiata, osserva HARCOURT, The Collapse of
the Harm Principle, in 90 The Journal of Criminal Law and Criminology, 1999,
pp. 115 s., passando da un orizzonte basato sull’alternativa
liberale-illiberale, a una pro- spettiva modulata su differenti modelli di
liberalismo (Harcourt parla espressa- mente di ‘liberalismo progressista’ e ‘liberalismo
conservatore’). 66 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 136.
128 Tra sentimenti ed eguale rispetto una istanza normativa differente, in
grado di dare risalto alla dimen- sione del singolo e al connotato
personalistico della Costituzione sen- za necessariamente confluire in un
approccio ‘naturalistico-emozio- nale’ modulato su soggettivismi. Come
osservato, nelle fattispecie dell’ordinamento italiano i ‘sen- timenti’
tutelati sono parte di una sfera emotiva sociale, ossia ‘atmo- sfere emozionali’
legate a valori assunti in un’ottica collettiva. Il sog- getto portatore degli
interessi tutelati è un’entità plurale, una molti- tudine impersonale
caratterizzata da valori asseritamente comuni 67. Nell’attuale momento storico
la reificazione di entità definite come ‘valori collettivi’ non appare più
legata a una retorica statocentrica, ma si presenta piuttosto come possibile
reazione a un indebolimento del- l’omogeneità etica e culturale indotto dal
pluralismo fattuale 68. 67 «[I]l principio di massima è che il sentimento,
anche quando rileva come fatto di coscienza individuale, rileva nella misura in
cui è collegato ad un fatto non individuale, appunto a un modo di sentire
sociale, a un’atmosfera emoziona- le socialmente diffusa e divisa in più o meno
larghi ambiti da un’intera comuni- tà», v. FALZEA, I fatti di sentimento, cit.,
p. 320. Si valuti ad esempio l’interesse de- nominato ‘sentimento religioso’:
il codice Rocco si pone a tutela, nelle rubriche e nella sostanza, alla sola
‘religione di Stato’. È interessante notare come anche do- po l’entrata in
vigore della Carta costituzionale, l’oggetto di tutela viene ricostrui- to in
un’ottica prettamente collettivistica che privilegia il dato dell’adesione
quan- titativa. Pensiamo agli argomenti che la giurisprudenza costituzionale
italiana ha adoperato per motivare il differenziato regime di tutela penale del
culto cattolico, sia precedentemente sia successivamente alla modifica del
Concordato: la Corte nel 1957 parla di «antica ininterrotta tradizione del
popolo italiano, la quasi tota- lità del quale ad essa sempre appartiene», e
nel 1958 ne legittima la tutela penale in quanto «professata nello Stato
italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di
particolare tutela penale, per la maggiore ampiezza e intensità delle reazioni
sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette [in quanto l’]
universalità di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popo- lo
italiano è rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l’avvento della
Costituzione», C. cost., n. 79/1958. Per una riflessione penalistica sul
pluralismo delle fedi in Italia v. VISCONTI C., La tutela penale della
religione, cit., pp. 1037 ss.; per una panoramica extragiuridica v. GARELLI, Il
sentimento religioso in Italia, in Il Mulino, 5/2003, pp. 817 ss. 68 L’impatto
della pluralità nella società contemporanea è parte di un processo «che vede la
graduale erosione del fondamento tradizionalistico e religioso dei co- stumi e
delle istituzioni a vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’am-
bito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e
assottigliarsi, per così dire, lo spessore di oggettività degli oggetti sociali
[...] Questo processo di “umanizzazione” – di riconduzione ai suoi soggetti
ultimi, le persone umane – della vita sociale corrisponde anche a una
progressiva estensione dell’ambito delle opzio- ni soggette alla scelta e
responsabilità degli individui, e alla giurisdizione della ra- gione», v. DE
MONTICELLI, La questione morale, Milano, 2010, pp. 83 ss.
Sensibilità individuali e libertà di espressione 129 In ambito
sociologico si riassume tale fenomeno affermando che la modernità pluralizza e
deistituzionalizza69. La pluralizzazione na- sce dall’incontro di gruppi
diversi, chiamati a condividere territori e spazi comuni in situazioni di
mescolanza nelle quali diviene più dif- ficile, se non addirittura impossibile,
addivenire a un consenso cogni- tivo e normativo, ossia a una visione del mondo
omogenea e condivi- sa. L’allargamento del mercato delle idee moltiplica la
possibilità di approcci alternativi alla realtà e contribuisce in questo senso
a rende- re la costruzione della propria identità una questione di scelte e non
l’esito scontato di programmi socialmente precostituiti 70. A seconda delle
cadenze, l’appello a valori comuni giustificati sulla base di un sentire
condiviso può rivelare sfumature di autoritarismo etico, soprattutto quando il
‘sentire comune’ sia addotto per sottoli- neare contrapposizioni sul piano
valoriale: paradossalmente l’appello a un substrato di emozionalità condivisa
può essere adoperato al fine di marcare differenze in termini di esclusione
piuttosto che di inclu- sione. Fino a che punto ciò risulta compatibile con i
valori di una demo- crazia liberale? Anche in questo caso l’appello al
paradigma liberale non è suffi- ciente a definire risposte univoche, mantenendo
aperti spazi di di- screzionalità politica, e in particolare rimandando alla
discussione concernente l’alternativa fra un liberalismo di tipo
‘individualistico’ e un liberalismo di marca ‘comunitarista’. Le differenze fra
le due cor- renti investono diversi profili della teoria politica; in estrema
sintesi, secondo le teorie comunitariste «la comunità viene assunta ora come
nucleo centrale di un paradigma normativo, a carattere etico o politi- co, ora
come uno standard meta-etico, un parametro per la giustifi- cazione dei valori»
71; l’approccio individualista, più vicino al modello 69 BERGER-ZIJDERVELD,
Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diven- tare fanatici, tr. it.,
Bologna, 2011, pp. 14 ss. 70 Di fronte alle dinamiche di relativizzazione
indotte dall’incremento di plura- lità nel tessuto sociale gli individui
tendono a erigere delle ‘difese cognitive’, ossia ad affidarsi a esercizi
mentali e strategie per mantenere alta la visione del mondo e l’approccio alla
realtà a cui si dà credito. Nelle società contemporanee tale fe- nomeno può
avere riflessi nelle determinazioni di politica del diritto: per placare
l’ansia scaturita dall’irrompere della relativizzazione si erigono difese
cognitive istituzionali, strumentalizzando il diritto quale veicolo promotore
di valori identi- tari, v. BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio, cit., pp. 18
ss. 71 PARIOTTI, voce Comunitarismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol.
III, p. 2125. 130 Tra sentimenti ed eguale rispetto liberale
classico, pone al centro dell’orizzonte etico e normativo l’in- dividuo, non la
comunità 72. A partire da queste premesse, si riflette anche nella prospettiva
giuridica l’alternativa fra una declinazione del problema di tutela del
sentimento incentrato sul momento di condivisione collettiva, ancor- ché
parziale e non universalistica, e una diversa prospettiva che met- ta al centro
l’individuo e le sue libertà da bilanciarsi in un’ottica di reciprocità
egualitaria con i propri simili. 4.2. Dai valori collettivi all’individualismo
democratico Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno criticato a fondo
l’evocazione di ‘valori collettivi’73: uno Stato che assegni rilevanza 72 Per
un quadro ricostruttivo si vedano i saggi contenuti in AA.VV., a cura di
Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, Roma, 2000; FERRARA, Introduzione, in
AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, cit., pp. X ss.; per
una definizione di ‘individualismo comprensivo’ e una ricostruzione critica v.
LARMORE, Dare ra- gioni. Il soggetto, l’etica, la politica, Torino, 2008, pp.
119 ss. La distinzione fra li- beralismo di marca individualista e comunitario
emerge anche nel discorso di Joel Feinberg. L’Autore specifica che la sua
aderenza all’idea liberale va conte- stualizzata: Feinberg sembra prendere con
cautela, financo negare, la propria aderenza all’idea liberale classica secondo
la quale autonomia dell’individuo e comunità costituirebbero due antitesi; nel
discorso sulla legittimazione del diritto penale il filosofo americano dichiara
di adoperare una concezione di liberalismo ‘in a narrow sense’ che non si
identifica con un liberalismo estremo inteso quale contrapposizione a un’idea
di comunità, v. FEINBERG, Harmless Wrongdoing, cit., pp. 81 ss., 113 ss., 120
ss. 73 Ricordiamo le parole di Herbert Hart: “Sembra terribilmente facile
pensare che la lealtà verso i principi democratici esiga che si accetti ciò che
possiamo chiamare populismo morale: l’idea che la maggioranza abbia un diritto
morale a stabilire come tutti devono vivere [...]. L’errore fondamentale
consiste nel non di- stinguere il principio accettabile secondo il quale il
potere politico è meglio affi- dato alla maggioranza, dalla pretesa
inaccettabile che ciò che la maggioranza fa con quel potere, sia al di sopra di
ogni critica e che non ci si possa mai opporre ad esso. Nessuno può dirsi
democratico se non accetta il primo di questi principi, ma nessun democratico è
tenuto ad accettare il secondo», v. HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp.
95 s. Si tratta della ben nota risposta che il filosofo oxoniese die- de al
giudice Patrick Devlin, e al suo ‘The Enforcement of Morals’, nel quale si ri-
conduce la moralità all’atteggiamento etico dominante nella popolazione: «Every
moral judgement, unless it claims a divine source, is simply a feeling that no
right-minded man could behave in any other way without admitting that he was
doing wrong. It is the power of a common sense and not the power of reason that
is behind the judgements of society», v. DEVLIN, The Enforcement of Morals, New
York-Toronto, 1965, p. 17. Sensibilità individuali e libertà di
espressione 131 normativa a un particolare modo di dar valore a oggetti e idee
in quanto condiviso dalla maggioranza, sta di fatto considerando gli
appartenenti alla maggioranza in una condizione privilegiata rispetto agli
altri cittadini. In altri termini, è ben possibile che il principio di
maggioranza 74 trasmodi in un principio di ‘tracotanza’ 75. Più recentemente,
nell’ambito della filosofia analitica, si è affer- mato che il tema dei valori
condivisi è una «questione relativa alle credenze o alle opinioni condivise,
secondo le quali una o più cose pos- siedono un certo valore» 76. Quando si
cerca di spiegare a quali condi- zioni un certo valore possa dirsi ‘condiviso’,
la motivazione più sem- plice e più immediata è la cosiddetta ‘teoria
sommativa’: si ha condi- visione quando la maggior parte dei membri di un dato
contesto o di una comunità assegnano valore alla medesima cosa. La domanda a
questo punto è se una spiegazione sommativa sia sufficiente per affermare che
in una società vi è realmente condivi- sione di valori, e, di conseguenza, per
ritenere che ciascun soggetto abbia lo status, ossia la legittimazione, per
pretendere che il compor- tamento dei propri simili debba essere rispettoso e
coerente con i va- lori condivisi dalla maggioranza. Si è osservato che «se due
o più persone hanno una certa opinio- ne, esse possiedono, evidentemente, un
certo grado di identità quali- tativa. In generale, tuttavia, tale identità
fornisce agli individui umani soltanto una forma superficiale di unità [...] I
valori condivisi in sen- so sommativo uniscono soltanto in un modo
superficiale» 77. In altri termini, un riscontro storico-quantitativo della
massiva adesione a un determinato valore in una società non dovrebbe esse- re
considerato elemento sufficiente a fondare alcun tipo di pretesa nei confronti
dei cittadini78, salvo il caso di un impegno espresso 74 Ex plurimis, VIOLA, Il
principio di maggioranza e la verità in una democrazia, in Dialoghi, 3/2004, p.
1 ss. 75 HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp. 86 ss. 76 GILBERT, Il noi
collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, tr. it., Milano, 2015, p. 48. 77
GILBERT, Il noi collettivo, cit., pp. 56 s. 78 Una critica alla concezione
‘sommativa’ della democrazia è leggibile, a no- stro avviso, anche nelle parole
di chi, nella dottrina penalistica, ha sottolineato che «[a]derire al metodo
democratico non significa acconsentire alle idee dei più, bensì optare per una
modalità collettiva, comunitaria, consensuale di creazione delle regole –
valide poi per tutti – non fondate sul fattore-forza [...] La legalità democratica
richiede ben oltre complesse tecniche di calcolo, l’adesione convinta a
principi formulati in modo condiviso e perciò corresponsabilmente
vincolanti», 132 Tra sentimenti ed eguale rispetto che le parti
accettino consapevolmente 79. Il sentire umano, nelle forme del sentimento e
dell’emozione, è fattore di diversità, ma è anche, di base, il correlato
fenomenico di un’uguaglianza di fondo fra individui resi al contempo uguali e
diver- si dalle disposizioni del sentire: uguali in potenza, diversi in atto.
La varietà di soglie di sensibilità, di assiologie personali e di repertori
emotivi dei singoli sono parte di una dotazione universalmente con- divisa:
tutti gli esseri umani (in assenza di condizioni patologiche) provano emozioni
e sentimenti, e sulla base di tale potenzialità co- mune prende successivamente
corpo la diversità. Per cercare di dare rilievo alla dimensione del sentire
quale con- notato a vocazione universalistica, e non semplicemente quale base
di frammentazione e di rivendica, ci sembra ragionevole prendere le distanze da
strumentalizzazioni del sentimento in chiave identitaria, per riorientare la
prospettiva a partire da diritti di libertà funzionali a consentire a ciascun
cittadino di vivere la propria ‘assiologia voca- zionale’ 80. La sfida che
sentimenti ed emozioni pongono oggi al diritto pena- le si focalizza sul
riconoscimento di un’eguale dignità fra persone concretamente diverse, nella
consapevolezza della varietà di preferen- v. MAZZUCATO, Dal buio delle pene
alla luce dei precetti, cit., p. 85. Anche EUSEBI, Laicità e dignità umana nel
diritto penale, cit., p. 172, sottolinea che il principio di laicità richiede
che le regole giuridiche di uno Stato non siano configurate secon- do ciò che è
comprensibile solo nell’ambito di una specifica concezione morale anche se
maggioritaria. 79 L’elemento dirimente, e necessario, affinché si passi da una
semplice condi- visione in senso sommativo a una condivisione tale da poter
generare unità socia- le, è, secondo Margaret Gilbert, il cosiddetto ‘impegno
congiunto’: «l’impegno congiunto è l’impegno a credere come un corpo unitario
che una certa cosa C ab- bia un determinato valore V», v. GILBERT, Il noi
collettivo, cit., p. 62. Gilbert, pur non discostandosi da un piano
analitico-concettuale, non tralascia considerazioni su profili più propriamente
politici: «[e]videntemente, il fatto che si abbia lo sta- tus per fare
pressione sugli altri, se gli altri agiscono nell’inosservanza di un certo
valore, non implica né che, in fin dei conti, si debba esercitare questa
pressione, né che, in virtù di un impegno, si abbia ragione di farlo». Il
caveat più significati- vo si rivolge, non a caso, all’ipotesi di adoperare il
diritto penale quale strumento per la salvaguardia di valori collettivi. Anche
in presenza di valori che possono dirsi ‘collettivi’ in virtù di presupposti
assimilabili all’idea di ‘impegno congiunto’, e non solo di una mera
spiegazione sommativa, la legittimità della pretesa di im- porre il rispetto di
tali valori con strumenti normativi dipende da considerazioni sostanziali sul
merito dei valori assunti a riferimento, sulla loro ‘correttezza’. ‘Va- lore
collettivo’ non è di per sé sinonimo di un sentire ‘corretto’. 80 Traggo
l’espressione e il concetto da DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 115
ss. Sensibilità individuali e libertà di espressione 133 ze e dei
molteplici, possibili stili e concezioni della vita buona. In questo senso
appare importante evidenziare la matrice indivi- dualistica dei diritti di
libertà: «significa che prima viene l’individuo, si badi, l’individuo singolo,
che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato e non viceversa, che lo
stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato» 81. Col richiamo
al momento individualistico non intendiamo adom- brare la vocazione
solidaristica e la proiezione relazionale dei diritti di libertà, ben leggibile
nelle trame della Carta costituzionale 82. Rite- niamo però che il problema
della tutela di sentimenti debba essere oggetto di un deciso cambio di prospettiva
che rompa con la tradi- zione del passato, nella quale il richiamo alla
socialità era divenuto sinonimo di ‘statualità’, di dominio della collettività
sul singolo, di assorbimento dell’individuo nel gruppo. Si rende in questo
senso ne- cessario rinsaldare la connessione fra il sentimento e il principio
per- sonalistico che pone «a base di tutto il sistema di rapporti fra stato e
singoli l’esigenza di rispetto della persona, della ‘dignità’ corrispon- dente
alla qualità dell’uomo come tale, quale che sia la posizione so- ciale
rivestita» 83. Rispetto alla retorica comunitarista-identitaria, un’alternativa
che emerge oggi nel pensiero politico e che a nostro avviso si candida come
sintesi ragionevole tra individualismo e ottica solidaristica, è il cosid-
detto ‘individualismo democratico’ elaborato da Nadia Urbinati 84: una 81
BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 59. Nel panorama penalistico si
sof- ferma sul fondamento individualistico dei diritti PULITANÒ, Diritti umani
e diritto penale, cit., pp. 1616 s. Il rapporto fra liberalismo e attenzione
alle differenze è teorizzato in modo peculiare da Rosenfeld, il quale
contrappone il liberalismo in senso classico, di marca individualistica, a una
posizione politica che riconosce valore alla pluralità, da Rosenfeld definita
‘pluralism’, e che saremmo portati a tradurre con ‘liberalismo pluralista’. La
distinzione di Rosenfeld non ci sembra però tesa a confutare la matrice
individualistica dei diritti di libertà, ma a sottoli- neare come l’attenzione alla
dimensione del singolo, tipica del liberalismo classi- co, risulti poco
funzionale alla tematizzazione delle appartenenze e dell’identità: v.
ROSENFELD, Equality and the Dialectic between Identity and Difference, in
AA.VV., ed. by Payrow Shabani, Multiculturalism and Law: A Critical Debate,
Uni- versity of Wales, 2006, paper n. 133, pp. 15 ss., 25 ss. 82 Ex plurimis,
RIDOLA, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Torino, 2006, pp. 97 ss. In
ambito penalistico si è sottolineato l’intreccio e la reciproca interdipen-
denza tra profilo personalistico e collettivistico di determinati interessi di
tutela, v. DE FRANCESCO, Costituzione, persona, comunità: beni giuridici e
programmi di tutela nella dinamiche della vicenda penale, in Dir. pen. proc.,
5/2014, pp. 502 ss. 83 MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova,
1975, pp. 155 s. 84 Si tratta di un concetto che sottende una ben definita
visione antropologica: 134 Tra sentimenti ed eguale rispetto
reinterpretazione del concetto di individualismo classico, volta a di-
stinguerlo dal negativo accostamento all’idea di egoismo, di ‘anarchia
soggettiva’, di motore disgregativo a livello sociale. Il concetto di
‘individualismo democratico’ implica rispetto reci- proco e non-omologazione;
una visione che si pone in antitesi sia con un individualismo egoistico che
traduca disinteresse per la cosa pub- blica, sia con forme di comunitarismo
identitario che comprimereb- bero l’individualità attraverso politiche di
assimilazionismo e di im- posizione di ideali della vita buona. Come osserva la
Urbinati: «Il problema sta quindi nel modo di concepire la comunità, poiché è
evidente che le comunità totalizzanti e ascrittive sono in conflitto con
l’individualismo democratico come lo sono con l’eguale diritto alla di- gnità e
all’eguaglianza della legge. [...] Rispetto alla reificazione dei le- gami
identitari, il richiamo alla “divinità” di ciascun individuo e al di- ritto che
ciascuno ha di contraddirsi per restare coerente a se stesso suona come un
invito tutt’altro che anacronistico a situare la supre- mazia nella ragione e
nel carattere, rovesciando i criteri di selezione dei valori, facendo cioè
della persona stessa il fulcro senza il quale nessuna comunità potrebbe
esistere» 85. In quest’ottica, il legame fra sentimenti e individualità può
acqui- stare una valenza normativa come presupposto del riconoscimento dovuto
agli uomini in quanto agenti morali 86. Vi sono diversità fat- tuali che
derivano dalla eterogeneità nel sentire, le quali invocano un sostegno normativo
come riconoscimento di libertà e uguaglianza in «[l]a democrazia non è solo una
forma di governo ma anche e prima di tutto una ricca cultura
dell’individualità. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello
liberale ed economico perché non pensato come un essere puramente razionale che
sceglie fra opzioni diverse in una condizione ipotetica di perfetta
informazione e libertà; e nemmeno come un individuo neutro, vuoto di
specificità culturali, economiche o di genere. È invece una persona che ha un
senso morale della propria indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed
emozioni al- trettanto forti delle ragioni e degli interessi; che non è
soltanto concentrata sulle proprie realizzazioni, ma anche emotivamente
disposta verso gli altri per le ra- gioni più diverse, come l’empatia, la
curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare» URBINATI, Liberi e
uguali. Contro l’ideologia individualista, Roma- Bari, 2011, p. 16. 85
URBINATI, Liberi e uguali, cit., pp. 122, 124. 86 Sul tema è fondamentale
l’approfondita analisi di un Autore tendenzialmen- te vicino alle posizioni
comunitariste: TAYLOR, La politica del riconoscimento, in HABERMAS-TAYLOR,
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it., Milano, 2008, p.
9. Sensibilità individuali e libertà di espressione 135 dignità e
diritti87. La tutela delle libertà è la dimensione prioritaria; nondimeno, in
nome di esigenze legate al riconoscimento, e in parti- colare tese a evitare il
disconoscimento, si può porre il problema di interventi normativi al fine di
salvaguardare equilibri di rispetto 88. È su questo crinale che si impernia la
questione che definiamo ‘tu- tela di sentimenti’ 89. 5. Sentimenti ed emozioni
come richiamo ‘metonimico’ e per- sonologico Cercando di tirare le somme del
discorso, date le suddette pre- messe filosofico-politiche, quale può essere la
sostanza normativa da identificarsi con il ‘sentimento’? Esclusa
l’ipostatizzazione di atteggiamenti emozionali su base maggioritaria, riteniamo
che una visione alternativa dovrebbe incen- trare la prospettiva sul
significato del sentimento come marcatore dell’originalità individuale che si
interlaccia con le trame costitutive della personalità morale di un soggetto.
Definiamo tale prospettiva come ‘personologica’ per evidenziarne la peculiarità
rispetto a una più generica definizione come ‘personalistica’. Il termine
‘personologia’ in uso nelle discipline psicologiche e filoso- fiche, designa,
nel suo significato minimale, il discorso sulle caratteristi- che dell’individuo
inteso come soggetto non riducibile alle dimensioni mentale e corporea 90, ma
come esito di un’interazione con gli altri e con la realtà, all’interno di un
percorso biologico e biografico unico e irripe- tibile. Questa impresa
conoscitiva trova sviluppo soprattutto in seno alla 87 Sul rapporto tra dati di
natura e dimensione dei diritti, fondamentale HER- SCH, I diritti umani da un
punto di vista filosofico, tr. it., a cura di De Vecchi, Mi- lano, 2008, pp. 62
ss. 88 «L’individuo delle democrazie si ciba [...] di ‘riconoscimento’ e per
questa ragione ha bisogno di essere circondato da simili, da chi è parte di una
comunità di significato e di riferimento e con cui è possibile condividere una
lingua, dei se- gni convenzionali che consentano una comunicazione immediata,
delle tradizioni che facciano sentire sicuri e protetti», v. URBINATI, Liberi e
uguali, cit., p. 116. 89 Condivisibilmente, nella dottrina penalistica, v.
PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 43 s. 90 Testo di
riferimento è MARGOLIS, Persons and Minds. The Prospects of Nonre- ductive
Materialism, Boston, 1978. 136 Tra sentimenti ed eguale rispetto
psicologia e alla filosofia; non intendiamo però ricalcare le categoriz-
zazioni elaborate in ambito filosofico sui rapporti fra personologia e
personalismo 91. Nel discorso giuridico, e in particolare penalistico, si usa
parlare di personalismo e di concezioni personalistiche per indi- care
prospettive teoriche che mettono al centro dell’orizzonte assio- logico la
persona umana92 e che si impegnano conseguentemente a riconoscere in essa il
punto di riferimento ultimo di norme e di pro- blemi di tutela. Perché allora
parlare anche di ‘personologico’? Dalla prospettiva filosofica riteniamo utile
mutuare la definizione di personologia come ‘discorso su ciò che una persona
è’93, in un quadro che non si riduce alle funzioni psichiche, concependo dunque
sentimenti ed emozioni non solo come addentellato fenomenico che rimanda a
stati contingenti e a moti interiori, ma come elementi co- stitutivi che
concorrono a definire le disposizioni individuali e la complessiva ‘fisionomia
morale’ della persona. È di secondaria importanza l’eventuale puntualizzazione
se si stia in questo modo richiamando il sentimento in senso stretto ovvero
l’emozione; è invece importante evidenziare che la rispondenza col mondo dei
fenomeni affettivi deriva dalla connessione con ciò che abbiamo definito ‘stati
disposizionali’: disposizioni del sentire, ossia coordinate costitutive della
personalità morale dell’individuo, e non semplicemente reazioni episodiche.
Nella prospettiva giuridico-penalistica, e con particolare riferi- mento ai
rapporti fra libertà di espressione e reciproco rispetto, il ri- chiamo a
sentimenti ed emozioni può ragionevolmente costituire una coordinata
descrittiva dell’oggetto di tutela in senso simbolico, trasla- to, o meglio
metonimico, come elementi che rimandano al substrato 91 In ambito filosofico si
distingue tra personologia e personalismo: Roberta De Monticelli intende col
primo termine «una teoria della realtà di ciò che noi siamo», mentre il
personalismo «è una tendenza [...] più che una teoria» e i per- sonalismi del
secolo scorso possono definirsi come «visioni del mondo cui “sta a cuore” una
certa interpretazione della condizione umana», v. DE MONTICELLI, L’ordine del
cuore, cit., p. 30. La distinzione appare più sfumata nella definizione di
MIANO, voce Personalismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. XIII, p. 8527,
se- condo il quale «[i]n senso lato è personalistica ogni filosofia che
rivendichi la di- gnità ontologica, gnoseologica, morale, sociale della
persona, contro le negazioni materialistiche o immanentistiche. In senso
rigoroso si dice filosofia personalisti- ca o personalismo la dottrina che
accentra nel concetto di persona il significato della realtà». 92 Per una
sintesi, v. CANALE, Persona in AA.VV., a cura di Ricciardi-Rossetti- Velluzzi,
Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma, 2015, pp. 23 ss.
93 V. supra, nota 91. Sensibilità individuali e libertà di espressione
137 più profondamente identificativo dell’essenza individuale: si menzio- na la
parte (il sentimento o l’emozione), per additare il tutto (la per- sona) 94.
Dire ‘tutela di sentimenti’ equivale a dire ‘tutela della persona e della sua
libertà di vivere ed essere riconosciuto come soggetto di pari dignità nella
propria personale ‘assiologia vocazionale’ 95. Non ci si deve dunque limitare
alla presa in considerazione di fe- nomeni psichici ‘bruti’, ma si deve
guardare ad essi come segno di individualità che chiedono di essere tutelate
nelle libertà e che al con- tempo non possono ritenersi titolari di prerogative
assolute: l’indi- viduo è uno, ma è al contempo anche ciascuno96, ossia vive in
un contesto di relazioni che implicano diritti e doveri. 94 L’antropologia alla
base del pensiero di Martha Nussbaum è basata sul fatto che «le emozioni
sembrano essere eudaimonistiche, ovvero concernenti il prospera- re della
persona», v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 51 s. Il legame
tra sentire e sviluppo della persona, inteso come realizzazione del sé, emerge
anche in altri filosofi, quando si definiscono le emozioni come ‘atti di base’
che esprimono ‘posizionalità assiologica’, ossia il «realizzare la salienza, o
valenza o valore negativo o positivo della data cosa o situazione», v. DE
MONTICELLI, La novità di ognuno, cit., pp. 195 ss.; non dunque risposte
automatiche bensì posizionali, le quali possono es- sere più o meno
appropriate, ma comunque rappresentano una parte fondamentale di ciò che una
persona è, della sua struttura morale, «che è insieme velata e svelata
dall’espressività personale: la quale indica infine lo stato in cui la persona
si trova rispetto alla fioritura nuova che solo lei poteva portare al mondo»
EAD., La novità di ognuno, cit., p. 314. In particolare attraverso il concetto
di ‘posizionalità’ si osserva che la persona umana si costituisce nella propria
individualità essenziale attraverso ‘atti’: con tale termine si vuole porre una
fondamentale distinzione fra ciò che la persona ‘compie’, rispetto agli
‘eventi’ in cui un soggetto è coinvolto; l’atto comporta sempre un presa di
posizione relativamente a un dato oggetto, e «[m]ediante le pre- se di
posizione, e dunque, mediante gli atti, noi rispondiamo alla realtà circostante.
Una risposta si distingue da una reazione precisamente in virtù della presa di
posi- zione in essa contenuta. In ogni presa di posizione, pulsa, per così
dire, l’individuo personale che mediante le sue prese di posizione
costantemente si costituisce e si definisce», v. EAD., La novità di ognuno,
cit., p. 187. 95 Si è parlato di ‘costituzionalizzazione della coscienza delle
persone’ per sot- tolineare la rilevanza di «tutto ciò che la persona considera
in coscienza come strettamente richiesto per la propria realizzazione,
riconoscendo diritti collegati alle richieste d’identità e di libertà di
scelta», v. VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, in AA.VV.,
a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multicultu- ralismo, cit., p. 120. 96 Vi
è un termine che ci sembra possa definire la portata accomunante e al contempo
differenziante dei fenomeni affettivi: ciascunità. Lo prendiamo in pre- stito
dal lessico psicanalitico, in particolare da HILLMAN, Il codice dell’anima, tr.
it., Milano, 1967, pp. 167 ss. In questo caso ci atteniamo però a un senso più
let- terale-etimologico che all’accezione specifica elaborata dallo psicologo
statuni- tense: ‘ciascuno’ è pronome che indica la totalità in modo non
indistinto e sper- sonalizzante, bensì richiamando l’attenzione sui
singoli. 138 Tra sentimenti ed eguale rispetto In assenza di tale
filtro normativo fondato sul valore dell’ugua- glianza, il richiamo a
sentimenti ed emozioni può rappresentare una china scivolosa, poiché il
debordare del discorso sul piano emozionale rischia di innescare un processo
che altera la fisionomia delle questio- ni, relegandole a una dimensione di
microconflittualità soggettiva 97. Si rischia in altri termini di alimentare
ciò che la sociologa Isabel- la Turnaturi ha eloquentemente definito
‘rivendicazionismo psicolo- gico’: «un nuovo campo di battaglia in cui gli
individui oppongono l’uno al- l’altro le proprie emozioni. Vissuti, percezioni,
sensibilità si confrontano e si scontrano quotidianamente e conflitti sociali, di
genere e culturali si spostano sul piano dei rapporti interpersonali. [...]
L’uguaglianza dei di- ritti si sposta sul campo emozionale, ciascuno è sempre
più attento alle proprie emozioni e pretende per queste rispetto, attenzione e
libertà di espressione-esibizione. [...] La valorizzazione della sofferenza
psicologi- ca e le narrazioni di sé affidate a un linguaggio esclusivamente
psicolo- gico mentre pongono l’accento sull’individuo cercano l’origine di
torti e offese subiti nell’appartenenza a un gruppo etnico, di genere, o nella
condivisione di preferenze sessuali. [...] Se sono i sentimenti a riscrivere la
storia tutto può essere ri-narrato e ri-costruito secondo i punti di vista di
chi sente offesa oggi la propria sensibilità. [...] Tutto viene affogato in un
confuso mare magnum sentimentale, in un apparente coinvolgimen- to emotivo che
soffoca ogni forma di distanza al rispetto e riconosci- mento reciproco. Quel
diritto di ciascuno alla propria narrazione, giu- stamente rivendicato,
andrebbe forse declinato in un linguaggio meno psicologico e psicologistico,
imposto nel discorso pubblico con la forza dell’argomentazione, ancorato a una
cultura dei diritti liberata dalla co- lonizzazione emotiva [...]» 98. 97 Il
discorso politico mostra una sempre più accentuata tendenza al linguag- gio
psicologistico ed emotivo, e più in generale tutta la comunicazione pubblica è
problematicamente invasa da «confessioni, narrazioni, biografie, programmi e
proclami politici che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso
pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui
discre- zione e della distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso
emozionale, il di- scorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e
dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata
nel mare di un presunto coinvolgimen- to», v. TURNATURI, Emozioni: maneggiare
con cura, prefazione a ILLOUZ, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei
consumi, tr. it., Milano, 2007, p. 15. Eloquente è l’espressione con cui ALONSO
ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., p. 64, sintetizza il problema di una
soggettivizzazione incentrata su aspetti di rettività emotiva: «¿Un derecho
penal de sujetos pasivos?». 98 TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura,
cit., pp. 20, 22 ss. Sensibilità individuali e libertà di espressione 139
L’approccio del diritto non può assecondare il rivendicazionismo psicologico ma
deve essere declinato in termini ‘razionalistico-nor- mativi’ facendo
riferimento a «norme o [...] principi che si difendono e argomentano in quanto
dotati di universalità, cioè in linea di prin- cipio valevoli per tutti coloro
che si trovano nella medesima situazio- ne esistenziale» 99. Identifichiamo
dunque sentimenti ed emozioni come ‘matrici di diversità’ tali da sollecitare
la prospettiva penalistica in relazione al- l’esigenza di gestire equilibri di
rispetto reciproco nella società plura- le di fronte a condotte in cui si
manifesta l’‘originalità’ degli individui in quanto caratterizzati da culture,
concezioni di valore, stili di vita, che ne identificano la personalità: da una
parte richieste di libertà per poter affermare le proprie visioni del mondo e
per vivere confor- memente a ciò in cui si crede; dall’altra parte istanze
simmetriche, fondate sui medesimi contenuti ma di segno opposto, che chiedono a
loro volta riconoscimento e rispetto attraverso l’altrui astensione da un certo
tipo di espressioni e di comportamenti. 6. Sinossi Delineate le coordinate
teoriche per lo studio dei rapporti fra di- mensione emotiva e diritto penale
e, in particolare, del sentimento quale problema di tutela, l’indagine si
focalizza sui rapporti fra sen- sibilità soggettive e libertà di espressione. A
suggerire l’approfondimento di tale specifica questione sono sia ragioni
concernenti gli interessi emergenti dalle norme codicistiche, sia esigenze
legate alla sempre viva, e per molti versi crescente, conflit- tualità che si
registra nel discorso pubblico delle società occidentali. Il richiamo a
sentimenti ed emozioni può costituire un’utile coor- dinata esplicativa, a
patto di chiarire in che termini i problemi legati alla libertà di espressione
possano essere intesi anche come ‘fatti di sentimento’. Gli approcci di fondo
sono a nostro avviso fondamen- talmente due: il primo, che definiamo
‘naturalistico-emozionale’, è incentrato sul turbamento psicologico che può
discendere dall’essere oggetto di determinate espressioni o dal contatto con
determinate manifestazioni espressive; il secondo, che definiamo ‘razionalistico-
normativo’, mette al centro l’analisi critica dell’emozione o del senti-
99 VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, cit., p. 121.
140 Tra sentimenti ed eguale rispetto mento addotti quale ragione di potenziali
divieti, al fine di verificarne la razionalità e la consonanza in rapporto ai
valori e ai principi as- sunti quale riferimento per la regolamentazione
politica. La partita decisiva si gioca sul piano delle alternative filosofico-
politiche che concorrono a definire i tratti dei differenti, possibili modelli
di democrazia. Con riguardo alla tutela di sentimenti, la scel- ta di fondo –
probabilmente quella logicamente prioritaria – è fra l’avallo di
interpretazioni del problema in chiave collettivistico-co- munitarista oppure
in chiave soggettivo-individualistica. Sulla base delle istanze evidenziate
dalla teorica dell’individua- lismo democratico, come elaborato da Nadia
Urbinati, riteniamo che si debba in primo luogo emancipare la tutela di
sentimenti da forme di presidio al sentire della maggioranza, interpretando il
richiamo a fenomeni affettivi come forma metonimica tesa a evocare simboli-
camente la persona nella sua dimensione di soggetto morale, riassu- mendone
contemporaneamente, quale duplice faccia nello stesso ele- mento, la dotazione
universalmente condivisa in termini egualitari (il provare sentimenti ed
emozioni di ciascun individuo) e gli esiti po- tenzialmente conflittuali (la
diversità nel sentire). La pretesa normativa definita ‘tutela di sentimenti’
viene così a identificarsi con un progetto teso a garantire il reciproco
rispetto a partire da una cornice assiologica di libertà e pari dignità.
SEZIONE I CAPITOLO V FISIONOMIA DELL’OFFESA Oltre i sentimenti: gli interessi
in gioco SOMMARIO: 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida. –
1.1. Sensibilità religiosa. – 1.2. Sentimento del pudore e pari dignità
sessuale. – 2. Apparte- nenza e gruppalità. – 3. Rispetto, riconoscimento,
stima reciproca. – 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto. – 4. Bilanciare le
pretese. – 4.1. Dignità e capacità umane. – 4.2. Rispetto di sé e umiliazione:
la concezione di Avishai Margalit. – 5. Ai confini fra critica e
discriminazione. – 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate
speech secondo Jeremy Waldron. – 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica
della norma. 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida Cerchiamo a
questo punto di dare una fisionomia più definita ai conflitti legati alla
sensibilità degli individui. In un importante studio di fine anni Novanta, il
giurista Richard Abel parlava emblematicamente di ‘lotte per il rispetto’ per
indicare il tipo di contesa dialettica che contraddistingueva il dibattito
sulla pornografia, il contrasto al discorso razzista e le prese di posizione
seguite alla pubblicazione di opere ritenute blasfeme in quanto criti- che o
irridenti verso temi religiosi 1. Storie che hanno un nucleo co- mune, le
definisce Abel, poiché «investono valori che ispirano emo- 1 ABEL, La
parola e il rispetto, tr. it., Milano, 1996, pp. 7 ss. 142 Tra sentimenti
ed eguale rispetto zioni profonde» 2. In relazione a temi di questo tipo
eventuali espres- sioni di critica o di scherno sono in grado di attivare
reazioni anche su scala collettiva, estendendo la dimensione dei problemi fino
a coinvolgere l’ordine pubblico di singole realtà nazionali e anche del
panorama globale. Lo scenario contemporaneo non si discosta più di tanto dal
quadro tracciato qualche decennio fa da Abel: razza/etnia, fede religiosa/cre-
denze, modi di concepire e vivere l’identità sessuale, sono ancora oggi ambiti
tematici in grado di accendere conflittualità esorbitanti da un ordinario
dissenso, dando luogo a «un tipo particolare di scontro fra soggetti che ha a
che vedere con la concrezione di affetti, interessi, ra- gioni e
pregiudizi contrastanti che si fronteggiano e che paiono o sono fortemente
vitali per coloro che ne sono portatori o portati» 3. Una dialettica ad alto
tasso emotivo, nella quale emergono veri e propri ‘campi minati’ che potremmo
definire ‘argomenti-trigger’, i quali hanno contribuito a riportare oggi il
tema della libertà di espressione al centro del dibattito pubblico prima ancora
che scientifico. Per meglio contestualizzare i problemi esporremo in modo
sinte- tico alcune vicende tratte dal panorama nazionale ed europeo. In questa
fase dell’indagine non ci concentreremo sulla qualifica- zione giuridica dei
fatti, ma riteniamo preferibile individuare una ca- sistica ‘tipologica’ che
possa fungere da palestra concettuale per ri- flettere sulle istanze di tutela
che vengono associate a offese a senti- menti. Riportiamo anche episodi di
rilevanza non strettamente pena- listica, i quali evidenziano come l’appello a
sentimenti non sia conno- tato esclusivo della penalità ma possa presentarsi
anche quale giusti- ficazione, più o meno esplicita, di forme differenti di
intervento nor- mativo. Attingeremo dal tema della critica/satira su temi
religiosi e da epi- sodi concernenti le manifestazioni della sessualità.
Riteniamo di non dover introdurre, per il momento, esempi legati al discorso
razzista: in questa fase dell’indagine presentare il discorso razzista come
pro- blema di sentimenti può essere fuorviante perché limitativo 4. Nel di- 2
ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 27. 3 CERETTI, Vita offesa, lotta per
il riconoscimento e mediazione, in AA.VV., a cu- ra di Scaparro, Il coraggio di
mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni al- ternative delle
controversie, Milano, 2001, p. 59, definisce tali conflitti ‘di seconda
generazione’ per sottolinearne la diversità da quelli che toccano le sfere
della ri- produzione materiale-economica e della sfera politica. 4 Per le
medesime ragioni, in termini ancora più stringenti, non si presta a fungere da
esempio prototipico il problema dell’incriminazione del c.d. negazio-
Fisionomia dell’offesa 143 battito sullo hate speech, categoria nella
quale rientra la propaganda razzista, la lettura dell’incriminazione come forma
di rassicurazione collettiva e come tutela della sensibilità del soggetto offeso
assume una funzione sostanzialmente critica e confutativa rispetto a un
mainstream che individua quale interesse di fondo la pari dignità, in- tesa
come pericolo di discriminazioni e come offesa a valori sul piano simbolico5. A
prescindere dalle diverse formulazioni mediante le quali lo hate speech assume
rilevanza normativa nelle singole realtà nazionali, non si tratta a nostro
avviso di un esempio prototipico di ambito normativo in cui il sentire,
individuale o collettivo, possa concorrere a definire l’oggetto di tutela, per
quanto le connessioni ri- spetto al tema in esame siano numerose e feconde, ma
necessitino di essere contestualizzate a un livello successivo dell’analisi
(vedi infra). nismo, il quale «non può essere inquadrato soltanto come una specie
del “discor- so razzista”», v. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà
religiosa: tensioni at- tuali e profili penali, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2/2016, p. 922. Fra le diverse istanze addotte a sostegno dell’incriminazione è
ravvisabile anche l’offesa a un sentire condiviso, come evidenziato anche da
BRUNELLI, Attorno alla punizione del nega- zionismo, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2/2016, pp. 983 ss., il quale sottolinea in questo senso la differenza
fra ‘negazionismo-vilipendio’ e ‘negazionismo-istigazione’; cfr.
GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 865 ss. Si veda
an- che FRONZA, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili
critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 1024
ss., la quale mette in evidenza la natura del reato di negazionismo come
‘modello di crimina- lizzazione altamente consensuale’, rispondente ad
aspettative e a emozioni della collettività. L’ampiezza e la pluralità di
argomenti e controargomenti lascia però in secondo piano la lettura del
problema come mera tutela della sensibilità; per una panoramica v. ex plurimis,
FRONZA, Il negazionismo come reato, Milano, 2012; VISCONTI C., Aspetti
penalistici, cit., pp. 217 ss.; PULITANÒ, Di fronte al negazioni- smo e al
discorso d’odio, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2015, pp. 1 ss. CAPUTO, La
“Menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La criminalizzazione
del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in
AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione
penale, cit., pp. 263 ss. 5 Per un’accurata sintesi delle strategie di
legittimazione e degli interessi pro- tetti dall’incriminazione dello hate
speech nel panorama internazionale, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., pp. 19
ss.; la questione del danno alla sensibilità sogget- tiva e alla tranquillità
psichica è trattata alle pp. 49 ss. Si è osservato che nella trattazione della
tematica delle restrizioni normative allo hate speech sarebbe be- ne evitare
generalizzazioni, non solo in relazione alla fenomenologia delle con- dotte, ma
anche con riferimento all’individuazione, nella realtà dei diversi ordi-
namenti, del sistema di prodotti normativi che vanno a costituire ciò che gli
stu- diosi definiscono ‘hate speech laws’; si tratta infatti di un insieme
eterogeneo, non limitabile ai soli divieti penali, ma composto da statuizioni
di diverso tipo che ne- cessitano di strategie di legittimazione
differenti. 144 Tra sentimenti ed eguale rispetto 1.1. Sensibilità
religiosa Le contingenze storico-politiche suggeriscono di prestare partico-
lare attenzione alla questione dei rapporti fra libertà di espressione e
rispetto della sensibilità religiosa. L’attuale momento storico si caratterizza
per una peculiare aura di passionalità, e purtroppo anche di violenza, che
accompagnano una conflittualità per molti versi inedita 6. Le fonti mediatiche
ci mettono oggi in condizione di ascoltare la ‘voce’ delle emozioni e di
formularne interpretazioni con immedia- tezza; come ha scritto il filosofo
Ermanno Bencivenga, dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo «[i]nsieme con le
emozioni esplosero contenuti intellettuali di ogni genere: commenti e
chiarimenti, diagnosi e previ- sioni, giudizi e proposte» 7. Da un lato le emozioni
di chi, avvertendo una ferita al proprio sentire religioso, ha agito con
brutale violenza; dall’altro un’onda emotiva che di rimando ha stimolato
riflessioni e prese di posizione che si sono rivolte non solo contro la
condotta omicida, ma talvolta, più radicalmente, anche contro la religione e
l’etnia di appartenenza dei soggetti autori del massacro. Per quanto le due
posizioni siano del tutto incomparabili, prendere sul serio le emozioni di
entrambe le parti è utile per provare a decodificarne le pretese. Le violente
reazioni che negli ultimi tempi sono scaturite dalla pubblicazione di vignette
satiriche sulla religione musulmana rap- presentano uno fra i tanti casi in cui
la causticità di determinate forme di satira ha urtato la sensibilità di credenti
di varie fedi religio- se. Riportiamo di seguito una sintesi di alcuni episodi
tratti dalle cronache. 6 Una panoramica storica in HARE, Blasphemy and
Incitement to Religious Hatred: Free Speech Dogma and Doctrine, in AA.VV., ed.
by Hare-Weinstein, Ex- treme Speech and Democracy, Oxford, 2009, pp. 289 ss.;
nella letteratura italiana, v. AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu-Meloni,
Blasfemia, diritti e libertà. Una di- scussione dopo le stragi di Parigi,
Bologna, 2015; FLORIS, Libertà di religione e liber- tà di espressione
artistica, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, pp. 175 ss.;
OZZANO, Il fondamentalismo religioso: implicazioni politiche, in Nuova infor-
mazione bibliografica, 1/2010, pp. 65 ss. 7 BENCIVENGA, Prendiamola con
filosofia, cit., p. 11. Fisionomia dell’offesa 145 Caso 1: da una
vignetta rispunta l’accusa di deicidio al popolo ebraico Nell’aprile 2002 un
gruppo di palestinesi si rifugia all’interno della Basilica della Natività di
Betlemme per sfuggire a una rappresaglia dell’esercito israeliano. I militari
israeliani minacciano di entrare nel- la chiesa; chiedono che vengano
consegnati loro quattro palestinesi, accusati di aver assassinato Rehavam
Zeevi, ministro del governo Sharon. Giorni dopo, nel quotidiano italiano ‘La Stampa’
compare una vi- gnetta di Giorgio Forattini dal titolo ‘Carri armati alla
mangiatoia’: la vignetta raffigura un tank israeliano contrassegnato con la
stella di David mentre punta il cannone verso una mangiatoia sulla quale un
bambino impaurito, chiaramente identificabile con Gesù, esclama: ‘Non vorranno
mica farmi fuori un’altra volta?!’. La vignetta provoca lo sdegno e le proteste
dell’allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto.
Queste in sinte- si le motivazioni, così riportate da fonte giornalistica:
«[u]na vignetta [...] che non esito a definire orripilante. Ritorna così a
galla, come da- to indiscutibile a monte della caricatura stessa, l’accusa di
deicidio che pareva esser scomparsa dopo il Concilio Vaticano II. E questo
proprio nel momento in cui l’Europa è scossa da una nuova ondata di attentati
contro le nostre sinagoghe [...] alla valutazione politica si aggiunge la
teologia, ovvero la peggiore delle soluzioni. Cresce in modo nascosto e
strisciante l’avversità per gli ebrei... Si attribuisce a una fantomatica
malvagità giudaica la responsabilità di quanto sta succedendo a Betlemme» 8.
Caso 2: le vignette danesi e l’insurrezione del mondo islamico per la
rappresentazione del Profeta Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands
Posten pubblica nella versione on line dodici vignette satiriche su Maometto,
in una delle quali il Profeta è raffigurato con una bomba al posto del turban-
te. Le vignette vengono successivamente ripubblicate da diverse te- state
giornalistiche europee, fra cui, nel febbraio 2006, il settimanale satirico
francese Charlie Hebdo. Le proteste sono immediate sia nel continente europeo
sia nei paesi di religione islamica 9: il direttore del giornale danese viene
mi- 8 L’Unità, 4 aprile 2002, p. 2 9 In Danimarca viene avviato un procedimento
penale, poi archiviato, per bla- 146 Tra sentimenti ed eguale
rispetto nacciato di morte, e nelle settimane successive alla pubblicazione
vengono organizzate manifestazioni di protesta da parte di cittadini islamici e
anche da parte di esponenti governativi che chiedono al governo danese di
formulare delle scuse ufficiali. Dure le prese di po- sizione dei governi di
paesi arabi 10. Una significativa sintesi delle ragioni della protesta si trova
nel co- siddetto dossier ‘Akkari-Laban’ pubblicato da due Imam immigrati in
Danimarca. Queste le principali rivendicazioni avanzate dagli Imam: viene
chiesto un contatto costruttivo con la stampa ed in particolare con soggetti
delle istituzioni (relevant decision makers), non sbrigati- vo, ma condotto con
meticolosità e lungimiranza (with a scientific methodology and a planned and
long-term programme) per rimuovere i malintesi tra le due parti. Si afferma che
i musulmani non vogliono apparire arretrati e limitati, e non vogliono neppure
accusare i danesi di «ideological arrogance»; obiettivo è avere relazioni
sicure e stabili, e una Danimarca prospera per tutti. Si lamenta che i fedeli
musulmani soffrono la mancanza di un riconoscimento ufficiale della fede isla-
mica, circostanza che ha fra le immediate conseguenze la mancanza del diritto
di costruire moschee. Si afferma infine che i musulmani non abbiano bisogno di
lezioni di democrazia, e si ritiene ‘dittatoria- le’ e inaccettabile l’attuale
modo europeo di concepire e gestire la democrazia 11. Caso 3: una discussa
opera teatrale e l’offesa alla religione cattolica Nel 2012 viene presentato in
Italia, dopo una tournée densa di po- lemiche in Francia, lo spettacolo
teatrale di Romeo Castellucci dal titolo ‘Sul concetto di volto del figlio di
Dio’. L’opera rappresenta la storia di un figlio che accudisce il padre, non
più autosufficiente. Sullo sfondo della scena, una rappresenta- zione del volto
del Cristo (il famoso ritratto di Antonello da Messina), che a fine spettacolo viene
lacerato e fatto oggetto del lancio di varie cose, fra cui del liquido nero da
molti interpretato come feci. Malgrado i tentativi dell’autore di spiegare il
significato della pro- sfemia e vilipendio di gruppi di persone. Anche in
Francia viene aperto un proce- dimento contro Charlie Hebdo, poi concluso con
un’assoluzione. Una sintesi delle vicenda processuali in BASILE, La
pubblicazione delle dodici vignette satiriche sull’Islam costituisce reato (in
Italia)?, in Notizie di Politeia, 2015, pp. 70 s. 10 La Repubblica, 30 gennaio
2006; La Repubblica, 5 febbraio 2006. 11 Informazioni tratte dalla voce
Wikipedia ‘Akkari-Laban dossier’, nella cui pa- gina si trova il link alla
versione originale del dossier in lingua araba. Fisionomia dell’offesa
147 pria opera, lo spettacolo è bersaglio di forti polemiche: si registrano
manifestazioni di protesta da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico, e
anche il Vaticano arriva a definirla «un’opera che offende Gesù e i cristiani»
12. Particolarmente significative le parole usate dal- la Curia milanese in un
comunicato ufficiale per criticare la messa in scena al teatro Parenti: si
richiama l’esigenza che sia «riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti
cittadini milanesi vedono nel Volto di Cristo l’incarnazione di Dio, la
pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza [...]», criticando in
questo senso una scelta che «avrebbe potuto farsi carico più attentamente della
“dimensione sociale” della libertà di espressione» 13. 1.2. Sentimento del pudore
e pari dignità sessuale In relazione alle manifestazioni della sessualità
emergono pro- blemi differenti rispetto al passato in cui Abel si soffermava
sul tema della liceità della pornografia; oggi assumono maggior rilevanza que-
stioni legate all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità degli
orientamenti sessuali sul piano del discorso pubblico e anche della
regolamentazione normativa. Al centro dell’attenzione è il fenomeno della
cosiddetta ‘omofobia’; nella Risoluzione sull’omofobia in Europa del gennaio
del 2006 essa viene definita come «una paura e un’avversione irrazionale nei
con- fronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali
(GLBT), basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia,
all’antisemitismo e al sessismo». La rilevanza penale di espressioni omofobiche
è legge in diversi Paesi europei, non ancora in Italia14. Il modello di
incriminazione privilegiato fa confluire il discorso omofobico nello hate
speech; per 12 Affermazioni di Peter Brian Wells, all’epoca assessore agli
Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, cui possono affiancarsi,
per identità di contenuto, le opinioni di Padre Federico Lombardi, v. Corriere
della Sera, 20 gennaio 2012. 13 Stralcio del comunicato della Curia milanese,
così riportato in Avvenire, 14 gennaio 2012. 14 Una panoramica in GOISIS,
Omofobia e diritto penale. Profili comparatistici, in
www.penalecontemporaneo.it, 11/2012, pp. 7 ss.; DOLCINI, Omofobia e legge
penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in Riv. it. dir
proc. pen., 1/2011, pp. 24 ss.; ID., Omofobi: nuovi martiri della libertà di
manifestazione del pensiero?, in Riv. it. dir proc. pen., 1/2014, pp. 7 ss.;
RICCARDI, Omofobia e legge penale. Possibilità e li- miti dell’intervento
penale, in www.penalecontemporaneo.it, 9/2013, pp. 1 ss. 148 Tra
sentimenti ed eguale rispetto tali ragioni riteniamo che anche l’insulto
omofobico non si presti a essere presentato in prima istanza come condotta
offensiva di senti- menti: stati affettivi vengono certo in gioco nelle
condotte omofobi- che, ma, come osservato per lo hate speech razzista, adottare
come ipotesi di lettura primaria l’offesa a sentimenti rischia di incentrare la
prospettiva sulla mera reattività emotiva. Con riferimento al tema della
sessualità e della pari dignità degli orientamenti sessuali, si rivelano
particolarmente problematiche le invocazioni dell’intervento penale che
adducano offese al pudore mo- tivate non dal livello di particolare
esplicitezza di condotte sessuali tenute in pubblico, ma in ragione
dell’orientamento sessuale dei sog- getti 15. Detto in altri termini: può
capitare, ed è capitato, che si invo- chino divieti per condotte sessuali dove
il motivo dell’offesa è ricon- ducibile esclusivamente alla tipologia di
relazione e dunque al- l’identità e alla dignità sessuale dei soggetti 16.
Anche in Italia la stam- pa ha dato notizia di denunce per atti osceni a
seguito di semplici ba- ci realizzati in pubblico nel contesto di un rapporto
fra soggetti dello stesso sesso, benché nessuno dei procedimenti, per quanto ci
è noto, sia giunto a una pronuncia di condanna 17. Caso 4: censura televisiva
per un bacio gay Riteniamo particolarmente significativo, per quanto non sia
inte- 15 Si veda il vasto, e grottesco, panorama di incriminazioni in vigore
negli anni Ottanta in alcuni Stati americani. Definirle ‘leggi antisodomia’
appare improprio poiché i divieti attengono al tipo di atto piuttosto che al
contesto della relazione. Ad esempio, in Arizona era penalmente rilevante la
condotta di «un individuo che commetta volontariamente e senza costrizione, in
qualunque modo innaturale, qualunque atto osceno libidinoso sul o con il corpo
o qualunque parte o membro del corpo di un adulto di sesso maschile o
femminile, con l’intento di eccitare, solleticare o gratificare la lussuria, la
passione, o il desiderio sessuale di una qua- lunque delle persone coinvolte»,
v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., pp. 116 ss. 16 Le radici storiche del
problema riportano alle leggi antisodomia, diffuse so- prattutto in ambito
angloamericano; su tale tema in Inghilterra si sviluppò il ce- lebre confronto
dialettico tra il filosofo di Oxford Herbert Hart e il giudice Patrick Devlin.
Hart si oppose alle tesi moralistiche di Devlin con un’opera divenuta un
manifesto del liberalismo giuridico: v. HART, Diritto, morale e libertà, cit.,
1968; per una sintesi, v. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la)
(diritto anglo americano), in Dig. disc. pen., VIII, 1994, pp. 187 ss. 17 Si
tratta di episodi narrati da organi di stampa; a titolo esemplificativo si veda
http://www.umbria24.it/cronaca/perugia-bacio-gay-tra-le-sentinelle-in-piedi-
alfano-riferisce-in-aula-diretta-streaming;
http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/- ContentItem-81e83656-04b5-4485-ac45-e4e5d912bc58.html.
Fisionomia dell’offesa 149 ressato il piano penalistico, un episodio di
vera e propria censura nel- la televisione italiana di Stato, espressamente
motivata da un ‘eccesso di sensibilità’, che ha portato al taglio e alla mancata
messa in onda di una scena comprendente un bacio omosessuale. Nel luglio 2016
viene trasmesso sul canale nazionale italiano Rai 2 la serie tv statunitense
‘Le regole del delitto perfetto’. La puntata dell’8 luglio 2016 va in onda con
dei tagli rispetto alla versione origi- nale: vengono infatti rimosse le
sequenze ritraenti un bacio fra sog- getti di sesso maschile. A seguito delle
polemiche levatesi contro una simile censura, la direttrice di Rai Due commenta
«Non c’è stata nes- suna censura, semplicemente un eccesso di pudore dovuto
alla sensi- bilità individuale di chi si occupa di confezionare l’edizione
delle se- rie per il prime time» 18. 2. Appartenenza e gruppalità Negli
argomenti addotti da coloro che lamentano un’offesa rico- nosciamo un’evidente
componente emozionale, soprattutto con rife- rimento alla vignetta sulla
religione ebraica e nell’opera teatrale con- testata da una parte del mondo
cattolico. Nel primo caso lo si può desumere dal lessico (pensiamo alla parola
‘orripilante’ che evoca una sensazione di disgusto); nell’opera teatrale si è
criticato soprat- tutto il gesto del lanciare materiali assimilati a feci
contro l’immagine del Cristo, azione il cui significato iconoclasta sarebbe
stato, forse, percepito in termini più attenuati senza il richiamo (peraltro
non univoco) alle feci, e che invece ha indotto nei fedeli una sensazione di
‘disgusto morale’. Nel caso della censura televisiva, la giustificazione
offerta in sede pubblica parla di ‘eccessiva sensibilità’ volta a evitare l’offesa
al pudore, mentre appaiono più complesse le motivazioni ad- dotte in sede
pubblica dai fedeli musulmani con riferimento alle vi- gnette danesi 19. Tutti
i suddetti conflitti possono a nostro avviso inquadrarsi in 18 Corriere della
Sera, 9 luglio 2016. 19 La reazione all’offesa religiosa si unisce ad argomenti
inerenti la situazione politica e le condizioni di vita dei musulmani in
Danimarca; al di là della cautela con cui è bene accogliere tali istanze, resta
il fatto che la rappresentazione attra- verso le vignette si presta a essere
interpretata anche come etichettamento dell’in- tera comunità musulmana nei
termini di ‘terrorista’, in questo senso andando ol- tre la semplice irrisione
sul piano religioso. 150 Tra sentimenti ed eguale rispetto contrapposizioni
di carattere gruppale, nelle quali cioè le ragioni del- lo scontro si legano a
profili che sono identificativi di un particolare gruppo o categoria di persone
da cui si vuole prendere una ‘distanza’. Intendiamo il concetto di gruppo in un
significato più esteso della sola appartenenza etnico-culturale, e che non è
limitato a gruppi c.d. ‘minoritari’ o contrapposti alla cultura dominante20, ma
che è fun- zionale a designare tensioni tra forme di appartenenza che attraver-
sano i confini delle singole realtà geopolitiche 21. Un’appartenenza che si
radica nel sentire dell’individuo, la cui de- finizione può a nostro avviso
esser fatta coincidere con il termine ethos, il quale rimanda letteralmente ai
concetti di abitudine e di usanza, intesi come elementi costitutivi della
diversità fra popoli e fra individui, e che nella filosofia contemporanea è
adoperato per desi- gnare «una complessiva, non necessariamente esplicita,
concezione del be- ne, o uno stile di vita, che può anche avere una radice religiosa,
e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche comunità di
appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme di questa
comunità: in questo senso un ethos può definire l’identità culturale o
religiosa, e lato sensu morale di una persona» 22. Un’ulteriore connessione può
trovarsi nei concetti di ‘categorizza- zione’ e di ‘autocategorizzazione’.
Secondo quanto osservato in psicologia sociale, il sistema cogniti- vo umano
per far fronte alla complessità del mondo esterno sviluppa la tendenza a
pensare gli oggetti raggruppandoli in insiemi, accomu- nandoli sulla base di
informazioni e di dati estendibili alla totalità di 20 A questo livello non vi
sono, a nostro avviso, esigenze penalistiche di delimi- tazione del concetto di
appartenenza, le quali invece appaiono evidenti quando il richiamo al gruppo o
alla cultura sia funzionale a introdurre eventuali fattori di attenuazione
della responsabilità penale, come nel caso dei c.d. ‘reati cultural- mente
motivati’. In tale ultimo caso la rilevanza sul piano penalistico è necessa-
riamente subordinata a una specificità che deve consentirne l’accertamento in
sede processuale: v., per tutti, DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati.
Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, pp. 25 ss.; EAD., voce Reati
culturalmente condizionati, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano,
2014, pp. 872 ss.; in senso lato, il problema può riconnettersi alla categoria
generale della c.d. ‘inesigibilità’, v., per tutti, FORNASARI, Il principio di
inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, pp. 319 ss. 21 Accenna a tale
distinzione KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, tr. it., Bologna, 1999,
p. 35. 22 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 143.
Fisionomia dell’offesa 151 essi. Tale processo classificatorio può avere a
riferimento anche le persone, e si tratta di un momento essenziale del rapporto
con l’altro: «Il mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in
insiemi omogenei di persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste
suddivisioni sono più importanti e cariche di significato, come l’ap-
partenenza etnico culturale, la lingua, la religione, la famiglia, le ideo-
logie, l’orientamento politico; ma anche il genere, l’età, l’orientamento
sessuale, l’occupazione, la zona di residenza, e perfino aspetti molto più
marginali come gli hobby, gli stili di consumo o la preferenza per una squadra
di calcio, sono in grado di diventare potenti elementi di identificazione
collettiva» 23. La tendenza alla gruppalità24 induce una propensione a
‘classifi- care’ gli altri individui, e si manifesta anche in senso riflessivo
come percezione di sé basata sul sentirsi parte di una categoria, ossia come
‘autocategorizzazione’; più in particolare, l’autocategorizzazione si pone come
fondamentale momento di costruzione dell’identità socia- le relativamente
all’edificazione dell’immagine di sé e al modellamen- to delle sfere
relazionali 25. Tale assunto ricorre anche in ambito antropologico:
«l’esperienza della diversità di modi di vivere porta spesso a dare giudizi di
valore, sulla base del sapere garante dell’identità del proprio gruppo, su di
noi rispetto agli altri e sugli altri rispetto a noi» 26. Categorizzazione e
autocategorizzazione rappresentano dunque concetti essenziali per la
comprensione di dinamiche relazionali e comunicative in cui vengono in gioco
‘appartenenze significative’ del- l’individuo 27, tali da renderlo
particolarmente sensibile a ciò che vie- 23 LEONE-MAZZARA-SARRICA, La
psicologia sociale. Processi mentali, comunica- zione e cultura, Roma-Bari,
2013, p. 180. 24 HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 237 ss. 25 Si vedano, ex
plurimis, CRISP-TURNER, Psicologia sociale, tr. it., a cura di Mosso, Torino,
2013, pp. 59 ss.; BROWN R., Psicologia sociale del pregiudizio, tr. it.,
Bologna, 1997, pp. 51 ss.; CARNAGHI-ARCURI, Parole e categorie. La cognizione
so- ciale nei contesti intergruppo, Milano, 2007; TAJFEL, Gruppi umani e
categorie so- ciali, tr. it., Bologna, 1985, pp. 220 ss.; RAVENNA, Odiare.
Quando si vuole il male di una persona o di un gruppo, Bologna, 2009, pp. 81
ss. 26 ANGIONI G., Fare, dire, sentire, cit., p. 268. 27 Ci riferiamo a
caratteristiche costitutive dell’identità che siano particolar- mente
totalizzanti o ‘dispotiche’, nel senso che, pur essendo oggetto di scelta, ten-
dono ad assumere una portata fortemente invasiva della sfera personale, anche
fino a generare situazioni di concorrenza e incompatibilità con altre
appartenen- 152 Tra sentimenti ed eguale rispetto ne detto28 sia
riguardo alla sua appartenenza a un gruppo, sia ri- guardo al gruppo in sé e a
ciò che lo identifica 29, e anche riguardo a fatti di conoscenza che si pongono
a confutazione o in contrasto con il patrimonio di conoscenze tramandato e
acquisito dal gruppo 30. Secondo la ricostruzione dello psicologo sociale
Jonathan Haidt, l’uomo ha una natura sia egoista sia gruppista, e possiede una
mente ‘tribale’: l’aderenza al gruppo ‘unisce e acceca’, nel senso che crea i
presupposti per la socialità e al contempo può intrappolare le perso- ne nelle
matrici morali del gruppo di appartenenza, ingenerando conflittualità fra
gruppi contrapposti 31. Un risvolto di tale relazione è l’accentuata emotività
che si lega al- le questioni inerenti l’appartenenza: ma qual è la pretesa che
acco- muna le parti in conflitto? cosa ‘chiedono’ le emozioni in termini di
reciprocità? ze. L’esempio principale è l’identità religiosa; sul tema della
costruzione dell’iden- tità e del particolare ruolo ‘dispotico’ dell’identità
religiosa v. PINO, Identità perso- nale, identità religiosa e libertà
individuali, in Quad. di diritto e politica ecclesiasti- ca, 1/2008, pp. 123,
137 ss. 28 «Il linguaggio [...] trasmette l’interazione con gli altri. Narra le
categorizza- zioni sociali di cui ci serviamo. Reiterandoli consolida gli
stereotipi. Partecipa alla costruzione e all’alimentazione dei pregiudizi. E
così facendo influenza in modo rilevante la percezione sociale di un
determinato gruppo», v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi d’odio e la
libertà di espressione nel diritto costituzio- nale, in
www.penalecontemporaneo.it, 7/2013, p. 3. 29 Quali sono queste appartenenze e
in base a quali criteri il diritto può attri- buire una rilevanza?
L’interrogativo, nella sua estrema complessità, non può esse- re affrontato nel
presente lavoro; nondimeno va tenuto conto che sia nelle scienze sociali, sia,
di riflesso, nella prospettiva giuridica, si tratta di un problema aperto che
può influire in modo determinante sull’approccio agli eventuali limiti alla li-
bertà di espressione, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., p. 319. Il tipo di
identità che sembra assumere una rilevanza peculiare sul piano politico è ciò
che CA- STELLS, Il potere delle identità, tr. it., Milano, 1997, p. 7,
definisce come ‘resisten- ziale’, ossia quella «generata dagli attori che sono
in posizioni o condizioni svalu- tate e/o stigmatizzate da parte della logica
del dominio». Nondimeno, il valore politico dell’identità può risultare
condizionato anche dal grado di ‘dispoticità’ e della conseguentemente combattività
nella sfera pubblica, v. supra, nota 27. 30 Si soffermano su tale ultima
tipologia di conflitto, tra fatti di sentimento e fatti di conoscenza,
GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 855 ss.,
analizzando in particolare, in riferimento al contesto statunitense, il tema
dell’opposizione all’insegnamento delle teorie evoluzionistiche negli istituti
di istruzione di orientamento creazionista. 31 HAIDT, Menti tribali, cit., pp.
240 ss., 313 ss., 359 ss. Sul particolare profilo che Haidt definisce
‘principio di sacralità’, il quale porta a ritenere determinate cose (non
semplicemente materiali ma anche teorie e ideologie) come identifica- tive
della moralità del gruppo, v. pp. 184 ss. Fisionomia dell’offesa
153 3. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca Il concetto che meglio
definisce l’atteggiamento relazionale che ciascuno esige dai propri simili è il
rispetto. Ogni individuo si forma una propria intuitiva nozione di rispetto, la
quale può fondarsi su istanze più o meno giustificate; non è però a una tale
solipsistica concezione che il diritto può fare riferimento. La parola
‘rispetto’ ha assunto nel corso della storia significati dif- ferenti 32, ma
ciò che ci interessa oggi è ricostruirne il contenuto dal punto di vista politico,
non solo come atteggiamento individuale, ma soprattutto come principio per la
convivenza nella diversità. Che cosa vuol dire rispettare le persone? Il
pensiero filosofico ha riservato particolare attenzione a tale que- stione, e
soprattutto nell’epoca attuale il tema ha assunto un’innovativa importanza: il
rispetto per le persone e fra le persone rappresenta una aspetto costitutivo
della qualità morale delle democrazie moderne. Si parla oggi non di un generico
rispetto, ma di un rispetto democratico, non gerarchico, che assume come
presupposto l’uguaglianza e la pari dignità: l’eguale rispetto, definito da
un’autorevole interprete «ragione morale alla base dell’ordinamento
democratico» 33. Sia chiaro: l’eguale rispetto rappresenta un’idea che riconosce
im- portanza morale alla ricerca di ragioni comuni (nel senso di ‘meno
comprensive’) 34 da porre a fondamento di scelte normative, ma non è una
teorizzazione neutrale o dai caratteri meramente procedurali. È una concezione
eticamente ‘spessa’ che sintetizza il cardine assiologi- co della democrazia:
«un principio morale che richiede il riconosci- mento degli altri come pari in
virtù della comune umanità» 35. Quando si parla di ‘eguale rispetto’ si intende
un atteggiamento di necessario e aprioristico riguardo di cui ogni essere umano
è con- temporaneamente titolare e debitore nei confronti degli altri indivi- 32
Per tutti v. MORDACCI, Rispetto, Milano, 2012, pp. 45 ss. 33 Si sottolinea che
l’eguale rispetto rappresenta un principio comune alle principali strategie di
giustificazione della legittimità democratica, v. GALEOTTI, La politica del
rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari, 2010, p. 31. 34
GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. Sulla definizione di
‘concezione comprensiva’, v. VECA, La filosofia politica, cit., p. 41: «[s]i
usa dire che una teoria morale è comprensiva quando essa include e si estende
sull’intero dominio di ciò che per noi vale». 35 GALEOTTI, La politica
del rispetto, cit., p. 52. 154 Tra sentimenti ed eguale rispetto dui36,
secondo una reciprocità fra pari37. Lo si definisce ‘rispetto- riconoscimento’
per distinguerlo dal cosiddetto ‘rispetto-stima’ «che consegue alla
considerazione positiva del carattere, delle condotte, dei risultati conseguiti
da una particolare persona» 38, e che è connes- so a una valutazione di
meritevolezza che può mutare. La distinzione fra le due forme di rispetto
esprime anche un’indi- cazione sul valore e sull’importanza che esse assumono
in un oriz- zonte democratico: l’impegno prioritario è il
rispetto-riconoscimen- to 39, mentre l’atteggiamento di stima è quello che più
risente di emo- zioni contingenti e di inclinazioni individuali, e non è un
obiettivo proponibile in un contesto pluralista e culturalmente disomogeneo,
nel quale un dissenso intersoggettivo, anche aspro, tra opinioni e orientamenti
etici, dovrebbe considerarsi fisiologico 40. Le oscillazioni del rispetto-stima
rappresentano in definitiva un risvolto della libertà 36 Viene sottolineato che
il rispetto come riconoscimento non può venir meno di fronte a nessuno, neppure
di fronte al criminale più efferato o a chi si sia reso autore di azioni che
travalicano ogni idea di umanità. Chi afferma che rispetto a determinati
comportamenti esiste l’eventualità che un soggetto perda tale status, procede
sulla base di un’ulteriore specificazione, la quale individua nel rispetto-
riconoscimento due componenti distinte: il sentimento di riguardo e la dispo-
sizione ad agire. La perdita del rispetto come riconoscimento può intaccare
solo il sentimento di riguardo: «mentre possiamo sospendere l’atteggiamento di
ri- spetto – smettendo di considerare quell’uomo degno del nostro riguardo –
non possiamo ignorare i vincoli morali delle nostre azioni nei suoi confronti»,
v. GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 84. 37 È sulla reciprocità che
si impernia la dimensione morale del rispetto: «[p]ensare moralmente, costruire
un ragionamento morale, significa intrattenere con gli altri una relazione di
mutuo riconoscimento, cioè dar loro pari dignità e [...] pretendere da loro il
rispetto e il riconoscimento della nostra dignità», così BAGNOLI, L’autorità
della morale, Milano, 2007, p. 24. 38 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit.,
p. 77; DARWALL, Two Kinds of Respect, in 88 Ethics, 1977, pp. 36 ss. 39
Sottolinea come la nozione stessa di democrazia apra «a un concetto del
rapporto secondo giustizia con l’altro fondato sul suo riconoscimento, e non
sul giudizio inerente alle sue capacità o alle sue qualità» EUSEBI, Laicità e
dignità umana nel diritto penale, cit., pp. 175 s. Sull’importanza del
principio dell’eguale rispetto-riconoscimento nel diritto penale, v. PULITANÒ,
Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 26 ss. 40 Si apre qui il problema,
sconfinato, della tolleranza e degli eventuali limiti alla tolleranza: sul tema
v., ex plurimis, GALEOTTI, La tolleranza. Una proposta plu- ralista, Napoli,
1994; WALZER, Sulla tolleranza, tr. it., Roma-Bari, 2003; sul tema dei limiti,
v. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., p. 111; POPPER, Tolleranza e responsabili-
tà intellettuale, in AA.VV., a cura di Mendus-Edwards, Saggi sulla tolleranza,
Mila- no, 1990, pp. 27 ss. Fisionomia dell’offesa 155 di critica,
diritto da considerarsi fondamentale in una democrazia ispirata al pluralismo
assiologico. A nostro avviso le categorie della stima e del rispetto-riconosci-
mento ripropongono con un diverso lessico l’esigenza di distinguere tra offese
alla sensibilità soggettiva e forme di offesa che appaiano orientate a minare
qualcosa di più radicale, ossia il rapporto di rico- noscimento reciproco fra
persone: nel secondo caso emozioni e sen- timenti entrano in gioco non solo da
un punto di vista esteriore/feno- menico, bensì quale tratto della personalità
che si presta a strumen- talizzazioni in chiave discriminatoria. Ed è in questi
termini che si è affermata l’assoluta rilevanza del ri- spetto-riconoscimento
per una società: «Fare del riconoscimento il tema centrale di un ragionamento
filosofi- co-politico significa quindi che le società devono impegnarsi a pro-
muovere delle regole capaci di creare e costituire istituzioni tali da non
discriminare alcun soggetto – persona, famiglia, gruppo inclusivo –
considerandolo oggetto, o non umano» 41. Per approfondire tale ultima
prospettiva di significato ci appog- giamo all’elaborazione di Axel Honneth, il
quale definisce il ricono- scimento: «un processo nel quale il singolo può
pervenire ad una identità pratica nella misura in cui abbia la possibilità di
accertarsi del riconoscimento di se stesso attraverso una cerchia sempre più
va- sta di partner della comunicazione»42. Al mancato riconoscimento può
conseguire, secondo Honneth, un vulnus definibile come ‘spre- gio’ o ‘offesa’,
il cui effetto è l’alterazione dell’immagine che una per- sona ha di sé 43.
Secondo Honneth le forme di mancato riconoscimento possono avere differenti
gradazioni: si può avere uno spregio che coinvolge la dimensione fisica,
conculcando la libertà di autodeterminazione; e si 41 CERETTI, Vita offesa,
lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 66; nell’elaborazione di
Ceretti la centralità del concetto di riconoscimento si inqua- dra in una
prospettiva di applicazione della mediazione ai conflitti legati all’ap-
partenenza. Più diffusamente sul tema del riconoscimento nella mediazione e
nel- la giustizia riparativa, v. ID., Mediazione. Una ricognizione filosofica,
in AA.VV., a cura di Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile,
Padova, 1998, pp. 44 ss.; MANNOZZI-LODIGIANI, La Giustizia riparativa.
Formanti, parole, metodi, Torino, 2017, pp. 145 ss. 42 HONNETH, Riconoscimento
e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post- tradizionale, tr. it., Messina,
1993, p. 18. 43 Sul tema vedi anche TAYLOR, La politica del
riconoscimento, cit., pp. 9 ss.; 21 ss. 156 Tra sentimenti ed eguale
rispetto possono avere forme di umiliazione che influiscono sulla cosiddetta
‘autocomprensione normativa’ della persona, escludendola struttu- ralmente dal
godimento di diritti, oppure – ed è questa la forma per la quale il termine
‘spregio’ viene più comunemente in uso – negan- dole valore sociale tramite lo
svilimento di modi di vita individuali o collettivi 44. Riguardo a tale ultima
dimensione di significato si è detto che la questione del riconoscimento è
cruciale nella costituzione dell’iden- tità personale, la quale si forma
attraverso una «negoziazione che av- viene via dialogo, in parte esterno e in
parte interiore, con altre per- sone», con l’importante conseguenza che «sia
sul piano intimo sia su quello sociale (quello della politica dell’uguale
dignità) la nostra iden- tità si forma (o deforma) in relazione ai nostri
incontri con “altri si- gnificativi”» 45. Ebbene, è fondamentale il passaggio
dal piano intimo a quello so- ciale, in un percorso che deve tenere ben
presenti e ben distinti en- trambi i profili: nella individuazione di un’offesa
il piano intimo en- tra in gioco ma non può rappresentare un criterio assoluto;
il richia- mo al piano sociale, e a una dimensione di normatività
oggettivabile, risulta cruciale 46. 44 Honneth afferma che «ciò che lo spregio
qui sottrae alla persona, in termini di riconoscimento, è l’approvazione
sociale di una forma di autorealizzazione, alla quale essa stessa ha prima
dovuto faticosamente pervenire attraverso l’inco- raggiamento della solidarietà
di un gruppo», v. HONNETH, Riconoscimento e di- sprezzo, cit., p. 23. 45
CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 61. 46
È in base a tale distinzione, tra piano intimo e piano sociale, che possono
eventualmente essere tematizzate questioni relative a quali siano gli ideali,
le cre- denze, le concezioni valoriali, e più in generale quali profili
dell’identità morale della persona possano essere presi in considerazione dal
diritto, v. HÖRNLE, Prote- zione penale di identità religiose?, in Ragion
pratica, 2/2012, pp. 379 ss. La studiosa lascia volutamente in sospeso la
questione della soglia al di là della quale uno Sta- to dovrebbe adoperarsi per
promuovere il mutuo riconoscimento, pur non na- scondendo notevoli perplessità
sull’eventuale ricorso al diritto penale, e si limita a rimarcare che il dare
rilevanza a particolari profili dell’identità morale, come ad esempio la fede
religiosa, crei problemi di disuguaglianza rispetto ad altre forme di
propensione alla trascendenza, e pertanto, non potendosi ragionevolmente ga-
rantire a tutte lo stesso regime di tutela, lo Stato dovrebbe mantenere un
atteg- giamento di neutralità astenendosi dal tutelare l’identità
religiosa. Fisionomia dell’offesa 157 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto
Il disconoscimento è anche un’offesa al sentire, nella misura in cui tocca
corde significative dell’animo; ma non è scontato che un’offesa al sentire
possa anche considerarsi come negazione del riconosci- mento. Il
rispetto-riconoscimento non è il riflesso univoco di reazioni emotive, ma «ha
più a che fare, naturalmente, con quella dignità ul- tima che non si
inchina, che pretende il rispetto in forza di un valore intrinseco della
persona, un valore che ciascuno rivendica per sé stes- so come inviolabile»47:
si tratta, in definitiva, della proiezione rela- zionale del valore della
dignità umana. Parlare di violazione del rispetto-riconoscimento ricalca prima
fa- cie le cadenze dell’offesa alla dignità: un accostamento tutt’altro che
risolutivo, e anzi assai problematico poiché rimanda alle profonde criticità
che sono state espresse con riferimento alla configurabilità della dignità
umana come oggetto di tutela penale 48. L’indeterminatezza penalistica è la
ricaduta di una più generale difficoltà di dare alla dignità un contenuto e una
dimensione oggetti- vi. La forte pregnanza emotiva che innerva tale concetto lo
rende par- ticolarmente esposto a ricostruzioni di parte, e dunque a un uso che
sul piano della politica del diritto appare problematico in rapporto alle
dinamiche di una società pluralista 49. Il rischio è che il contenuto del
concetto di dignità umana si tra- muti nel mero riflesso di concezioni
‘comprensive’ 50, le quali, ove tra- sfuse nella dimensione giuridica,
incrementerebbero dissensi e frammentazioni. In altri termini, la dignità umana
è un concetto «fondamentale ma “manipolabile”» 51. Si tratta di obiezioni che
hanno il merito di mettere a nudo da un lato la forza retorica, e dall’altro la
fragilità contenutistica di un ri- chiamo alla dignità umana tout court,
probabilmente anche fino al 47 MORDACCI, Rispetto, cit., p. 26. 48 V. supra,
cap. III, nota 102. 49 Per una panoramica sul dibattito a livello
internazionale v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, cit., pp. 65 ss.; per
un’approfondita critica dell’appello alla dignità v. GUY E. CARMI, Dignity –
The Enemy from Within: A Theoretical and Com- parative Analysis of Human
Dignity as a Free Speech Justification, in 9 Journal of Constitutional Law,
2007, pp. 958 ss. Per una sintesi v. VERONESI, La dignità uma- na tra teoria
dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quaderni costituzionali,
2/2014, pp. 329 ss. 50 RAWLS, Liberalismo politico, cit., pp. 12 ss.; v. anche
supra, nota 34. 51 CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa,
cit., p. 934. 158 Tra sentimenti ed eguale rispetto punto di non
passare il vaglio dei principi penalistici; ma sono ragio- ni sufficienti a
espungere radicalmente il valore della dignità dal di- scorso sui problemi di
tutela? Il richiamo alla dignità umana non sembra un postulato da cui prendere
le mosse per l’elaborazione di argomenti di parte52, bensì dovrebbe essere
considerato come la dimensione di senso di ogni di- scorso che abbia a che fare
con problemi di convivenza fra uomini. Le difficoltà, financo l’impossibilità,
di un utilizzo del concetto di dignità sul piano tecnico-giuridico non ci
sembrano una ragione suf- ficiente a mettere da parte l’orizzonte simbolico e
semantico che ruota intorno alla dignità. Anche le critiche più radicali ci sembrano
rivolte all’uso piuttosto che al valore sostanziale e alla pertinenza rispetto
alle questioni in gioco53: si sta maneggiando un ‘superconcetto’ che sarebbe
necessario introdurre nel discorso con maggiore cautela, per ragioni di tipo
epistemico ed etico 54. Pur partendo dal presupposto che il concetto di dignità
«è intuiti- vo, nient’affatto chiaro di per sé», pare difficile poterne fare
del tutto a meno: «[s]ebbene sia un’idea imprecisa, il cui contenuto va appro-
fondito in rapporto a nozioni correlate, l’idea di dignità fa comunque la
differenza» 55. Martha Nussbaum esorta a non abbandonare le co- 52 «[È]
fuorviante contrapporre in modo meccanico e astratto la dignità uma- na ai
diritti che la Costituzione riconosce», v. AMBROSI, Costituzione italiana e
manifestazione di idee razziste o xenofobe, in AA.VV., a cura di Riondato,
Discri- minazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e
tutela penale, Padova, 2006, p. 52. Condivisibilmente, VERONESI, La dignità
umana, cit., pp. 336 ss., sostiene che la dignità non debba essere identificata
né con un diritto, né con la piana conseguenza della violazione di un diritto,
né come un principio auto- nomamente azionabile, evidenziando in questo senso
ragionevoli obiezioni a un appiattimento della dignità sulla dimensione del
diritto positivo. 53 La distinzione fra il concetto di dignità (concept) e le
plurivoche concezioni che da esso derivano (conceptions) è evidenziato da
MCCRUDDEN, Human Dignity, cit., p. 679, in un discorso che cerca di evidenziare
il rapporto fra il ‘nucleo duro’ del significato (core value) e le diverse
declinazioni che emergono dal discorso giuridico. 54 Per tutti, v. HASSEMER,
Argomentazione con concetti fondamentali, cit., p. 129. Pretendere di dare una
veste conchiusa e definita della dignità, identifican- dola univocamente in un
interesse ‘a senso unico’, rischia di essere una mossa azzardata sul piano
epistemico e anche una forzatura sul piano etico, ove si pre- tenda di
identificare il contenuto della dignità con istanze fondate su concezioni
comprensive. 55 NUSSBAUM, Creare capacità, tr. it., Bologna, 2011, p. 36. Nel
panorama italia- no, si veda la difesa del valore e del ruolo della dignità
proposta da FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Politica del
diritto, 4/2014, pp. 515 ss. Fisionomia dell’offesa 159 ordinate
tracciate dal concetto di dignità, e a trovare delle nozioni correlate e
specificative che possano aiutare a renderlo meno liquido e più aderente ai
contesti. Un importante suggerimento è quello di focalizzare l’attenzione sul
concetto di rispetto: «La dignità è un’idea difficile da definire con
precisione, e probabil- mente non dovremmo cercare di farlo nell’ambito
politico, poiché di- verse religioni e prospettive laiche la descrivono in modi
differenti [...]. Probabilmente dovremmo evitare che la dignità abbia un conte-
nuto specifico tutto suo: sembra essere un concetto che acquista for- ma
attraverso i legami con altri concetti, come quello di rispetto [...], e una
varietà di principi politici più specifici» 56. Riteniamo tale passaggio di
fondamentale importanza poiché con- tribuisce a ridisegnare la fisionomia della
dignità in termini relazio- nali e non come valore assoluto, scisso da un
rapporto fra individui. Parlare di rispetto reciproco significa chiamare in
gioco non un valo- re esterno alla relazione, ma focalizza l’attenzione su un
bilancia- mento. Le dinamiche del rispetto-riconoscimento non esauriscono lo
spa- zio etico della dignità ma evidenziano il rapporto di simmetrica reci-
procità nel quale devono essere collocate le pretese avanzate dagli at- tori
nella dialettica pluralista, le quali appaiono tendenzialmente in- terpretabili
come riflesso di due esigenze di fondo: «il rifiuto dell’im- posizione, sia
essa in nome della neutralità e della verità [e] il rifiuto di una
considerazione diseguale [...] che deriverebbe dal trionfo della posizione
politica avversa» 57. Una ridefinizione dell’orizzonte di tutela nei termini
dell’eguale e reciproco rispetto può rappresentare a nostro avviso un’opzione
epi- stemicamente più cauta di un’asserita ‘tutela della dignità’: a risultare
decisiva non è una ricerca di fondamenti ontologici del superconcet- to
‘dignità’, ma l’elaborazione di criteri di bilanciamento fra opposte posizioni secondo
una prospettiva di uguaglianza. 56 NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la
paura dell’Islam e vivere in una società più libera, tr. it., Milano, 2012, pp.
71 s. 57 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. A chiosa della
posizione della Galeotti, si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è
dunque un atteggiamen- to verso una persona, prima ancora che nei confronti di
un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così
CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 210. 160 Tra sentimenti
ed eguale rispetto 4. Bilanciare le pretese 4.1. Dignità e capacità umane In
merito al problema dei limiti alla libertà di espressione, la digni- tà umana
mal si presta ad assumere le vesti di argomento ‘a senso uni- co’, tale da
offrire univoca giustificazione a una sola delle pretese che si confrontano, ma
è potenzialmente in grado di valere su più fronti. Parlare di tutela della
dignità assume in primo luogo il significato di un sostegno alle libertà, in
quanto l’attenzione e la cura nei con- fronti della dignità costituiscono da un
lato la condizione generativa «di un “pensiero critico, eterodosso, collidente
con pensieri e senti- menti dominanti”» e dall’altro lato «la condizione nei
soggetti istitu- zionali, della stessa capacità di resistere alla tentazione di
soffocarne la manifestazione» 58. Secondariamente, va tenuto in considerazione
che nella dialettica fra istanze di libertà e richieste di rispetto vi sono più
dignità che en- trano in gioco: quella di colui che manifesta il proprio
pensiero e quella che si considera offesa dalla manifestazione espressiva 59.
An- che nel linguaggio può essere importante esplicitare la connessione fra
dignità e uguaglianza richiamando non semplicemente la dignità di ognuno, ma la
pari dignità come presupposto di una relazione di eguale rispetto 60. Resta
aperto il problema di contestualizzare pari dignità ed eguale rispetto in
relazione a esigenze concrete dell’essere umano, e dunque di limitare la
distanza fra la metafisica di tali concetti e le situazioni da cui scaturiscono
problemi di convivenza. 58 FORTI, Le tinte forti del dissenso nel tempo
dell’ipercomunicazione pulviscola- re. Quale compito per il diritto penale?, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1056. 59 Evidenzia tale ambiguità SCHAUER,
Speaking of Dignity, in AA.VV., ed. by Meyer-Paren, The Constitution of rights.
Human Dignity and American Values, Itha- ca and London, 1992, p. 179: «[t]he
conflation of dignity and speech, as a general proposition, is mistaken, for
although speaking is sometimes a manifestation of the dignity of the speaker,
speech is also often the instrument through use which the dignity of others is
deprived»; cfr. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifesta- zione di opinioni
razziste e xenofobe, in Quaderni costituzionali, 3/2008, p. 533. 60 Cfr.
SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio
razziale, Padova, 2009, pp. 232; 242. Si veda anche l’icastica osservazione di
Nadia Urbinati, secondo la quale «eguale libertà è dunque il nome della difesa
della dignità umana nel tempo della modernità», v. URBINATI, Ai confini della
democra- zia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma, 2007,
p. 10. Cfr., con diversità di accenti, CARUSO, La libertà di espressione in
azione, cit., p. 112. Fisionomia dell’offesa 161 Nel contesto
penalistico italiano si è fatto di recente carico di tale onere Gabrio Forti,
il quale, attingendo da una recente pubblicazione di Aaron Barak61, ha definito
la dignità umana come «principio complesso che, necessariamente sganciato da
visioni o concezioni fi- losofiche unilaterali, è suscettibile di scomposizione
in entità valoria- li che devono essere rapportate tra loro» 62. Il richiamo
alla distinzio- ne di Barak tra ‘dignità-madre’ e ‘diritti-figli’ è funzionale,
per Forti, a evidenziare che la libertà d’espressione potrebbe incontrare
limita- zioni volte alla tutela di altri ‘diritti-figli’ della stessa
‘dignità-madre’, a patto di uscire da un ragionamento meramente astratto e di
proce- dere a una ‘lettura situazionale’ che sappia decifrare i contesti e gli
specifici bisogni che possono emergere quale interesse da contrap- porre a
eventuali manifestazioni espressive. Si tratta in altri termini di dare
spessore e pregnanza personologi- ca all’interrogativo sul perché la libertà di
espressione sia così impor- tante, al di là del riconoscimento che le è dato
nelle carte costituzio- nali 63; e correlativamente, di chiedersi quale possa
essere il peso delle parole nell’economia di vita sia di chi le esprime sia dei
destinatari. Per abbozzare delle coordinate prendiamo le mosse dal pensiero di
John Searle che individua la caratteristica fondamentale dell’essere umano
nell’attitudine a porre in essere atti linguistici («we are speech act performing
primates»), e fa conseguentemente derivare la piena dignità di un individuo
dalla sua capacità di espressione 64. A nostro avviso non basta tuttavia
configurare una semplice pro- pensione ad atti linguistici, ma sono necessarie
ulteriori connessioni che ne mettano in luce la strumentalità rispetto a un
quadro più va- riegato di capacità e di prospettive concernenti la
realizzazione della persona. Nella riflessione filosofica contemporanea, il
discorso sulle capaci- tà trova una fondamentale elaborazione nel ‘capability
approach’ di 61 BARAK, Human Dignity. The Constitutional Value and the
Constitutional Right, Cambridge, 2015. 62 FORTI, Le tinte forti del dissenso,
cit., pp. 1054 ss. 63 Sulle istanze partecipative legate al discorso pubblico
v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 156 ss. 64 SEARLE,
Social Ontology and Free Speech, in 6 The Hedgehog Review, 2004, p. 62: «we
attain our full dignity, our full stature as speech act peforming animals, when
we exercise our capacities for expression [...] The need for dignity, self-
esteem, and autonomy come with the genetic territory, and a healthy society has
to recognize these needs and recognize that verbal self expression is an
essential component in their satisfaction». 162 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Martha Nussbaum: si tratta di un’antropologia dei bisogni
dell’uomo pensata come riferimento per le strategie politiche e di
organizzazio- ne della società, basata sull’individuazione di un novero di
capacità le quali integrano e danno sostanza umana all’idea di dignità 65.
L’importanza di tale riflessione nella prospettiva penalistica è sta- ta messa
in luce quale criterio di interpretazione dei bisogni e degli aspetti di
vulnerabilità degli esseri umani al fine di tracciare le coor- dinate per un
apporto del diritto penale alla difesa, al rispetto e an- che alla
‘costruzione’ della dignità umana 66. Nel condividere la suddetta impostazione,
riteniamo che attraver- so il linguaggio delle capacità si possano meglio
definire anche i con- torni delle istanze di libertà e delle richieste di
rispetto che animano la dialettica sulla libertà di espressione. Ci sembra che
un’immer- sione nelle note caratterizzanti la natura e la socialità umane possa
contribuire a tradurre le pretese in una dimensione meno astratta, per
verificare se e in che termini siano reciprocamente esigibili 67. Entrando nel
dettaglio del catalogo della Nussbaum individuiamo un novero di capacità che
definiscono una base di contenuti funzio- nale non solo alla ricognizione dei
contorni di un’ipotetica dignità of- fesa, ma che si prestano a dare senso e
sostanza alla posizione di chi chiede rispetto per la propria libertà di
esprimere contenuti pur ‘di- scutibili’, fungendo in questo senso da
connessione giustificativa an- che per la posizione di chi invoca il diritto
alla libertà di espressione: 65 «Consideriamo la persona, proprio perché
caratterizzata da attività, mete, progetti, in qualche modo capace di suscitare
un rispetto che trascende l’azione meccanica della natura, eppure bisognosa di
sostegno per portare a compimento molti progetti importanti», v. NUSSBAUM,
Diventare persone, tr. it., Bologna, 2000, p. 90. 66 FORTI, «La nostra arte è
un essere abbagliati dalla verità». L’apporto delle di- scipline penalistiche
nella costruzione della dignità umana, in Jus, 2-3/2008, pp. 308 s. 67
L’approccio delle capacità può rappresentare un’importante coordinata de-
scrittiva e una chiave di lettura delle istanze di tutela; in questo senso
condivi- diamo e rilanciamo quale buon esempio la proposta di ‘lettura
situazionale’ basa- ta sull’approccio delle capacità formulata da Matteo Caputo
in tema di repressio- ne penale del negazionismo, v. CAPUTO, La “Menzogna di
Auschwitz”, cit., pp. 309 s. A un livello successivo, relativo al problema
della soglia di intervento normati- vo, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità
umana, cit., pp. 108 ss., evidenzia in termini critici come anche tale chiave
di lettura non sarebbe però sufficiente a configurare un substrato di
offensività verificabile in termini conformi allo stan- dard di bilanciamento
che dovrebbe supportare eventuali norme basate sullo schema applicativo del
pericolo concreto. Fisionomia dell’offesa 163 «Sensi,
immaginazione, pensiero. [...] Essere in grado di usare l’imma- ginazione e il
pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzio- ne di opere
autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa,
letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente in modi protetti
dalla garanzia delle libertà di espressione rispetto sia al discorso politico,
sia artistico, nonché della libertà di pratica reli- giosa [...]. Sentimenti.
Poter provare attaccamento per cose e persone oltre che per noi stessi [...]
Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie o paure eccessive.
Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e
impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita.
Appartenenza. [...] b) Avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non
essere umiliati; poter essere trattato come persona dignitosa il cui va- lore
eguaglia quello altrui. Questo implica, al livello minimo, prote- zione contro
la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza ses- suale, religione,
casta, etnia, origine nazionale. [...]» 68. Le suddette capacità appaiono
connaturate a una società aperta, presupposto e obiettivo di una tutela delle
libertà strumentale a met- tere ogni individuo nella condizione di formarsi una
concezione di ciò che è bene potendo usare la propria mente in modi protetti
dalla libertà di espressione. Emerge però anche un livello minimo di protezione
il quale sem- bra richiamare l’esigenza di un fare attivo da parte della
politica e del- l’ordinamento giuridico, fra le cui finalità viene messo in
evidenza il contrasto alla discriminazione: significa che uno Stato dovrebbe
im- pegnarsi per garantire «le basi sociali per il rispetto di sé e per non
essere umiliati; poter essere trattato come una persona dignitosa il cui valore
eguaglia quello altrui». Ritorna anche nel pensiero della Nussbaum l’esigenza
di prestare attenzione al problema del mancato riconoscimento, qui richiamato
attraverso i concetti del ‘rispetto di sé’ e dell’‘umiliazione’. In altri ter-
mini, quando si creano le condizioni perché un soggetto venga umi- liato si
potrebbero incrinare gli equilibri che costituiscono l’humus per le capacità
umane fondamentali, e potrebbe rendersi necessario un intervento dello Stato
per cercare di ripristinarle; libertà non può si- gnificare umiliazione
dell’altro. Per quanto ispirato alla massima apertura liberale, anche il
di- 68 NUSSBAUM, Diventare persone, cit., p. 96. 164 Tra sentimenti
ed eguale rispetto scorso di Martha Nussbaum pone il problema di eventuali
limiti e suggerisce un approfondimento del concetto di ‘umiliazione’. 4.2.
Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit Un tentativo di
elaborare una nozione politicamente spendibile – non soggettivistica o
emotivistica – dei concetti di ‘rispetto di sé’ 69 e ‘umiliazione’ si deve ad
Avishai Margalit e alla sua teorizzazione sulla ‘società decente’, da
intendersi come ‘società che non umilia’ 70. La nozione di umiliazione proposta
da Margalit è, per stessa ammis- sione dell’Autore, di tipo normativo e non
psicologico: «[u]miliazione è ogni comportamento o condizione che costituisce
una valida ragione perché una persona consideri offeso il proprio rispetto di
sé» 71. È di particolare importanza, ai fini della presente indagine, la di-
stinzione fra insulto e umiliazione: pur essendo situati lungo un con- tinuum,
rappresentano forme di offesa qualitativamente differenti, la prima delle quali
si rivolge all’onore sociale, mentre la seconda lede il rispetto di sé inteso
come percezione del valore intrinseco della per- sona 72. L’insulto è
contraddistinto da contenuti che possono essere in un certo senso
razionalizzati dal destinatario (ad esempio anche in relazione alla verità o
falsità degli asserti), l’umiliazione è più gravo- sa: riprendendo la
distinzione di Bernard Williams fra emozioni ‘bianche’ e ‘rosse’ 73, Margalit
ritiene che l’umiliazione sia associabile a un’emozione bianca, la quale
comporta che il soggetto umiliato si 69 Sul concetto di ‘rispetto di sé’, con
un’impostazione differente, si veda anche BAGNOLI, L’autorità della morale,
cit., pp. 25 ss., 143 ss.; DWORKIN, Giustizia per i ricci, tr. it., Milano,
2013, pp. 293 ss. 70 MARGALIT, La società decente, tr. it., Milano, 1998,
passim. 71 MARGALIT, La società decente, cit., p. 57: «[q]uesto è un
significato normativo piuttosto che psicologico dell’umiliazione. Il
significato normativo non comporta per sé che la persona che abbia una buona
ragione per sentirsi umiliata, di fatto si senta tale. D’altra parte, il
significato psicologico dell’umiliazione non compor- ta che la persona che si
sente umiliata abbia una buona motivazione per questo sentimento. La
sottolineatura è sui motivi per provare umiliazione come risultato di un
comportamento altrui». Nel panorama italiano, cfr. l’ampia analisi critica di
TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 74 ss. 72 MARGALIT, La
società decente, cit., p. 152. 73 WILLIAMS, Vergogna e necessità, tr. it.,
Bologna, 2007; un’emozione rossa è un’emozione in cui ci si vede attraverso gli
occhi dell’altro, e perciò si arrossisce. Con un’emozione bianca una persona si
vede attraverso l’‘occhio interno’ della propria coscienza, che può farla
impallidire. Fisionomia dell’offesa 165 guardi col proprio occhio
interno ma applicando al contempo il pun- to di vista del soggetto umiliante, e
dunque senza riuscire ad assume- re una distanza critica dall’addebito, poiché
l’umiliazione attecchisce in contesti di squilibrio fra umiliatore e vittima, e
assume l’effetto di una ‘minaccia esistenziale’ 74. L’umiliazione è più che un
semplice insulto: «rifiutare un essere umano umiliandolo significa rifiutare il
modo in cui egli esprime se stesso come umano»75, radicalizzando l’addebito su
modi di essere costitutivi dell’individuo e negando l’umanità dell’altro a
causa di un’ap- partenenza significativa 76 che concorre a definirne
l’identità. Risulta perciò fondamentale distinguere quando un’espressione abbia
il significato di forte critica e quando invece sottenda un’umi- liante
esclusione e, di fatto, una discriminazione. 5. Ai confini fra critica e
discriminazione Dal punto di vista concettuale la differenza fra critica e
discrimi- nazione ricalca le due varianti del rispetto: rispetto-stima come at-
teggiamento le cui oscillazioni in positivo o in negativo possono dar luogo a
forme di critica legittima; rispetto-riconoscimento come va- lore che può
essere negato attraverso manifestazioni espressive volte a umiliare e a
marginalizzare. Si aggiunge in questo modo un ulteriore, importante, tassello
al- l’itinerario concettuale che ha preso le mosse dall’esigenza di distin-
guere offese ai meri sentimenti da condotte, e in particolare, da for- me di
espressione, che, non limitandosi a offendere l’emotività sog- gettiva, si
facciano veicolo di umiliazione e di negazione dell’eguale libertà e dignità
delle persone. 74 MARGALIT, La società decente, cit., p. 154. 75 MARGALIT, La
società decente, cit., p. 171. 76 MARGALIT, La società decente, cit., pp. 165
ss. Secondo l’Autore, ciò che rende più pregnante l’umiliazione è la
connessione con il concetto di ‘gruppo inclusivo’: si intende con tale
definizione «un gruppo [che] ha un comune carattere e una comune cultura, che
include molti importanti e vari aspetti della vita [nel quale] le persone che
crescono nel gruppo ne acquisiscono la cultura, e possiedono le sue particolari
caratteristiche». Un tratto particolarmente significativo riguarda il fatto che
l’appartenenza al gruppo è in parte materia di mutuo riconoscimento, nel senso
che l’inclusione nel gruppo non è determinata da una scelta personale: «esse
appartengono [al gruppo] a causa di quello che sono». 166 Tra
sentimenti ed eguale rispetto È però assai problematico trovare le rispondenze
di tali distinzioni all’atto pratico: «non è così netta, nella percezione viva,
la differenza fra l’offesa alla stima e l’offesa al riconoscimento come
semplice per- sona, perché le persone si identificano non solo con la propria
umani- tà, ma soprattutto con le loro qualità, le loro storie individuali» 77.
Sia la critica sia la discriminazione possono definirsi come forme di
espressione ‘irrispettose’, e il sottile confine che le separa a livello fe-
nomenico espone al rischio, nella prospettiva giuridica, di continue
oscillazioni tra vuoti di tutela ed eccessi di intervento. Come osserva Michael
Rosen, «[è] evidente che il diritto a comportarsi in maniera irrispettosa debba
essere maneggiato con cura. Probabilmente vi sono dei limiti a ciò che dovrebbe
essere permesso [...] ma dovremmo rifiu- tare l’idea che il linguaggio volto a
irritare o insultare violi automati- camente l’essenza intrinseca di ciò che ha
valore nelle persone con la conseguenza di “deprivarle della loro dignità di
esseri umani”» 78. All’inizio del capitolo abbiamo riportato alcuni episodi
tratti dalle cronache per identificare il tipo di conflitti in cui appare a
nostro av- viso più evidente il coinvolgimento di sensibilità soggettive,
esclu- dendo da tale apparato esemplificativo il tema del discorso d’odio (c.d.
hate speech) e della propaganda razzista. Ora, alla luce dell’esi- genza di distinguere
fra critica ed esclusione/discriminazione, il ri- chiamo al discorso d’odio
diviene di importanza centrale poiché è proprio l’elaborazione teorica in
materia di hate speech 79 a fornire in- teressanti spunti in tal senso. 77
MORDACCI, Rispetto, cit., p. 29. 78 In questi termini Michael Rosen rimarca
l’esigenza di procedere con cautela nelle restrizioni a forme di espressione:
ROSEN, Dignità, cit., pp. 76 s. 79 Il tema dello hate speech è indagato in modo
particolarmente approfondito nel panorama anglo-americano, nel quale
l’orientamento maggioritario è di con- trasto alle limitazioni alla libertà di
espressione. In questo senso vi sono forti dif- ferenze rispetto al panorama
europeo, le cui ragioni affondano nella storia geopo- litica dei due continenti.
Quali esempi di contrarietà ai cosiddetti ‘hate speech bans’, pur con diversità
di accenti, v. HEINZE, Hate Speech and Democratic Citizen- ship, Oxford, 2016,
in particolare pp. 207 ss.; cfr. DWORKIN, Foreword, in AA.VV., ed. by
Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. V ss.; POST, Hate
Speech, in AA.VV., ed by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit.,
pp. 132 ss. Nella vasta letteratura, v., fra le opere collettanee, AA.VV., ed.
by Hare- Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit.; AA.VV., ed. by
Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech: Rethinking Regulation
and Responses, Cambridge, 2012. Per un quadro di sintesi sulle differenze
emergenti fra la giu- risprudenza statunitense ed europea v. KISKA, Hate speech:
a Comparison between the European Court of Human Rights and the United States
Supreme Court Juris- prudence, in 25 Regent University Law Review, 2012, pp.
107 ss. Fisionomia dell’offesa 167 La connessione della
problematica della tutela di sentimenti al tema della discriminazione si lega a
ragioni di maggiore selettività, mirate a differenziare offese alla
sensibilità, le quali dovrebbero con- siderarsi come ricaduta di un fisiologico
e pluralistico dissenso e co- me evento collaterale alla libertà di critica, da
manifestazioni di ne- gazione della pari dignità e dunque del
rispetto-riconoscimento. 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello
hate speech secondo Jeremy Waldron Un importante contributo viene dal giurista
Jeremy Waldron80 il quale argomenta sulla dannosità del discorso d’odio a
partire da quel- la che considera una fuorviante commistione fra hate speech e
tutela di sentimenti. Lo studioso sostiene che il disvalore dello hate speech
non vada identificato nello stato psichico negativo concretamente o potenzial-
mente indotto da manifestazioni espressive, e adotta in questo senso una
posizione di contrasto a incriminazioni fondate sulla logica dell’offense di
feinberghiana memoria; la protezione di sentimenti è un effetto solo indiretto,
così come l’induzione di stati psichici nega- tivi è un elemento collaterale
che non esaurisce il disvalore del di- scorso d’odio. L’orizzonte dello hate
speech dovrebbe coincidere con offese alla dignità del singolo in quanto
appartenente a determinati gruppi o credente in determinati ideali; le forme di
critica anche aspre e irri- verenti che non rappresentino una stigmatizzazione
dell’individuo in ragione di suoi specifici tratti, dovrebbero considerarsi al
di fuori dell’area di interventi normativi 81. 80 Waldron si caratterizza per
un approccio più disincantato nei confronti del- la libertà di espressione:
l’Autore è aperto a prospettive di regolamentazione nor- mativa del discorso
pubblico e in questo senso si distingue nel panorama statuni- tense in virtù di
una posizione minoritaria, espressa in particolare negli studi rac- colti in
WALDRON, The Harm in Hate Speech, Harvard, 2012. Per un quadro gene- rale e un
excursus storico sulla libertà di espressione negli Stati Uniti, v. KALVEN, A
Worthy Tradition: Freedom of Speech in America, New York, 1988; per una sinte-
si del dibattito su pornografia e blasfemia v. POST, Cultural Heterogeneity and
Law: Pornography, Blasphemy, and the First Amendment, in 76 California Law Re-
view, 1988, pp. 297 ss. 81 Interessanti spunti sul tema sono offerti anche da
Robert Post il quale inter- preta la distinzione tra espressioni tollerabili e
intollerabili come riflesso di di- namiche di egemonia sociale delle classi
dominanti: secondo Post il discorso 168 Tra sentimenti ed eguale
rispetto Ricondurre la questione dello hate speech a un problema di offesa a
sentimenti significherebbe sminuirne la portata 82, poiché una con- cezione
emotivistica dell’interesse protetto non dà adeguatamente conto del radicamento
del discorso d’odio e di come esso possa con- taminare l’ambiente sociale anche
al di là del turbamento emotivo indotto su singoli individui 83. Lo hate speech
non appare pertanto riducibile a un mero insulto dal forte impatto emotivo, ma
piuttosto a un discorso che può intac- care la considerazione sociale dei
destinatari dell’offesa, a detrimento di interessi come l’inclusività
(inclusiveness) e la garanzia (assurance) di non essere discriminati 84. Il
punto fondamentale, secondo Waldron, è distinguere fra espres- sioni che
suscitano emozioni e dunque ‘offendono’ in un senso affine all’offense
principle, ed espressioni che ‘aggrediscono’ la dignità del d’odio è ritenuto
illegittimo poiché esorbita da standard che rinviano a norme so- ciali dettate
dai gruppi dominanti: quando il diritto impone una determinata di- stinzione,
come quella che richiede di non accomunare espressioni di fisiologico
disaccordo a manifestazioni d’odio, sta in definitiva imponendo egemonicamente
standard sociali di decorosità nei rapporti intersoggettivi: «This suggests
that whenever law chooses to enforce cultural norms, as for example by
enforcing norms that distinguish hate speech from normal disagreement, law
hegemonical- ly imposes a particular vision of these norms. Hate speech regulation
imagines itself as simply enforcing the given and natural norms of a decent
society, á la Devlin; but from a sociological or anthropological point of view
we know that law is always actually enforcing the mores of the dominant group
that controls the content of law», v. POST, Hate Speech, cit., p. 130. Sembra
fondarsi invece sulla ‘non astinenza epistemica’ che accompagna i divieti in
materia di hate speech, e che sarebbe dunque incompatibile con una dimensione
democratica del discorso pubblico, la critica di fondo di HEINZE, Hate Speech,
cit., pp. 111 ss., 209. Nella letteratura italiana, con diversità di accenti,
sul problema della (tendenzialmente impossibile) ‘astinenza epistemica’ del
legislatore in materia di regolamentazione del discorso pubblico VISCONTI C.,
Aspetti penalistici, cit., pp. 247 s.; TESAURO, Ri- flessioni in tema di
dignità umana, cit., pp. 128 ss. 82 La differenza risiede nella distinzione
«between undermining a person’s dignity and causing offense to the same
individual [...] to protect people from of- fense or from being offended is to
protect them from a certain sort of effect on their feelings. And that is
different from protecting their dignity and the assur- ance of their decent
treatment in society», WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 105, 107. 83
WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 116; per un approfondimento critico
sul rischio di interpretazioni soggettivistiche, e un riorientamento della
categoria degli hate crimes in una prospettiva incentrata su dissenso politico
e rispetto per le differenze v. PERRY, A Crime by Any Other Name: The Semantics
of Hate, in 4 Journal of Hate Studies, 2005, pp. 123 ss. 84 WALDRON, The
Harm in Hate speech, cit., pp. 4 ss. Fisionomia dell’offesa 169 soggetto
(«offending people and assaulting their dignity»)85, intesa come «basic social
standing, the basis of their recognition as social equals and as bearers of
human rights and constitutional entitle- ments» 86. Il turbamento che un
soggetto possa eventualmente avvertire, e dunque le emozioni negative che
plausibilmente si accompagnano alle parole87, non sono del tutto irrilevanti (e
testimoniano come l’offesa coinvolga qualcosa di importante per la persona), ma
enfatiz- zarne il rilievo significherebbe, secondo Waldron, esporsi alla
critica che lo hate speech tuteli meri sentimenti. L’offesa emotiva rappresen-
ta una proiezione soggettiva, ‘metonimica’ nel senso che descrive solo una
parte della dimensione del danno 88. Perché un’espressione di negazione del
riconoscimento dovrebbe essere ritenuta più grave di una critica irridente che
offende il sentire soggettivo? Fra le ragioni addotte a sostegno della diversa
gravità di tali forme di offesa, anche Waldron richiama l’insondabilità delle
emozioni soggettive e la mutevolezza delle soglie di suscettibilità individuale
89, 85 «[...] the basic distinction between an attack on the body of beliefs
and an attack on the basic social standing and reputation of a group of people
is clear. In every aspect of democratic society, we distinguish between the
respect accorded to a citizen and the disagreement we might have concerning his
or her social and political convictions [...] Defaming the group that comprises
all Christians, as op- posed to defaming Christians as members of that group,
means defaming the creeds, Christ, and the saints», v. WALDRON, The Harm in
Hate speech, cit., p. 120. 86 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 59. 87
Assumiamo come presupposto che le parole possano ferire, quantomeno in- ducendo
emozioni negative; il fatto che tali conseguenze possano non essere con-
siderate rilevanti in quanto non integrino la dimensione normativa del danno, è
un problema successivo, ma che non dovrebbe portare a disconoscere una di-
mensione di lesività a livello naturalistico. Sul punto risulta interessante la
posi- zione di Schauer, il quale sostiene che definire aprioristicamente come
‘minore’ il danno provocato da parole, solo perché ‘non fisico’ o meno
visibile, sia altamente opinabile. Riconoscere che un danno, inteso come sofferenza
fisica, possa crearsi, non significa automaticamente inferirne la rilevanza sul
piano giuridico in termi- ni di compressioni di libertà: «If there is a free
speech principle, then a conse- quence will be that a range of distresses and
negative outcomes produced by the relevant category of speech act will be
considered not to have caused harms in the legally redressable sense, but that
is very different from saying pretheoretically that it is a characteristic of
the acts that they are as category less harmful», v. SCHAUER, The Phenomenology
of Speech and Harm, in 103 Ethics, 1993, p. 652. 88 WALDRON, The Harm in Hate
Speech, cit., p. 112. 89 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 113.
170 Tra sentimenti ed eguale rispetto ma non appaiono queste le ragioni
decisive. L’offesa discriminatoria fa leva sulla diversità per comunicare
esclusione da ogni prospettiva di dialogo: in questo senso realizza
un’interazione con lo status socia- le e relazionale delle persone attraverso
la negazione del patto etico su cui si fonda la convivenza, ossia la pari
dignità dell’altro 90. L’intru- sione nella sfera di libertà altrui si realizza
attraverso una potenziale compromissione delle trame sociali e relazionali, e
più in generale dell’ambiente sociale in cui dispiegano la propria esistenza
gli indivi- dui destinatari di determinate espressioni 91. Un’ulteriore
importante precisazione avanzata da Jeremy Waldron concerne la distinzione a
livello concettuale tra offese alla reputazio- ne del gruppo ed espressioni
discriminatorie che si riflettono sul sin- golo individuo in quanto
appartenente al gruppo. Troppo spesso, os- serva Waldron, la c.d. ‘diffamazione
di gruppo’ (defamation group 92) 90 Si è osservato che l’incriminazione di tale
tipologia di espressioni potrebbe essere l’unica eccezione al principio secondo
cui in uno Stato liberale non si do- vrebbero incriminare concezioni di valore
e modi di pensare: «[d]iversamente ac- cade, eccezionalmente, soltanto quando
certi comportamenti manifestano e/o realizzano modi di pensare, convinzioni e
concezioni di valore con i quali viene propagandato e/o trasformato un certo
stile di vita che esclude in modo combat- tivo altre concezioni del bene,
oppure addirittura nega a certi gruppi all’interno della società lo stato di
membri aventi gli stessi diritti», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come
strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere as-
siologico?, cit., p. 147. Cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 101
ss., il quale individua la c.d. ‘riproduzione della disuguaglianza di status’
come uno dei possi- bili danni realizzabili dalle parole. 91 D’obbligo il
richiamo alla cosiddetta ‘Critical Race Theory’ quale esempio di teoria che ha
esposto con dovizia argomentativa, per quanto non immune da obie- zioni, le
ricadute dannose del discorso denigratorio basandosi sulle espressioni a sfondo
razziale: in estrema sintesi si sostiene che la diffusione dell’odio, e in
parti- colare l’odio razzista, produrrebbe a livello individuale fenomeni di
ansia, disagio psichico e perdita di autostima tali da poter influire sulla
vita relazionale degli indi- vidui, mentre a livello sociale porterebbe alla
formazione di un clima culturale di ostilità fino a poter generare anche il
c.d. ‘Silencing Effect’, ossia l’effetto silenziatore consistente nello
screditare socialmente le minoranze offese fino a minare il loro status di
partner a livello comunicativo in ambito sociale. Per un’ampia e dettagliata
sintesi v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 67 ss.;
cfr. PINO, Di- scorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in
Politica del diritto, 2/2008, pp. 287 ss.; si veda anche AA.VV., a cura di
Thomas-Zanetti, Legge razza diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti,
Reggio Emilia, 2005. 92 Il lessico angloamericano distingue fra individual
defamation e group defa- mation intendendo con il secondo termine l’area di
problemi che viene comune- mente identificata come ‘hate speech’: «In many
countries, a different term or set of terms is used by jurist: instead of “hate
speech”, they talk about “group libel” or “group defamation”», v. WALDRON, The
Harm in Hate Speech, cit., p. 39. Mal- Fisionomia dell’offesa 171
viene intesa come offesa che, indirizzandosi ai valori che fondano l’identità
del gruppo, coinvolgono il singolo solo in termini di disagio emotivo: non è
questa la prospettiva con cui identificare lo hate speech. L’offesa che
dovrebbe rilevare come discorso discriminatorio è quella che strumentalizza
l’appartenenza al gruppo come fattore di degradazione e di inferiorità della
persona 93. In altri termini, una prospettiva di intervento normativo non do-
vrebbe avere ad oggetto principi o concezioni valoriali in sé, neppure nella
forma mediata di carattere identificativo di un gruppo, e dunque nella loro
dimensione sovraindividuale e impersonale. I cosiddetti ‘va- lori’, intesi come
principi su cui un soggetto impronta la propria vita specie con riferimento
alla sfera morale, possono assumere rilevanza in quanto elementi costitutivi del
modo d’essere degli individui 94. Al termine di tale complessa disamina, un
dato di fondo sembra difficilmente contestabile: distinguere fra espressioni di
odio e di cri- tica, tra offese alla dignità del singolo in quanto aderente a
un grup- po e offese alla reputazione del gruppo stesso, e più in generale
stabi- lire la portata offensiva di un’espressione verbale o simbolica, è
un’operazione ermeneutica che necessita di un’attenta lettura di con- testi e
situazioni, e che non può essere imbrigliata in categorizzazioni di carattere
‘assoluto’. 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma Prima di
verificare la rispondenza di tali distinzioni nelle eventua- li prassi
applicative, si pone l’esigenza di una riflessione sul piano dei presupposti
del ragionamento. L’individuazione di un confine fra critica e discriminazione
si ri- grado la sostanziale identità sul piano lessicale, la defamation group
non appare perfettamente sovrapponibile a ciò che nel contesto italiano viene
definito ‘diffa- mazione di gruppo’ come variante plurisoggettiva del reato di
diffamazione sem- plice, la quale è volta, quantomeno in via teorica, a
reprimere le medesime offese che rileverebbero ex art. 595 c.p., ossia un
novero più ampio rispetto a ciò che si potrebbe definire ‘discorso d’odio’ (v.
infra, nota 120). 93 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 122. 94 Sul
tema, v. DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 140.; cfr. RAZ, I va-
lori fra attaccamento e rispetto, tr. it., a cura di Belvisi, Reggio Emilia,
2003, pp. 13 ss. Osserva GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 137 che
«culture e tradizioni possono avere un valore estetico, storico e archeologico,
ma non intrinsecamente morale. Il loro valore morale deriva dal fatto che sono
importanti e fonti d’ispi- razione per i loro membri e non in sé».
172 Tra sentimenti ed eguale rispetto flette sul raggio applicativo di
norme giuridiche, sia vigenti sia in prospettiva de iure condendo, e dipende in
primo luogo dall’interpre- tazione di dinamiche intersoggettive e di aspetti
fattuali: non sempli- cemente conoscenza di fatti, bensì attribuzione di
significato ad azioni ed espressioni. La distinzione fra questi profili non
sembra adeguatamente ap- profondita in sede teorica95, ed è del tutto
trascurata nel contesto giurisprudenziale, ove l’interpretazione del fatto
finisce per essere as- sorbita, e data per scontata, rispetto alla sussunzione
normativa, sen- za riconoscere che le peculiarità del fatto possono dar luogo a
pro- blemi logicamente autonomi e complementari all’ermeneutica della norma
giuridica: problemi «di interpretazione del fatto, e che si riflet- tono sulla
applicazione del diritto» 96. In questa sede ci limitiamo a evidenziare come la
distinzione fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma si ponga a
livello concettuale quale richiamo, a nostro avviso necessario, per eviden-
ziare fasi differenti nella gestione epistemica del ragionamento giu- diziale
97. La soglia di rilevanza penale di manifestazioni espressive costitui- sce un
tema in relazione al quale i rapporti fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica
della norma appaiono fortemente compenetrati; co- me osservato da Richard Abel:
«gli sforzi giuridici per regolare l’espressione sprofondano nell’inelimi-
nabile ambiguità dei significati. Il senso e la valenza morale dei sim- 95
Un’opera dedicata ex professo al rapporto fra giudicante e interpretazione di
elementi extragiuridici, e più in generale, al tema del ruolo dei valori
culturali quale fattore di influenza nelle decisioni giudiziali, è lo studio di
BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori
socio-culturali della giuri- sprudenza, cit. 96 PULITANÒ, Nella fabbrica delle
interpretazioni penalistiche, in AA.VV., a cura di
Biscotti-Borsellino-Pocar-Pulitanò, La fabbrica delle interpretazioni, Milano,
2012, p. 203. 97 Problema differente è se la distinzione fra ermeneutica del
fatto ed erme- neutica della norma sia meramente concettualistica, finendo per
restare assorbita nella spirale ermeneutica e nell’intreccio tra fatto e
diritto; sul tema, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Ermeneutica e
applicazione giudiziale del diritto penale, in ID., Il diritto penale tra legge
e giudice, Padova, 2002, pp. 37 ss.; DI GIOVINE O., L’in- terpretazione nel
diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano, 2006, pp. 231 ss.;
DONINI, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, in AA.VV., La fab- brica
delle interpretazioni, cit., pp. 96 ss.; PULITANÒ, Nella fabbrica delle
interpreta- zioni penalistiche, cit., pp. 201 ss.; PALAZZO, Testo e contesto,
cit., pp. 525 ss. Fisionomia dell’offesa 173 boli variano
radicalmente a seconda di chi parla e di chi ascolta e pos- sono capovolgersi
rapidamente, perfino istantaneamente» 98. Quando si ha a che fare con forme di
espressione non si pone tan- to un problema di conoscenza di fatti, quanto di
selezione e valuta- zione di elementi di contesto chiamati a definirne la
dimensione di significato: l’interpretazione di una manifestazione espressiva
non si riduce a un esame della lessicalità o a un riscontro oggettivo di gesti
simbolici senza tenere in considerazione la relazione intersoggettiva di base e
il contesto di sfondo. Lo studioso, ed eventualmente il giudice, si trovano
alle prese con una complessa ermeneutica finalizzata a «concretizzare il volto
del fat- to punibile» 99, complementare rispetto all’ermeneutica della norma.
Problemi simili sono emersi con riferimento anche ad altri ambiti, ad esempio
nell’interpretazione del concetto di osceno in rapporto alla libertà di
creazione artistica 100, in relazione all’accertamento del- l’appartenenza
culturale di un soggetto quale eventuale causa di atte- nuazione della
responsabilità101, e anche in relazione all’interpreta- zione del gesto del
bacio come condotta sessualmente pregnante piuttosto che come approccio
confidenziale e ‘innocente’ 102. Come è stato osservato in dottrina, la
ricostruzione del fatto è probabilmente il momento più delicato del
procedimento interpreta- tivo, avvinto in un intreccio col diritto che è stato
definito ‘diaboli- co’ 103: l’interprete non è un semplice spettatore che
importa passiva- 98 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 99 FIANDACA,
Problematica dell’osceno, cit., p. 34. 100 FIANDACA, Problematica dell’osceno,
cit., p. 153. Una caso emblematico è la vicenda giudiziaria relativa al film
‘Ultimo tango a Parigi’ del regista Bernardo Bertolucci, oggi riassunta nel
volume di AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo.
Osceno e comune sentimento del pudore tra arte cine- matografica, diritto e
processo penale, Roma, 2013; v. in particolare il saggio di MASSARO, Lo
spettacolo cinematografico osceno tra elementi elastici e difetto di de-
terminatezza, ivi, pp. 33 ss. 101 DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati,
cit., pp. 137 ss. 102 In relazione a tale ultima questione si è osservato come
l’interpretazione del gesto non possa limitarsi a una statica rispondenza con
pattern comportamentali, ma richieda piuttosto una prospettiva ermeneutica
«incline a prendere in consi- derazione anche il “contesto” in cui il contatto
fisico si realizza e dunque la com- plessa dinamica intersoggettiva che si
sviluppa nell’ambito della situazioni coar- tanti», v. FIANDACA, Ermeneutica e
applicazione giudiziale, cit., p. 56. 103 DI GIOVINE O., Considerazioni su
interpretazione, retorica e deontologia in di- ritto penale, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1/2009, p. 124. 174 Tra sentimenti ed eguale rispetto
mente e acriticamente elementi della realtà all’interno del proprio procedimento
cognitivo, ma opera una selezione determinata dalle peculiari modalità di
apprendimento che caratterizzano in modo dif- ferente ogni singolo individuo,
sulla base di fattori che comprendono il corredo neurobiologico, la dimensione
delle esperienze personali, la matrice culturale 104 e, piaccia o non piaccia,
l’ideologia 105. In altri termini, il giudicante non si limita a prendere atto
di ele- menti di fatto, ma interpreta i significati del fatto selezionando gli
aspetti rilevanti per la decisione 106. In fase applicativa tali questioni
finiscono per restare assorbite, e non sufficientemente distinte, dal piano
strettamente giuridico, e si espongono in questo senso a una gestione
epistemica sulla quale in- combe il rischio di un uso non adeguatamente
sorvegliato di nozioni e di concetti che attengono al piano socio-psicologico
107. In altri termini, sarebbe opportuno far sì che determinate interpre-
tazioni dei significati del fatto divenissero oggetto di analisi ed even-
tualmente di confutazione, «piuttosto che essere semplicemente fatte passare
per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono esse- re, non sempre
correttamente, e non sempre indipendentemente dal 104 Per tutti, DI GIOVINE O.,
L’interpretazione nel diritto penale, cit., pp. 192 ss., 205 ss., 211 s. 105
Per un’approfondita riflessione, ancora attuale, sull’ideologia del giudice v.
GRECO, Premessa, cit., pp. 36 ss. 106 Cfr. DE MAGLIE, I reati culturalmente
motivati, cit., p. 142. 107 Nel panorama italiano il problema di una perizia
relativa ai profili socio- culturali del fatto si è posto, soprattutto in
passato, con riferimento ai rapporti fra valore artistico e oscenità, e ad oggi
è discusso prevalentemente in relazione ai c.d. reati ‘culturalmente motivati’;
in riferimento al tema della perizia artistica v. LUCIANI, La nozione
penalistica di “opera d’arte” di cui all’art. 529 c.p. Considera- zioni di
diritto sostanziale e processuale, in AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tan- go
a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 51 ss. In relazione alla perizia
culturale, oltre al citato studio di Cristina de Maglie, va menzionato un
ulteriore importante contributo proveniente dall’ambito costituzionalistico nel
quale viene tematizzata la necessità di un avvaloramento epistemico del
ragionamento giudiziale attra- verso l’elaborazione un percorso volto a rendere
tendenzialmente più oggettivo l’accertamento di un conflitto culturale: v.
RUGGIU, Il giudice antropologo. Costitu- zione e tecniche di composizione dei
conflitti multiculturali, Milano, 2012. Sempre in tema di reati culturalmente
motivati, con riferimento alla valutazione della motivazione culturale, è
frequente riscontrare nella giurisprudenza di legittimità argomentazioni
carenti e approssimative, sovente esito di posizioni ideologiche pur benintenzionate
ma nondimeno fortemente discutibili: per un esempio v. Cass. pen., sez. I,
15/05/2017, n. 24084, con nota di FERLA, Il pugnale dei Sikh tra esigenze di
sicurezza e divieti normativo-culturali, in Giur. it., 10/2017, pp. 2208
ss. Fisionomia dell’offesa 175 loro retroterra culturale, la
saggezza comune dell’umanità» 108. Per tali ragioni ben si comprende che la
valutazione del margine di confine fra espressioni tollerabili ed espressioni
non consentite, anche ove sia tenuta a distanza dalla sensibilità della
vittima, finisca poi per essere esposta, e dipendere in larga misura, anche
dalla sen- sibilità dell’interprete, sia esso studioso teorico o applicatore di
even- tuali norme 109. Si tratta di un fattore problematico del quale va tenu-
to conto sia come chiave di lettura delle oscillazioni riscontrabili nel- la
casistica giurisprudenziale, sia quale elemento di riflessione in rapporto al
ruolo che i giudici assumono, o potrebbero assumere, nel farsi arbitri della
soglia di intervento penale 110. In relazione a un ulteriore profilo, sempre
legato alla ricerca di 108 SCHAUER, Il ragionamento giuridico, tr. it., Bari,
2017, p. 278. Sottolinea con chiarezza TARUFFO, Senso comune, esperienza e
scienza nel ragionamento del giudi- ce, in ID., Sui confini. Scritti sulla
giustizia civile, Bologna, 2002, pp. 121 ss., che il ragionamento del giudice
non è determinato da criteri o norme di carattere giuri- dico, bensì, quando
supera i confini di ciò che convenzionalmente si intende per ‘diritto’, risulta
impregnato anche del cosiddetto ‘senso comune’. Da ciò la neces- sità che il
giudice sia «consapevole della frammentazione e della variabilità delle
coordinate conoscitive e valutative che ormai sono i tratti dominanti della
società attuale» (p. 154). In ambito penalistico, HASSEMER, Perché punire è
necessario, cit., pp. 68 ss., osserva, con realismo, che il giudice fa ricorso
a teorie del senso comu- ne sia per questioni inerenti al contenimento dei
tempi del giudizio, ma anche perché il suo ruolo deve restare comunque centrale
rispetto ai pareri della scien- za; nondimeno egli deve assumersi tale
responsabilità epistemica: «[i]l giudice penale ha il diritto e il dovere di
apportare il suo “sapere fattuale” e di assumer- sene la responsabilità [...].
Da questa responsabilità non può liberarlo alcun pare- re». Sul cosiddetto
‘senso comune’ v. supra, cap. I, nota 72. 109 Esempio emblematico di
ermeneutica del fatto impregnata di discutibili principi di psicologia del
senso comune, per lo più riflesso di precomprensioni del giudicante, sono le
sentenze relative alla vicenda del film ‘Ultimo tango a Pa- rigi, v. AA.VV.,
Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 114 ss. Un’altra pronuncia,
più recente, in cui risulta altamente opinabile l’ermeneutica del fatto è Trib.
Latina, 24/10/2006, n. 1725, riportata in SIRACUSANO, Vilipendio religioso e
satira: “nuove” incriminazioni e “nuove” soluzioni giurisprudenziali, in Stato,
Chie- se e pluralismo confessionale, 7/2007, pp. 14 ss.; per una critica v.
VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 186 ss. 110 «Il fenomeno è evidente
soprattutto in quelle disposizioni che hanno un’importanza politica, che
regolano cioè, in senso lato i rapporti fra lo Stato e i cittadini, e che –
naturalmente – consentano più di un’interpretazione. [...] E, nel- la
possibilità di una duplice interpretazione, l’una e l’altra certamente, per
così dire, politica, può stabilirsi, attraverso l’esame di una decisione,
l’indirizzo ideo- logico del giudice», v. BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione, in
BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori
socio-culturali della giurispru- denza, cit., p. 4. 176 Tra
sentimenti ed eguale rispetto una soglia oggettiva di tollerabilità delle forme
di espressione e, più in generale riferibile alle norme che richiamino,
implicitamente o espressamente, fatti di sentimento, è stato condivisibilmente
osserva- to in dottrina che quando vengono in gioco interessi di tutela assimi-
labili in tutto o in parte a sentimenti la tipicità diviene prevalente- mente
valutativa, rimettendo al giudice bilanciamenti che, teorica- mente, il diritto
avrebbe dovuto cristallizzare in astratto 111. Un caso emblematico è l’onore
personale, in relazione al quale si è osservato come esso non si presti a una
predeterminazione esaustiva, ma sia in definitiva «co-determinat[o]
dall’incidenza che i diritti co- stituzionalmente rilevanti [...] esercitano
nel determinar[ne] i limiti di estensione» 112. Si è parlato di una ‘tipicità
on balance’ «nel senso che la figura criminosa in questione, lungi dall’essere
ricostruita una volta per tut- te in modo stabile e definitivo» assume una
fisionomia variabile che dipende dalle caratteristiche del caso concreto 113.
In altri termini, un intreccio simbiotico tra fatto e antigiuridicità, alla
luce del quale non è appropriato parlare di un giudizio di tipicità del tutto
indipendente dalla eventuale sussistenza di cause di giustificazione, con la
conse- guenza che le operazioni di bilanciamento sottese al momento giusti-
ficativo finiscono per avere una funzione indispensabile al fine di in- tegrare
la tipicità stessa 114. Fattispecie così strutturate, prive cioè di una
dimensione lesiva compiutamente apprezzabile in sede di tipicità, scaricano sul
momen- to applicativo la definizione di requisiti strutturali, imponendo «in
via surrogatoria al giudice di tracciare autonomamente i confini dell’illi-
ceità attraverso tecniche di bilanciamento a vocazione “tipologica”» 115. 111
GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., pp. 1559 s. 112 TESAURO,
La diffamazione, cit., p. 24. 113 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 33 ss.,
56 ss., 96 ss. 114 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 58 s. 115 TESAURO, La
diffamazione, cit., p. 58. Oltre a tale profilo, e alle connesse implicazioni
di teoria del reato, un simile intreccio fra tipicità e giustificazione
rappresenta a nostro avviso la conferma che l’interpretazione dei conflitti in
tema di libertà di espressione si sottrae a una logica binaria, tale per cui o
vi è offesa o vi è esercizio di libertà; si tratta di un ambito dominato da
situazioni in cui il con- fine tra lecito e lecito non solo non appare
predeterminabile in chiave di tipicità astratta, ma è poroso, labile. Si è
osservato che uno dei limiti della giurispruden- za italiana sul vilipendio
alla religione è quello di adottare, con discutibili percor- si argomentativi,
un’impostazione secondo la quale l’operatività della scriminante dell’esercizio
di un diritto rappresenta un’alternativa che si pone in rapporti dico-
Fisionomia dell’offesa 177 L’incardinamento dei bilanciamenti sottesi
alla giustificazione fra le trame di una tipicità ‘di matrice giudiziale’, se
da un lato può ac- crescere il potenziale di discrezionalità degli applicatori,
dall’altra parte produce l’effetto di concepire il fatto tipico come struttura
in fieri, aperta alla presa in carico di problemi e di istanze sociali che
trovano voce attraverso le cause di giustificazione 116, ricollocandone il
raggio d’azione non semplicemente come elementi tali da neutra- lizzare una
precedente offensività, ma come fattori che influiscono sul disvalore del fatto
in concreto. In questo senso si potrebbe ipotizzare che l’intreccio fra
tipicità e giustificazione finisca per assegnare alle scriminanti un ruolo di
‘re- spiro’ della fattispecie astratta simile a quello svolto dagli elementi
normativi di matrice culturale. Le norme limitative della libertà di
espressione appaiono in questo senso ‘a geometria variabile’117, ossia
modellate su bilanciamenti che risentono dei mutamenti dei costumi e delle
soglie di tollerabilità so- ciale, non fissabili aprioristicamente ma da
determinarsi in relazione a un quadro di contingenze storiche e culturali. A
conferma del fatto che non si possono affrontare tali questioni senza una
chiara messa a fuo- co del contesto che fa da sfondo alle espressioni, ai mondi
morali a confronto e alle contingenze storico-politiche: «[l]a apparentemente
distaccata, analisi di diritto positivo su libertà di parola e repressione
penale è [...] insidiata e talora travolta dal calore dell’urgenza della realtà
così com’è, e quindi dal confronto politico tout court» 118. tomici con
eventuali interessi concorrenti; in questo modo la ricognizione dei conflitti
finisce per adagiarsi su una logica binaria, trascurando, o negando, che ciò
che rende legittimo l’esercizio di una libertà o di una eventuale limitazione
non è la radicale inconfigurabilità di un eventuale controinteresse, ma si
tratta invece di un giudizio legato a contingenze del caso concreto e a criteri
di oppor- tunità della sanzione; v. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p.
188. 116 Come osservato da Massimo Donini, «[i]l mondo dei diritti riflesso
nelle cause di giustificazione riguarda [...] la continua evoluzione della
società civile [...] una varietà ed evoluzione che sottostà all’apparente
staticità delle incrimina- zioni e produce a volte nuove fattispecie di reato
create in via legislativa, ma è capace di bilanciare tali diritti anche dentro
e contro le vecchie incriminazioni, le quali non sanno darci un’immagine della
società se non attraverso il mondo dei diritti, che cambiano il vero contenuto
dei beni protetti dal codice penale, anche se questo può restare apparentemente
invariato per decenni», v. DONINI, Critica dell’antigiuridicità e collaudo
processuale delle categorie. I bilanciamenti d’interessi dentro e oltre la
giustificazione del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 705. 117
Traggo l’espressione da PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., p. 126, il
quale la usa per definire gli elementi normativi di valutazione
culturale. 118 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 137.
178 Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Alla prova dei fatti:
blasfemia e propaganda razzista «Non ho niente contro Dio, è il suo fan club
che mi spaventa» WOODY ALLEN SOMMARIO: 6. Illegittimità o tollerabilità delle
restrizioni penalistiche al discorso pubblico? – 7. Il dibattito sui rapporti
fra libertà di espressione e sensibilità religiosa. – 7.1. L’ambiguità
dell’art. 403 c.p. – 7.2. Le vignette di Charlie Heb- do: ‘diritto di
offendere’ o offesa tollerabile? – 8. Le norme sulla propaganda razzista in
Italia: quale spazio a sentimenti? – 8.1. Il discorso razzista fra estremismo
politico e insulto discriminatorio. – 9. Sinossi. 6. Illegittimità o tollerabilità
delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il tema della potenziale
dannosità a livello sociale di determinati contenuti espressivi chiama in causa
l’orizzonte comunicativo del di- scorso pubblico, il quale per definizione
caratterizza il livello di liber- tà e di apertura della democrazia in rapporto
al pluralismo delle idee e ai margini di tolleranza e di repressione del
dissenso 119. Si tratta dell’area in cui la legittimazione di eventuali
restrizioni normative è più problematica: offese circoscrivibili alla
dialettica fra persone fisiche possono essere ricomprese nella tutela
dell’onore in- 119 «L’oggetto della libertà di espressione è il discorso. Non
qualsiasi tipo di di- scorso, bensì il discorso pubblico. L’esercizio della
libertà di espressione ha una vocazione di pubblicità, di trascendenza nella
sfera pubblica. La libertà di espres- sione è, in questa misura, il requisito
fondamentale della comunicazione politica in democrazia», v. ROIG., Libertà di
espressione, cit., p. 36. Sull’etica del discorso pubblico come strumento volto
alla realizzazione, e non solo all’affermazione, di valori, v. VIOLA, La via
europea della ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Trujillo- Viola, Identità,
diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, 2007, pp. 420 ss.
Fisionomia dell’offesa 179 dividuale120, eventualmente come condotte
qualificate da contenuti tali da aggravare la responsabilità, situandosi in
un’area di crimina- lizzazione che, per quanto problematica 121, non è mai
stata messa se- riamente in discussione dal punto di vista della legittimità
costitu- zionale 122. Maggiori criticità si addensano su altre fattispecie tese
a incrimi- nare manifestazioni del pensiero, in primo luogo la propaganda raz-
zista di cui all’art. 3 comma 1, lett. a, della legge n. 654 del 1975 (in-
trodotto dalla c.d. ‘Legge Mancino’, cronologicamente successiva): non atti di
istigazione alla discriminazione o alla violenza 123, ma pa- 120 L’ambito
applicativo della fattispecie di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione semplice)
non si estende, secondo giurisprudenza costante, a offese rivolte a col-
lettività, anche se circoscritte, di persone. Per una panoramica della
giurispru- denza della Corte Edu e della giurisprudenza italiana v. CUCCIA,
Libertà di espres- sione e identità collettive, Torino, 2007, pp. 159 ss.; 198
ss. Nella giurisprudenza italiana, v. Cass. pen., sez. V, 04/04/2017, n. 16612;
cfr. Cass. pen., sez. V, 09/12/2014, n. 51096; più datata è Cass. pen., sez. I,
24/02/1964, in Giur. it., 1964, II, p. 241, con nota di LARICCIA, Sulla tutela
penale delle confessioni religiose acattoliche; in senso favorevole, v. Cass.
pen, sez. V, 16/01/1986, in Dir. inf., 1986, p. 457. Per una sintesi del
problema v. LA ROSA, Onore, sentimento religioso e libertà di ricerca
scientifica, nota a Trib. Mondovì, 22 febbraio 2007, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, 10/2007, pp. 20 ss. 121 Da ultimo, FIANDACA, Sul bene
giuridico, cit., pp. 72 ss. 122 Si veda C. cost., n. 86/1974. Cfr. ROMANO,
Legislazione penale e tutela della per- sona umana (Contributo alla revisione
del Titolo XII del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/1989, p. 61;
SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale del- l’onore, in AA.VV.,
Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 340; DONINI, Ana- tomia
dogmatica del duello. L’onore dal gentiluomo al colletto bianco, in Indice
pena- le, 2000, pp. 1080 ss.; per una sintesi, nel quadro di una posizione non
radicalmente abolizionista ma tesa a limitare l’intervento penale a offese particolarmente
gravi (attribuzione di fatti non corrispondenti a verità in contesti
comunicativi estesi a più persone), v. GULLO, Diffamazione e legittimazione
dell’intervento penale, cit., pp. 172 ss.; 202 ss. Fra i costituzionalisti v.
PUGIOTTO, Le parole sono pietre?, cit., p. 15; MANETTI, Libertà di pensiero e
tutela delle identità religiose. Introduzione ad un’analisi comparata, in Quad.
di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 46. La legittimità del- la
tutela dell’onore individuale non è messa in discussione dalla Corte Edu, la
quale si è limitata, fino ad oggi, a rilevare gli eccessi della risposta penale
dell’ordina- mento italiano, in quanto, secondo la Corte Edu, non dovrebbe
essere prevista, sal- vo casi eccezionali, la sottoposizione a pena detentiva;
v. per tutte, Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24/09/2913, Belpietro c.
Italia, ric. n. 42612/10; per una sintesi del problema e per un’analisi della
giurisprudenza italiana più recente sul tema del trattamento sanzionatorio
della diffamazione v. GULLO, Diffamazione e pena detenti- va, in
www.penalecontemporaneo.it, 3/2016, pp. 1 ss. 123 Incriminati ai sensi
dell’art. 3 della legge n. 654/1975 lett. a) – seconda parte –, e lett.
b). 180 Tra sentimenti ed eguale rispetto role e discorsi che
possono costituirne un volano. Secondariamente, vengono in gioco le residue
ipotesi di vilipendio alla religione, soprat- tutto l’art. 403 c.p., il quale
si presenta nelle fogge di un’offesa al- l’onore personale ma sembra assumere
nelle applicazioni giurispru- denziali un ruolo dai contorni più ampi. È
soprattutto con riguardo a tali tipologie di incriminazione che oggi la
dottrina penalistica fa ricorso al lessico dei sentimenti per sot- tolineare in
chiave critica un’asserita impalpabilità del substrato dell’offesa: valga, come
sintesi, il rilievo di Tesauro il quale si chiede se tramite l’incriminazione
della propaganda razzista non si finisca per tutelare «emozioni collettive (di
scandalo, imbarazzo, disgusto, inquietudine o paura), e se, dunque, non assomigli
molto da vicino alla tutela penale di un sentimento a cavallo tra solidarietà e
allarme sociale [...] Insom- ma, un impasto a metà strada fra sentimenti
individuali di umiliazio- ne pubblica, reputazione di gruppo, uguaglianza
formale senza distin- zioni di razza, ordine pubblico ideale, universalismo
morale anti-di- scriminazione» 124. È plausibile ritenere che dietro tale norma
vi siano anche, in buo- na parte, input che promanano da un disagio socialmente
diffuso di fronte al fenomeno razzista, e che dunque la norma in un certo senso
finisca per assumere anche la funzione di tutela di un ‘sentire demo- cratico’
125. Tale rilievo, per quanto difficilmente confutabile, non sembra pe- rò
sufficiente a chiudere il discorso sulla legittimazione. Al di là delle
indiscutibili criticità, è lo stesso Tesauro a riconoscere che la que- stione
non va declinata in termini meramente concettualistici ma è «irriducibilmente
etico-politica e dagli esiti altamente controvertibili [...] [e] resta aperta a
opposte soluzioni che convogliano giudizi di va- lore, preferenze culturali e
scelte di politica criminale» 126. 124 TESAURO, La propaganda razzista, cit.,
pp. 962, 964; si veda anche SPENA, Li- bertà di espressione e reati di
opinione, cit., pp. 714 ss. 125 L’analisi destrutturante di Tesauro evidenzia
inoltre come il ricorso al cor- rettivo ermeneutico del pericolo concreto non
appaia sufficiente a contenere l’am- bito di applicazione della disposizione
entro una ragionevole area di oggettività, v. TESAURO, Riflessioni in tema di
dignità umana, cit., pp. 114 ss., 122 ss. 126 TESAURO, La propaganda razzista,
cit., pp. 972. Nella dottrina statunitense si è osservato criticamente che i
discorsi a favore o contro il disvalore degli hate crimes sono affetti da un
elevato grado di concettualismo, poiché, attraverso la ricerca di un danno
‘oggettivo’ riconducibile all’odio, cercano di rendere meno
Fisionomia dell’offesa 181 È una questione politicamente e
costituzionalmente aperta, non archiviabile frettolosamente dietro
l’invocazione, pur benintenziona- ta, dell’art. 21 Cost.: sono in gioco valori
costitutivi della democrazia costituzionale, la cui protezione ha importanza
rilevante anche (non solo) da un punto di vista simbolico 127. Il problema di
un equilibrio con la libertà di espressione finisce per scaricarsi sul momento
applicativo, alla ricerca di una ragionevolezza con ‘mitezza attenuata’,
secondo una formula che è stata adoperata per indicare che il bilanciamento
costituzionale fra valori confliggenti, e l’eventuale sacrificio di uno di essi
(questo il senso della ‘non mitezza’), devono essere comunque accompagnati da
ragionevolezza 128. Previsioni incriminatrici ‘non illegittime’ come quelle che
l’ordina- mento italiano annovera nella legge Mancino necessitano di un regi-
me di ‘sorveglianza speciale’: la loro tollerabilità è legata al grado di
ragionevolezza applicativa. Un problema di qualità delle decisioni giudiziali,
i cui esiti di giustizia non possono darsi per scontati: il ri- spetto del
principio costituzionale della libertà di espressione richie- de che le
interpretazioni e le applicazioni siano fortemente selettive, calibrate su
criteri fra i quali deve a nostro avviso essere tenuta ben presente, quantomeno
a livello concettuale, la necessità di distingue- re tra espressioni che
offendono la mera sensibilità ed espressioni che veicolano contenuti di
umiliazione. Tale delega alla ‘phronresis’ giudiziale è motivata dalla
constata- zione, a nostro avviso, di una ‘non eliminabilità’ dall’ordinamento
di fattispecie pur discutibili come quelle che incriminano la propaganda
razzista: troppo forte la risonanza etica e la consustanzialità dei beni in
gioco in rapporto ai valori che la democrazia riconosce come pro- prio
fondamento. evidente il portato assiologico della scelta di politica del
diritto al fine di restare coerenti con un liberalismo asseritamente neutrale:
v. KAHAN, Two Liberal Falla- cies in the Hate Crimes Debate, in 20 Law and
Philosophy, 2001, pp. 189 ss. 127 Si veda anche WOHLERS, Le fattispecie penali
come strumento per il mante- nimento di orientamenti sociali di carattere
assiologico?, cit., p. 151, secondo il quale rappresentazioni di valore e
convinzioni possono essere considerati come legittimi beni da proteggere nel
caso in cui la loro lesione metta in discussione l’«intesa sociale-normativa
dominante». 128 Traggo l’espressione da SALAZAR, I «destini incrociati» della
libertà di espres- sione e della libertà di religione: conflitti e sinergie
attraverso il prisma del principio di laicità, in Quad. di diritto e politica
ecclesiastica, 1/2008, p. 79, la quale sottoli- nea che il bilanciamento fra
valori costituzionali potrebbe portare al sacrificio di uno di essi, non ‘mite’
dunque, ma pur sempre (necessariamente) ragionevole; vi può essere ragionevolezza
senza mitezza, ma non mitezza senza ragionevolezza. 182 Tra
sentimenti ed eguale rispetto Non si tratta però di un assunto risolutivo,
bensì di un fattore che rende ancora più complesso il gioco di equilibri e che,
soprattutto, responsabilizza la figura del giudicante quale anello ultimo e
decisivo di una ‘catena della ragionevolezza’129 necessaria per affrontare il
problema di limiti alla libertà di espressione. A risultare determinanti
saranno doti di sensibilità culturale e ca- pacità interpretativa dei fenomeni
da parte del giudice, nel quadro di una sapienza non ‘algoritmica’ 130 bensì
auspicabilmente vicina a una ‘saggezza pratica’. È tutt’altro che scontato, e
sarebbe ingenuo pensare, che tali doti risiedano in misura sufficiente nella totalità
dei giudici, ma sarebbe forse altrettanto frettoloso dare per scontato che non
vi siano margini per una intelligente e ‘non intollerabile’ gestione
dell’arsenale penali- stico in materia di libertà di espressione. Il problema è
aperto, e sol- lecita l’intero mondo della cultura giuridica a meditare su
percorsi di studio e di formazione funzionali a dare ai soggetti giudicanti gli
strumenti per un’attenta lettura delle vicende e dei contesti fattuali, non
semplicemente delle norme 131. Nel prosieguo compiremo una sintetica disamina
di alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali in relazione alla tutela del
sentimento reli- gioso e alla normativa sulla discriminazione razziale. Il tema
del discorso razzista rappresenta la palestra concettuale più significativa per
verificare la tenuta della distinzione fra critica e discriminazione. 129 Sul
tema della ragionevolezza nel diritto penale v. per tutti PULITANÒ, Ra-
gionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, pp. 10 ss. 130 ZAGREBELSKY, Su tre
aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevo- lezza nella
giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, in Atti
del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 13 e 14
otto- bre 1992, Milano, 1994, pp. 179 ss. 131 Osserva FIANDACA, Il giudice tra
giustizia e democrazia nella società comples- sa, in ID., Il diritto penale tra
legge e giudice, cit., p. 31, che sarebbe necessario un affinamento culturale
nella preparazione dei magistrati, attraverso uno studio specifico delle
logiche del ragionamento giudiziale e di altri aspetti che regolano il giudizio
di fatto oltre che il giudizio di diritto. Istanze che vengono rimarcate da
VINCENTI, Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Roma,
2013, p. 19, quando descrive criticamente il giudice contemporaneo come
«funzionario o burocrate, vittorioso in un concorso a cui segue una
progressione in carriera pressoché automatica, formatosi su di una letteratura
accademica di stampo ma- nualistico, spesso obsoleta e comunque aliena dal
ricercare il perché delle regole, abituato a ragionar per massime, naturalmente
assai poco curioso di andare oltre le rappresentazioni istituzionali e poco
propenso ad assumere il dubbio metodico quale cifra del proprio agire». Vedi anche
la bibliografia citata supra, nota 107. Fisionomia dell’offesa 183
Quanto alla residua fattispecie di vilipendio di cui all’art. 403 c.p., non si
richiede che le espressioni siano discriminatorie; lo schema tipico rimane
quello della condotta di insulto, del ‘tenere a vile’132. Nondimeno, si pone
l’esigenza di distinguere tra offese al patrimonio ideale delle confessioni,
plausibilmente foriere di affronti alla sensibi- lità dei credenti ma che oggi
dovrebbero considerarsi penalmente ir- rilevanti, da offese all’onore della
persona. Iniziamo dai rapporti fra religione e libertà di espressione con
particolare riferimento alla satira133, per sondare alcuni recenti ap- prodi
giurisprudenziali nel contesto italiano e per dedicare una ri- flessione al caso
delle pubblicazioni del settimanale francese Charlie Hebdo, al centro
dell’attenzione dopo i tragici episodi del gennaio 2015. 7. Il dibattito sui
rapporti fra libertà di espressione e sensibili- tà religiosa In nome di
sentimenti religiosi è stato di recente versato del san- gue; l’esercizio di
una libertà che è cifra simbolica dell’occidente libe- rale ha attivato spirali
di violenza e generato un clima di terrore al cospetto del quale la riflessione
sui modi d’uso della libertà non può abbandonarsi a cliché morali, pur
benintenzionati, o a ingenui ireni- smi. Su un piano fattuale non sembra
esservi ragione più immediata e plausibile della suscettibilità emotiva per dar
conto delle conflittuali- tà emerse; se pure nella prospettiva penalistica i
sentimenti possono difettare di tassatività, dall’altro lato, essi sono però in
grado di pro- durre conseguenze ben visibili, a conferma della loro rilevanza
indi- viduale e sociale. 132 PROSDOCIMI, voce Vilipendio (reati di), in
Enciclopedia del diritto, vol. XLVI, Milano, 1993, pp. 739 ss. Sul vilipendio
religioso v. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso e contro la
pietà dei defunti, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da
Marinucci-Dolcini, vol. V, Padova, 2005, pp. 148 ss.; ID., «Lai- cità penale» e
determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in AA.VV., a cura di
Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano, 2006,
pp. 2456 ss. 133 Per un’accurata e ben documentata silloge di episodi in cui
sono emersi at- triti fra satira e religione v. RUOZZI, Piccolo manuale di
blasfemia audiovisiva. Dal Mistero Buffo televisivo a Southpark, in AA.VV., a
cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 93
ss. 184 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il traumatico ritorno in
scena della sensibilità, o forse, più pro- priamente, della suscettibilità
religiosa nel contesto occidentale costi- tuisce un attacco frontale alla
libertà di espressione per mano di for- ze che hanno usato il linguaggio della
violenza e dell’annientamento dell’altro. A prescindere da quello che sia il
giudizio sul merito delle rappre- sentazioni satiriche danesi e di Charlie
Hebdo, va detto in premessa che le reazioni suscitate «non possono essere
assunte a parametro di un “sentimento religioso” rilevante per il nostro
ordinamento. Proprio le caratteristiche che ne fondano il forte e preoccupante
rilievo politico, sullo sfondo di un te- muto “scontro di civiltà”, e
sollecitano adeguate valutazioni e risposte politiche, impongono di tenere
ferma la valutazione di estraneità e per così dire irricevibilità giuridica. Il
sentimento religioso, che può porre un problema di tutela, non può essere
misurato sulle fatwe né su vio- lenze aizzate politicamente in altri paesi»
134. L’agire violento esclude ogni prospettiva di considerazione giuri- dica
per le istanze avanzate; resta tuttavia in piedi l’interrogativo su come sia
più ragionevole oggi configurare una tutela del sentimento religioso ‘a misura
liberale’. Uno dei nodi di fondo si identifica nell’al- ternativa fra tutela
della/e religioni e tutela delle persone che profes- sano una religione 135: se
la prima ipotesi rappresenta un retaggio del passato incompatibile con i
principi del pluralismo assiologico e di laicità136, la seconda è aperta a
diverse declinazioni. Riorientare la tutela sulla persona del credente esclude
la prospettiva del ‘bene di civiltà’ 137; meno scontato è l’approdo ultimo.
Vediamo in che termini la distinzione fra tutela della confessione e della
persona del credente entra oggi in gioco nel panorama appli- cativo
dell’ordinamento italiano. 134 PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p.
314. 135 Cfr. FERRARI, La blasfemia in Europa, dalla tutela di Dio alla tutela
dei cre- denti, in www.resetdoc.org, 14 febbraio 2014; CIANITTO, Libertà di
espressione liber- tà di religione: un conflitto apparente?, in AA.VV., a cura
di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 206 ss. 136
Cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 928. 137
Ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizza-
zione, cit., p. 50. Fisionomia dell’offesa 185 7.1. L’ambiguità
dell’art. 403 c.p. La distinzione tra offesa alle credenze e offesa alla
persona trova un punto di riferimento nell’art. 403 c.p. La fattispecie
costituisce, in- sieme all’art. 404 c.p., un residuo delle ipotesi di
vilipendio origina- riamente previste, fra le quali l’art. 402 c.p. (dichiarato
costituzio- nalmente illegittimo con la sentenza n. 508/2000) costituiva la
norma più emblematica e dai risvolti più critici 138. Davvero il vilipendio
alla religione può dirsi decriminalizzato sul piano della sostanza? L’art. 403
c.p. e l’art. 404 c.p. ne recuperano in parte l’eredità residua 139,
circoscrivendo le ipotesi di rilevanza penale a una casistica più definita
(quantomeno formalmente) di azioni le quali dovrebbero avere a oggetto le
persone che professano una reli- gione o cose destinate al culto 140. Dopo la
caduta dell’art. 402 c.p., è l’offesa alla persona che potrebbe rendere
legittima una restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero,
lasciando fuori dall’area di intervento le forme di critica al patrimonio
ideale di una confes- sione. In realtà l’art. 403 c.p. appare caratterizzato da
una formulazione non particolarmente felice, la quale persiste nella rubrica e
nel te- 138 L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica è caduta
sotto la scure della Consulta non per contrasto con l’art. 21 Cost., bensì per
violazione de- gli artt. 3 e 8 Cost., in linea con un trend interpretativo che
non ha mai asseconda- to le pochissime richieste di illegittimità dei vilipendi
alla religione per violazione dell’art. 21 Cost. Risulta solo un ordinanza, la
n. 479/1989, nella quale è stata sol- levata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 403 c.p. per contrasto anche con l’art. 21. In quel
caso la declaratoria della Corte è stata la manifesta inammis- sibilità per la
non pertinenza della questione rispetto al giudizio in corso, senza alcuna
riflessione sul merito dei rapporti tra l’art. 403 c.p. e l’art. 21 Cost. Per
una panoramica della giurisprudenza costituzionale sull’art. 402 c.p., v.
SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espressione, cit., pp. 86 ss.
139 Sembra aderire a un recupero pressoché pieno della portata dell’art. 402
c.p. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, cit., pp. 54 ss.,
la quale, adesiva- mente alla giurisprudenza, osserva che il vilipendio
generico a una confessione reli- giosa, anche in assenza del riferimento a
persone determinate, possa rientrare nell’art. 403 c.p., e che anche l’offesa a
simboli, come ad esempio il crocifisso, possa assumere rilevanza penale ai
sensi della medesima disposizione (v. p. 58). Di diverso avviso PULITANÒ,
Laicità, multiculturalismo, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risica- to-La
Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 245
s. 140 Le condotte descritte dalle fattispecie non sono del tutto simmetriche:
nel caso dell’art. 403 c.p. il vilipendio esprime la modalità di lesione,
mentre nell’art. 404 c.p. è l’offesa alla confessione religiosa a costituire
l’evento strumentale alla realizzazione del vilipendio a cose che formino
oggetto di culto. 186 Tra sentimenti ed eguale rispetto sto141 a
riconoscere la centralità del vilipendio alla confessione reli- giosa 142,
relegando in una posizione strumentale l’offesa a chi la pro- fessa: «l’offesa
alla religione resta il criterio ermeneutico essenziale del settore» 143. Non
sono mancate applicazioni in cui la Corte di Cassazione ha optato per un
approccio repressivo, sostenendo che ai fini dell’inte- grazione dell’art. 403
c.p. sia sufficiente che le espressioni di vilipen- dio siano genericamente
riferite alla indistinta generalità dei fedeli «tutelando la norma il
sentimento religioso e non la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto
appartenente ad una determinata confes- sione religiosa» 144. Tale pronuncia si
esprime con nettezza a favore di un’interpretazione impersonale del vilipendio;
sentenze successive, pur senza la medesima univocità, ne hanno ricalcato gli
itinerari lo- gico-argomentativi, rivelando nel complesso un’adesione
(inconscia?) all’impostazione del defunto art. 402 c.p. In un caso un soggetto
è stato condannato per aver esposto «nel centro di Milano un trittico da lui
realizzato – tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela – raffigurante,
rispettivamente, il Pontefice in carica, un pene con testicoli e il segretario
personale del Pontefice, con la didascalia «Chi di voi non è culo scagli la
prima pietra» 145. 141 E anche nel regime della perseguibilità, prevista
d’ufficio, la quale enfatizza la dimensione istituzionale dell’interesse
protetto. 142 Un problema ben noto alla dottrina penalistica già negli anni
Settanta; per un’approfondita critica agli orientamenti giurisprudenziali che
operavano una sostanziale commistione fra artt. 402 e 403 c.p., applicando
quest’ultimo anche a casi di offesa impersonale a contenuti di fede v.
PULITANÒ, Spunti critici, cit., pp. 198 ss., 205 ss. 143 MORMANDO, I delitti
contro il sentimento religioso, cit., p. 24; sulla stessa li- nea di pensiero
v. FLORIS, Libertà di religione, cit., p. 189; MANETTI, Libertà di pen- siero e
tutela delle identità religiose, cit., p. 65; PACILLO, I delitti contro le
confessioni religiose, cit., pp. 39 ss. Cfr. ROMANO, Principio di laicità dello
Stato, cit., p. 214: «il fatto vietato e punito resta il vilipendio delle
religioni». Viene fatto notare come il trattamento sanzionatorio più grave per
il vilipendio del ministro di culto con- fermi l’orientamento della tutela
verso l’assetto istituzionale delle confessioni re- ligiose, così SIRACUSANO,
Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 82. La di- sposizione è
dunque ambigua e si presta a usi discutibili; in dottrina si è rilevato che per
salvarla sul piano della legittimità costituzionale occorrerebbe prendere sul
serio la direzione personale del vilipendio e il legame da accertarsi in
concreto, non in via presuntiva, del vilipendio alla confessione con l’offesa
alla persona, v. PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 313; cfr. SERENI,
Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12. 144 Cass. pen., sez.
III, 11/12/2008, n. 10535. 145 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n.
41044. Fisionomia dell’offesa 187 In un secondo episodio vi è stata
condanna per aver esposto un cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma
costituita dall’im- magine del Pontefice in carica, e, in primo piano, un
bersaglio costi- tuito da una serie di cerchi concentrici con l’indicazione di
punteggi vari, riportante in calce la scritta: «1.000 punti, caramelle,
preservati- vi, vino e ostie sconsacrate se centri quel buco di culo da cui
quoti- dianamente vomita fiumi di merda» 146. La Corte di Cassazione sembra
riproporre la teoria dei limiti logi- ci 147, quando afferma che «in materia
religiosa la critica è lecita quando – sulla base di dati o di rilievi già in
precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espres- sione motivata e
consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una
indagine condotta, con serenità di meto- do, da persona fornita delle
necessarie attitudini e di adeguata prepa- razione: mentre trasmoda in
vilipendio quando – attraverso un giudi- zio sommario e gratuito – manifesti un
atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e
alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio
ad essa rico- nosciute dalla comunità» 148. In entrambi i casi menzionati la
rilevanza penale delle condotte non appare in discussione; si pone però la
questione se l’offesa sia da considerarsi rivolta alla persona del Pontefice o
piuttosto al ruolo istituzionale e dunque al legame con un certo tipo di
opinioni espres- se dall’istituzione ecclesiastica in tema di etica sessuale;
l’integra- zione della diffamazione appare pacifica, meno scontato è il
vilipen- dio alla religione ex art. 403 c.p. Secondo la lettura proposta dalla
Corte tale fattispecie non sem- brerebbe configurarsi come delitto contro
l’onore e la dignità della persona, ma assumerebbe piuttosto le vesti di un
mero surrogato del vecchio vilipendio ex art. 402 c.p., orientato alla tutela
di un interesse affine al ‘bene di civiltà’ 149. In occasione della condanna
per il trittico 146 Cass. pen., sez. III, 28/09/2016, n. 1952. 147 Per una
ricostruzione del panorama giurisprudenziale sul punto v. SIRACU- SANO, I
delitti in materia di religione, cit., pp. 136 ss.; PACILLO, I delitti contro
le con- fessioni religiose, cit., pp. 111 ss.; in termini generali, sulla
teoria dei ‘limiti logici’ v. CARUSO, Tecniche argomentative della Corte
costituzionale e libertà di manifesta- zione del pensiero, in
http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/- pdf/documenti_forum/paper/0360_caruso.pdf,
10/2012, pp. 3 ss. 148 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044. 149 Cfr.
SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira, cit., pp. 4 ss. 188 Tra
sentimenti ed eguale rispetto raffigurante il Pontefice, la Cassazione ha osservato
che: «ai fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni
offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le
stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti
alla confessione religiosa [...] Perciò il vilipendio di una reli- gione, tanto
più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o
di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen.,
che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività
dell’art. 21» 150. Si tratta di un orientamento che inverte il rapporto tra
offesa alla persona e offesa al credo: la religione non appare come elemento
qualificante l’offesa alla persona ma è il bene ultimo di un’incrimi- nazione
che concepisce l’offesa individuale in termini strumentali ed episodici. Appare
in questo senso avvalorata la tesi di chi ha individuato l’interesse protetto
dalle nuove norme, post riforma del 2006, in un bene «a carattere
superindividuale, la cui “consistenza” si gioca pre- valentemente sul piano
ideale, così come sul medesimo piano si pone la condotta espressiva ritenuta
lesiva del bene protetto» 151. Possiamo in definitiva affermare che l’offesa
alla persona del cre- dente resti ancora oggi marginale, pur in presenza di una
disposizio- ne che, nel suo tenore formale, si presenta come un delitto contro
l’onore qualificato dallo status della persona offesa, ma che di fatto 150
Cass. pen., sez. III, 7/4/2015, n. 41044. 151 VISCONTI C., Aspetti penalistici,
cit., p. 197; cfr. PELISSERO, La parola perico- losa. Il confine incerto del
controllo penale del dissenso, in Questione giustizia (on- line), 4/2015, par.
4. Nel complesso si rimane ancorati a un sistema che differen- zia tra forme di
religiosità ‘classiche’ e forme di religiosità ‘diversa’ o c.d. ‘negati- va’.
Il legislatore conferma un favor verso manifestazioni della spiritualità
ancora- te a un’ottica tradizionale che si identifica nelle forme di
organizzazione delle re- ligioni; sul punto gli orientamenti nella dottrina
divergono: da un lato SIRACUSA- NO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori,
cit., p. 87 ss. rileva che «siamo ben lontani dall’unica possibile prospettiva
di tutela nello Stato laico: quella che si fonda su una considerazione
paritaria di tutte le opzioni individuali in materia di fede, quindi anche
delle opzioni agnostiche ed atee»; diversa è l’opinione di RO- MANO, Principio
di laicità dello Stato, cit., p. 214, il quale riconosce il completo si- lenzio
serbato dal legislatore «su forme di agnosticismo o di ateismo attivo, prati-
cato con personali accenti di doverosità morale», concludendo tuttavia che esso
«non porterebbe ad alcuna “discriminazione ideologica [...] perché per
eventuali offese arrecate a forme associative ispirate a pur radicate
convinzioni areligiose o agnostiche non è parso seriamente evocabile, nella
situazione del nostro Paese, un qualsiasi rischio per la tranquillità».
Fisionomia dell’offesa 189 guarda più alla matrice dello status che a colui
che ne è il rappresen- tante: la tutela di un’asserita sensibilità collettiva,
legata all’offesa del patrimonio ideale di una confessione, costituisce ancora
oggi il punto di riferimento principale 152. La casistica esaminata appare
tutto sommato non particolar- mente problematica, quantomeno sul piano della
rilevanza penale: vi è il coinvolgimento di soggetti concretamente
individuabili, e a fronte di espressioni ingiuriose resta tutt’al più aperto il
problema se si tratti di vilipendio alla religione o di offese tali da
integrare la diffamazione. Problemi più complessi sorgerebbero se le forme di
espressione avessero ad oggetto non persone reali, ma simboli, icone, e in
genera- le i dogmi di una confessione. Nel contesto italiano la caduta del
vili- pendio ex art. 402 c.p. dovrebbe deporre per l’irrilevanza penale; il
problema merita però di essere analizzato anche in un’ottica extraor-
dinamentale, in riferimento a episodi dove l’irrisione satirica ha su- scitato
reazioni violente, con un’evidente sovraesposizione del fattore emotivo. 7.2.
Le vignette di Charlie Hebdo: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile?
Prendiamo in esame quello che è stato definito uno ‘stress test’ per i modelli
di tutela 153, ossia il caso delle vignette pubblicate dal setti- manale francese
Charlie Hebdo e, originariamente, dal settimanale danese Jyilland Posten. Anche
la dottrina penalistica italiana si è po- sta l’interrogativo se tali
manifestazioni espressive possano assumere rilevanza penale nell’ordinamento
italiano; la risposta, condivisibil- mente argomentata, è stata di segno
negativo 154: nell’attuale panora- ma normativo le vignette irridenti la
religione islamica non sarebbero incriminabili poiché non rivolte a soggetti
determinati ma orientate a ironizzare su dogmi e contenuti di fede 155. 152 Per
un’approfondita disamina del problema della diffamazione delle reli- gioni in
ambito internazionale v. ANGELETTI, La diffamazione delle religioni nella
protezione ultranazionale dei diritti umani, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto
penale della libertà religiosa, cit., pp. 149 ss. 153 CIANITTO, Quando la
parola ferisce. Blasfemia e incitamento all’odio religioso nella società
contemporanea, Torino, 2016, pp. 70 ss. 154 BASILE, La pubblicazione delle
dodici vignette, cit., pp. 74 ss. 155 BASILE, La pubblicazione delle dodici
vignette, cit., p. 75. 190 Tra sentimenti ed eguale rispetto Al di
là della riconducibilità a una norma incriminatrice, è oppor- tuno chiedersi se
i contenuti delle vignette siano accostabili a un’of- fesa ai sentimenti o al
venir meno del rispetto-riconoscimento. Le vignette danesi (oggi facilmente
visualizzabili su internet) non sembrano operare una vera e propria critica o
messa in discussione di asserti religiosi, ma adoperano uno stile comunicativo
particolar- mente forte nelle rappresentazione di figure sacre, violando in
primo luogo il divieto di rappresentazione del Profeta. Si può a nostro avviso
parlare di blasfemia, nel senso di rappre- sentazioni empie per l’ottica di un
fedele, e dunque plausibilmente offensive del sentimento religioso. Non sembra
però potersi chiamare in causa una vera e propria discriminazione assimilabile
a hate speech: solo nel caso di un’unica vignetta, raffigurante il Profeta con
una bomba in testa, si è osservato, a nostro avviso in modo forse un po’
forzato, che potrebbe veicolare un messaggio discriminatorio in forza di
un’assimilazione dell’Islam a una religione ‘di guerra’ e a una considerazione
di tutti gli islamici come terroristi 156. Il discorso sulle vignette pubblicate
nel corso degli anni dal setti- manale francese Charlie Hebdo necessiterebbe di
essere sviluppato attraverso un’analisi dettagliata delle singole immagini: non
essendo possibile in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni di li-
vello generale sui rapporti fra libertà di satira ed eguale rispetto. Partiamo
da un presupposto: l’interpretazione dei contesti, gli at- tori delle vicende e
le contingenze storico-sociali sono fattori coes- senziali nella configurazione
degli equilibri di rispetto. Conseguen- temente l’interrogativo sulla
tollerabilità di un’espressione satirica appare destinato a ricevere risposte
differenti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contesti e delle epoche.
L’umorismo e la satira possono essere gravemente irrispettosi a seconda delle
cadenze adoperate e degli aspetti della persona che mettono in ridicolo. Si
tratta di un buon punto di partenza per uscire dalla ingannatoria ricostruzione
che vorrebbe distinguere tra ‘satira buona’ o vera satira, e ‘satira cattiva’:
il fine della satira è toccare cor- de sensibili, e l’irrispettosità non è un
aspetto patologico, bensì è connaturato al fenomeno satirico. È plausibile che
la satira offenda dal punto di vista emotivo chi ne è oggetto, nel senso che a
nessuno piace essere preso in giro e che l’essere irrisi induce tendenzialmente
emozioni negative. 156 CIANITTO, Libertà di espressione e libertà di religione:
un conflitto apparente?, cit., pp. 215 s.; amplius, v. EAD., Quando la parola
ferisce, cit., pp. 73 ss. Fisionomia dell’offesa 191 Pensiamo alla
solidarietà che il nostro Paese ha giustamente tribu- tato al giornale francese
Charlie Hebdo per l’inaccettabile e brutale aggressione subita: rimarchiamo che
il gesto criminale non ha atte- nuanti, e l’affermazione della libertà di
satira rappresenta un princi- pio fondamentale. Nondimeno, va considerato che
l’appoggio solidale a Charlie è frutto di un’intrinseca parzialità, poiché
concernente un fatto (le vignette sull’Islam) che non aveva un impatto emotivo
pari a quello provato dai fedeli di religione musulmana. Basta cambiare esempio
per accorgersi come anche nel nostro Paese l’atteggiamento nei confronti della
satira muti radicalmente ove vi sia un diverso coinvolgimento. Si pensi alle
vignette pubblicate sempre da Charlie Hebdo in occasione del terremoto avvenuto
nel- l’Italia centrale ad agosto 2016: le risposte dell’opinione pubblica so-
no state ben differenti, fino ad arrivare, da parte di soggetti delle isti-
tuzioni, alla definizione di ‘schifo’ 157. Ben diverso era il clima emoti- vo
che aveva indotto molti cittadini ad adottare come effige dei pro- pri profili
telematici il logo ‘je suis Charlie’. Rispetto alle vignette sull’Islam cambia
l’atteggiamento perché so- no diverse le emozioni suscitate nei destinatari, ma
la sostanza dei fatti appare non dissimile: in entrambi i casi la satira ha
colto nel se- gno, stimolando sensazioni forti, probabilmente offendendo emoti-
vamente, e suscitando reazioni sdegnate da parte dei diretti destina- tari, ma
sempre di satira si tratta. A partire da queste premesse, forse poco
politically correct ma ade- renti alla realtà dei fenomeni, si pone il problema
su come legittima- re l’esercizio della satira in quanto potenzialmente
irrispettosa e in grado di dare fastidio 158. Nel contesto penalistico si è
talvolta tracciato il confine fra espres- sioni tollerabili e non tollerabili
attraverso una ricerca ‘ontologica’ di cosa sia satira e cosa invece si
collochi al di là di essa, al fine di far derivare da tale ricostruzione
effetti sul piano normativo, adottando 157 Così le ha definite il Presidente
del Senato della Repubblica; la notizia è re- peribile su
http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/vignetta-charlie-su-sisma-gras-
so-libero-di-dire-che-fa-schifo-_3029174-201602a.shtml. 158 Diritto di satira e
libertà di religione godono entrambi di protezione a li- vello costituzionale,
e sono pertanto «due beni, dunque, destinati ad una convi- venza mite, senza
sopraffazioni dell’uno rispetto all’altro», così COLAIANNI, Dirit- to di satira
e libertà di religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 5/2008, p.
3. Per una definizione e una panoramica ricostruttiva del genere espressivo
della satira, v. RATANO, La satira italiana nel dopoguerra, Messina- Firenze,
1976. 192 Tra sentimenti ed eguale rispetto una concezione
‘deontologica’ della satira 159. Un simile modo di argomentare si caratterizza
a nostro avviso per una fallacia che possiamo ricondurre alla violazione della
Legge di Hume in senso inverso, ossia come ricostruzione fattuale a partire da
un presupposto normativo: sarebbe satira ciò che non viola una certa soglia di
continenza e che dunque non offende. Tale modo di proce- dere non consente di
scindere adeguatamente i confini identificativi della satira da quelli che
debbano essere, eventualmente, i limiti normativi. Come è stato efficacemente
osservato: «Alla fine, sembra dunque non si possa fare a meno di accettare che
la satira non abbia confini, benché in un senso diverso rispetto a quello che
intendono quanti declinano questa tesi come tesi morale libertaria (“la satira
non deve avere confini”); nel senso, invece, di una tesi con- cettuale che
afferma che la libertà di satira non ha confini certi, poi- ché ci manca la
possibilità di realizzare una precisa delimitazione teori- ca, attraverso la
quale stabilire in maniera incontrovertibile quando ci si è mossi nell’alveo
della libertà di satira e quando invece si è trasceso e si è entrati in un
altro terreno, che, per quanto lo si possa continuare a considerare satirico,
diventa sanzionabile dall’ordinamento» 160. Ciò non significa postulare una
‘amoralità’ della satira, ma al con- trario pone le condizioni per giudicare in
modo distinto il fine dell’espressione satirica dalle modalità con le quali
essa si manifesta: il fine positivo della satira non è incompatibile con un
umorismo par- ticolarmente caustico tale da essere financo irrispettoso e
desacraliz- zante. Quale argomento a sostegno della libertà di satira si è
osservato che una politica di tolleranza, e dunque non restrittiva, rappresenti
un mi- 159 Si veda ad esempio Trib. Latina, 24/10/2006, n. 1725, cit., quando
osserva che «[l]a satira è, dunque, un punto di vista che si distingue dal
dileggio, dal vili- pendio, dall’offesa, perché fornisce una lettura diversa
della realtà e manifesta un giudizio di valore»; e ancor più netta è Cass.
pen., sez. I, 24/02/2006 n. 9246: «La satira, notoriamente, è quella
manifestazione del pensiero (talora di altissimo li- vello) che nei tempi si è
addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’; ovvero, di indicare alla
pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di
ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico,
correttivo cioè verso il bene». Per una panoramica sulla giurisprudenza v.
FLORIS, Libertà di religione, cit., pp. 183 ss.; INFANTE, Satira: diritto o
delitto?, in Dir. inf., 1999, pp. 373 ss.; CAROBENE, Satira, tutela del
sentimento religioso e libertà di espressione. Una sfida per le moderne
democrazie, in Calumet, 3/2016, pp. 9 ss. 160 DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra.
La satira tra libertà di espressione e dovere di rispetto, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, 7/2016, p. 9. Fisionomia dell’offesa 193
gliore humus per l’attecchimento di principi fondamentali che hanno una base
dialettica e che, ove venissero cristallizzati in una teca al ri- paro da
aggressioni, rischierebbero di trasformarsi in dogmi 161. Un simile modo di
argomentare è stato definito come ‘utilitarismo delle regole’: l’atteggiamento
di chi ha risolto la ‘questione Charlie’ af- fermando sì la presenza di
un’offesa, ma optando per il pieno risco- noscimento della libertà di
espressione, sarebbe viziato dal fatto che «nel dirigere l’attenzione verso le
regole, l’utilitarismo insinua il so- spetto che le conseguenze di un atto (o
di una regola) non siano in fondo determinanti per i giudizi e i valori etici
di una persona: che lo siano invece le regole in quanto tali, in quanto vengono
considerate intrinsecamente giuste, quali che siano le conseguenze della loro
appli- cazione» 162. Si può riassumere tale critica anche come un’obiezione di
‘disinte- resse alle conseguenze’: «la sicurezza con la quale [si] proclama
[tale ] opinione è totalmente aliena dai calcoli pazienti e minuziosi che sa-
rebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione (e ne rivela la
vanità)» 163. L’argomento definito come ‘utilitarismo delle regole’ è da tenere
in seria considerazione anche nella prospettiva giuridica; tuttavia, ciò che
agli occhi del filosofo appare come un disinteresse alle conseguenze può
rappresentare nella prospettiva penalistica una scelta di prudenza in rapporto
a eventi offensivi la cui prevedibilità non appaia supporta- ta da una base
nomologica sufficiente a legittimare divieti penali 164. Tenderemmo quindi a
ritenere preferibile come opzione ultima la non restrizione della libertà di
satira 165, ma al di là dell’atteggiamento 161 DEL BÒ, Col sorriso sulle
labbra, cit., p. 22. 162 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47.
163 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., pp. 45 ss. 164 Tutt’altro che
risolutivo si rivela anche il ricorso a criteri di selezione delle condotte ben
consolidati nel pensiero penalistico e avallati dalla Corte costituzio- nale:
ci riferiamo allo schema del pericolo concreto, in merito al quale, come è
stato efficacemente rilevato da Alessandro Tesauro, anche la selezione delle
pro- prietà universalizzabili del caso concreto da utilizzare come criteri
indiziari di una pericolosità effettiva della condotta, costituisce un’attività
‘normativamente compromessa’, nel senso che non porterà comunque a individuare
criteri di corri- spondenza suscettibili di verifiche empiriche, ma il ruolo
determinante sarà pur sempre giocato da scelte di valore dell’interprete, v.
TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 122 ss. 165 «Ciò che
allora deve spingerci a non censurare quelle espressioni satiriche che, pur non
istigando alla violenza, mancano gravemente di rispetto ai gruppi deboli e
svantaggiati non è una generica libertà di espressione (questo, in alcuni
194 Tra sentimenti ed eguale rispetto prudenziale, riteniamo che la
soluzione liberale possa trovare legit- timazione anche attraverso un
ragionamento che si richiami al crite- rio dell’eguale rispetto e al bilanciamento
fra reciproche pretese. Quando si analizzano i disaccordi in materia di satira
religiosa bi- sogna individuare dei presupposti valoriali per impostare la
discus- sione, ossia dei compromessi sul cui equilibrio ciascuna delle parti
possa avere voce in capitolo: anche «coloro che credono in una reli- gione
presa di mira possono dover considerare che il diritto di ridere di qualunque
religione può esso stesso essere considerato dagli altri come un articolo di
fede» 166. La sostanza di tale argomento è condi- visibile, anche se il
percorso concettuale, con una ‘moltiplicazione di articoli di fede’, rischia di
tramutarsi in un pendio scivoloso. Eguale rispetto dovrebbe significare
preservare la libertà di pro- fessare una religione da un lato, e la fede nella
libertà di satira, dal- l’altra: un impegno a far sì che nessun pregiudizio
venga arrecato alle due libertà. Ebbene, la pretesa di coloro che chiedono
restrizioni alla libertà di satira appare in questo senso sproporzionata poiché
mentre vignette ed espressioni anche ‘urticanti’ non arrecano un vero e pro-
prio pregiudizio alla libertà del credente e alla sua ‘identità religio- sa’
167, la pretesa di comprimere la libertà di espressione altrui risulte- rebbe
un vulnus sproporzionato. Si potrebbe a questo punto prendere in esame un
ulteriore argo- mento, basato sulla maggiore suscettibilità che determinati
fedeli, come ad esempio quelli di religione islamica, adducono sostenendo che
ogni offesa alla propria religione è anche, intrinsecamente, un’of- fesa alla
dignità delle persone che la professano168. Ebbene, quale spazio di legittimità
può essere riconosciuto a tale obiezione? Abbiamo introdotto il problema
parlando della suscettibilità sog- casi, come abbiamo visto, è sbagliato) e
nemmeno il fatto che quelle espressioni contribuiscano in qualche modo al
raggiungimento della “verità” (in molti casi, questo è falso); piuttosto, a
caldeggiare una politica di tolleranza nei loro con- fronti è il fatto che
consentono ai principi che ci sono cari di difendersi sempre meglio e
mantenersi vivi e tonici, e con essi il tipo di società nella quale aspiriamo a
vivere», v. DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra, cit., p. 23. 166 TELFER, Umorismo
ed eguale rispetto, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale
rispetto, Milano, 2008, p. 212. 167 Utilizzo tale concetto nell’accezione
sviluppata da PINO, Sulla rilevanza giu- ridica e costituzionale dell’identità
religiosa, in Ragion pratica, 2/2015, p. 370, ossia come «l’insieme delle
credenze, dei valori, delle appartenenze che un individuo ha in materia
specificamente religiosa», e dunque come aspetto specifico della sfera della
coscienza. 168 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 132 ss.
Fisionomia dell’offesa 195 gettiva nella trattazione di Joel Feinberg; in
questo caso il discorso è però differente, poiché riguarda non la
suscettibilità di un singolo soggetto, ma di un gruppo: l’interrogativo è se si
tratti di una vulne- rabilità meramente emozionale o se, diversamente, sia
anche ricon- ducibile a una particolare debolezza sociale del gruppo. Con
riferimento a tale seconda ipotesi, esponiamo le tesi di due Autori già
incontrati nel corso dell’indagine. Da un lato, Avishai Margalit osserva che
«[u]n gruppo vulnerabile, con una storia di umiliazione e sospetto da parte di
coloro che lo cir- condano, specialmente da parte della cultura dominante, è
suscettibi- le di interpretare ogni critica come umiliazione» 169; Jeremy
Waldron tematizza il problema senza richiamare l’eventuale debolezza di un
gruppo, ma incentrando il discorso sulla totale identificazione fra soggetto e
ideologie/credenze. Di fronte all’interrogativo sul peso che possa essere
riconosciuto alla percezione soggettiva nel caso di gruppi vulnerabili, e
dunque al- la rilevanza della vulnerabilità nell’interpretazione
dell’offensività di un’espressione, le posizioni di Margalit e Waldron
divergono: biogra- fia personale e matrici culturali sono fattori che
probabilmente in- fluiscono su prese di posizione concernenti ‘scelte
ultime’170, la cui argomentazione in termini razionali è particolarmente
difficoltosa. Il filosofo israeliano propone i seguenti criteri di soluzione:
1) un primo criterio, basato sulla reciprocità secondo cui dovreb- be essere
considerato critica qualunque cosa si desideri offrire ad al- tri e che si
accetterebbe ove venisse offerta a noi stessi 171; 2) un secondo criterio, in
favore dell’interpretazione del gruppo vulnerabile, si lega alla «necessità
morale di far pendere la bilancia dell’errore nell’interpretazione verso la
parte del debole», e va però bilanciato da un altro principio secondo cui
«qualunque cosa fosse considerata critica piuttosto che umiliazione se
avvenisse “in fami- glia”, cioè all’interno del gruppo, dovrebbe pure essere
considerata tale se proveniente dall’esterno del gruppo» 172. Diversamente da
Margalit, il quale dunque non esclude una carità interpretativa a favore dei
gruppi vulnerabili, Waldron rimarca la ne- cessità di non assecondare
normativamente pretese avanzate in forza di un’identificazione fra persona e
ideali religiosi o politici: richieste 169 MARGALIT, La società decente, cit.,
p. 201. 170 Traggo questo concetto da BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 2011,
p. 245. 171 MARGALIT, La società decente, cit., p. 201. 172 MARGALIT, La
società decente, cit., pp. 202 s. 196 Tra sentimenti ed eguale
rispetto di tutela di questo tipo sono da considerarsi esorbitanti in un conte-
sto pluralista. Vi è l’esigenza di una limitazione delle pretese sogget- tive,
pur tenendo conto che il legame identificativo fra individuo e ideali può
essere così intenso da essere assimilabile a una ‘seconda pelle’; ma ciò non
può giustificare sul piano politico provvedimenti normativi che limitino le
libertà di tutti per preservare la serenità in- teriore di alcuni 173. Sintetizzando:
sia Margalit sia Waldron concordano sulla necessi- tà di prendere atto che
determinate espressioni meritino una partico- lare attenzione da parte del
diritto poiché possono esorbitare dall’or- dinario range della critica e del
mero insulto e divenire forme di umi- liazione e discriminazione della persona.
Per Margalit il discrimine fra insulto e umiliazione può essere diverso a
seconda del tipo di de- stinatari in quanto di fronte a un gruppo cosiddetto
‘vulnerabile’ l’interpretazione delle espressioni dovrebbe essere condotta
tenendo conto anche, eventualmente, della peculiare sensibilità; secondo Wal-
dron tale differenziazione non è mai normativamente giustificabile e si
presterebbe a divenire un problematico moltiplicatore di divieti sulla base di
pretese soggettivistiche. Concordiamo con Waldron che l’identificazione fra
critica a fedi e valori e offesa alla persona, rappresenti un argomento
knock-out che sbilancerebbe le posizioni in gioco. Il credente il quale esige
che i propri principi non vengano mai irrisi, adducendo che ciò significhe-
rebbe automaticamente offendere lui come persona, sta implicita- mente cercando
di sottrarre le proprie posizioni assiologico-religiose dal dibattito,
ponendosi in questo senso in una posizione di supre- mazia, limitando la
libertà di espressione altrui secondo criteri che non sono confutabili poiché
si sottraggono per definizione a ogni ti- po di confronto. La prova di tale
incommensurabilità fra posizioni emerge in rela- zione a un ulteriore test secondo
il quale dovrebbe essere ritenuta of- fensiva un’espressione che nessun membro
del gruppo avrebbe rite- nuto divertente 174, anche se a pronunciarla fosse
stato uno del grup- po stesso. Tale test trascura a nostro avviso un dato
fondamentale, ossia che i conflitti fra sensibilità nascono proprio dal fatto
che vi possono es- sere gruppi che non accettano un certo modo di fare ironia
tout court; non è un problema di qualità della satira, ma semplicemente la 173
WALDRON, The Harm in Hate Speech, pp. 131 ss. 174 TELFER, Umorismo ed eguale
rispetto, cit., pp. 210 ss. Fisionomia dell’offesa 197 satira su
certi temi potrebbe non essere ritenuta mai ammissibile. Un test di questo tipo
non appare ad esempio risolutivo se applicato alle vignette sul Profeta Maometto
poiché la religione islamica non sem- bra tollerare alcun tipo di ironia in
questo senso. Bisogna dunque prendere atto che tali test sono poco funzionali
quando pretendono di mettere a confronto pretese fra loro incompatibili poiché
ricondu- cibili a gruppi che non si riconoscono nei medesimi valori. L’analisi
filosofica di Ermanno Bencivenga è in questo senso spie- tata quando osserva
che dal fedele di qualsivoglia religione non si può esigere un atteggiamento
lassista e compromissorio sul rispetto della propria fede. Il carattere
radicale del vincolo è tale per cui l’al- trui libertà di satira non potrebbe
mai essere ritenuta tollerabile 175. In definitiva, il tema
dell’identificazione fra soggetto e credenze spinge verso esiti illiberali:
pretese modulate su una simile rigidità non possono essere accolte in un
contesto pluralista, nel quale un in- teresse, pur di rango elevato, va
comunque calato in una prospettiva di bilanciamento 176. Sintetizzando, la
risposta all’interrogativo sulla libertà di satira, anche quando consista in
vignette dissacranti come quelle pubblicate in Danimarca e come alcune di
quelle pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo, deve essere a nostro avviso
positiva: nessuna rilevanza penale secondo l’attuale normativa italiana, ma anche
nessuna futu- ribile prospettiva di censura. Attenzione però a non fare della
satira un dogma 177: parlare di ‘li- bertà di deridere’ 178 è una formula
schietta ma che rischia di prestar- si a distorsioni. Esprimersi a favore della
libertà di satira non signifi- ca ritenerla insindacabile; da un lato il
riconoscere l’irrispettosità del- la satira può non essere elemento sufficiente
per inferirne l’opportu- nità di una criminalizzazione; dall’altro
l’irrilevanza penale non im- plica la certificazione di un buon uso della
libertà di espressione 179. 175 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit.,
pp. 86 ss. 176 Cfr. PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale
dell’identità religiosa, cit., pp. 372, 381. 177 Concordiamo in questo senso
con CANESTRARI, Libertà di espressione e liber- tà religiosa, cit., p. 936. 178
TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, cit., p. 212. 179 Problema che si
riconnette al più ampio tema dei valori e di un’etica della convivenza le cui
polarità non dovrebbero essere determinate dalle dicotomie del- la liceità e
illecità penale: «un’etica non legale e non penalistica di comportamen- to»,
come condivisibilmente osservato da DONINI, Il diritto penale come etica pub-
blica, Modena, 2014, p. 13. 198 Tra sentimenti ed eguale rispetto
Non appare opportuno diffondere a livello comunicativo formule come ‘libertà di
offesa’ o ‘diritto di offendere’, mentre è bene riflettere su come gestire da
un punto di vista sociale e comunicativo quelle che possono essere definite
‘offese tollerabili’, o meglio offese che i cittadini devono (imparare a)
tollerare. La liceità dell’irrispettosità umoristica lascia aperto il problema
di una ricostituzione del rispetto reciproco, di luoghi simbolici in cui possa
essere offerta una compensazione a offese che, come nel caso delle reli- gioni,
toccano strati profondi della persona. Riconoscere che le vignette di Charlie
Hebdo possano ferire e abbiano offeso credenti di religione islamica non
significa avallare la bestialità omicida dei terroristi, né comporta quale
immediata implicazione quella di invocare lo strumento penale quale
saracinesca. È però un punto importante per avviare un riconoscimento a
soggetti che abbiano avvertito soggettivamente un’umi- liazione per la
derisione ai propri simboli, anche in virtù del fatto che si tratta di
appartenenti a gruppi deboli o comunque a minoranze180, nei confronti dei quali
l’irrisione satirica può comunque rappresentare una forma di amplificazione
della disuguaglianza di status sociale. 8. Le norme sulla propaganda razzista
in Italia: quale spazio a sentimenti? Sentimenti, pari dignità e
discriminazione rappresentano concetti che concorrono a identificare il
retroterra delle norme sulla propaganda razzista, ossia lo hate speech a sfondo
razziale che in Italia è incriminato 180 Si è osservato che l’impatto sociale
dell’irrispettosità satirica e la conse- guente tollerabilità della satira
dovrebbe essere correlata alla categoria di soggetti sui quali la satira va a
incidere: massima libertà ove l’irrisione si rivolga a soggetti che hanno una
posizione di supremazia a livello sociale, mentre più problematico appare il
caso in cui si faccia satira nei confronti di categorie deboli, specie fa-
cendo leva su stereotipi e luoghi comuni. Questo criterio, definito come frutto
di una «precomprensione egualitaria del discorso pubblico», v. CARUSO, La
libertà di espressione in azione, cit., p. 283, appare in definitiva un
bilanciamento tra il fine morale della satira e la sua ‘moralità interna’,
vista attraverso l’egida assiologica del principio di uguaglianza. Per un
interessante commento a una pronuncia del- la Corte Edu che, tramite l’art. 17
CEDU ha respinto il ricorso per violazione dell’art. 10 a seguito della
condanna di un noto comico francese per uno spettaco- lo satirico
sull’Olocausto, v. PUGLISI, La satira “negazionista” al vaglio dei giudici di
Strasburgo: alcune considerazioni in «rime sparse» sulla negazione
dell’Olocausto, in www.penalecontemporaneo.it, 2/2016, pp. 1 ss.
Fisionomia dell’offesa 199 ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della
legge n. 654 del 1975 181. Cominciamo a interrogarci su quale sia l’effettivo
rilievo del sen- timento nel richiamo all’odio quale elemento di fattispecie
dell’art. 3 della suddetta legge, il cui presupposto è la sussistenza di
un’idea di- scriminatoria fondata sulla diversità determinata da una pretesa
su- periorità razziale o da odio etnico 182. Ad una prima lettura emerge come
nel corpo della disposizione normativa il sentimento non definisca l’oggetto di
tutela, bensì rappre- senti la nota caratterizzante il tipo di espressioni che
la legge intende vietare. La prospettiva appare invertita rispetto alle norme
che abbia- mo precedentemente analizzato con riferimento agli altri
‘sentimenti- valori’ menzionati nel codice: piuttosto che parlare di tutela di
senti- menti, l’assetto delle norme tratteggia una tutela da sentimenti, in
rap- porto alla quale l’odio rappresenta lo stato affettivo da ‘disinnescare’
183. 181 In un’ottica più ampia, sono pertinenti al discorso d’odio a sfondo
razziale anche altre norme: l’apologia di genocidio di cui all’art. 8 della
legge n. 962 del 1967 e le disposizioni della c.d. ‘Legge Scelba’ che aggravano
la cornice sanziona- toria per l’apologia di fascismo nel caso in cui venga
realizzata attraverso ‘idee e metodi razzisti’. Nella letteratura penalistica,
v. AA.VV., a cura di Riondato, Di- scriminazione razziale, xenofobia, odio
religioso. Diritti fondamentali e tutela pena- le, cit.; DE FRANCESCO, Commento
a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con modif. dalla l. 25/6/1993 n. 205 – Misure
urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica, religiosa, in Leg.
pen., 1994, pp. 179 ss.; FRONZA, Osservazioni sull’attività di propa- ganda
razzista, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1997, pp. 32 ss.; VISCONTI C., Il reato
di propaganda razzista, cit., pp. 191 ss. 182 Per una panoramica sulle
applicazioni della normativa v. PAVICH-BONOMI, Reati in tema di
discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e va-
lori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di
interpretare in senso con- forme a Costituzione la normativa vigente, in
www.penalecontemporaneo.it, 10/2014, pp. 1 ss.; FERLA, L’applicazione della
finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di
Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2007, pp. 1455 ss. 183 Evidenzia la
peculiarità delle incriminazioni contro la diffusione e l’incita- mento
all’odio, rispetto al problema generale della cosiddetta ‘tutela penale di sen-
timenti’, anche ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 59 ss. In
realtà, secondo le indicazioni che emergono principalmente in ambito
anglo-americano, va considerato che l’uso del termine odio, oltre a essere
approssimativo, appare er- rato: «[w]hat has become clear is that the word
‘hate’ is really a misnomer. An of- fender need not actually hate his victim in
order to have committed a ‘hate crime’; indeed he may feel no personal hatred
towards that particular individual at all», v. WALTERS, Hate Crime and Restorative
Justice, Oxford, 2014, p. 6; cfr. PAREKH, Is There a Case for Banning Hate
Speech?, in AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate
Speech, cit., p. 40. Si veda anche PERRY, A Crime by Any Oth- er Name, cit.,
pp. 127 ss. Il concetto di ‘crimine d’odio’ sconta oltretutto un’indeter-
minatezza di fondo: si tratta di una definizione cosiddetta ‘ostensiva’, ossia
che pro- cede non attraverso un’esaustiva esplicazione del definiens (l’odio),
ma attraverso 200 Tra sentimenti ed eguale rispetto Tale
precisazione non risolve ma rilancia l’interrogativo se dietro le norme sulla
propaganda razzista si ponga effettivamente un pro- blema di sentimenti
negativi. Nelle pronunce della giurisprudenza italiana, la maggior parte del-
le quali relative all’applicabilità della circostanza aggravante (art. 3, d.l.
n. 122/1993), la risposta è negativa, in quanto è decisamente pre- valente
l’orientamento che interpreta il requisito dell’odio non come tratto affettivo
del soggetto attivo, bensì come sfondo valoriale dei contenuti espressivi e
simbolici legati alle condotte 184. Come osservato dalla Corte di Cassazione:
«non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o
religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha
ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che que- sta, per
le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si
presenti come intenzionalmente diretta e almeno poten- zialmente idonea a
rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in al- tri il suddetto,
riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in fu- turo o nell’immediato, al
concreto pericolo di comportamenti discri- minatori per ragioni di razza,
nazionalità, etnia o religione» 185. una individuazione del definiendum
(l’esempio concreto) il quale viene successiva- mente ricollegato al definiens.
Si tratta delle cosiddette definizioni mediante esempi, suscettibili di
convogliare istanze normative e culturali che tendono a ricondurre all’odio azioni
e condotte le più diverse: «[c]lassificare un gesto criminale come crimine
d’odio è compatibile in quest’ottica con un’ampia gamma di stati psicologi- ci,
dalla rabbia alla noia, alla paura; perché non parlare, allora, di “crimini di
rab- bia”? [...] Nascosto dietro al concetto di crimine d’odio sembra dunque
esserci un altro significato culturale dell’odio, ossia ciò che motiva gesti di
violenza insensata (normativamente ingiustificati) [...] l’insistenza sul
termine “odio” in una data si- tuazione, più che un fatto descrittivo, è il
riflesso dell’impegno normativo a identifi- carsi con le sventure della vittima
e a prendere le distanze dal punto di vista dell’aggressore», v.
ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro modi di pensare all’odio,
cit., p. 16. 184 Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; si vedano, ex
plurimis, Cass. pen., sez. V, 12/06/2008, n. 38217; Cass. pen., sez. V,
23/09/2008, n. 38591. Un diverso orientamento si pone a sostegno di
un’applicazione più ampia, e in particolare estesa a comprendere anche
situazioni in cui vi sia solo la presenza di soggetto attivo e vittima: «Non è,
dunque, richiesta la plateale ostentazione di tali motiva- zioni sì da
ingenerare il rischio di reiterazione di analoghi comportamenti, essen- do
sufficiente che l’azione rechi, in sé, le prescritte connotazioni,
immediatamen- te percepibili nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo al
comune sentire ed alla comune accezione dell’espressione usata» v. Cass. pen.,
sez. V, 11/07/2006, n. 37609; ulteriori pronunce sono analizzate in
PAVICH-BONOMI, Reati in tema di di- scriminazione, cit., pp. 24 ss. 185
Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; cfr. Cass. pen., sez. I, 28/02/2001,
n. 341. Fisionomia dell’offesa 201 L’orientamento della giurisprudenza
italiana sembra aderire alla concezione dello hate speech come fattore in grado
di alterare in ne- gativo il clima sociale e di inoculare il germe della
discriminazio- ne186. Non viene riservato spazio allo stato soggettivo
dell’agente né alla verifica di un’effettiva diffusione del pensiero razzista e
di un ‘contagio emotivo’, adottando un modello di intervento basato sul pe-
ricolo astratto 187 e orientato alla tutela della dignità umana 188.
Un’eloquente evocazione dei sentimenti la troviamo invece in una pronuncia
ormai datata, relativa alla legge 9 ottobre 1967 n. 962 (at- tuazione della
Convenzione internazionale per la prevenzione e la re- pressione del crimine di
Genocidio), e in particolare all’art. 8 che in- crimina l’istigazione e l’apologia
di genocidio 189. Ebbene, nel 1985 la Corte di Cassazione ebbe a definire la
ratio di tutela del reato di pro- paganda come contrasto della «intollerabile
disumanità [...] odioso culto dell’intolleranza razziale che esprime, [...]
orrore che suscita nelle coscienze civili ferite dal ri- cordo degli stermini
perpetrati dai nazisti e dai calvari tragicamente attuali di talune popolazioni
africane e asiatiche. L’idoneità della con- dotta ad integrare gli estremi del
reato non è già quella generale di un improbabile contagio di idee e di
propositi genocidiari, ma quella più 186 SPENA, La parola(-)odio.
Sovraesposizione, criminalizzazione, interpretazione dello hate speech, in
Criminalia, 2016, pp. 592 ss.; sul tema, in termini generali, cfr. WALDRON, The
Harm in Hate Speech, cit., pp. 4 ss. 187 L’assunto è presente in Cass. pen.,
sez. III, 23/06/2015, n. 36906. Un’interpre- tazione correttiva è proposta da
FRONZA, Osservazioni sul reato di propaganda raz- zista, cit., pp. 60 ss.;
cfr., per un differente percorso argomentativo volto a rico- noscere che la
propaganda di idee razziste è già di per sé concretamente pericolosa per la
dignità della persona, v. PICOTTI, Diffusione di idee razziste ed incitamento a
commettere atti di discriminazione razziale, ss., nota a Tribunale Verona,
24/02/2005, n. 2203, in Giur. merito, 9/2006, 9, pp. 1969 ss.; contra, v.
SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 221; più
ampiamente, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 64 ss. 188
Per tutti v. DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con mo- dif.
dalla l. 25/6/1993 n. 205, cit., p. 179; cfr. AMBROSETTI, Beni giuridici
tutelati e struttura delle fattispecie: aspetti problematici della normativa
penale contro la di- scriminazione razziale, in AA.VV., a cura di Riondato,
Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., p. 97; PICOTTI,
Istigazione e propaganda della discri- minazione razziale fra offesa dei
diritti fondamentali della persona e libertà di mani- festazione del pensiero,
in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio
religioso, cit., pp. 134 ss. 189 Sul tema v. CANESTRARI, voce Genocidio, in
Enciclopedia giuridica, Roma, 1985, vol. XV, pp. 3 ss. 202 Tra
sentimenti ed eguale rispetto strutturalmente semplice di manifestare
chiaramente l’incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di
Genocidio» 190. Attraverso un lessico ad alto impatto emotivo, la Corte afferma
la legittimità dell’incriminazione dell’apologia di genocidio quale argine
all’‘orrore che suscita nelle coscienze’. Si tratta del caso più emblema- tico
in cui una norma penale italiana finalizzata al contrasto al razzi- smo e alla
discriminazione viene declinata alla stregua di una vera e propria tutela di
sentimenti; un profilo che è stato puntualmente, an- corché sinteticamente,
messo in evidenza nei commenti critici della dottrina dell’epoca, che ne ha
rilevato altresì la profonda distonia con i principi enunciati dalla Corte
costituzionale in tema di apologia ed istigazione, del tutto disattesi dalla
pronuncia della Cassazione 191. Tale orientamento rimane un caso isolato
nell’ambito della esigua giurisprudenza, e viene espressamente sconfessato
dall’unica pronun- cia successiva, ad opera della Corte di Assise di Milano che
ne confu- ta l’intero impianto motivazionale al fine di restringere
l’operatività della norma alle sole ipotesi in cui l’apologia sia una «forma di
istiga- zione indiretta, caratterizzata dalla nota interna che in essa
l’induzio- ne alla commissione di un certo fatto si realizza attraverso
l’esalta- zione di un fatto analogo» 192. 8.1. Il discorso razzista fra
estremismo politico e insulto discri- minatorio Veniamo infine ad analizzare
alcuni profili di ermeneutica del fat- to che ricorrono nell’analisi della
casistica sul discorso razzista. La giurisprudenza specifica che affinché siano
integrati gli estremi del- l’espressione discriminatoria deve trattarsi di
«consapevole esterio- rizzazione di un sentimento di avversione o di
discriminazione fon- data su di un pregiudizio» 193: ma cosa consente di
distinguere a livel- lo ‘esteriore’ una critica da un pregiudizio? 190 Cass.
pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II, p. 22. La vicenda è
relativa all’esposizione di striscioni inneggianti all’Olocausto durante una
manife- stazione sportiva: ‘Mathausen reggia degli ebrei’, ‘Una cento mille
Mathausen’, ‘Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato’. 191
FIANDACA, nota a Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II,
p. 21. 192 Corte di Assise di Milano, 14/11/2001, in Ius explorer. 193 Cass.
pen., sez. V., 11/07/2006, n. 37609. Fisionomia dell’offesa 203
Nelle applicazioni della norma sulla propaganda razzista la giuri- sprudenza ha
più volte adoperato il criterio basato sulla distinzione fra considerazioni che
fanno leva sulla diffusione di determinati com- portamenti presso determinate
etnie, e l’offesa all’etnia tramite inde- bite generalizzazioni. Risultano
particolarmente problematiche le vicende riguardanti contesti di dialettica
politica, nei quali è frequente il ricorso a stereo- tipi che, a seconda delle
circostanze, possono assumere le vesti di veri e propri pregiudizi
discriminatori. Il processo ai leghisti di Verona rappresenta un significativo
leading case: sinteticamente, il fatto ri- guarda l’iniziativa di alcuni
consiglieri comunali finalizzata a manda- re via gli zingari dal comune
scaligero attraverso un coinvolgimento della popolazione allertata da un
volantino che recitava ‘No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli
zingari’ 194. Fra le diverse questioni affrontate dai giudici, è importante ai
fini della presente indagine rilevare quanto osservato dalla Corte di Cas-
sazione in occasione dell’ordinanza di annullamento con rinvio: «La discriminazione
[...] si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo, ecc.) e
non sui comportamenti. La discrimina- zione per l’altrui diversità è cosa
diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. In definitiva un
soggetto può anche essere legitti- mamente discriminato per il suo
comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso» 195. Tale trend
interpretativo rimane costante nella giurisprudenza successiva avente ad
oggetto le dichiarazioni di soggetti politici nel- l’ambito dell’attività
istituzionale e della campagna elettorale 196. Emer- gono tuttavia notevoli
criticità in una recente pronuncia della Corte di Cassazione riguardante una
condanna della Corte di Appello di Trieste per un volantino di promozione
elettorale stampato e diffuso in occasione delle elezioni per il rinnovo del
Parlamento Europeo, il quale secondo i giudici di merito 194 Un riassunto della
vicenda in CARUSO, Dialettica della libertà di espressione: il “caso Tosi” e la
propaganda di idee razziste, in AA.VV., a cura di Tega, Le discri- minazioni
razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, Roma, 2011, pp. 133 ss.; si
veda anche VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista, cit., pp. 193 ss. 195
Cass. pen., sez. III, 28/03/2008, n. 13284. 196 Cass. pen., sez. I, 22/11/2012,
n. 47894; Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906. 204 Tra
sentimenti ed eguale rispetto «propagandava idee fondate sulla superiorità di
una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo ricorso, in particolare,
allo slogan “basta usurai – basta stranieri” con sottinteso, ma evidente
riferimen- to a persona di religione ebraica ed esplicito riferimento a persone
di nazionalità non comunitaria e, sul retro del volantino, alla rappresen-
tazione grafica esplicativa dello slogan di un’Italia assediata da sogget- ti
di colore dediti allo spaccio di stupefacenti, da un Abramo Lincoln attorniato
da dollari, da un cinese produttore di merce scadente, da una donna e un
bambino Rom sporchi e pronti a depredare e da un soggetto musulmano con una
cintura formata da candelotti di dinami- te pronti per un attentato
terroristico» 197. La Corte di Cassazione dispone l’annullamento senza rinvio
per- ché il fatto non sussiste, argomentando proprio sulla base dell’asse- rita
differenza del caso trattato rispetto alla condanna dei leghisti ve- neti, nel
quale, secondo la Corte, appariva invece palese la discrimi- nazione degli
zingari per il solo fatto di essere tali, in quanto il do- cumento diffuso non
indicava alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento, mentre il
diverso caso in esame, «ad avviso del Collegio, in maniera alquanto grossolana,
vuole veicola- re un messaggio di avversione politica verso una serie di
comporta- menti illeciti che, con una generalizzazione che appare una forzatura
anche agli occhi del destinatario più sprovveduto, vengono attribuiti a
soggetti appartenenti a determinate razze o etnie: il cinese che vende prodotti
contraffatti, l’uomo di colore che spaccia stupefacenti, la rom che tenta di rapire
il bambino, l’arabo che si fa esplodere in un atten- tato terroristico. E poi
Abramo Lincoln, con i suoi dollari, a rappre- sentare la finanza e le banche,
probabilmente da mettere in relazione alla scritta “basta usurai”». 197 Cass.
pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906: secondo la descrizione riportata in
sentenza, «su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota
S.”, sotto la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI,
BASTA STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale
– Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco “
S.”. Più in basso, l’URL del blog del candidato [...]; sull’altro lato, in alto
la scritta: “Elezioni Europee 6-7 giugno 2009 DIFENDI L’ITALIA – VOTA S.”. Più
sotto, sei caricature che raffigurano: a) un cittadino dai tratti somatici
asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un Abramo Lincoln con tanti
dollari che gli svolaz- zano intorno; c) un uomo di colore che offre droga; d)
un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a farsi esplodere; e)
una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una mendicante rom
che allunga le mani in dire- zione dello stesso. Fisionomia
dell’offesa 205 Non sono però solo considerazioni legate al merito delle
afferma- zioni, definite ‘grossolane’, a far propendere la Corte verso un
atteg- giamento di indulgenza, bensì risulta decisiva l’analisi del quadro
contestuale e in particolare il particolare clima nel quale si svolgono le competizioni
elettorali. Ora, la condivisibile apertura della Corte a una lettura dei fatti
il più possibile aperta alla valutazione di tutti i fattori di contesto e alle
prassi comunicative, anche quelle meno ortodosse, conferma in pri- mo luogo il
carattere storicamente e socialmente condizionato delle soglie di liceità e di
tollerabilità del discorso pubblico. Sul merito dell’interpretazione offerta
dal Collegio, possiamo rite- nere avverato il vaticinio di Costantino Visconti
riguardo l’elevata complessità di scindere, a livello di critica, la persona
dal proprio comportamento: la nitidezza della distinzione è solo apparente, in
quanto vi sono ambiti in cui il discorrere sulle differenze in rapporto a un
contesto pluralistico e multiculturale può condurre a un punto in cui «il
profilo della “diversità” in sé e quello dei “comportamenti” costituiscono un
tutt’uno, e non è possibile, né verosimilmente avreb- be senso separarli» 198.
In relazione a tale profilo, l’argomentazione dei giudici appare frettolosa e superficiale.
Ciò che desta a nostro avviso perplessità non è tanto l’esito assolu- torio, il
quale, pur opinabile, può trovare ragioni in un complessivo atteggiamento di
favor libertatis; sorprende però che sia la stessa Cor- te ad riconoscere che
«[s]iamo di fronte, evidentemente, ad un mes- saggio politico che risente di un
pregiudizio per cui determinate atti- vità delittuose vengono poste in essere
prevalentemente dai membri di determinate etnie». Ebbene, parlare di
pregiudizio evoca una connessione immediata con la discriminazione199: come
ammonisce Norberto Bobbio, «la conseguenza principale del pregiudizio di gruppo
è la discriminazio- ne»200. In altri termini, quanto affermato dalla Corte
depone per un 198 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 151 ss. Abel
osserva che «è impossibile distinguere le espressioni illegittime
dall’opportunismo di routine dei politici quando vanno incontro ai pregiudizi
popolari», v. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 199 Il legame tra
pregiudizio e discriminazione non deve tuttavia portare a in- ferire
automaticamente la sussistenza di un atteggiamento razzista: pregiudizio e
razzismo, per quanto connessi, non sono sovrapponibili, ma si tratta di
concetti distinti, v. RAVENNA, Odiare, cit., p. 87. 200 Per tutti, BOBBIO,
Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, 2010, pp. 111 ss.
206 Tra sentimenti ed eguale rispetto univoco accostamento delle opinioni
del volantino al pensiero di- scriminatorio: sono frutto di pregiudizi
razziali. Difficile a questo punto negarne il disvalore, quantomeno se si abbia
a cuore un certo rigore concettuale. L’atteggiamento della Corte lascia
perplessi, in quanto la circo- stanza legittimante l’esercizio della libertà di
espressione è così espli- cata: «si tratta, peraltro, di un pregiudizio che da
sempre viene agita- to nelle campagne elettorali al fine di recuperare consenso
in situa- zioni locali in cui da parte dell’elettorato viene una richiesta di
mag- giore sicurezza» 201. Un’indulgenza indotta dalla consuetudine: ma quale
dovrebbe es- sere il ruolo del diritto penale in rapporto a prassi comunicative
be- cere? La constatazione di una degradazione del linguaggio e di una
brutalizzazione della dialettica in ambito politico è una buona ragio- ne per
chiudere un occhio di fronte a casi come quello preso in e- same? La risposta
travalica i confini della questione e riporta all’inter- rogativo se il diritto
penale debba limitarsi a un’azione di conserva- zione dei valori o possa anche
costituire uno strumento di ‘pedagogia sociale’. Resta il dubbio se in questo
caso l’atteggiamento della Corte di Cassazione sia da avallare per essersi
astenuta dal sindacare il me- rito di un discorso politico, o sia invece da
criticare per non aver adeguatamente stigmatizzato la diffusione di pensieri
offensivi che essa stessa ha implicitamente ammesso essere frutto di pregiudizi
a base razziale. 9. Sinossi La connessione fra tutela di sentimenti e rispetto
reciproco risulta particolarmente evidente nella dialettica avente ad oggetto
argomenti ad alto tasso emotivo, dove vengono in gioco ‘appartenenze significa-
tive’ dell’individuo. Nell’attuale scenario socio-politico del mondo oc-
cidentale gran parte dei conflitti orbitano intorno al tema dell’appar- tenenza
etnica, della fede religiosa, della identità e pari dignità ses- suale. Fra le
ragioni dell’effetto emotigeno vi è il fatto che nel discorso 201 Tale
principio viene esplicitato anche in Cass. pen., sez. III, 13/12/2007, n.
13234. Fisionomia dell’offesa 207 concernente le appartenenze
possono emergere problemi di mancato riconoscimento dell’altro e di
categorizzazioni denigratorie. Ne deri- va l’esigenza di distinguere fra
espressioni di mera critica o irrisione, pur emotivamente fastidiose ma
comunque espressione della libertà del dissenso, da forme di diniego del
riconoscimento: la priorità poli- tica è la dimensione del rispetto definita
‘rispetto-riconoscimento’, diversa dal ‘rispetto-stima’. L’eguale
rispetto-riconoscimento costituisce la ricaduta relaziona- le più immediata del
valore della dignità umana. Per quanto tale ri- chiamo possa risultare
problematico agli occhi del penalista, esso rappresenta comunque una bussola
assiologica se ci si impegni a modularne l’uso attraverso una lettura non
metafisico-concettuali- stica ma volta a identificarne le proiezioni
relazionali ed esistenziali, ad esempio attraverso la cosiddetta ‘teoria delle
capacità’ elaborata da Martha Nussbaum. Il non facile obiettivo di bilanciare
istanze di libertà e richieste di rispetto porta a identificare un livello
minimo di protezione il quale sembra poter coincidere con l’esigenza di non
essere umiliati e poter essere trattati come persona dignitosa il cui valore
eguaglia quello al- trui. Nell’approfondimento del concetto di ‘umiliazione’,
viene rimarca- ta l’esigenza di distinguere fra espressioni di insulto ed
espressioni che umiliano. La distinzione, comunque afferrabile sul piano
concet- tuale, appare sfumare nei suoi contorni essenziali al momento delle
applicazioni in ambito giuridico: il processo interpretativo dipende in larga
misura dall’ermeneutica del fatto, ossia dai diversi significati che
determinate espressioni possono assumere a seconda dei contesti e dei soggetti
coinvolti, e si espone a precomprensioni e a usi poco sorvegliati di inferenze
logiche e valoriali. Un rapido riscontro relativo alle norme italiane a tutela
del senti- mento religioso e della pari dignità mostra come il richiamo a
senti- menti sia residuale nelle argomentazioni della giurisprudenza: pre-
sente in minima parte nelle forme di vilipendio, comunque ancorate a un modello
di tutela incentrato sulla religione piuttosto che sulla dignità del credente,
e assente con riguardo alla normativa sul di- scorso razzista. Un ambito,
quest’ultimo, nel quale meritano partico- lare attenzione, quale esempio di
ermeneutica del fatto, le argomen- tazioni elaborate per tracciare la linea di
confine fra discorso politico ‘estremo’ e discorso discriminatorio.
208 Tra sentimenti ed eguale rispetto CAPITOLO VI DILEMMI SOMMARIO:
1. ‘Tutela di sentimenti’: una formula a più significati. – 1.1. Oltre la
prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle
libertà. – 1.2. Tutela da sentimenti. – 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà
umana dei con- flitti. – 2.1. Dissensi ed estremismo. – 3. Quale ruolo per il
diritto penale? – 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica. –
3.2. Precetti ‘pedago- gici’? – 4. Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: una
formula a più significati Cerchiamo di riannodare le fila di un discorso che ha
preso le mosse dall’esigenza di riservare attenzione ai rapporti fra
sentimenti, emozioni e diritto penale non solo come problema esegetico-inter-
pretativo ma, più radicalmente, come coordinata per la riflessione sull’essere
e sul dover essere del diritto penale. L’osservazione di Mar- tha Nussbaum
posta in epigrafe al I capitolo ci ricorda che uno sguardo alla dimensione
affettiva è fondamentale per non perdere di vista il substrato umano dei
problemi e soprattutto gli aspetti di vul- nerabilità della persona che possono
motivare il ricorso allo strumen- to giuridico. Parlare di tutela di sentimenti
rimanda al problema del rispetto per le diversità coesistenti nella società
pluralista: alla varietà di pre- ferenze e di assiologie personali. Il sentimento
viene in gioco non semplicemente come stato psicologico, ma in termini
normativi qua- le richiamo metonimico al ‘tutto della persona’ e al valore di
cui sen- timenti ed emozioni rappresentano il correlato fenomenico, ossia la
personalità e l’‘unicità’ del singolo. L’eventuale orizzonte di tutela dovrebbe
in questo senso focaliz- zarsi non su risvolti contenutistici di stati
affettivi o su oggetti (ideali, concezioni, fedi) caratterizzati da peculiari
connotazioni valoriali, ma assumere a riferimento eventuali attacchi alla
persona che adope- 210 Tra sentimenti ed eguale rispetto rino
strumentalmente il sentimento (rectius, il modo d’essere e l’iden- tità
dell’individuo) come fattore degradante per la negazione della pa- ri dignità
1. Abbiamo individuato nell’eguale e reciproco rispetto-riconosci- mento
l’atteggiamento che meglio si presta a definire sia il dover es- sere dei
rapporti fra singoli, sia la tendenziale equidistanza che do- vrebbe
caratterizzare eventuali interventi normativi 2. Sarebbe corretto parlare di
eguale rispetto come ‘bene giuridico’, per riportare il discorso sul piano dei
concetti endopenalistici? Al di là della scarsa risolutività che una tale
formula assumerebbe sul pia- no teoretico, la sostanza dei problemi appare diversa:
in primo luogo il rispetto non definisce un oggetto di tutela a sé stante ma si
pone piuttosto come parametro per valutare sia i rapporti tra singoli sia la
qualità di eventuali risposte normative che abbiano come riferimento
finalistico la tutela della persona. In secondo luogo, quando si analizzano le
dimensioni sociologica, psicologica e filosofica del rispetto emerge una
complessità che non appare comprimibile e ‘isolabile’ nell’involucro
concettuale che si è soliti definire ‘bene giuridico’3. Possiamo sì parlare di
‘diritto al ri- 1 Cfr. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 44.
2 Nelle moderne democrazie liberali, le ricadute effettuali del valore del
rispet- to-riconoscimento coinvolgono due differenti profili. In primo luogo
l’atteggia- mento dello Stato verso i cittadini: il rispetto-riconoscimento è
da intendersi co- me aspetto complementare del principio di eguaglianza,
indicando l’approccio che la normazione statuale dovrebbe assumere nei rapporti
con le diverse voci dello scenario pluralista e nelle dinamiche fra maggioranze
minoranze: «l’eguale rispetto appare in questa luce come una generalizzazione
della dignità e dell’ono- re [...] è come l’esito di un processo di
costituzione di una comunità di pari, di una comunità di mutuo riconoscimento:
la comunità dell’eguale status di cittadi- nanza» v. VECA, Dizionario minimo.
Le parole della filosofia per una convivenza democratica, Milano, 2009, p. 123;
per uno studio sul tema delle discriminazioni attuate verso individui o gruppi mediante
lo strumento giuridico, v. SALARDI, Di- scriminazioni, linguaggio e diritto.
Profili teorico-giuridici, Torino, 2015, pp. 105 ss.; per un quadro, e
un’analisi critica, di interventi normativi nel contesto italia- no che
sembrano potersi definire come ‘discriminatori’, v. BARTOLI C., Razzisti per
legge. L’Italia che discrimina, Roma-Bari, 2012, pp. 61 ss.; per un
approfondimen- to sull’atteggiamento della Corte costituzionale in rapporto a
questioni in cui so- no venuti in gioco profili di discriminazione, v. DODARO,
Uguaglianza e diritto pe- nale, cit., pp. 30 ss.; 382 ss. 3 Sono numerose le
voci che nella dottrina italiana hanno constatato la crisi di tale costrutto
teorico. In termini generali v., per tutti, FIANDACA, Sul bene giuridi- co,
cit., pp. 145 ss.; in relazione a profili più specifici è stato acclarato il
«ruolo di strumento metodologico di chiarificazione concettuale più che di base
cogente- mente normativa delle scelte di criminalizzazione», così PALAZZO,
Tendenze e pro- Dilemmi 211 spetto’ per descrivere l’interesse
della persona a non essere offesa, ma si tratta di una formula da prendere con
cautela e che necessita di specificazioni. Il filosofo Stephen Darwall osserva
che rispettare un individuo si- gnifica prendere sul serio le sue richieste e
le sue aspettative sul pia- no morale in forza non di un dovere impersonale ed
esterno alla rela- zione, bensì in virtù dell’autorità morale che è inerente
alla persona stessa, alla quale si deve rispetto per ragioni di uguaglianza
(c.d. ‘ri- spetto in seconda persona’). In altri termini, le richieste di
rispetto traggono legittimazione morale dalla persona in sé, ed è la persona ad
essere destinataria dell’atteggiamento di riguardo fondato sull’ugua- glianza
di status nella relazione di reciprocità 4. Di fondamentale importanza è lo
sviluppo che Anna Elisabetta Galeotti ha dato al pensiero di Darwall,
contribuendo a illuminare la distinzione tra rispetto e diritti. Riportiamo per
esteso un importante passaggio: «Quando si dice “tutti hanno diritto di essere
rispettati dagli altri” non stiamo parlando di diritto in senso proprio, perché
il diritto al rispetto non ha uno specifico contenuto. Certamente di fronte a
una violazione di diritti, si dice che il trasgressore non ha rispettato il
titolare di dirit- ti. Però non possiamo concludere che il rispetto sia una
qualificazione dell’ottemperamento dei diritti tale che, ogni qualvolta una
persona fa il proprio dovere verso qualcun altro, il rispetto si manifesta come
una qualità intrinseca e inestricabile del dovere morale ottemperato. Non
possiamo concludere in quel modo perché, tra le altre cose, non siamo contenti
di essere rispettati per dovere. [...] Il fatto è che non solo non vogliamo
essere rispettati per un dovere in terza persona, ma neanche spettive nella
tutela penale della persona umana, in AA.VV., a cura di Fioravanti, La tutela
penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, p.
405. Altri Autori hanno evidenziato la dissoluzione della funzione critica, sul
presup- posto della negazione di una preesistenza dei beni oggetto di tutela
alle scelte del legislatore, v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?,
cit., pp. 75 ss., rimar- cando inoltre l’appannamento della capacità
descrittiva del concetto, e suggeren- done una dismissione o un sostanzioso
restyling, v. FORTI, Le tinte forti del dissen- so, cit., pp. 1057 ss. Si veda
anche PALIERO, La laicità penale, cit., pp. 1184 ss., il quale rimarca il
perdurante ruolo di orientamento del ‘bene giuridico’ in rapporto al formante
legislativo e giurisprudenziale, pur confermando la crisi sostanziale del
costrutto in relazione ai suoi confini. 4 DARWALL, Respect and the
Second-Person Standpoint, in 78 Proceedings and Addresses of the American
Philosophical Association, 2004, pp. 43 ss. Si è osservato che «il
rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamento verso una persona, prima
ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non
umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p.
210. 212 Tra sentimenti ed eguale rispetto per uno in seconda
persona. Non vogliamo essere rispettati per dovere, punto e basta. In effetti
credo che la prospettiva diritti/doveri collassi sempre in qualche forma di
morale impersonale che non soddisfa pro- priamente le nostre aspettative circa
l’essere rispettati [...] La richiesta reciproca di rispetto pur se avanzata in
termine di diritto non può mai essere soddisfatta per dovere, anche se ciascuno
di noi ha l’obbligo di ri- spettare gli altri. [...] La mancanza di rispetto
non si rimedia attraverso l’imposizione di rispettare gli altri, ma solo
attraverso una comprensio- ne autentica di ciò che la richiesta reciproca
implica. Solo allora chi ha mancato di rispetto può riparare il suo torto, non
già facendo per dove- re qualche atto, ma riconoscendo la propria mancanza e
riparando l’offesa con un atto individualizzante di riconoscimento» 5. La
natura del rispetto ‘in seconda persona’ implica che il rapporto di reciproco
riconoscimento debba avvenire tramite un atto ‘indivi- dualizzante’, la cui
sostanza è quella di dare valore morale a un sog- getto considerandolo nella
sua concretezza di persona umana, non dunque come mera proiezione di una comune
appartenenza di gene- re che prescinde dalle particolarità che lo
caratterizzano 6. Un realistico disincanto suggerisce a questo punto una
constatazio- ne: il rispetto, inteso come disposizione comportamentale
dell’individuo, non è coercibile: «[l]a prospettiva dei diritti e dei doveri è
una prospettiva impersonale, che non soddisfa compiutamente le aspettative di
ricono- scimento e rispetto morale»7. Non le soddisfa perché se il rispetto
deve essere ‘in seconda persona’, un eventuale divieto rappresenta invece una
fonte eteronoma di doveri. Un rispetto giuridicamente imposto può es- sere una
componente importante negli equilibri della convivenza, ma non esaurisce lo
spazio morale delle relazioni e soprattutto non è da considerarsi strumento
prioritario da un punto di vista politico. Rispettare le persone, e rispettarsi
fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni
soggettive sulle quali influi- scono strumenti di controllo sociale fra i quali
può rientrare anche, eventualmente, il diritto penale; ma se prendiamo sul
serio la matrice affettiva dell’atteggiamento di rispetto8, e dunque la sua
natura an- 5 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., pp. 92 s. 6 Questa
diversa prospettiva dell’atteggiamento di rispetto viene approfondita in
GALEOTTI, Rispetto come riconoscimento, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti-
Ottonelli, Eguale rispetto, cit., pp. 26 ss. 7 PULITANÒ, Introduzione alla
parte speciale, cit., p. 43. 8 BAGNOLI, L’autorità della morale, cit., pp. 21
ss.; MORDACCI, Rispetto, cit., pp. 100 ss. Dilemmi 213 che di
sentimento, ne consegue che l’obiettivo del rispetto per le per- sone discende
in primo luogo dalle possibilità di uno sviluppo sogget- tivo di tale sentire
9. Emerge un’importante indicazione per definire il progetto norma- tivo della
‘tutela di sentimenti’: la strategia dei divieti è del tutto resi- duale, certo
non prioritaria. Il giurista penale è portato a pensare al concetto di tutela
prevalentemente in chiave negativa o ‘difensiva’, come protezione di un dato
oggetto da danni o da pericoli, ma si trat- ta di un’accezione che rispetto ai
problemi in esame appare limitante, e che è preferibile scorporare in
traiettorie differenti. Possiamo individuare una prima prospettiva che declina
il concet- to di tutela come agire positivo, un ‘aver cura’ di sentimenti ed
emo- zioni nella dimensione sociale, inteso come ‘coltivazione’10 di atteg-
giamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco ri- spetto.
1.1. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata
sulle libertà ‘Cura dei sentimenti’ è un concetto estraneo al tradizionale
reper- torio di categorie non solo penalistiche, ma più in generale giuridi-
che. Perché si dovrebbe aver cura dei sentimenti nella società con- temporanea?
Una eloquente risposta è fornita da Martha Nussbaum in una cri- tica al
pensiero liberale, reo di non aver adeguatamente tenuto in con- siderazione
sentimenti ed emozioni, vedendoli come destabilizzanti e più confacenti a
visioni politiche orientate in senso populista, ai fa- scismi e alle forme dittatoriali
11: «C’è chi pensa che soltanto le società fasciste o “aggressive” siano in-
tensamente emotive e che solo tali società abbiano bisogno di coltiva- re
emozioni. Sono convinzioni sbagliate e pericolose. [...] Cedere sul terreno
delle emozioni, permettere che le forze illiberali vi trovino 9 «Non basta dare
l’ordine di farlo perché la gente sia trattata effettivamente con rispetto. Il
riconoscimento reciproco va negoziato, e questo vuol dire coinvol- gere in
tutta la loro complessità il carattere degli individui tanto quanto la strut-
tura sociale», v. SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali,
tr. it., a cura di Turnaturi, Bologna, 2009, pp. 254 s. 10 Traggo questo
termine dal lessico di Martha Nussbaum. 11 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit.,
pp. 7 ss. 214 Tra sentimenti ed eguale rispetto spazio significa
dare loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste
pensino ai valori liberali come a qualcosa di noioso e inefficace. Tutti i
principi politici, buoni e cattivi, necessitano di supporto emotivo per
consolidarsi nel tempo, e ogni società giusta deve guardarsi dalle divisioni e
dalle gerarchie coltivando sentimenti appropriati di amore e simpatia» 12. La
critica di fondo della studiosa statunitense si può articolare in due profili.
Su un piano filosofico, l’ambizione a un liberalismo politico (il quale cioè
cerchi di mantenere una tendenziale equidistanza senza promuovere una
particolare concezione del bene) avrebbe prodotto teorizzazioni eccessivamente asettiche
sul piano dei valori, o comun- que non adeguatamente esplicite nell’affermare
il sostegno a un pac- chetto di principi 13. Conseguentemente, l’immagine di un
liberalismo troppo preoccu- pato di presentarsi come neutrale14 ha
disincentivato la riflessione sulle ragioni delle scelte valoriali degli
individui 15, trascurando le emo- zioni e i sentimenti come fattori che
influenzano gli atteggiamenti verso i valori. La seconda carenza di fondo è non
aver adeguatamente riflettuto sulla ‘psicologia di una società dignitosa’16.
Secondo la Nussbaum è fondamentale che una riflessione filosofico-politica
prenda le mosse dalla psicologia umana, che cerchi chiavi di comprensione dei
com- portamenti per evitare di elaborare teorie fondate su immagini ste- reotipate
dell’essere umano. Lo studio delle emozioni e dei sentimen- 12 NUSSBAUM,
Emozioni politiche, cit., p. 8 13 Secondo la Nussbaum, quando invece i liberali
hanno tentato di addivenire a un liberalismo più ‘comprensivo’, si è arrivati a
teorizzare una sorta di ‘religione civile’, ossia pacchetti di principi non
adeguatamente inclusivi, bensì escludenti (come esempi vengono riportati la
religione civile di Mill e Comte). 14 Nel panorama statunitense la critica al
tentativo liberale di mostrarsi come asseritamente neutrale ha avuto ad oggetto
anche il pensiero penalistico, visto come del tutto incentrato sul piano
funzionalistico e consequenzialistico, e ten- dente non offrire il giusto
risalto alla componente valoriale nella definizione del danno e della responsabilità,
v. KAHAN, Two Liberal Fallacies, cit., pp. 190 ss. 15 Vedi supra, cap. IV, nota
60. 16 Da tale critica non sono esenti pensatori fra i più importanti della
tradizione liberale, con la sola esclusione di John Rawls, al quale si deve,
nello studio intito- lato ‘Giustizia come equità’, un fondamentale richiamo
alla ‘psicologia morale ra- gionevole’, v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit.,
p. 10; cfr. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it., a cura
di Veca, Milano, 2002, pp. 217 ss. Dilemmi 215 ti si pone in questo
senso come passo per identificare matrici di at- teggiamenti di pensiero e di
comportamenti che possono rivelarsi problematici, e vieppiù dissonanti, in
rapporto ai principi liberali. Il buon uso pubblico delle emozioni costituisce
il nucleo di una strategia politica che riconosce al fattore affettivo una
peculiare forza normativa e una salienza morale le quali dovrebbero contribuire
a dare sostanza e a ‘vivificare’ i principi guida del paradigma liberale 17
attraverso un intelligente stimolo delle coscienze basato su virtuose
interazioni con la sfera emotiva18. Si configura in questo senso un vero e
proprio progetto culturale volto a ‘reinventare la religione civi- le’ 19, e a
rendere la compagine sociale permeabile a emozioni positive al fine di dare al
rispetto reciproco una dimensione più pregnante 20. Solo a uno sguardo
superficiale la teorizzazione di Martha Nus- sbaum potrebbe risultare
accomunabile a una sorta di moralismo au- toritario, come tentativo di porre le
fondamenta di un ‘pensiero uni- co’. La studiosa, consapevolmente, ne prende le
distanze: «[u]na cul- tura critica vigile è [...] fondamentale per la stabilità
dei valori libera- li. Un’intensa cura delle emozioni può coesistere, anche se
talvolta a fatica, con la presenza di uno spazio critico aperto» 21. Una simile
prospettiva sembra di primo acchito esulare rispetto al campo del diritto
penale. In verità essa contiene un messaggio impor- tante anche per la
prospettiva penalistica: la ‘cura’ dei sentimenti de- 17 Da questo punto di
vista, il percorso additato dalla Nussbaum pare potersi accostare a obiezioni
critiche di altri Autori che hanno rimproverato al pensiero liberale
un’eccessiva ‘asetticità’: in altri termini, un punto di vista troppo
restritti- vo e ‘astensionistico’ dal punto di vista etico, a esclusivo
vantaggio della prospet- tiva di giustizia e a detrimento di una riflessione
sul bene, sia collettivo sia indivi- duale, v., per tutti, DWORKIN, I
fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 12 ss. 18 «Un progetto politico
normativo si legittima se può essere stabile. Le emo- zioni sono interessanti
perché giocano un ruolo in questa stabilità» NUSSBAUM, Emozioni politiche,
cit., p. 24. Le strategie proposte da Martha Nussbaum si ba- sano su esempi
tratti dalla storia recente: discorsi pubblici, sostegno alle arti, educazione
alla lettura e alla frequentazione di testi letterari sono alcune delle parti
di un vasto programma che la studiosa pone come base per favorire lo svi- luppo
di un ‘sentire democratico’, predisponente all’ascolto reciproco e alla capa-
cità di immedesimarsi nell’altro, per stimolare negli individui emozioni
consone ai valori liberali e per tenere di conseguenza sotto controllo la
tendenza «radicata in tutta la società e, in ultima analisi, in tutti noi, a
proteggere un Sé fragile deni- grando e mettendo in secondo piano gli altri»,
v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 9, 311 ss., 384 ss., 431 ss. 19
NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 453. 20 NUSSBAUM, Emozioni politiche,
cit., p. 455. 21 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 155. 216
Tra sentimenti ed eguale rispetto finisce un progetto che dà priorità alle
libertà, alla promozione di una dialettica pubblica aperta al confronto anche
aspro fra le idee, volta a creare per i cittadini la possibilità di costruzione
di un’identità dialogica. 1.2. Tutela da sentimenti Da un altro lato, si pone
il problema di quale strategia politico- sociale debba adottarsi di fronte a
spinte emotive negative: vi sono emozioni e sentimenti per i quali si può porre
un problema di tutela non nel senso di ‘cura’, bensì in termini opposti, come
presidio disin- centivante che definiamo ‘tutela da sentimenti’. Si tratta
della pro- spettiva più suscettibile di creare tensioni con i diritti di libertà,
e che riguarda in modo più diretto l’eventuale coinvolgimento dello stru- mento
penale. È abbastanza immediato pensare all’odio come atteggiamento emotivo che
contrasta con l’eguale rispetto; esso rappresenta già oggi, a prescindere dalla
concreta rilevanza assunta in fase applicativa, l’elemento caratterizzante
condotte che molti ordinamenti vietano sotto l’appellativo di hate speech e
hate crimes. Si tratta di un nucleo di atteggiamenti che, per quanto non
definiti esaustivamente dalle fonti normative, presentano quale minimo comune
denominatore l’avversione verso gruppi e categorie di persone che patiscono una
debolezza e una marginalizzazione socialmente significativa 22. La formula
‘tutela da sentimenti’ può assumere un significato più esteso dell’accezione
descrittiva degli ambiti normativi di contrasto all’odio: la si potrebbe
intendere come istanza focalizzata non su at- teggiamenti emozionali definiti,
bensì funzionale alla messa a tema di profili inerenti, più in generale, la
dimensione psico-sociale delle matrici e delle ragioni dei dissensi. In altri
termini, un’istanza che riassume l’esortazione all’approfondimento della
‘psicologia di una società dignitosa’. Parlare di odio come tratto univocamente
identificativo di manife- stazioni offensive è un’approssimazione che rischia
di peccare per eccesso. Anche nella quotidianità emerge come l’odio venga usato
per definire e per connotare atteggiamenti di dissenso radicale frequen-
temente riscontrabili nel contesto mediatico: ad esempio, in riferi- mento
all’ambiente dei social network, si parla frequentemente di 22 SPENA, La
parola(-)odio, cit., pp. 598 ss. Dilemmi 217 ‘haters’23, ossia
‘odiatori’, termine col quale si indicano soggetti che aggrediscono verbalmente
gli altri internauti escludendo ogni possi- bile approccio di mediazione con
l’interlocutore. L’atteggiamento emotivo che definiamo ‘odio’ appare
particolar- mente sovraesposto; la tendenza a focalizzare l’attenzione su di
esso può però indurre a trascurare il ruolo di ulteriori atteggiamenti emo-
tivi, altrettanto meritevoli di attenzione come fattori di degradazione del
discorso e della dialettica pubblica24. In altri termini, la realtà
psico-sociale è probabilmente più complessa e stratificata e le con-
trapposizioni anche estreme non dovrebbero essere ricondotte tout court
all’odio, il quale è forse una componente che, se presa sul serio, potrebbe
essere residuale in rapporto ad altri atteggiamenti antago- nisti dell’eguale
rispetto, quali rabbia, paura, vergogna, invidia, di- sgusto 25: più diffusi, e
difficili da riconoscere e da ammettere, anche nei confronti di sé stessi. A
nostro avviso si pone l’esigenza di pensare alla tutela da senti- menti come
istanza normativa che suggerisca di «coltivare una certa attenzione verso i
fattori in grado di favorire la conoscenza [delle] li- bertà e le condizioni
che permettono di farne concretamente uso», individuando come punto nodale
della questione l’interrogativo sui «margini di flessibilità di cui dispongono,
di fatto, e soprattutto di cui hanno reale coscienza, le persone
nell’espressione di un “dissenso” rispetto al senso, o meglio, ai sensi che
vengono trasmessi nei rispet- tivi contesti di vita 26». In altri termini, il
giurista penale deve oggi considerare che per la 23 Una panoramica in ZICCARDI,
L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Milano, 2016, pp. 15 ss.
24 Si tratta di ‘odiatori’ o semplicemente di ‘stupidi’? L’equiparazione fra
intol- leranza, specie in ambito razziale, e stupidità, proposta in un breve
saggio sul- l’analisi psicologica del razzismo ad opera di BLUM, Razzismo e
stupidità, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre
dell’anima, cit., pp. 87 ss., sembra da un lato suggerire il ridimensionamento
della portata di un ri- chiamo all’odio quale matrice dell’intolleranza, e
dall’altro lato sposta sul piano culturale e della decostruzione dialettica,
soprattutto tramite lo strumento del- l’ironia, il contrasto al discorso
razzista (pp. 90 ss.). 25 Rabbia e odio sono due emozioni autonome, per quanto
non prive di forti connessioni. Osserva RAVENNA, Odiare, cit., pp. 20 ss., che
la rabbia è sperimenta- ta più di frequente rispetto all’odio, e che
quest’ultimo presenta delle caratteristi- che peculiari che lo rendono
distinguibile sia a livello psicologico che psico- sociale. Sul ruolo
politicamente negativo della vergogna, dell’invidia e del disgu- sto v., per
tutti, NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 311 ss. 26 FORTI, Le tinte
forti del dissenso, 1039 s. 218 Tra sentimenti ed eguale rispetto
«comprensione dei percorsi attraverso cui il potere pubblico esprime le sue
istanze repressive, occorra alzare e allargare lo sguardo al con- testo
socio-culturale complessivo in cui i “sensi” e i relativi “dissensi” trovano il
loro terreno di generazione» 27. Coerentemente con la suddetta esortazione,
riteniamo che una ra- gionevole attenzione al versante affettivo, orientata a
sondare la di- mensione umana dei conflitti e soprattutto lo sfondo
antropologico, possa rappresentare un tassello importante per addivenire a un
qua- dro fenomenicamente più realistico degli atteggiamenti degli indivi- dui
e, conseguentemente, anche a una più dettagliata base di rifles- sione per la
politica penale e per un razionale orientamento alle con- seguenze 28. Appare infatti
poco sensato, in una riflessione sulle dinamiche del reciproco rispetto a
livello espressivo-comunicativo, non prendere in considerazione le matrici dei
dissensi, i canali di diffusione, e più in generale un’idea realistica di
essere umano con cui il diritto si trova a interloquire, anche attraverso
eventuali precetti. Più in generale, si tratta a nostro avviso di ricercare
degli adden- tellati sul piano socio-fenomenico per sondare in modo non concet-
tualistico margini di opportunità, oltre che di legittimità, circa la pro-
spettiva di interventi normativi. 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà umana
dei conflitti Sia la ‘cura’ dei sentimenti, sia la tutela ‘da’ sentimenti
presup- pongono che negli individui vi sia la capacità di recepire un certo ti-
po di stimoli cognitivi ed emotivi. Viene da chiedersi quale sia il riscontro
che una tale ambizione trova oggi nella compagine sociale: se si tratti di una
prospettiva rea- listica o se invece presupponga un modello ideal-tipico di
cittadino eccessivamente ottimistico. 27 FORTI, Le tinte forti del dissenso,
loc. ult. cit. 28 Osserva PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale
della persona umana, cit., p. 404, che «nel configurare il sistema di tutela
penale della persona, sarà del tutto legittimo prestare ascolto alle
suggestioni anche di tipo antropolo- gico che possono provenire dalle
convinzioni sociali sull’essere umano; ma, dal- l’altro, una razionale scelta
politico criminale sulla tutela della persona e sui suoi limiti dovrà
necessariamente essere ispirata ai princìpi di ultima ratio, di tolle- ranza e
di laicità del diritto penale». Dilemmi 219 La possibilità che la
riflessione teorica finisca per fare affidamen- to su modelli non del tutto
aderenti alla realtà sociale costituisce un avvertimento che la dottrina
penalistica non ha mancato di eviden- ziare. Alberto Cadoppi in uno scritto sul
paternalismo giuridico dall’im- pronta fortemente liberale, in tendenziale
accordo con la posizione di Joel Feinberg propensa alla massima valorizzazione
dell’autonomia di scelta e della volontà dell’individuo, evidenzia come il
discorso sull’autonomia personale vada preso con molta attenzione e serietà,
per non cadere nell’errore, attribuito anche a John Stuart Mill, di elaborare
teorie assumendo quale prototipo di persona un soggetto apparentemente immune
da inciampi cognitivi e da condizionamenti emotivi che potrebbero gettare un
alone di problematicità sulla reale consapevolezza delle scelte adottate 29.
Solleva problemi simili con riferimento al tema della libertà di espressione
Costantino Visconti, quando si chiede se gli argomenti volti a ridimensionare
l’impatto delle parole offensive, e a metterne in dubbio la dannosità, siano
dettati anche (soprattutto?) da un irenisti- co, e tutt’altro che giustificato,
affidamento su un modello di cittadi- no ‘ragionevole, colto e tollerante’, in
grado di elaborare l’insulto e di non patirne gli effetti. Tale categoria
personologica non appare del tutto rispondente alla realtà; ed è per tale
motivo che Visconti osser- va, condivisibilmente, che «è [...] con riferimento
alla tipologia di soggetti che non hanno la ca- pacità di controllare
razionalmente e dialetticamente la potenziale pe- 29 CADOPPI, Liberalismo,
paternalismo e diritto penale, cit., p. 124. L’osser- vazione di Cadoppi è
volta a sottolineare in modo puntuale e condivisibile il ri- schio di una
tendenza semplificante nella teorizzazione giuridica, e rilancia la
problematizzazione dell’idea di essere umano, dei modelli di scelta razionale,
de- gli interessi finali che dovrebbero idealmente rappresentarne il fine delle
condot- te, tema pregno di ricadute sul piano politico. Ad esempio, si veda la
questione relativa al benessere individuale, all’ideale normativo di ‘vita
buona’, alla distin- zione fra interessi volizionali e interessi critici,
presente in DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 46 ss.,
e ripreso, con diversità di vedute, in FIAN- DACA, Diritto penale, tipi di
morale, cit., pp. 155 ss., e FORTI, Per una discussione sui limiti morali,
cit., pp. 320 ss. A un livello successivo, la problematizzazione del ruolo
delle emozioni, della riflessività, della consapevolezza delle proprie scelte
da parte dell’individuo, si pone in termini funzionali alla lettura e
all’interpre- tazione delle condotte umane, nel tentativo, sempre fallibile, di
trovare dei signi- ficati: per una tematizzazione di tale problema in ambito
criminologico, e sul rapporto fra riflessività e opacità, v. CERETTI-NATALI,
Cosmologie violente, cit., pp. 332 ss. e bibliografia ivi citata.
220 Tra sentimenti ed eguale rispetto ricolosità di certe forme di
discorso pubblico, o che – peggio – ne stru- mentalizzerebbero intenzionalmente
i possibili effetti sociali dannosi, che si prospetta di fatto il problema di
una scelta politico-criminale tra l’intervento e l’astensione» 30. Emerge da
tali notazioni una necessità di realismo, di problema- tizzazione del modello
antropologico di individuo che il diritto pena- le assuma a punto di
riferimento, nella consapevolezza di non poter e non dover dare per scontate
caratteristiche che finiscono per condur- re ad astrazioni perfezionistiche 31.
Ricollegandoci a quanto osservato da Visconti, il discorso sui limi- ti alla
libertà di espressione sembra talvolta presupporre la presenza di determinate
capacità dell’essere umano le quali appaiono oggi non condivise dalla totalità
degli individui. Tale rilievo si pone in primo luogo per i destinatari di
espressioni offensive, ma è bene allargare la riflessione anche al versante degli
autori, e dunque alle particolari di- sposizioni emotive e di pensiero che li
caratterizzano: il carico emoti- vo della vittima e la spinta emotiva che anima
chi offende sono en- trambi esposti al rischio di atteggiamenti radicali.
All’interno del macro tema del dissenso intersoggettivo riteniamo che le
traiettorie di ricerca per il giurista debbano focalizzarsi su dif- ferenti
aspetti, uno dei quali, concernente le matrici cognitive del dis- senso e la
qualità del flusso epistemico che alimenta le opinioni, è stato sinteticamente
messo in luce nel saggio di Gabrio Forti poc’anzi citato. L’Autore evidenzia
come il contesto generativo del senso e del dissenso versi oggi in condizioni
alquanto problematiche, che metto- no a dura prova le risorse cognitive dei
singoli e alimentano un gri- giore epistemico 32 il quale si accompagna a uno
sbiadimento globale dell’etica della comunicazione. L’avvento del web, oltre a
indurre la percezione di una deresponsabilizzazione del discorso pubblico, ha
portato a un «sovraccarico informativo che [...] espone ognuno al ri- schio di
mobilitare non “risorse cognitive adeguate”, bensì una “ca- 30 VISCONTI C.,
Aspetti penalistici, cit., p. 250; cfr. FORTI, Le tinte forti del dissen- so,
cit., p. 1055, il quale parla criticamente di «credo (neo)liberale, costruito a
mi- sura di soggetti capaci di farsi robustamente valere nell’agone
socio-culturale (ivi compresi storici e intellettuali in grado di rintuzzare
con gli argomenti della loro scienza le farneticazioni negazioniste)». 31 Tematizza
il problema di una tendenza a elaborare modelli ‘deontologici’ di persona umana
poco rispondenti con la realtà sociale anche FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi
di morale, cit., p. 160. 32 D’AGOSTINI, Verità avvelenata, cit., p.
13. Dilemmi 221 pacità attentiva deteriorata”, generando così risposte
meccaniche, “comportamenti automatici che evitano la paralisi al prezzo della
qualità decisionale”» 33. A costituire un rischio per il pensiero critico, e
dunque per la qua- lità etica ed epistemica del discorso pubblico, sarebbe,
secondo Forti: «il manifestarsi in tale contesto di voci che si distaccano —
solo per- ché rumorose, violente, sorprendenti — dal magma confuso dell’over-
crowding informativo, riuscendo così a incanalare tunnel visions di schiere di
followers a conseguire quella che potremmo definire una ve- ste
“istituzionalizzata mediaticamente” [...] L’aspettativa di poter trar- re da
tali voci “salienti” rassicuranti semplificazioni del complesso e angosciante
overcrowding informativo che ci stringe, sarà potenziata laddove esse si
sostengano su una violenza espressiva che sembri ap- pagare altresì, sia pure
con un sortilegio illusorio, quella nostalgia di fisicità e corporeità che
l’immersione quotidiana nei mondi virtuali e artificiali non può che
acutizzare» 34. Come emerge da tali considerazioni, le cause dell’alterazione
della dialettica pubblica e la conseguente canalizzazione della violenza e
dell’aggressività verbale sembrano doversi ricondurre a una stratifi- cazione
di fattori, non a un univoco atteggiamento emotivo. 2.1. Dissensi ed estremismo
A nostro avviso si può inquadrare un secondo ambito di problemi legati alle
matrici generative dei dissensi, riguardante più da vicino i microcosmi
soggettivi e concernente l’analisi dei fattori psico-sociali che possono
portare un individuo ad aderire in modo più o meno marcato, se non addirittura
‘estremo’ a certe idee e a convinzioni fino a porsi in radicale conflittualità
con opinioni concorrenti e con i sog- getti che vi aderiscono. Perché anche
soggetti ragionevoli sono spesso protagonisti di con- trapposizioni radicali? A
un primo livello, relativo a uno stadio che potremmo definire ‘fi- siologico’
del dissenso, una buona chiave di lettura ci sembra quella proposta di recente
da Jonathan Haidt, il quale rimarca come l’ade- sione a ideologie e credenze
sia frutto di scelte basate su matrici pret- 33 FORTI, Le tinte forti del
dissenso, cit., p. 1041. 34 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., pp. 1042
s. 222 Tra sentimenti ed eguale rispetto tamente emotive: gli
individui decidono quali idee appoggiare sulla base di emozioni che sono
modellate dall’appartenenza gruppale, e tendono a elaborare narrazioni e
adattamenti per riuscire a trovarsi in sintonia, inconsciamente e
intuitivamente, con le proprie idee, svi- luppando dunque una tendenza a
ricercare conferme alle proprie opinioni la quale rischia di tramutarsi in una
cieca ottusità verso ra- gioni concorrenti. La morale unisce e acceca: «[c]i
unisce in schie- ramenti ideologici che si danno battaglia come se il destino
del mon- do dipendesse dalla vittoria della nostra squadra. Ci acceca rispetto
al fatto che ogni schieramento è composto da brave persone che hanno qualcosa
di importante da dire» 35. Lo studio di Haidt si attesta su un piano
prettamente descrittivo: esplica le ragioni per le quali le persone tendono a
dividersi su argo- menti importanti come la politica e la religione, ma non
fornisce proposte per limitare i dissidi, affermando, con disincanto, che la
no- stra parte intuitiva è alquanto difficile da dominare 36. Il fatto che gli
esseri umani siano portati ad allinearsi in schiera- menti che si identificano
nei valori del gruppo di appartenenza, svi- luppando una conflittualità su base
gruppale, contribuisce a fornire delle spiegazioni, corroborate da evidenze
sperimentali, sul ruolo dominante giocato dalla componente emotiva piuttosto
che da un’as- serita dimensione ‘razionale’. Se bene intendiamo la posizione di
Haidt, riteniamo si possano instaurare virtuose connessioni con i percorsi di
crescita emotiva che Martha Nussbaum individua quale impegno per uno Stato
liberale: per quanto i disaccordi possano essere forti, Haidt invita a non
radi- calizzare le alternative in senso manicheo ma a leggerle come ricadu- ta
di un’emozionalità istintuale che può essere educata a un maggio- re rispetto
delle ragioni altrui37, in una prospettiva dunque che sa- 35 HAIDT, Menti
tribali, cit., p. 400. Si veda anche FROMM, Marx e Freud, tr. it., Milano,
1997, p. 128: «l’individuo deve chiudere gli occhi e non vedere quello che il
suo gruppo dichiara inesistente, o deve accettare come vero ciò che la maggio-
ranza considera tale, anche se gli occhi lo convincessero che ciò è falso. Il
gruppo è di importanza così vitale per l’individuo che per lui le opinioni, le
convinzioni e i sentimenti del gruppo costituiscono la realtà, una realtà più
valida di quella che gli trasmettono i sensi e la ragione». 36 La metafora
utilizzata da Haidt è quella dell’elefante e del suo portatore: sin-
teticamente, l’elefante rappresenta la parte emotiva dell’uomo, il portatore il
pen- siero riflessivo, v. HAIDT, Felicità: un’ipotesi, cit., pp. 6 ss.; ID.,
Menti tribali, cit., pp. 13 ss., 286 ss. 37 «Noi tutti siamo risucchiati in
comunità morali tribali. Gravitiamo attorno a valori sacri e condividiamo
argomentazioni post hoc sul perché noi abbiamo ra- Dilemmi 223
remmo portati a ricollegare alla ‘cura dei sentimenti’. Eccoci però giunti a un
ulteriore profilo problematico: il tipo di conflittualità che oggi desta maggiore
preoccupazione si manifesta attraverso cadenze espressive, e anche attraverso
condotte, che rive- lano un attaccamento a ideali e a credenze in forme
tendenti al- l’esclusione di ogni tipo di confronto e all’annullamento della
posi- zione contrapposta. Si tratta di un fenomeno definito come ‘pensiero
estremo’, nel quale l’individuo moderno rischia di scivolare anche a causa di
una destabilizzazione soggettivamente avvertita di fronte al pluralismo etico e
informativo, e dalla quale cerca rifugio e rassicu- razione affidandosi a
morali e visioni del mondo autoritarie. Prendiamo a riferimento uno studio del
sociologo francese Gèrald Bronner38, il quale identifica quali caratteristiche
di fondo del pen- siero estremo la debole trans-soggettività e l’attitudine
sociopatica39 delle idee. Alla base della concezione di Bronner vi è la
convinzione, ampia- mente argomentata nel corso dell’opera, che le derive
estremiste del pensiero, spesso legate anche a tragici esiti sul piano delle
condotte, non siano affatto da considerarsi come frutto di anomalie sul piano
psichico, ma al contrario possiedano una solida, inquietante raziona- lità.
Partendo dalla consapevolezza che nelle considerazioni e nelle azioni di un
estremista vi è una logica, si possono indagare le matrici di determinate forme
di pensiero. È importante notare come una fra le diverse modalità di adesione a
forme di pensiero estremo sia strettamente legata al contesto de- mocratico:
col concetto di adesione ‘per frustrazione’ si indica il rifu- giarsi di un
soggetto in una convinzione fanatica volta a compensare l’insoddisfazione
dovuta al non possedere o possedere meno di ciò che ritiene di meritare.
Bronner afferma che la democrazia, a causa all’essenza competiti- gione e gli
altri torto. Pensiamo che nell’altro schieramento siano tutti ciechi alla
verità, alla ragione, alla scienza e al buonsenso, ma in effetti siamo tutti
ciechi quando parliamo di ciò che è sacro. [...] E se davvero volete aprire la
vostra men- te, prima di tutto aprite il vostro cuore», v. HAIDT, Menti
tribali, cit., pp. 398 s. 38 BRONNER, Il pensiero estremo. Come si diventa
fanatici, tr. it., Bologna, 2012, pp. 159 ss. 39 La trans-soggettività di
un’idea sta a indicare la capacità di essere accolta da altre persone a parità
di condizioni; la sociopatia viene definita come una carica agonistica
intrinseca che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere in- sieme
ad altri, e per un’idea, di poter coesistere con altre idee, v. BRONNER, Il
pen- siero estremo, cit., pp. 94 ss.; 110 ss. 224 Tra sentimenti ed
eguale rispetto va che stimola e delle aspettative che non può compiutamente
soddi- sfare, possa in un certo senso favorire la proliferazione e l’adesione a
ideologie estremiste le quali si proiettano in un rapporto di competi- zione ad
excludendum con il restante mercato delle idee, stimolando forme di particolare
aggressività e di disprezzo nei confronti degli in- terlocutori: «la
frustrazione e il desiderio di affermazione costitui- scono un mix esplosivo
[...] in un sistema in cui troppi si sentono eleggibili benché il numero degli
eletti non aumenti, dobbiamo aspet- tarci di osservare le conseguenze negative
che l’amarezza condivisa non mancherà di produrre» 40. Tirando le fila del
discorso, questo breve excursus a metà fra psi- cologia sociale e sociologia
vorrebbe provare a offrire un quadro me- no astratto e disincarnato del mondo
umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti, al fine di
contestualizzare i conflitti legati ad appartenenze significative, e dunque ad
alto grado di pregnanza emo- tiva, sia in relazione all’ambiente di diffusione
delle idee, sia al sub- strato personologico dei dissidi 41. Sarebbe infatti
ingenuo e irenistico costruire un discorso soltanto su principi, levando gli
occhi al cielo senza cercare di assumere reali- sticamente consapevolezza dei
mondi sociali42 che si pongono alla base dei fenomeni. Diversamente, si rischia
di cadere nel rischio paventato da Benci- venga, quando afferma che «[i]n
discussioni su temi del genere, è abba- stanza comune prendere posizioni nette,
a incrollabile sostegno di de- terminate regole», mostrando dunque un’aderenza
quasi dogmatica a principi, nella convinzione, o nella speranza, che portare
avanti una battaglia in nome di valori giusti conduca a decisioni anch’esse
giuste 43. L’esperienza storica mostra come tale aspettativa possa rivelarsi
fallace, non a causa del travisamento etico di regole che riteniamo 40 BRONNER,
Il pensiero estremo, cit., pp. 174 s. 41 Utilizziamo il termine ‘dissidio’
nell’accezione proposta da CERETTI-GARLATI, Presentazione, in AA.VV., a cura di
Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, cit., pp. XX ss., i quali citano
in senso adesivo la teorizzazione di Lyotard: dissidio come conflitto fra
interessi contrastanti e orientati a sistemi di riferimento non condivi- si, in
totale asimmetricità. 42 Col concetto di ‘mondo sociale’ vogliamo evidenziare
ulteriormente come le dinamiche dei conflitti vadano interpretate prendendo in
debita considerazione il concetto di gruppo e l’importanza che esso riveste
nella sfera affettiva e decisio- nale del singolo; per una sintesi, v. STRAUSS,
Il concetto di mondo sociale, tr. it., a cura di Toscano, Milano, 2016.
43 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77. Dilemmi 225 abbiano
autorità su di noi, bensì poiché l’esistenza di un conflitto fra regole
entrambe ‘giuste’ porta comunque a violarne una, la quale avrebbe potuto
(forse) indurre esiti differenti sul piano fattuale. Non potendo però sapere
quale sia all’interno di un dilemma etico l’al- ternativa migliore, bisogna
realisticamente accettare che qualsiasi scelta ci pone di fronte a
responsabilità: «l’aderenza a un principio non ci assolve; la nostra anima
dovrà portare il carico della scelta che abbiamo fatto» 44. In altri termini,
quale esercizio di onestà intellettuale appare preferi- bile immergere i
principi nel contatto con la realtà, non perché in questo modo si possa
risolvere un dilemma, ma quantomeno perché così facen- do si può avere una
migliore percezione delle contingenze, sostituendo l’ambizione a cristallizzare
una scelta con un più umile discorso che as- suma a propria bussola le
categorie della necessità e della opportunità: «[è] per le strade tortuose, e
spesso fra i detriti e le macerie, della vita quotidiana che le leggi
universali vanno applicate, con tutta l’incertezza che compete a tali
applicazioni; e non dobbiamo dimenticarlo» 45. 3. Quale ruolo per il diritto
penale? 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica Il monito
responsabilizzante formulato da Ermanno Bencivenga induce una comprensibile
prudenza, e la complessità del dilemma di fondo si manifesta in modo evidente
anche nel discorso penalistico, dove le riflessioni recenti sul tema dei
rapporti fra libertà di espres- sione e reciproco rispetto sono confluite in
prese di posizione in bili- co fra il recondito ottimismo in uno spazio
comunicativo senza limi- ti, e la sofferta apertura verso la possibilità di
risposte penali. Un atteggiamento profondamente combattuto, potremmo dire ‘tor-
mentato’, di fronte a scelte che comporterebbero in ogni caso il sacri- ficio
di principi fondamentali; lo ha ben sottolineato Alessandro Te- sauro quando,
in tema di limiti alla propaganda razzista, ha parlato di un ‘Io diviso’, in
senso psicanalitico, tra impegno antirazzista e passione liberal per la libertà
di espressione 46. 44 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77. 45
BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78. 46 TESAURO, Riflessioni in
tema di dignità umana, cit., p. 184. 226 Tra sentimenti ed eguale
rispetto Nell’orizzonte penalistico prevale una linea di forte cautela, spesso
con posizioni ‘ibride’: anche le opere che hanno approfondito con maggiore
dovizia obiezioni demolitorie rispetto a eventuali incrimina- zioni, sembrano
escludere un atteggiamento di completa chiusura 47. Nel complesso sembra
essersi affievolita la tendenza a voler elabo- rare modelli interpretativi
orientati alla ricerca di conclusioni assio- maticamente deducibili dal diritto
positivo, sia con riferimento a norme ordinarie che al testo costituzionale.
Rispetto al mainstream tradizionale, nel quale l’emancipazione
dall’autoritarismo del codice fascista poteva ragionevolmente identificarsi
come rinascita in senso liberale, l’approccio odierno si scontra con la complessità
delle diver- se declinazioni del liberalismo contemporaneo, ragion per cui è
av- vertita l’esigenza di non scivolare in un uso dei principi liberali emo-
tivamente appagante ma proprio per questo ad alto contenuto retori- co. L’esito
‘scontatamente liberale’48 del dibattito, coincidente con l’assoluto diniego a
ogni forma di responsabilità per l’uso della libertà di manifestazione del
pensiero, è oggi una risposta che rischia di ar- chiviare troppo prematuramente
le questioni. Al fine di ‘guardare in faccia’ i problemi, autorevoli voci della
dot- trina penalistica hanno sollevato interrogativi in una chiave meno
convenzionale: ad esempio riorientando l’attenzione sugli effetti ne- 47 Ci
sembra interpretabile in questo senso lo studio di TESAURO, Riflessioni in tema
di dignità umana, cit., e soprattutto il contributo di VISCONTI C., Aspetti
pena- listici, cit. Anche il lavoro di SPENA, La parola (-) odio, cit., p. 605
riconosce che il diritto alla libertà di espressione nel caso del discorso
d’odio è comunque più de- bole e più bilanciabile con interessi confliggenti;
cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 936. Più
netta la chiusura di Autori come CA- VALIERE, La discussione intorno alla
punibilità del negazionismo, cit., pp. 1013 ss.; FRONZA, Criminalizzazione del
dissenso, cit., p. 1033. Più univoche sono invece le aperture di PULITANÒ, Di
fronte al negazionismo e al discorso d’odio, cit.; FORTI, Le tinte forti del
dissenso, cit., p. 1059. Negli anni Settanta la dottrina penalistica manifestò
con sostanziale univocità, anche se con diversità di accenti, la contra- rietà
a restrizioni penalistiche alla libertà di espressione, quale reazione
all’auto- ritarismo delle fattispecie del codice Rocco, v. la sintesi di VISCONTI
C., Aspetti pe- nalistici, cit., pp. 51 ss. Nell’ambito costituzionalistico
sembra prevalere una linea di contrarietà a regolamentazioni del discorso
pubblico, sia con riferimento allo hate speech, sia al negazionismo, v. ex
plurimis, CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 115 ss.; ID.,
L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale,
in Quaderni costituzionali, 4/2017, pp. 975 ss.; PUGIOT- TO, Le parole sono
pietre?, cit., pp. 6 ss.; PARISI, Il negazionismo dell’Olocausto e la sconfitta
del diritto penale, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 890 ss.; in tema di
hate speech una posizione di non chiusura ai divieti è quella di SCAFFARDI,
Oltre i confini della libertà di espressione, cit., pp. 228 ss., 279 ss.
48 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1037. Dilemmi 227 gativi
di un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico (par- lando di
dilagante, confuso ‘overcrowding informativo’ 49), o facendo ricorso a distopie
immaginative fondate sulla possibilità che deter- minati atteggiamenti di
pensiero possano effettivamente acquisire consenso 50. Per quanto i profili di
disvalore che si accompagnano alle condot- te comunicative possano apparire
sfuggenti rispetto alle esigenze di concretezza e di verificabilità empirica
richieste dal diritto penale, in sede di speculazione teorica il giurista ha il
compito di dar conto di una complessità di fondo, anche prendendo laicamente
atto che ci si trova di fronte a «grandezze valoriali difficilmente contenibili
nei no- stri beni giuridici» 51. Coglie nel segno, a nostro avviso, chi ha
definito la questione dei limiti penali alla libertà di espressione come ‘sfida
o scommessa’ 52, evidenziando la prospettiva del tutto aleatoria che si lega
sia alle concezioni libertarie sia a quelle regolazioniste. L’incertezza empi-
rico-cognitiva sugli effetti pericolosi o dannosi di determinati con- tenuti
espressivi53 si accompagna al fatto che non è dato sapere quali conseguenze
possano scaturire nel breve e nel lungo periodo da un’assoluta
deregolamentazione del discorso pubblico; e ove si voglia propendere per un
intervento del diritto penale resta da chie- dersi quali possano essere i
metodi e gli effetti di un’eventuale cri- minalizzazione, sia essa solo
minacciata, tramite precetti, o anche applicata. La ragione dell’impasse nella
quale ci si trova al cospetto delle suddette alternative si motiva in primo
luogo con il fatto che il ri- chiamo al diritto penale è, plausibilmente,
percepito come minaccia di sanzione e, in particolare, di una sanzione che si
identifica con la pena detentiva. Ma proprio in merito a tale ultimo profilo,
ossia alla prospettiva lato sensu ‘sanzionatoria’, la dottrina penalistica più
‘aperturista’ – che non esclude radicalmente l’eventualità di interventi penali
in materia di libertà di espressione – si fa portatrice di un dif- ferente modo
di intendere, in prospettiva futura, le dinamiche dello 49 FORTI, Le tinte
forti del dissenso, cit., p. 1042. 50 PULITANÒ, Cura della verità e diritto
penale, in AA.VV., a cura di Forti- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e
della sanzione penale, cit., p. 93. 51 FORTI, Le tinte forti del dissenso,
cit., p. 1051. 52 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 252. 53 Per tutti,
TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 104 ss.
228 Tra sentimenti ed eguale rispetto strumento penale. Sono emerse
riflessioni volte a non limitare lo sguardo all’angusto orizzonte della pena,
proiettate verso nuovi itine- rari, financo eclettiche ed ‘eterodosse’ rispetto
al tradizionale reperto- rio concettuale penalistico. Ci riferiamo in
particolare a interessanti proposte formulate in re- lazione ad ambiti
specifici (sentimento religioso, negazionismo), il cui filo conduttore, pur con
i dovuti distinguo, appare potersi indivi- duare in una (ri)valutazione
dell’efficacia ‘virtuosamente simbolica’ del precetto penale. 3.2. Precetti
‘pedagogici’? Con riferimento alla tutela del sentimento religioso si è
avanzata la proposta di una protezione giuridico-penale «costruita prevalen-
temente (se non esclusivamente [...]) attorno alla capacità di orien- tamento
culturale svolta dai precetti, mettendo finalmente da parte la forza inutile ed
espressiva delle pene in senso stretto» per addivenire a un sistema di tutela
«più mite e ‘relativo’ in quanto radicato sugli spazi di confronto dischiusi
dal precetto penale che sancisce, ma non punisce» 54. In altri termini, uno
strumento normativo che agisca al di fuori dell’ottica retributiva e di
deterrenza, seguendo le coordinate della prevenzione generale cosiddetta
‘positiva’, ossia quella funzione della pena tesa a rinsaldare e a confermare
valori già acquisiti e (più o me- no) radicati nei processi di socializzazione
dell’individuo 55, tema am- piamente dibattuto nella dottrina italiana e non
affrontabile nell’eco- nomia del presente lavoro 56. Al precetto viene in
questo senso assegnata una funzione centrale, sulla base del presupposto che la
prevenzione di forme di offesa lega- te al sentire religioso debba consistere
in un rispetto volontario e spontaneo. Dal piano dei semplici propositi si
passa a una teorizza- 54 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa e scelte di
criminalizzazione. Riflessioni de iure condendo sulla percorribilità di una
politica mite e democratica, in AA.VV., a cura di De
Francesco-Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 119. 55 Per
tutti, PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., pp. 52 ss.; PALAZZO, Corso di
diritto penale, VI ed., Torino, 2016, pp. 18 s., 62; FORTI, L’immane
concretezza, cit., pp. 137 ss. 56 Per una sintesi si rinvia a DE FRANCESCO, La
prevenzione generale tra normativi- tà ed empiria, in AA.VV., Scritti in onore
di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, pp. 29 ss. Dilemmi 229 zione più
dettagliata ipotizzando una norma che faccia coincidere la sanzione con una
formale declaratoria del contenuto del precetto: il giudice sarebbe chiamato,
ove l’agente si rifiuti di riparare le conse- guenze del reato attraverso
percorsi di mediazione con la persona of- fesa, a «enunciare il disvalore del fatto
colpevole nel dispositivo della sentenza, dandone conto nella motivazione», e
ordinandone even- tualmente la pubblicazione nei casi più gravi 57. La
prospettiva appena descritta sembra fondarsi su una connes- sione tra proposta
dialogica e stigma penale58, finalizzata a una re- sponsabilizzazione
dell’autore in assenza di rimedi prettamente coer- citivi, cercando di
salvaguardare il pluralismo delle parti dalla violen- za di provvedimenti
autoritativi, e delegando alla forza del precetto la funzione espressiva di un
richiamo responsabilizzante 59. Si inscrive in una traiettoria similare uno
studio dedicato al tema del negazionismo, il quale si distingue nel mainstream
penalistico per una esplicita apertura alla criminalizzazione di condotte che
neghino l’Olocausto. Rileviamo come anche in questo caso le conclusioni di non
contrarietà a interventi penali siano correlate alla proposta di una tipologia
di intervento che non si inquadra nella canonica diade ‘pena detentiva-pena
pecuniaria’, ma che cerca di elaborare soluzioni che valorizzino il dato
simbolico del precetto, veicolato dalla portata dichiarativa della vicenda
processuale e dall’eventuale, conseguente, provvedimento del giudice. Con le
parole dell’Autore: «Si tratterebbe, già nella comminatoria edittale, di
pensare a qualcosa di diverso dalla classica “caditoia” verso la reclusione.
Per quanto la proposta possa spiazzare, e determinare un ripensamento del
catalogo delle pene principali, il calibro della reclusione andrebbe accompa-
gnato con l’immediata conversione in una pena di sostanza espressiva e
reputazionale. [...] Perché non approfondire, ad esempio, la soluzio- 57
MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp. 128 s. 58 Per una
panoramica sul tema v. AA.VV., a cura di Mannozzi-Lodigiani, Giu- stizia
riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna, 2015. L’ipotesi
della mediazione come ‘risposta istituzionalizzata’, ossia elemento necessario
di un percorso processuale di responsabilizzazione, è oggetto di dibattito in
dottri- na; in merito a tale soluzione appare scettico PULITANÒ, Sulla pena.
Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 664;
di opinione opposta DONINI, La situazione spirituale della ricerca giuridica
penalistica. Profili di diritto sostanziale, in Cass. pen., 5/2016, p. 1856. 59
Di recente, VISCONTI A., Contenuti ‘informativi’ della sanzione penale e coe-
renza del ‘sistema’, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, Verità del
precetto e della sanzione penale, cit., pp. 445 ss. 230 Tra
sentimenti ed eguale rispetto ne della lettura in udienza di un dispositivo
munito di una speciale narrativa, da cui traspaia – con formulazioni più estese
ed efficaci del- l’ordinario – la disapprovazione dell’ordinamento
all’indirizzo del- l’autore delle espressioni negazioniste, al quale
ricollegare, ove possi- bile, una sanzione accessoria di natura
inibitoria/interdittiva e la pub- blicazione della sentenza di condanna? Una
pena/giudizio, dal caratte- re accentuatamente didascalico e “simbolico” per
rispondere al “dia- bolico” del negare, volta a rendere il dispositivo una
sorta di sanzione veritativa che renda giustizia, oltre all’esistenza delle
camere a gas e dei forni crematori, all’esperienza della discriminazione e al
senso di umanità. In tal modo, al contro-logos dell’annientamento, agito dai
negazionisti, verrebbe opposto, con la solennità delle forme del pro- cesso
penale, un potere di nominazione che, sancendo il limite, il con- fine tra
libertà di espressione e abuso della possibilità di offendere, impedisce che
l’ultima parola sia di menzogna» 60. Anche in questo caso sullo sfondo delle
argomentazioni si pone un modo di pensare al potenziale simbolico del precetto
come risorsa positiva 61 che può contribuire a una responsabilizzazione non
trami- te il consueto binario repressivo, ma impegnandosi a contrastare de-
terminate forme di discorso pubblico sul terreno comunicativo, senza cadere in
eccessi punitivi che si esporrebbero a obiezioni sul piano della
proporzionalità. Per quanto si tratti di posizioni che in definitiva avallano
la pro- spettiva di interventi penali quale forma di contrasto alla diffusione
di determinati contenuti di pensiero, collocarle sotto il segno di un trend
repressivo sarebbe a nostro avviso un’approssimazione che non rende giustizia
alla profondità delle opinioni espresse. La sanzione, 60 CAPUTO, La ‘Menzogna
di Auschwitz’, cit., p. 325. Netta è la presa di distanza di DI MARTINO,
Assassini della memoria: strategie argomentative in tema di rilevan- za
(penale) del negazionismo, in AA.VV., a cura di Cocco, Per un manifesto del
neoilluminismo penale, Padova, 2016, p. 211, il quale definisce «Meno
convincen- te, anzi deleteria [...] la sanzione accessoria della pubblicazione
della sentenza: essa finirebbe con l’offrire ancora l’arena che i negazionisti
desiderano, trasmet- tere l’idea del martirio, risultare paradossalmente
co-funzionale all’offesa: conse- guenze, queste, suscettibili di
controbilanciare pesantemente il perseguito effetto di stigmatizzazione». 61 «Ben
vengano, dunque, caveat e ammonimenti sui pericoli di strumentaliz- zazione dei
singoli per bisogni di utilità sociale, purché non si finisca per disco-
noscere, tra i caratteri della norma penale, il connotato di profonda
stigmatizza- zione di un fatto, di affilato giudizio etico-sociale, e
un’attitudine a sollecitare, più di ogni altra norma, l’attenzione diffusa per
i valori tutelati e la conseguente di- sapprovazione sociale per l’offesa che
li riguardi», v. CAPUTO, La ‘Menzogna di Au- schwitz’, cit., p. 296.
Dilemmi 231 pur restando contrassegno formale della norma penale, viene
rivesti- ta con fogge che ne mutano la natura prettamente afflittiva per dare
luogo a forme ‘narrativo-pedagogiche’ tese a potenziare la dimensio- ne
contenutistica e comunicativa del precetto. Non si può a nostro avviso parlare
di una vera e propria opzione a favore della soluzione penalistica dei
conflitti, quantomeno ove si in- tenda il diritto penale nel senso
tradizionalmente sanzionocentrico 62. In realtà, le suddette proposte ci
sembrano da inscrivere all’in- terno di un più complesso movimento di pensiero,
quale ricerca di percorsi che diano pratica attuazione a quella che per ora
sembra ancora rimanere solo una massima elaborata dalla dottrina, ossia che la
ragione del penale non è, solo, l’inflizione della pena: «sul piano delle
norme, la ragione del penale è l’osservanza dei precetti» 63. Quale corollario
alle riflessioni sul ruolo pedagogico dei precetti, riteniamo importante dar
conto di uno studio che il giurista statuni- tense Fredrick Schauer ha dedicato
al tema della forza del diritto, e in particolare al legame fra diritto e
forza: si tratta di un indissolubile nesso di implicazione reciproca o è
immaginabile un diritto senza coercizione? L’interrogativo porta in luce una
questione fondamentale anche (soprattutto) per il giurista penale. Va detto
anticipatamente che lo studio di Schauer non giunge a esiti ‘sconvolgenti’, in
quanto la con- clusione non è nel segno di una superfluità del momento
coercitivo; individua però importanti argomenti a confutazione del fatto che la
coercizione e le sanzioni debbano essere al centro dell’idea di diritto.
Bisogna distinguere due profili: il primo di tipo concettuale, il secon- do di
tipo empirico. Dal punto di vista concettuale, Schauer sostiene che l’esistenza
dell’obbligo giuridico sia logicamente distinta dalla sanzione, e l’in-
teriorizzazione di un obbligo non accompagnato da sanzione sia pos- sibile64.
Se però ci si sposta sul piano dei riscontri empirici e ci si chiede se la
gente obbedisca, o sarebbe disposta a obbedire, a un di- 62 Per una critica
all’atteggiamento sanzionocentrico, che cioè assume la pena come «principale e
ineluttabile ‘dimensione di senso’ cui orientare la [...] attività di
elaborazione concettuale», e la controproposta di prediligere una riflessione
«guidat[a] dalla ‘precomprensione’ che la pena non è lo scontato punto di
parten- za e di arrivo, ma è e non può non essere il problema (iniziale e
finale) che pone le domande fondamentali», v. FIANDACA, Rocco: è plausibile una
de-specializza- zione della scienza penalistica?, in Criminalia, 2010, pp. 202
ss. 63 PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, cit., p. 656. 64
SCHAUER, La forza del diritto, tr. it., Milano-Udine, 2016, pp. 85 ss. 232
Tra sentimenti ed eguale rispetto ritto privo di sanzioni il problema diviene
più articolato; vi sono studi di psicologia sociale che affermano che, in
assenza di sanzioni, il li- vello di obbedienza alle leggi con cui le persone
dissentono è alquan- to basso 65. Ora, se da un lato ciò conferma che un
apparato coercitivo resta importante per assicurare effettività al diritto,
Schauer invita però a considerare che una statuizione giuridica dispiega
comunque effetti, anche quando il diritto si trovi a fare da ‘apripista’
culturale: «Sarebbe ingenuo credere, senza una prova evidente, che una sempli-
ce modifica legislativa possa ottenere un alto livello di obbedienza senza il
supporto della coercizione e di sanzioni di vario genere. Ma le dinamiche psicologiche
e sociologiche sono complesse. La semplice approvazione di un divieto
giuridico, solo perché enunciato dal dirit- to, può indurre sia un cambiamento
di attitudine che di comporta- mento» 66. L’Autore prosegue osservando che tale
cambiamento sarà più fa- cilmente verificabile in relazione ad argomenti su cui
i cittadini non hanno un’opinione consolidata piuttosto che su temi oggetto di
divi- sione; nondimeno, anche in assenza di vere e proprie sanzioni 67 il di-
ritto può avere il potere di modificare comportamenti sociali 68. Senza
addentrarci ulteriormente nel denso scritto di Schauer, ci sembra che tali
osservazioni rappresentino un input sufficiente per guardare al diritto, e in
particolare al diritto penale, anche come strumento che tramite i precetti,
piuttosto che con le sanzioni, può contribuire a veicolare un messaggio di
forte disapprovazione. Diritto penale ‘simbolico’? È innegabile che si avverta
più di una remora ad avallare questa discussa formula; il termine ‘simbolico’
as- sociato al penale suscita una condivisibile diffidenza, ma non si può
negare che «[l]’aspetto simbolico, che pure è terreno di pericolose (o inutili)
deformazioni del sistema penale, è un aspetto non trascurabi- le per una
efficace comunicazione politica, anche a livello legislati- vo» 69. 65 SCHAUER,
La forza del diritto, cit., p. 123. 66 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p.
185; sul tema, più diffusamente, v. MCA- DAMS, The Expressive Powers of Law.
Theories and Limits, Harvard, 2015. 67 Per la precisazione del concetto v.
SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 218. 68 SCHAUER, La forza del diritto,
cit., p. 247. 69 PULITANÒ, La cultura giuridica e la fabbrica delle leggi, in
www.penalecontem- poraneo.it, 10/2015, p. 10; in termini adesivi a tale
posizione v. FORTI, Le tinte forti Dilemmi 233 Ebbene, il disagio
connesso all’opzione sanzionatorio-detentiva quale eventuale risposta penale in
tema di libertà di espressione, in- duce a chiedersi se la dimensione simbolica
possa assurgere anche al rango di ‘funzione primaria’, tramite norme costruite
in modo da re- legare la restrizione di libertà a semplice minaccia
disinnescabile in virtù di percorsi alternativi per il reo, o, in termini più
radicali, tra- mite un aggiornamento del catalogo delle pene principali che intro-
duca nuove forme di stigmatizzazione dotate di una specifica effica- cia sul
piano comunicativo, come ipotizzato dai contributi preceden- temente
menzionati. Si tratta, com’è evidente, di percorsi innovativi la cui
complessità esigerebbe un’analisi distinta rispetto ai nuclei tematici del
presente lavoro. Riteniamo però che non sia irrealistico pensare al giudizio
pena- le anche quale luogo di confronto e rettifica in un contesto di dialet-
tica ‘sorvegliata’, funzionale a far emergere e a dichiarare i profili di
disvalore di determinate espressioni attraverso la sottolineatura in sede
pubblica del carattere intrinsecamente fallace o della grossola- na offensività
dell’eguale rispetto, magari avvalendosi del contribu- to di esperti che ne
analizzino la portata sul piano sociologico e psi- cologico 70. Siamo al
confine estremo della legittimità dell’intervento penale: problemi di
eccezionale delimitazione di una libertà che in linea di principio è anche di
libertà di ferire, e che per questo suo potere può tuttavia rendere opportuna
una responsabilizzazione, la quale non do- vrebbe tracimare in censura
autoritaria, bensì dovrebbe essere fina- lizzata a un’eventuale declaratoria di
responsabilità concepita come del dissenso, cit., p. 1060. Sembra essersi affievolita
l’ostilità della dottrina per la funzione simbolica, rivalutando in tal senso
proprio quella ‘finalizzazione enun- ciativa’ che era stata fortemente
stigmatizzata in sede di prima lettura della nor- mativa sulla repressione
penale delle condotte di discriminazione, v. STORTONI, Le nuove norme contro
l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto, 1994, p. 14. Sul
tema dell’uso simbolico del diritto penale, v. per tutti, nella letteratura
ita- liana, v. BONINI, Quali spazi per una funzione simbolica del diritto
penale?, in Indi- ce penale, 2003, pp. 491 ss. 70 Richard Abel ha parlato di
‘trattamento informale delle dispute’ per indicare il modo in cui la comunità
dovrebbe reagire ai danni della parola, in un procedi- mento che sembra voler
evitare il ricorso al potere coercitivo ma che appare non- dimeno fondato su
una proceduta normativizzata: si parla di una ‘conversazione
istituzionalizzata’ ma informale fra vittima e offensore, nel quale
quest’ultimo deve «riconoscere la norma, ammetterne la violazione ed accettarne
la responsa- bilità», nella convinzione che un simile scambio sociale di
rispetto possa neutra- lizzare l’insulto, ABEL, La parola e il rispetto, cit.,
pp. 128 ss. 234 Tra sentimenti ed eguale rispetto confutazione
delle espressioni proferite dal reo, cercando dunque di disinnescarne il
potenziale offensivo sul piano dei contenuti 71. Di primo acchito tale
prospettiva potrebbe apparire come una sor- ta di ‘tribunale delle opinioni’,
esposto al rischio di torsioni illiberali; tale obiezione, è però ben
applicabile anche all’attuale situazione or- dinamentale. Di fatto il sindacato
su forme di espressione è presente anche oggi: un giudizio su opinioni il quale
risulta prevalentemente affidato alla sensibilità culturale del giudicante,
senza potersi sottrar- re alle relative precomprensioni. Si tratta di un
procedimento molto delicato poiché, come osserva Judith Butler, l’uso che lo
Stato, attra- verso il potere delle sentenza, fa del linguaggio offensivo e
discrimi- natorio dà luogo a una ripetizione dello stesso, contribuendo, pur
con finalità differenti, a una sua reiterazione 72. Nondimeno: 71 Prendiamo
atto della critica formulata da DI MARTINO, Assassini della memo- ria, cit., p.
193: «l’idea della pena-giudizio in quanto tale è intrinsecamente pro-
blematica. La paternale didascalica finisce con l’essere risibile di fronte ai
delin- quenti per convinzione ed ai fanatici; ed è una ipocrita autoassoluzione
dell’or- dinamento per le omissioni od i fallimenti delle sue agenzie educative,
di fronte ai miserandi frustrati, reietti e falliti». La sfiducia verso una
prospettiva ‘rieducativa’ può essere anche condivisa, ma, più radicalmente, va
osservato che l’eventuale approntamento di sanzioni di tipo
‘espressivo-pedagogico’ non dovrebbe essere letto in una prospettiva di
prevenzione speciale, bensì quale strumento di preven- zione generale positiva;
la ‘risibilità’, che assumiamo come impossibilità fattuale di indurre un
cambiamento di opinione, è un aspetto comunque secondario poi- ché l’obiettivo
del diritto, nel rispetto della libertà morale della persona anche quando
‘delinquente per convinzione’ o ‘fanatico’, non è indurre un cambiamento di
opinione coattivo nel reo. Non condividiamo però l’afflato rinunciatario il
qua- le rischia di condurre a un vero e proprio vicolo cieco, e significherebbe
consenti- re che davvero l’ultima parola sia di menzogna, o di insulto, o di
umiliazione. Pur essendo sostenitori di uno spazio comunicativo libero e
aperto, facciamo fatica a immaginare il diritto spettatore del tutto inerte di
fronte al potere performativo delle parole, soprattutto in tempi in cui
l’indominabilità delle capacità di diffu- sione dei messaggi dovrebbe rendere
più accorti nel formulare prognosi di perico- losità. Un terreno comunque
scivoloso e che necessita di attente riflessioni, senza nutrire eccessiva
fiducia nello strumento normativo, ma anche senza restare av- vinti in un
disincanto rinunciatario che amplificherebbe le asserite mancanze del- le
agenzie educative primarie. 72 Si osserva provocatoriamente che «è la decisione
dello Stato, l’enunciazione ratificata dallo Stato, che produce (produce ma non
causa) l’atto dello hate speech», v. BUTLER, Parole che provocano. Per una
politica del performativo, tr. it., Milano, 2010, p. 137. L’atto di
‘produzione’ a cui si riferisce la BUTLER riguarda il fatto che prima che una
sentenza definisca come hate speech delle semplici paro- le, queste non erano
hate speech; più che una vera e propria produzione sembra potersi intendere come
effetto del potere di nominazione. La stessa BUTLER spe- cifica successivamente
che le parole che lo Stato adopera per emettere una sen- Dilemmi
235 «Nessuno ha mai elaborato un’ingiuria senza ripeterla: la sua reitera-
zione rappresenta sia la continuazione del trauma sia ciò che segna una presa
di distanza all’interno della struttura stessa del trauma, la sua possibilità
costitutiva di essere qualcosa di diverso. Non c’è possi- bilità di non
ripetere. La sola questione che rimane aperta è: come av- verrà quella
ripetizione, in quale sede – giuridica o non giuridica – e con quale dolore e
quali speranze?» 73. Una questione aperta e complessa, la quale carica di
responsabilità il momento giudiziario e la produzione narrativa del giudice.
Dovendo fare i conti con la reimmissione in circolo di parole offensive,
ritenia- mo che sarebbe opportuno riflettere su forme di ritualità che possano
dare un valido supporto epistemico all’autorità giudiziale, contribuen- do a
dare la giusta rilevanza e il necessario approfondimento all’erme- neutica del
fatto, con l’auspicio di trasformare il processo in un mo- mento anche
educativo e di apprendimento. Da penalisti, e dunque da studiosi delle
possibilità negative del- l’umano, ci sembra doveroso interrogarci sul ruolo che
lo strumento penale potrebbe eventualmente assumere in una prospettiva di cura
degli equilibri di rispetto, cercando di privilegiare non la dimensione
interdittiva e censoria ma facendo leva sulle potenzialità di quello che, tra
le diverse manifestazioni del giuridico, rappresenta, piaccia o non piaccia, il
più formidabile, e terribile, ‘marcatore etico’. 4. Sinossi Rispettare le
persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che
discende da disposizioni soggettive. Il progetto normativo definito ‘tutela di
sentimenti’ può essere scorporato in due distinte traiettorie. La prima,
definibile come ‘cura dei sentimenti’, è da intendersi come promozione di
atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco
rispetto. La seconda, definibile ‘tutela da sentimenti’, può identificarsi co-
tenza sullo hate speech non sono certo la stessa cosa del discorso pronunciato
dai soggetti di cui si sta giudicando la posizione; nondimeno, le due cose
appaiono «indissociabili in maniera specifica e consequenziale»; cfr. ABEL, La
parola e il rispetto, cit., p. 99. 73 BUTLER, Parole che provocano, cit.,
p. 147. 236 Tra sentimenti ed eguale rispetto me strategia politica di
contrasto a spinte emozionali negative, l’odio in primis, ma non solo. Più in
generale, ciò che definiamo come ‘tute- la da sentimenti’ rappresenta
un’istanza funzionale alla messa a tema di profili inerenti la dimensione
psico-sociale delle matrici dei dis- sensi, e dunque all’approfondimento delle
concezioni antropologiche che guidano la riflessione penalistica. Obiettivo di
fondo è addivenire a una visione meno astratta e disincarnata del mondo umano
con cui il diritto penale si trova a fare i conti. Tale atteggiamento di
‘realismo antropologico’ tende oggi a emergere anche nella dottrina
penalistica. Riguardo il tema dei limiti penalistici alla libertà di
espressione e ai problemi dell’eguale e reciproco rispetto, i penalisti
mostrano un atteggiamento meno ‘concettualistico’ rispetto al passato; emergono
posizioni di cauta apertura alla prospettiva di interventi normativi, modellati
sul distacco da prospettive eminentemente sanzionatorie e fondati sulla
valorizzazione del simbolismo positivo del precetto. OSSERVAZIONI FINALI
«[...] la mentalità sociale è in movimento, ciò che prima si diceva gratis oggi
ha un costo etico, [...] ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono
nuo- vi problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo»
SERRA M., Amaca, Repubblica 27 gennaio 2016 SOMMARIO: 1. Bilanci e prospettive.
– 1.1. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze. – 1.2. Tra offesa alla
sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di
riformulazione per la tutela della dignità del creden- te. – 2. La priorità
delle libertà, l’importanza delle regole. 1. Bilanci e prospettive Recuperiamo
l’interrogativo di fondo da cui è partita la presente indagine, ossia se il
diritto penale di una moderna democrazia libera- le possa essere invocato a
tutela di sentimenti. La tentazione di opporre un assoluto, per quanto
benintenzionato diniego, appare destinata a scontrarsi con un maturo senso di
realtà. Beninteso, non stiamo in questo modo cercando di assegnare fretto- lose
patenti di legittimità a una delle più controverse modalità di esplicazione
dell’intervento penale, ma riteniamo che nell’analisi del problema si debba
cercare di andare oltre le etichette retoriche, senza farsi abbagliare né in
positivo né in negativo dalla ambigua parola ‘sentimento’. Il percorso compiuto
finora riteniamo abbia mostrato come un’asserzione netta, sia in termini
affermativi sia in termini negativi, peccherebbe per approssimazione. Sarebbe
dunque più opportuno partire da una più articolata formulazione
dell’interrogativo: in rela- zione a quali fenomeni e in quali accezioni, al di
là delle scelte dei le- gislatori storici, sentimenti ed emozioni possono
essere ragionevol- mente evocati quali elementi costitutivi e/o integrativi
nella descri- zione dell’oggetto di tutela penale? 238 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Le incrostazioni di matrice collettivistica, che nel contesto
italiano hanno ammantato gli interessi definiti dai legislatori ‘sentimenti’,
hanno contribuito ad acutizzare, in modo giustificato, la diffidenza della
dottrina penalistica di stampo liberale. Il senso di un nuova tematizzazione
del sentimento quale problema di tutela deve essere in primo luogo funzionale a
svincolare dalle ‘col- lettivizzazioni normative’ un fenomeno legato
all’interiorità dell’indivi- duo e che invece si è prestato, con evidente
slittamento di significato, a divenire veicolo di incriminazioni di stampo
moralistico-identitario. Riteniamo che debba essere presa in considerazione,
quale ulte- riore sfaccettatura, una dimensione di significato che valorizzi la
proiezione universalistica e, per certi versi egualitaria, dei fenomeni
affettivi: sentimenti ed emozioni come ‘addentellato fenomenico’ di una
dotazione universalmente condivisa dagli esseri umani. In base a quest’ultima
prospettiva, declinare determinate questio- ni di interesse penalistico, come
ad esempio i rapporti fra manifesta- zioni espressive e sensibilità, anche come
problema di sentimenti acutizza i dilemmi, poiché il sentimento non può esser
limitato all’eventuale, problematica, identificazione con l’interesse di una
sola delle parti, col rischio di modulare eventuali, ipotetici, interventi
normativi sulle cadenze di uno sterile rivendicazionismo psicologico
soggettivo. Il risvolto di reciprocità egualitaria assume il significato di una
pretesa ‘responsabilizzante’ nei confronti di tutti individui, quale do-
verosa, e in primo luogo spontanea, autolimitazione: «Se ognuno ha diritto alla
propria narrazione individuale, ugualmente non può, in nome dei propri
sentimenti, dichiararla “intoccabile”, af- fermarla come pretesa di verità
assoluta e non metterla in discussione e confrontarla con quella degli altri»
1. È nella distinzione tra ethos ed etica che si inquadra uno dei fon-
damentali tratti costitutivi del pluralismo: ethos come ordine valoriale costitutivo
del singolo, ed etica come limite che tutti i diversi ethe de- vono osservare,
nel rispetto di «ciò che è dovuto da ciascuno a tutti [...] Lo stesso diritto a
vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» 2, secondo
dinamiche di simmetrica reciprocità che uni- scono profili di diversità
fattuale e accenti di doverosità normativa. 1 TURNATURI, Emozioni: maneggiare
con cura, cit., p. 20. 2 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p.
153. Osservazioni finali 239 La focalizzazione sul problema di un
eguale e reciproco rispetto porta a emersione la duplice prospettiva di una
tutela di sentimenti intesa come ‘cura’ del sentire individuale e collettivo, e
come forma di contrasto a espressioni tese al disconoscimento dell’altro.
Nell’atto di formulare delle osservazioni finali al presente lavoro emerge
l’esigenza di distinguere fra linee di politica legislativa di va- lenza
generale e spunti più dettagliati che richiedono di essere circo- scritti a
singoli campi di materia. Il problema della tutela di senti- menti non può
essere fatto confluire in un unico prospetto di model- lizzazione normativa, ma
necessita di essere affrontato attraverso percorsi differenti: solo in rapporto
al profilo della ‘cura’ si possono a nostro avviso proporre delle linee
generali, mentre il tema, più stret- tamente penalistico, della tutela da
sentimenti richiede di essere più attentamente contestualizzato. 1.1. Cura dei
sentimenti e attenzione alle differenze Come abbiamo già specificato, il
rapporto fra ‘cura’ e ‘tutela da’ è di complementarietà, per quanto sia la
‘cura’ a definire la declinazio- ne primaria del problema di tutela. La
dimensione ‘ostativa’, ossia quella della ‘tutela da’, resta una parte
residuale e strumentale al profilo della ‘cura’, finalizzata even- tualmente ed
esclusivamente, al mantenimento di equilibri. Obiettivo di fondo, probabilmente
non raggiungibile mediante il solo strumen- to giuridico, resta quello di
un’adeguata formazione del sentire degli individui, intesa come capacità di
rapportarsi all’altro nelle forme dell’ascolto, del confronto e anche della
critica, da contestualizzarsi in un’arena polifonica aperta alla pluralità,
poiché «di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto
sarà, da un la- to, il sentimento delle differenze e delle priorità» 3. Il
ruolo delle agenzie educative diviene in questo senso cruciale, a partire dalle
istituzioni scolastiche 4: «l’arricchimento della giustizia da una condizione
essenzialmente normativa a una condizione etica è [...] l’esito (un’aspirazione
più che un traguardo certo) di un lavoro lungo e 3 DE MONTICELLI, L’ordine del
cuore, cit., p. 169. 4 Si veda ad esempio la pubblicazione dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Abc: Teaching Human
Rights – Practical Activities for Primary and Secondary Schools, pp. 19 ss.,
disponibile in http://www.ineesite.org/-
en/resources/abc_teaching_human_rights_-_practical_activities_for_primary_and_se-
condary. 240 Tra sentimenti ed eguale rispetto lento di educazione
dei sentimenti, al quale partecipano le istituzioni politiche e quelle sociali,
la vita pubblica e quella privata» 5. Qual è il messaggio di fondo che dovrebbe
essere veicolato quale coordinata etica di una cura dei sentimenti?
L’atteggiamento che ragionevolmente si pone a monte del recipro- co rispetto è
la capacità di immedesimazione 6 e soprattutto di usare l’immedesimazione in
modo da includere la differenza. In altri termini, «il rispetto basato
sull’idea di dignità umana risulterà insufficiente a includere tutti i
cittadini in termini di uguaglianza, a me- no che non sia nutrito da uno sforzo
immaginativo nei confronti della vita degli altri e da una comprensione più
intima della loro piena e co- mune umanità» 7. Ritorna anche in questo caso l’esigenza
di non ridurre la dignità umana a un simulacro dispotico declinato in termini
deonto- logici, bensì a modularne l’essenza su cadenze il più possibile
inclusive. L’attenzione alle differenze può maturare attraverso percorsi di
crescita emotiva finalizzati a migliorare la capacità di apertura al- l’altro
8, soprattutto ove si riesca a riconoscere e a dominare un’emo- zione che è
tanto tremendamente umana quanto problematica nelle dinamiche di una società
pluralista: la paura. La funzione primordia- le della paura è la difesa
dell’essere umano da fonti di pericolo, ma la sua attuale variante sociale e
adattiva (v. supra, cap. IV) corrisponde a un’emozione repulsiva e
narcisistica, che si declina come una «pre- occupazione offuscante [e]
un’intensa concentrazione su di sé che getta gli altri nell’ombra» 9. 5
URBINATI, Liberi e uguali, cit., p. 121. L’Autrice rimarca che tale passaggio è
propriamente ciò che denota la cultura dell’individualismo democratico. 6
Richiamiamo il tema dell’empatia, soprattutto in relazione al suo valore etico
per la vita di relazione: v., per tutti, BOELLA, Sentire l’altro. Conoscere e
praticare l’empatia, Milano, 2006, pp. 53 ss., 87 ss. 7 NUSSBAUM, Emozioni
politiche, cit., p. 455. 8 Riteniamo sia da accogliere positivamente l’iniziativa
del Governo italiano che il 27 ottobre 2017 ha presentato, per voce della
Ministra dell’Istruzione, il ‘Piano nazionale per l’educazione al rispetto’,
ossia un progetto teso a introdurre nella formazione scolastica momenti di
apprendimento per «promuovere nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e
grado un insieme di azioni educative e for- mative volte ad assicurare
l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche, che
rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadi- nanza attiva e
globale» e per «promuover[e] azioni specifiche per un uso consa- pevole del
linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con l’obiettivo di
arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei pregiudizi, coinvol-
gendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le famiglie». 9
NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 67. Osservazioni finali 241 Si
pone dunque l’esigenza di non cedere alle chiusure indotte dalla paura, al fine
di «adottare uno sguardo diverso, che dia rilevanza a mentalità, valori, idee,
convinzioni e sensibilità culturali capaci di conferire significati inediti
alle nostre paure» 10. In uno studio dedicato all’intolleranza come effetto
della paura dell’altro, Martha Nussbaum afferma che l’eguale e reciproco
rispetto richiede lo sviluppo dei cosiddetti ‘occhi interni’, ossia dello
sguardo immaginativo, non corporeo, che consente di vedere l’altro 11: è preci-
samente ciò che manca nell’odio, dove il sentire è cieco12 davanti all’individualità
altrui. La promozione di un orizzonte di rispetto si gioca in primo luogo a un
livello che ha a che fare con lo sviluppo di tale profondità di sguardo e di
immaginazione: per rispettare l’altro bisogna ‘sentirlo’ 13, attraverso
capacità di apertura, di ascolto, di discernimento. 1.2. Tra offesa alla
sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di
riformulazione per la tutela della di- gnità del credente Venendo al profilo
più strettamente penalistico, un primo bilancio può essere stilato in relazione
al panorama normativo italiano vigen- te. L’impressione è che nel complesso il
lavoro di rielaborazione con- cettuale e di riassetto etico compiuto dalla
giurisprudenza e dalla dottrina abbia condotto a norme il cui coefficiente di compatibilità
con le libertà costituzionali è tutto sommato accettabile. Come già osservato,
non appare possibile in questa sede procedere all’enucleazione di prospettive
de jure condendo calibrate su ogni sin- golo ambito in cui il codice fa
riferimento a ‘sentimenti’ come oggetto di tutela. Ci limitiamo a prendere in
analisi il settore in cui, a nostro avviso, 10 CERETTI-CORNELLI, Oltre la
paura, cit., p. 204. 11 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 69. 12 DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 254. 13 In questo senso la dimensione
della ‘cura’ si proietta verso un rispetto non meramente ‘passivo’, bensì
guarda anche, soprattutto, a un rispetto ‘attivo’. Con la prima accezione si
indica un atteggiamento di astensione dall’ostilità e dalla vio- lenza; il
rispetto ‘attivo’ si traduce in qualcosa di più: «un’attenzione [...] per i bi-
sogni, le esigenze, gli obiettivi e anche i progetti esistenziali delle
persone, il rico- noscimento del fatto che esse attribuiscono valore a qualcosa
che sta loro a cuore e che intendono realizzare», v. MORDACCI, Rispetto, cit.,
p. 34. 242 Tra sentimenti ed eguale rispetto emerge maggiormente
l’esigenza di procedere a una disambiguazione tra forme di intervento a tutela
della sensibilità e presidi contro di- scorsi discriminatori. In quest’ottica
l’impianto dei reati a tutela del sentimento religioso presenta delle criticità
che si addensano nella portata applicativa del- l’art. 403 c.p., ossia l’offesa
a una confessione religiosa mediante vili- pendio di persone. Partiamo dal
presupposto che sia ragionevole che lo stato laico tu- teli lo spazio
umano-personale e sociale in cui si dispiega la dimen- sione religiosa
dell’individuo 14: il problema è con quali modalità. Una delle più acute
posizioni a difesa della tutela del sentimento religioso osserva che
«discussione non è offesa. A maggior ragione quando il bene tutelato diventa
[...] la dignità e la personalità dell’essere umano sotto lo specifico profilo
della dimensione religiosa», e formula con- seguentemente la propria proposta
normativa, a superamento delle attuali disposizioni, elaborando una fattispecie
che incrimina «i com- portamenti o le espressioni oltraggiose tenuti in
pubblico [...] che le- dono intenzionalmente la dignità delle persone a causa
delle loro convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza» 15. Ebbene,
concordiamo con le ragioni di fondo di tale proposta, la quale ci sembra
coerente con l’intenzione di circoscrivere l’impianto di tutela alla dignità
della persona e non al prestigio e al patrimonio ideologico della confessione
16. Resta a nostro avviso il dubbio se sia opportuno mantenere una disposizione
dedicata al fenomeno religioso, la quale potrebbe espor- si al rischio di
assumere nuovamente le vesti di incriminazione sur- rogatoria del vilipendio17,
come del resto oggi sembra capitare per l’art. 403 c.p., il quale tende a
estendersi all’insulto alla confessione 14 MAZZUCATO, Offese alla libertà
religiosa, cit., p. 111. 15 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp.
117, 128. 16 La proposta di norma parla di ‘Offese alla libertà religiosa’, ma
il richiamo alla dignità ‘a causa delle convinzioni sul significato ultimo
dell’esistenza’ sem- brerebbe aprire anche alla tutela della dignità del non
credente. Su tale ultima prospettiva si veda, anche per richiami
comparatistici, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp.
126 ss. 17 Benché non compaia il termine ‘vilipendio’, anche il modello di
norma ipo- tizzato dalla Mazzucato parla, con formula rischiosa, di «comportamenti
o [...] espressioni oltraggiose tenuti in pubblico, anche rivolti a cose che
formino ogget- to di culto o siano consacrate al culto». Ad un’attenta lettura,
l’emancipazione dal modello del vilipendio della confessione emerge però dalla
traiettoria dell’offesa, la quale deve «[ledere] intenzionalmente la dignità
delle persone», v. MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., p.
128. Osservazioni finali 243 piuttosto che limitarsi a sanzionare
l’offesa alla persona 18. A nostro avviso, un riassetto e, soprattutto, una
decisa disambigua- zione della linea di intervento penale potrebbe aversi
attraverso un’abrogazione secca dell’art. 403 c.p., accompagnato da una
parallela modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975 che estenda ai
motivi re- ligiosi il tipo di discorso discriminatorio suscettibile di assumere
rile- vanza penale, secondo una formula che incrimini «chi propaganda idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso» 19. Ciò
non porterebbe, ci sembra, ad alcun vuoto di tutela: si tratte- 18 Vedi supra,
cap. V, sezione II, paragrafo 7.1. Anche partendo dal presupposto che la
libertà di espressione non sia assoluta, ma incontri limiti espressamente rico-
nosciuti dall’ordinamento interno e anche da fonti sovranazionali, incriminare
una manifestazione del pensiero consistente nel ‘tenere a vile’, e dunque nel
formulare critiche anche sferzanti e in grado di ferire la sensibilità del
credente, è esposta al rischio di tracimare in una forma di illegittima
compressione della libertà di critica e di satira; come osserva SERENI, Sulla
tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12, il vilipendio del credente
è costantemente a rischio di trasformarsi in «vilipendio teolo- gale, più
prossimo alla iper-sensibilità del credente rispetto al contenuto della verità
di fede, al rigore della sua Autorità religiosa contro le critiche (anche
satiriche) rivol- te a danno della Divinità, dei suoi simboli e dei suoi
ministri di culto». Si è osservato criticamente che ipotetiche interpretazioni
estensive della norma sul vilipendio ex art. 403 c.p., alla luce del dettato
codicistico post riforma 2006, e dunque nel segno dell’uguaglianza fra
confessioni religiose, sono da ritenersi applicabili anche alla tu- tela di
religioni come l’Islam: un esito definito «non nello spirito dei tempi» da
PULI- TANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, cit., p. 246,
plausibilmente per eviden- ziare come l’estensione della tutela, doverosa in
quanto sancita dal principio di uguaglianza, rischi di introdurre uno strumento
giuridico invasivo a disposizione di fedeli di religioni particolarmente
suscettibili. Esprime contrarietà rispetto all’ipotesi di un presidio penale
specifico del fenomeno religioso VISCONTI C., La tutela penale, cit., pp. 1066
s.; si pone a favore di una tutela incentrata sulle fattispecie comuni, senza
necessità di norme ad hoc sulla religione, anche MANTOVANI M., L’oggetto tute-
lato nelle fattispecie penali in materia di religione, in AA.VV., a cura di De
Francesco- Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 253. Per una
posizione favorevole al mantenimento del vilipendio, considerato «prototipo
dell’insulto all’atteggiamento individuale verso il problema religioso», v.
STELLA, Il nuovo Concordato fra l’Italia e la Santa Sede: riflessi di diritto
penale, in Jus, 1989, p. 103. 19 Per un’analisi dei modelli di tutela
imperniati sulla persona del credente e che si identificano nel paradigma dello
hate speech, v. CIANITTO, Quando la parola ferisce, cit., pp. 28 ss., 65 ss. Si
veda in particolare il caso della Gran Bretagna, Paese nel quale non esiste più
l’incriminazione per la condotta di Blasphemy (abo- lita nel 2008), e che ha
introdotto nel 2006 (Racial and Religious Hatred Act) una fattispecie di reato
che incrimina le manifestazioni di incitamento all’odio religio- so, v. EAD.,
Quando la parola ferisce, cit., pp. 168 ss.; GIANFREDA, La blasphemy
nell’ordinamento inglese di Common Law e la tutela penale della “religione”:
pro- blemi aperti e nuove prospettive, in AA.VV., a cura di De
Francesco-Piemontese- Venafro, Religione e religioni, cit., pp. 403 ss.
244 Tra sentimenti ed eguale rispetto rebbe di una più netta
ridefinizione di confini tra fattispecie, senza intaccare la soglia ‘inferiore’
dell’intervento penale (il nucleo duro delle offese alla persona e alla sua
dignità), lasciando univocamente al di fuori offese limitate al piano
ideologico, e incentrando l’inter- vento su espressioni discriminatorie basate
su motivi religiosi 20. Da un lato le offese al singolo potrebbero assumere
rilevanza co- me delitti contro l’onore (oggi, dopo l’abrogazione
dell’ingiuria, resi- duerebbe la sola diffamazione), eventualmente aggravati ai
sensi del- l’art. 3 del d.l. n. 122/1993 (aggravante relativa alle finalità di
discri- minazione); dall’altro lato, l’orizzonte del discorso pubblico in mate-
ria di critica e satira religiosa si troverebbe affrancato dall’incom- bente
censura del vilipendio, fermo restando il limite, comunque pro- blematico ma
ben più selettivo, di non tracimare in propaganda di- scriminatoria 21. Un
impianto di tutela così strutturato consentirebbe a nostro avvi- so di
mantenere aperto uno spazio di illiceità per forme di espressio- ne volte a
negare la pari dignità del credente, le quali chiamano in gioco un profilo
altamente significativo della condizione esistenziale umana come l’identità
religiosa 22. Al contempo, la necessità di valu- 20 Si veda in questo senso il
parere rilasciato dalla Commissione Europea per la democrazia attraverso il
diritto (c.d. ‘Commissione Venezia’, organo consultivo del Consiglio d’Europa),
nel quale si suggerisce agli Stati membri l’abrogazione delle leggi sulla
blasfemia e il mantenimento di presidi basati sulle generiche norme che
incriminano ingiuria e diffamazione e, soprattutto, sulle norme che incriminano
la diffusione di idee fondate sull’odio religioso, v. Compilazione di pareri e
rapporti della Commissione di Venezia riguardante la libertà d’espressione e i
media, 19 settembre 2016, pp. 26 ss. 21 La strada della tutela antidiscriminatoria
è additata anche da DONINI, “Dan- no” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei
sentimenti, cit., p. 1586, il quale sembra però aprire alla prospettiva di
un’applicazione dei delitti contro la discriminazio- ne solo nei casi di
incitamento alla discriminazione o ad atti discriminazione nei confronti di
persone, lasciando fuori dal raggio dell’intervento penale le offese collettive
che potrebbero, a nostro avviso, essere invece vagliate come eventuali forme di
propaganda razzista, previa opportuna modifica dell’art. 3 della legge n. 654
del 1975. Richiama la prospettiva di una tutela tramite le norme antidiscri-
minazione proprio al fine di tutelare anche i gruppi, e non solo i singoli,
MAZZOLA, Diritto penale e libertà religiosa dopo le sentenze della Corte
costituzionale, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2005, p. 89;
cfr. PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 165 ss. 22
Nella dottrina penalistica italiana l’autorevole e cristallina posizione di
ROMA- NO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 215 a sostegno di un
presidio penale speci- fico per le religioni si basa su argomenti i quali
possono, a nostro avviso, essere re- cuperati anche nella prospettiva da noi
delineata. Secondo Romano, la non inop- portunità dell’intervento penale deriva
dall’esigenza di mantenere all’interno del si- Osservazioni finali
245 tare l’illiceità attraverso lo stretto filtro dell’incriminazione della
pro- paganda discriminatoria potrebbe portare a un più cauto uso del di- ritto
penale nei rapporti con la libertà di espressione e in particolare con la
satira. Ci sembra questa una futuribile modifica che potrebbe contribuire a
fissare in modo più definito spazi di libertà nella salvaguardia di un nucleo
minimo di rispetto che tenga conto del diritto liberale di critica e della
necessaria distinzione con l’orizzonte della discriminazione. 2. La priorità
delle libertà, l’importanza delle regole Dietro il velo retorico dei sentimenti
si pongono questioni di vitale importanza per la convivenza, non liquidabili
dietro affrettate decla- ratorie di ‘irrazionalità’, e che richiedono un serio
impegno in primo luogo nella prospettiva che abbiamo definito come ‘cura’.
Resta aper- to, in via residuale, il problema di interventi limitativi delle
libertà. Il giurista penale avverte il disagio di un’alternativa dilemmatica
tra la fedeltà a principi di libertà e la ‘violazione’ che potrebbe scatu- rire
dall’avallo di politiche di intervento; sì, perché di violazione si tratta in
quanto un dilemma non ammette vie di fuga ma costringe, piaccia o non piaccia,
ad accollarsi le conseguenze del cosiddetto ‘male minore’. Condividiamo
l’atteggiamento combattuto che altre voci, ben più autorevoli, hanno
confessato. Non lo diciamo semplicemente a no- stra discolpa, bensì a conferma
della profondità del dilemma che ci attanaglia, nella convinzione che
proclamare in questi casi un’asse- rita ‘soluzione’ rischi di sfociare in una
hybris intellettuale, e che sia stema strumenti per marcare «l’essenziale
differenza fra libertà di critica, anche in forme aspramente satiriche, e pura
e semplice denigrazione o dileggio: differenza che deve modellarsi [...] su
quanto comunemente accolto per le ingiurie rivolte ai singoli». Il richiamo
all’offesa che caratterizza l’ingiuria contribuisce a connotare in termini
personalistici l’interesse protetto, avvicinandolo univocamente alla, pur
problematica, dimensione della dignità del credente. Fermo restando che le
fatti- specie a tutela dell’onore restano comunque un presidio attivo per le
offese ai singo- li, l’estensione dell'art. 3 della legge n. 654 del 1975 nella
parte relativa alla propa- ganda si presterebbe, a nostro avviso, a perseguire
l’auspicabile risultato teorizzato da Romano. Se intendiamo denigrazione o
dileggio come forme di disconoscimento della pari dignità delle persone in
quanto credenti in una determinata fede o visione del mondo, l’incriminazione
della propaganda discriminatoria, debitamente estesa nella formulazione
lessicale, può, a nostro avviso, assolvere in modo meno ambiguo dell’art. 403
c.p. ai predetti scopi di tutela. 246 Tra sentimenti ed eguale
rispetto invece preferibile affrontare i problemi col dovuto rispetto per la
complessità: «Un dilemma comporta un’oscillazione infinita; in quanto la nostra
esperienza è teatro di continui dilemmi, la sua struttura è infinitamen- te
provvisoria e le si fa torto ogniqualvolta si cerchi di rinchiuderla nello
steccato di un arrogante e definitivo pronunciamento, nella su- perba
convinzione di aver già sempre (prima che un qualsiasi proble- ma si ponga)
visto giusto» 23. È comprensibile la tendenza a optare per la soluzione in
grado di ‘lasciare in sospeso’ il più possibile le conseguenze di uno dei due
ma- li, per evitare una violazione certa (delle libertà) nella speranza che il
male alternativo non trovi realizzazione. Riteniamo che questa sia una
possibile chiave di lettura, come ‘autorassicurazione psicologica’, di ciò che
la filosofia ha definito ‘utilitarismo delle regole’, ossia l’at- teggiamento
con cui si risponda all’incertezza di fronte a un conflitto cercando
l’applicazione di una regola ritenuta giusta in quanto tale, quali che siano le
conseguenze della sua applicazione 24, accettando il rischio di affidarsi a
ragionamenti talvolta anche non adeguatamente orientati sul piano delle
possibili conseguenze. Ed è altrettanto comprensibile che il cultore delle
discipline pena- listiche, nella consapevolezza dei mali insiti nella
coercizione, faccia il possibile per evitare di dare impulso e fornire ragioni allo
strumen- to penale, cercando piuttosto di contenerne la pervasività. Vorremmo
essere sicuri che la fede liberale ci porti nel giusto; ma un sano senso
critico esorta a mettere in conto che potremmo anche aver torto. In linea di
principio, sarebbero da evitare alcuni degli er- rori attribuiti a un pensiero
irenisticamente liberale, che talvolta fini- sce per «esalta[re] la forma a
discapito del contesto» 25, magari «eri- gendo steccati intellettualistici
esibiti come fieri esercizi di democra- zia» 26. Quello che a nostro avviso va
tenuto presente, e che parte della dottrina penalistica ha ben messo in luce, è
il fatto che non vi sono risposte che possano considerarsi come esito
indefettibile di un’ade- 23 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78.
24 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 25 ABEL, La parola e il
rispetto, cit., p. 107. 26 Così, efficacemente, BRUNELLI, Attorno alla
punizione del negazionismo, cit., p. 998. Osservazioni finali 247
sione ai principi liberali (quale tipo di liberalismo?) o come soluzione
ricavabile ‘a rime obbligate’ dal testo costituzionale, ma ogni eventua- le
prospettiva resta legata a opzioni politiche che vanno attentamente commisurate
sia a criteri di legittimità sia a criteri di opportunità. La posta in gioco è
estremamente significativa. La difesa dell’eser- cizio di una libertà del
pensiero critico, aperto anche a manifestazio- ni ‘disturbanti’ 27 è ciò che
identifica e distingue il nostro mondo libe- rale, pur con tutti i suoi
difetti, dalle oscurità del fondamentalismo: non dobbiamo dimenticarlo. La
costruzione di una campana di vetro al fine di garantire ‘im- munità emotiva’
agli individui suscettibili non può far parte dello strumentario giuridico di
una democrazia liberale, la quale può (de- ve?) esigere dai cittadini
responsabilizzazione e capacità di elabora- zione della limitata efficacia
pratica delle proprie convinzioni, o, più icasticamente, «una certa dose di
robustezza» 28. Si tratta in altri ter- mini di favorire l’interiorizzazione di
un onere di tolleranza consi- stente nella consapevolezza di poter realizzare
il proprio ethos «solo nei limiti di ciò che compete parimenti a tutti» 29. Il
richiamo alla ‘robustezza’ vale sia come monito a non cadere in uno sterile e
polemogeno ‘sentimentalismo vittimocentrico’, acriti- camente proclive ad
avallare doglianze di animi suscettibili, ma costi- tuisce a nostro avviso
anche un monito a non dare per scontata tale condizione di tenuta etica nelle
persone, dovendosi mantenere l’oc- chio vigile e l’orecchio proteso a captare
segnali in grado di mostrare le crepe prima che si arrivi a un collasso. È di
tutta evidenza come nell’attuale momento storico le dinamiche del reciproco
rispetto stiano subendo una particolare curvatura, proba- bilmente una
deformazione, sia sul piano dei contenuti, sia sul piano dei canali espressivi.
Rispetto al passato, anche recente, siamo oggi por- tati a constatare quasi
quotidianamente, grazie ai (o a causa dei) media, condotte che sono dettate da
atteggiamenti di repulsione dell’altro. Se è vero che rinvenirne la dannosità
immediata risulta operazio- ne assai complessa, la quale molto difficilmente
riesce a soddisfare appieno i filtri dell’armamentario concettuale penalistico,
non può essere però escluso che volgere gli occhi al cielo, confidando sul
fatto che lo spirito critico e gli ideali di tolleranza riescano ad avere la
me- glio, possa rivelarsi un atteggiamento «totalmente alien[o] dai calcoli 27
PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 315. 28 HÖRNLE, Protezione penale
di identità religiose?, cit., p. 381. 29 HABERMAS, Tra scienza e fede, tr. it.,
Roma-Bari, 2006, pp. 160 s. 248 Tra sentimenti ed eguale rispetto
pazienti e minuziosi che sarebbero richiesti per sostanziare quella
giustificazione» 30. Tali riflessioni ci vengono suggerite dall’esigenza di non
sottovalu- tare un repertorio ormai troppo consistente di fatti che rimandano a
un passato non del tutto trascorso e con preoccupanti echi nel tempo presente.
Le ragioni del diritto si intrecciano con un tessuto anche emozionale, il quale
costantemente ci ricorda che il diritto è «priori- tariamente una risposta alla
memoria del male, che esseri umani possono fare ad altri esseri umani» 31.
Tenere ben ferma l’attenzione sui mondi umani e sulla realtà so- ciale è un
impegno necessario per monitorare la qualità delle libertà in un contesto
pluralista. Il diritto penale non rappresenta lo stru- mento più idoneo a
svolgere una funzione promozionale 32, ma rite- niamo non debba essere
aprioristicamente tacciato di vena illiberale il proposito di immaginare
strumenti perché vi possa essere anche, eventualmente, un redde rationem
sull’uso della libertà di espressione, non quale forma di soffocamento ma quale
chiamata a dare spiega- zioni e ad assumersi la responsabilità di un certo uso
del linguaggio, il quale è performativo non solo nei confronti della realtà
esterna ma anche di sé stessi 33. Non intendiamo avallare forme di ‘democrazia
protetta’34, bensì evitare di chiudere aprioristicamente il discorso su ciò che
il diritto, e anche eventualmente il diritto penale, potrebbe fare nelle forme
non 30 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 31 VECA, La priorità
del male e l’offerta filosofica, Milano, 2005, p. 20. 32 FIANDACA, Laicità,
danno criminale e modelli di democrazia, cit., p. 37. 33 Secondo quanto
osservato da Michele Serra in esergo a questo capitolo, di fronte a nuove
libertà e a nuove dignità conseguono nuovi problemi, di pensiero e di
linguaggio, e le parole che usiamo definiscono gli altri ma al contempo ci
defini- scono. 34 Concetto che peraltro rischia di prestarsi a usi retorici.
Cosa vuol dire ‘de- mocrazia protetta’? Una democrazia liberale di tipo
‘aperto’ ha dei valori da di- fendere? Certamente non può dirsi che la
democrazia sia una forma di governo relativistica; al contrario, essa «non ha
fedi o valori assoluti da difendere a ecce- zione di quelli su cui essa stessa
si basa. Nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può
essere relativistica», v. ZAGREBELSKY, Imparare de- mocrazia, Torino, 2007, p.
15. A partire da queste premesse, si può concordare con quanto osservato da
SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espressione, cit., p. 80, ossia
che «non esistono “democrazie indifese”, cioè impossibilitate a difendersi se
vogliono rimanere fedeli a se stesse, dovendo semmai distinguersi tra
Costituzioni dotate di un sistema di protezione meno “appariscente” e quelle
che, invece, ne esibiscono uno maggiormente strutturato».
Osservazioni finali 249 di una censura autoritaria, ma quale veicolo,
tramite i precetti, di ri- chiamo simbolico a valori della convivenza liberale,
nella convinzio- ne che lo strumento giuridico debba essere pensato non
soltanto co- me un mezzo ‘di giustizia’, ma possa anche assumere le vesti di
«un luogo di scoperta del giusto. È l’idea che l’istituzione del diritto nella
sua essenza sia precisamente il mezzo che la nostra ragione ha indi- cato non
solo per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire
attraverso il confronto e non più lo scontro delle diverse concezioni del bene
sempre nuovi aspetti di questo dovuto» 35. 35 DE MONTICELLI, La questione
morale, cit., p. 156.Grice: “Falzea interprets, correctly, Roman law as
imperativistic or better, volitive – volontarismo giuridico – My reflections on
“Aspects of Reasons” point to the same direction. Indeed my focus is on the
conversational IMPERATIVE!” Angelo Falzea. Falzea. Keywords: QVOD PRINCIPII
PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM, interesse, valore, disvalore, assiologia,
accertare, apparire, efficacia, interesse, does moral philosophy rest on a
mistake, duty cashes on interest, on desire. ‘sentimento condiviso’ -- H. L. A.
Hart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Falzea” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761754946/in/dateposted-public/
Grice e Fano – glossogonia – imago acustica e imagine
sensibile – filosofia italiana-- (Trieste). Filosofo. Grice: “I
like Fano; for one, he took very seriously Plato’s Cratilo – “origine e natura
del linguaggio,’ he has also explored a rather extravagant trend for Italian
philosophers, when philosophy is reduced to ‘analisi del linguaggio’!” Neo-idealista,
appartene a quel gruppo di artisti, letterati, e scrittori che hanno reso
famosa Trieste. Legge in modo originale l'opera di Croce e Gentile. Sottolinea
l'importanza delle scienze naturali e della matematica, che nel suo sistema non
sono governate dagli pseudo-concetti. Da molta importanza agli aspetti più
semplici e ferini dello spirito seguendo le riflessioni di Vico. Suo padre
Guglielmo era un medico affermato, sua madre Amalia Sanguinetti. Il padre fu
uno dei pochi ebrei di allora che passano al cattolicesimo per sincera fede. Ma
tale conversione e accompagnata da manie religiose e disordini mentali precoci. Fin
dall'adolescenza Fano ha un impulso di rivolta contro gli adulti, il loro
conformismo, il loro spirito oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia di
Ettore Cantoni si parla di due ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore
Ettore e Fano, che viaggiano e arrivano addirittura in Africa, appunto per
sfuggire all'atmosfera pesante instaurata dagli adulti. Fu un ragazzo
ribelle, non volle accettare la disciplina della scuola. Un episodio
contraddistingue il suo carattere, quando getta nella stufa il registro di
classe. Frequenta la scuole austriaca con scarso profitto. Afferma che una
parte delle sue difficoltà era dovuta al fatto di avere poca memoria (non
quella concettuale, in cui eccelleva, ma quella specifica, dettagliata,
necessaria ad es. nello studio della storia e della geografia). Così abbandona
gli studi assai prima di aver conseguito la maturità. Ritiratosi da
scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto di impiegato. Ma abbandonò
l’impiego e affitta, assieme ad alcuni coetanei, una cameretta sul colle di
Scorcola, dove si dedica non solo a discussioni senza fine con gli amici, ma
passò ore e ore a studiare filosofia. Più tardi a Vienna poté sentire le
lezioni universitarie di alcuni luminari del tempo. Fu la lettura dei classici
tedeschi, da Leibnitz a Schopenhauer, da Kant a Fichte e Hegel, a dare al suo
pensiero un indirizzo al quale sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, a
fargli trovare le armi per la sua personale battaglia contro il dogmatismo, il
fideismo, il clericalismo del proprio ambiente familiare. Certo alla
formazione di Fano ha contribuito anche l'ambiente eccezionale della Trieste di
allora. Fu suo amico Poli, il cui pseudonimo, Saba, fu inventato proprio da
lui. Si ispira certamente alla figura di Fano anche il sesto de I
prigioni di Saba: «L’Appassionato/Natura, perché ardo, m’ha di rosso/pelo le
guance rivestite e il mento./ Non è una brezza lo spirito: è un vento /impetuoso,
onde anche il Fato è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse d’Egitto, / ed ho
sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia Maometto». Saba e
Fano comprano in società la libreria antiquaria Mayländer, la futura
"Libreria antica e moderna", ma non andano d’accordo, perché Fano non
era persona da accollarsi diligentemente troppi compiti "noiosi".
Così i due decisero di separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere
proprietari, Fano propose di giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma
Saba, che era amante e cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della
sorte e convinse l’amico a cedergli ugualmente la libreria. Un'altra
persona dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Giotti.
E un incontro come di un artista toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un
grande giovamento. Egli leggeva a quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io
non conosco. Per il suo carattere indolente, in molte cose esteriori della vita
fece ciò che gli consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la
famiglia a Firenze e cose simili. Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo
contraccolpo a causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella
di Virgilio, che Fano sposa. Ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che fu
ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita. Fu una tragedia che
scosse profondamente tutto Trieste. Sposa Anna Curiel, da cui ebbe un figlio di
nome Guido. Durante il periodo della grande guerrafu irredentista, come
molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e altri. In seguito il suo
atteggiamento fu molto simile a quello di Croce, e per analoghi motivi
ideologici. Gli ideali egalitari non facevano presa su di lui e gli sembrava
utopistico, e comunque non desiderabile, l’instaurare una società comunista.
Anzi si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento di allora,
tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione per la
reazione fascista. Ma, già prima di Croce, divenne un antifascista, che non
perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le sue opinioni. Si
laurea in filosofia a Padova con “Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di
una filosofia solipsistica” pubblicata sulla Rivista d’Italia. Probabilmente
non frequenta le lezioni universitarie a Padova, anche perché era già sposato e
doveva pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la sua formazione si compì,
oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva trascorso qualche anno prima della
guerra e dove aveva frequentato l’ambiente de La Voce. Professore di
filosofia presso vari licei di Trieste, Fano aspira tuttavia all’insegnamento
universitario, a cui giunse dopo molte traversie causate da intralci posti
dalle autorità. Il motivo di queste difficoltà si deve alla fama di
antifascista che egli si procurò quando, commemorando il cugino Enrico Elia,
volontario nella grande guerra e morto sul Podgora, tenne un discorso in cui
traspariva, in maniera non molto velata, la convinzione che il sacrificio di
tante vite per la libertà veniva rinnegato dal regime politico allora
dominante. Questa sua presa di posizione gli costò alcuni giorni di carcere
nella fortezza di Capodistria e la fama di antifascista si ripercosse sulla sua
carriera universitaria. Attorno a quegli anni a Trieste si andavano diffondendo
le idee della psicoanalisi di Weiss, discepolo di Freud. A Fano non piaceva
questa teoria, affermando che si basava su supposte attività del pensiero immaginarie
e non verificabili. Il concetto di inconscio non posse venir accettato da chi
come lui basava tutto sull' ‘auto-coscienza’. Studioso di Croce, che conosce, pubblicò
vari articoli sulla filosofia crociana. Il saggio “La negazione della filosofia
nell’idealismo” gli procurò l’attenzione di Radice, che gli offrì un posto di assistente
a Roma. Da notare che nel suo primo saggio viene esposto organicamente il suo
pensiero, Il sistema dialettico dello spirito. Dopo l'invasione tedesca trova
rifugio a Rocca di Mezzo, in Abruzzo. La tranquilla sicurezza, la noncuranza
dei pericoli non gli vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai
tedeschi (lui e la moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i
bombardamenti alleati. I tedeschi lo usarono spesso come interprete e poiché la
sua casa stava proprio sulla strada maestra, spesso la cucina era piena di
soldati che avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella cucina mal riscaldata,
incurante dei rischi immediati, lavora forse più di quanto non avesse mai fatto
in precedenza e portò a termine l'opera: La filosofia del Croce. Saggi di
critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito. Finita la
guerra ritrovò il suo posto a Roma. Nel saggio sul Croce aveva rivendicato
l'importanza delle scienze empiriche, che nella filosofia crociana non avevano
dignità conoscitiva. In Teosofia orientale e filosofia greca troviamo una descrizione dello sviluppo
storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza
della matematica, mentre Croce sostene che la matematica è uno pseudo-concetto.
Inoltre cura la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni futura metafisica
di Kant. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema
dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle
origini del linguaggio, poi riedito accresciuto a cura di Guido Fano. Altre
opere: “Il sistema dialettico dello spirito” *Roma, Servizi editoriali del
GUF/); “La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un
sistema dialettico dello spirito” (Milano, Istituto editoriale italiano); “Teosofia
orientale e filosofia greca. Preliminari ad ogni storiografia filosofica”
(Firenze, La nuova Italia); “Saggio sulle origini del linguaggio. Con una
storia critica delle dottrine glottogoniche” (Torino, Einaudi); “Origini e natura
del linguaggio” (Torino, Einaudi); “Neo-positivismo, analisi del linguaggio e
cibernetica” (Torino, Einaudi); “Prolegomeni
ad ogni futura metafisica” (Firenze, G. C. Sansoni). Ettore Cantoni, Quasi una
fantasia: romanzo, Milano, Treves, Cantóni, Ettore, su treccani. Giorgio Voghera su Il Piccolo. Viene venduta
a Giorgio Fano e Umberto Poli, il poeta Umberto Saba, che ne diventa proprietario
unico. Dice che una teoria può essere accettata solo se si prospettano anche
delle ipotesi — che poi appariranno assurde e non si verificheranno
concretamente — nelle quali essa dovrebbe venir respinta. La psicanalisi,
invece, si mette accuratamente al coperto da ogni prova contraria. L'estetica
nel sistema di B. Croce, L'Anima, da filosofia di B. Croce, Giornale critico della
filosofia italiana, Un episodio illustra bene sia l’importanza che egli
annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio. Una mattina, scendendo in cucina,
che e diventata il suo studio, la trova invasa da soldati tedeschi che cercano
acqua ed altro. Con l’abituale tono tranquillo, dimenticando con chi aveva a
che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta, addita ai soldati della
Wehrmacht la porta. Prego, dice in tedesco se lor signori avessero la
compiacenza di andare da un’altra parte. Io ho da lavorare. Senza fiatare, i
soldati infilano la porta ed egli si rimise tranquillamente al suo tavolo di
lavoro per battagliare con Croce, dimentico che la più superficiale inchiesta e
sufficiente a convogliarlo assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio.
L'ottimismo di Fano e il pessimismo di Voghera. Brani da lettere e testi,
Milano, Mimesis, Silvano Lantier, La filosofia del linguaggio (Trieste, Riva);
Silvano Lantier, “Vico e Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del
Bianco); Dizionario biografico degli italiani, Roma. The ‘signifier’,
drawn from Saussurean linguistics, was arguably the central concept in Jacques
Lacan’s engagement with psychoanalysis. As indicated in its programmatic texts,
the effort to develop a ‘logic of the signifier’ that would account for the
relations between subject, science, and ideology, was one of the guiding
concerns of the Cahiers pour l’Analyse. See also: Linguistics, Logic,
Meaning, Speech, Structure, Subject, Unconscious Three conceptual distinctions
lay at the heart of Ferdinand de Saussure’s innovative structural linguistics,
the science that was foundational for twentieth-century French structuralism.
The first was the distinction between langue [language] and parole [speech].
For Saussure, the former was to be considered in synchronic terms and as the
primary terrain of linguistic analysis; in this it was opposed to the
diachronic reality of the latter, which put language to use in time in spoken
form. In his synchronic analysis of language, Saussure insisted on another
distinction, that between the sign and the referent. For example, the sign
‘cat’ may in multiple instances refer to an actual cat which would be its real
world referent, i.e., this cat. Most crucial, however, was the third
distinction, that within the sign between the ‘signified’ and the ‘signifier’.
The former was the conceptual content of the sign, in this case the idea of a
cat, as a four-legged mammal, often domesticated, distinct from ‘dogs’ and
other domestic pets. Opposed to this mental concept or ideational content, was
the signifier ‘cat’ – as an ‘acoustic image’ or phoneme, a sequence of letters,
i.e., the word itself apart from its meaning or content. For Saussure, meaning
was produced through a sequence of differential relations in which signifiers
were correlated to signified contents; in all instances, it was the difference
between signifiers that allowed them to function as linked to specific
signifieds or contents. In this regard, the production of the signified was the
locus of Saussure’s linguistic concerns. Jacques Lacan’s meeting of Roman
Jakobson (a follower of Saussure’s, via their mutual friend Claude
Lévi-Strauss) in 1950 was arguably the central event in Lacan’s own
intellectual itinerary. His introduction to structural linguistics moved him
away from the Hegelianism of his youth, and paved the way for his later concern
with mathematics, formalisation, and systems theory analysis. Inspired by
Saussure, Lacan nonetheless departed from him on several significant points.
First, the sign/referent distinction was of minimal concern for Lacan. Second,
where Saussure tended to denigrate parole in favour of a thoroughly synchronic
approach to language, Lacan, as a psychoanalyst, was eminently concerned with
speech, itself the medium of psychoanalytic practice and the crucial mechanism
for the emergence of the subject of the unconscious. Finally, and most
importantly, Lacan reversed the priority of the signified/signifier
relationship found in Saussure’s example. For Lacan, meaning was the result of
the play of signifiers apart from any synchronic correlation to fixed signified
contents. Lacan introduced his new structural interrogation of Freud in his
famous ‘Rome Discourse’ in 1953, reprinted in the Écrits as ‘The Function and
Field of Speech and Language in Psychoanalysis’ (E, 237-322). The increasing
pertinence granted to the signifier would be evident in the later texts of this
volume, culminating in ‘The Subversion of the Subject and the Dialectic of
Desire in the Freudian Unconscious’ (1960), wherein Lacan claims that
‘[s]tarting with Freud, the unconscious becomes a chain of signifiers that
repeats and insists somewhere (on another stage or in a different scene, as he
wrote), interfering in the cuts offered it by actual discourse and the
cogitation it informs’ (E, 799). For Lacan, the primacy of signifier was
what accounted for the uniqueness of the human and distinguished its
relationship to language from any notion of mere communication or the simple
transfer of meaning. In his third seminar, on the psychoses, delivered in
1955-56, Lacan provides an illuminating example of this phenomenon that
deserves to be quoted at length: I’m at sea, the captain of a small ship.
I see things moving about in the night, in a way that gives me cause to think
that there may be a sign there. How shall I react? If I’m not yet a human
being, I shall react with all sorts of displays, as they say – modelled, motor,
and emotional I satisfy the descriptions of the psychologists, I understand something,
in fact I do everything I’m telling you that you must know how not to do. If on
the other hand I am a human being, I write in my log book – At such and such a
time, at such and such a degree of latitude and longitude, we noticed this and
that. This is what is fundamental. I shelter my responsibility. What
distinguishes the signifier is here. I make a note of the sign as such. It’s
the acknowledgment of receipt [l’accusé de réception] that is essential to
communication insofar as it is not significant, but signifying. If you don’t
articulate this distinction clearly, you will keep falling back upon meanings
that can only mask from you the original mainspring of the signifier insofar as
it carries out its true function. […] Indeed, it isn’t as all or nothing
that something is a signifier, it’s to the extent that something constituting a
whole, the sign, exists and signifies precisely nothing. This is where the
order of the signifier, insofar as it differs from the order of meaning,
begins. If psychoanalysis teaches us anything, if psychoanalysis
constitutes a novelty, it’s precisely that the human being’s development is in
no way directly deducible from the construction of, from the interferences
between, from the composition of, meanings, that is, instincts. The human
world, the world that we know and live in, in the midst of which we orientate
ourselves, and without which we are absolutely unable to orientate ourselves,
doesn’t only imply the existence of meanings, but the order of the signifier as
well.1 Lacan will ultimately link the ‘signifier, as such, signifying
nothing’ to the Oedipus complex, and argue that the entry to the symbolic order
of language is a result of a submission to the ‘law’ of the phallic signifier,
grounded in the ‘Name-of-the-father’. More broadly, the signifier, distinct
from meaning, lacking fixed signified or referent, will for Lacan come to be
the concept for sexual difference as such – the integral incompleteness or
indeed lack that constitutes the subject. In the Cahiers pour l’Analyse
Much as in Lacan’s teaching, the signifier is a ubiquitous concept in the
Cahiers pour l’Analyse. In the inaugural article, ‘La Science et la vérité’
(CpA 1.1), Lacan develops his theses concerning lack and ‘truth as cause’ in
scientific discourse. After making a distinction between the formal and
material cause along Aristotelian lines, Lacan specifies that psychoanalyse is
concerned with the latter and its relation to the former: This material
cause is truly the form of impact of the signifier that I define therein.
The signifier is defined by psychoanalysis as acting first of all as if
it were separate from its signification. Here we see the literal character
trait that specifies the copulatory signifier, the phallus, when – arising outside
of the limits of the subject’s biological maturation – it is effectively
(im)printed; it is unable, however, to be the sign representing sex, the
partner’s sex – that is the partner’s biological sign; recall, in this
connection, my formulations differentiating the signifier from the sign.
[…] Conveyed by a signifier in its relation to another signifier, the subject
must be as rigorously distinguished from the biological individual as from any
psychological evolution subsumable under the subject of understanding (CpA
1.1:26, trans. 875). The primacy of the signifier in Lacan’s teaching,
and his attempt to provide a ‘rigorous’ account of it, are the inspiration
behind Jacques-Alain’s Miller’s attempt in ‘La Suture’ to provide, as the
subtitle suggests, the ‘elements for a logic of the signifier’ (CpA 1.3). Note,
however, that in ‘La Science et la vérité’ Lacan is already gesturing toward
tying the signifier back to the body, without however reducing it to anything
that could be confused with biology. Miller’s contribution to the Cahiers will
emphasize the formal elements of Lacan’s account, whereas others, chiefly André
Green and Serge Leclaire will work to bring the body back in to analysis in
response to Miller’s ultra-formalism. Miller presents the ‘concept of
logic of the signifier’ in clear terms at the outset of ‘La Suture’ (CpA
1.3): What I am aiming to restore, piecing together indications dispersed
through the work of Jacques Lacan, is to be designated the logic of the
signifier - it is a general logic in that its functioning is formal in relation
to all fields of knowledge including that of psychoanalysiswhich, in acquiring
a specificity there, it governs; it is a minimal logic in that within it are
given those pieces only which are necessary to assure it a progression reduced
to a linear movement, uniformly generated at each point of its necessary
sequence. That this logic should be called the logic of the signifier avoids
the partiality of the conception which would limit its validity to the field in
which it was first produced as a category; to correct its linguistic declension
is to prepare the way for its importation into other discourses, an importation
which we will not fail to carry out once we have grasped its essentials here
(CpA 1.3:38-9, trans. 25). The analysis that follows is a reading of
Gottlob Frege’s Grundlagen der Arithmetik (1884), based around a demonstration
that Frege’s attempt to give a logical construction of the series of whole
natural numbers is predicated on this prior logic of the signifier. Frege’s
concept of zero involves a simultaneous ‘summoning’ and ‘annulment’ of the
non-identical that Miller claims can be related to Lacan’s account of primary
repression and metonymic displacement in the ‘signifying chain’. For Miller,
Frege does not recognize that the truth of his own discourse is predicated on a
suturing over of an inaugural non-identity. He misrecognises ‘the paradox of
the signifier’, that ‘the trait of the identical represents the non-identical’
(CpA 1.3:48/32). In the concluding section of this article, Miller
ties the logic of the signifier to the subject (CpA 1.3:47-49). In effect,
Miller follows Lacan in defining the subject as ‘the possibility for one
signifier more’: In order to ensure that this recourse to the subject as
the founder of iteration is not a recourse to psychology, we simply substitute
for thematisation the representation of the subject (as signifier) which
excludes consciousness because it is not effected for someone, but, in the chain,
in the field of truth, for the signifier which precedes it (CpA
1.3:48/33). The key point is that the signifying chain, in which the
subject ‘flicker[s] in eclipses’, is marked by a constitutive lack that is
sutured over. It is this lack, in its determinant capacity, that accounts for
the persistence of the subject in his own discourse. The signifier is a
crucial concept in the first segment of Serge Leclaire’s seminar ‘Compter avec
la psychanalyse’ that concludes Volume 1 (CpA 1.5). According to Leclaire, the
analyst does not obey a logic of meaning [logique du sens] (CpA 1.5:57), but in
listening for the unconscious must rather follow the formal paths opened up by
the signifier. In a discussion of clinical approaches to fantasy,
Leclaire says that ‘two references are essential for the determination of the
structure of the fantasy’ (CpA 1.5:61). On the one hand, fantasies are tied to
an emotion that is corporeally localized. He gives examples: anal excitation,
oral or dental excitations, or ‘sensations of threshold or passage [émoi de
seuil, de passage]’. On the other hand, they are attached to signifiers; and
more particularly to ‘signifiers as such’, that is, signifiers detached from
their relation to the signified. This is how one should understand Freud’s
suggestion that fantasies are ‘made up from things that are heard, and made use
of subsequently’ (SE 1: 248). Leclaire gives examples of how certain signifiers
used by the mother (proper names and pet names) can become detached from their
common significance for the child and become sites for unconscious signifying
chains. Later, Leclaire turns to the notion of the ‘unconscious concept’,
emphasizing its role in the constitution of signifiers which mark the body.
Indeed, the chain created by the unconscious concept, the concept of the ‘small
piece’ detached from the body, as Freud says, ‘in order to gain the favour of
some other person whom he loves’ (SE 17: 131) is the libidinal condition for
the emergence of the signifier. Leclaire goes on to elaborate that ‘this
wandering piece that can be separated, by figuring the place of separation,
transgresses, in the literal sense of the term, the surface’s function of
limit. And as a limit itself, it marks difference, thus transcending the
effaceable trace of the sensible: the pain of the wound becomes an ineradicable
mark’ (CpA 1.5:68). This initial transgression, he says, is rediscovered in
orgasm and in sadistic jouissance. It is, says Leclaire, ‘the void or hole
around which fantasy turns’. In his ‘Réponse à des étudiants en
philosophie sur l’objet de la psychanalyse’ which opens Volume 3, Lacan insists
that, while posing a challenge to dialectical materialism, his theory of
language is nonetheless materialist; the signifier, he claims, is ‘matter transcending
itself in language’ (CpA 3.1:10, trans. 111). This is in fact a crucial moment
for the legacy of the Cahiers, e.g. in the work of Badiou and Slavoj Žižek, in
that the symbolic nature of the signifier, as it well as its
transcendentalizing character, remains grounded in a materialism irreducible to
an account of raw inchoate matter. In a section titled ‘The Suture of the
Signifier, its Representation and the Object (a)’ from his contribution to this
volume, André Green further develops some of Leclaire’s criticisms of Miller
and also seeks to link the logic of the signifier to a more robust account of
affect and the body (CpA 3.2:22ff). The signifier plays a key role in Luce
Irigaray’s contribution to Volume 3 as well. Developing Miller’s arguments from
‘La Suture’, and supplementing them with a more extensive engagement with
linguistics, Irigaray focuses on the family romance of the Oedipus complex and
the emergence of subjectivity out of this scene. Irigaray maps out and explains
the linguistic and intersubjective features of the transformation produced by
the entrance of a third term into the original dyad of child and Other. In his
or her very first relationship with the first Other, the child starts out as a
fluid entity, ‘not yet structured as “I” by the signifier’ (CpA 3.3:40; trans.
9). ‘At the introduction of the third party into the primitive relation between
the child and the mother, “I” and “you” are established as disjunction,
separation’ (CpA 3.3:40/10). The mere presence of a third term, however, is
insufficient for a radical break with the imaginary dyad, since the third
initially appears in the form of a rival. ‘This opposition of “I” and “you”, of
“you” and “I” remains “one” [on], without potential for inversion or
permutation - the father being only another “you” - if the mother and the
father do not communicate with each other’. Later, Irigaray develops some
of Lacan’s theses concerning the crucial role of the phallic signifier. The
‘fundamental fantasy’ of the hysteric is that they ‘did not get enough love’.
With regard to his or her mother’s desire, he or she experiences themselves as
marked by the sign of incompleteness and rejection, ‘unable to sustain the
comparison with the phallic signifier’. For the male hysteric, ‘the confrontation
with the mirror is like the test of his insignificance’ (CpA 3.3:51/20).
The obsessional neurotic, on the other hand, suffers from an early excess of
love. ‘His mother found him too appropriate a signifier for her desire’ (CpA
3.3:51/22). The phallic reference is attributed to some absent hero, an
all-powerful figure, whose death (as with the death of the father of the primal
horde in Freud’s Totem and Taboo) would only in any case guarantee the
subject’s ongoing acquiescence. The neurotic’s problem comes down to the
adequacy of his signified to his signifier; he remains ‘riveted to what he has
been’, unable to become. He is trapped in an empty ‘metonymy’, unable to
metaphorise, and thus enter a ‘true temporal succession’. As the title
suggests, the ‘signifier’ is the central concept of Jean-Claude Milner’s
reading of Plato’s Sophist in Volume 3, ‘Le Point du signifiant’ (CpA 3.5). For
Milner, deeply inspired in this instance by Miller’s ‘La Suture’ (CpA 1.3) the
key movement in Plato’s text is the vacillation of non-being as alternately
function and term in the chain of Plato’s discourse, a movement which evokes
the summoning and annulment of the subject that Miller found in Frege’s
discourse. The signifying chain is the ‘sole space suited to support the play
of vacillation’. Wherever an element in a linear sequence is replaced by an
element which, as element, transgresses this linearity (as in the mechanism of
structural causality identified by Miller in ‘Action de la structure’, CpA
9.6), a ‘vacillation’ is produced within the chain. Milner gives the examples
of (1) the founding exception of a chain, and (2) any marking of the place of
an erasure. The institution of a linear sequence is governed by a vacillation
that testifies to a ‘double formal dependence’, and which ‘retroactively
defines the signifier as a chain’ (CpA 3.5:77). Plato’s chain of genera thus
points towards the possibility of an ‘order of the signifier in which being and
non-being would regain those traits whose very coupling guarantees truth and
authorizes discourse’ (CpA 3.5:77). Milner speculates that the notions of
being and non-being might borrow their traits from the order of the signifier
itself in its basic constitution. In a passage cited by Leclaire in CpA 5.1:12,
Milner mentions three aspects of vacillation. First, there is ‘the vacillation
of the element’, which is ‘the effect of a singular property of the signifier’,
and develops in a space ‘where the only laws are production and repetition:
being and non-being recover this relation through their inverse symmetry,
dividing themselves between term and expansion, between mark and abyss’ (CpA
3.5:77). There is also a ‘vacillation of the cause’ insofar as both being and
non-being cannot posit themselves as cause except by revealing themselves to be
the effect of the other. Finally, there is the movement of vacillation whereby
the term that initially ‘transgresses the sequence’ calls up a transgression
that annuls the whole chain. Milner claims that grounding Platonic ontology
on the logic of the signifier also makes possible a new understanding of the
opposition between being and subjectivity. On the one hand, there is being as
the order of the signifier, the ‘radical register of all computations’,
totality of all chains, and on the other hand, the ‘one’ of the signifier, the
unity of computation, the element of the chain, non-being, as the signifier of
the subject (CpA 3.5:77). This latter reappears as such every time that
discourse deploys its power to ‘annul’ signifying chains. In the next
segment of his seminar, in Volume 3, Leclaire focuses on the concept of drive
[pulsion]. He asks: is the object of the drive a signifier or the objet petit a
in Lacan’s sense? Leclaire explains that these two are indissociable: insofar
as it is the terminus of sought-for satisfaction, it is the objet petit a, but
insofar as it is connected with a differentiation in the body, it is a
signifier. The difference between the objet petit a and the obtained corporeal
satisfaction is ‘lived’ as an ‘antinomy of pleasure’, and through ‘the
representation of the splitting of the subject’ [la schize du sujet] (CpA
3.6:87). Jacques Derrida’s contribution to Volume 4, on the ‘writing
lesson’ in Claude Lévi-Strauss’s Tristes Tropiques, presents his general case
for a concept of ‘arche-writing’ that is in many respects distinct from the
logic of the signifier (CpA 4.1:34). For Derrida, the metaphysical tradition
and classical linguisticshave always presented writing as secondary to and
dependent upon speech, which they understood as the absolute immediacy of
meaning, of the signified to the signifier. Nevertheless, the rigorous
development of linguistics by Saussure and his followers demonstrated that
spoken language was structured not by a referential relationship to a signified
but rather by the homology of the differences between signifiers and the
differences between signifieds. In this situation, despite Saussure’s continued
and classical disdain for writing, the traditional understanding of writing
provided a better model for structural linguistics, because it also forewent
the immediate presence of a signified to its signifier. The general structure
of language then could be named ‘arche-writing.’ From this perspective, ‘the
passage from arche-writing to writing as it is commonly understood […] is not a
passage from speech to writing, it operates within writing in general’ (CpA
4.1:34). In the first section of his reading of Freud’s ‘Wolf Man’ case
in Volume 5, ‘On the Signifier’ (CpA 5.1:9-17), Leclaire distinguishes the
psychoanalytic signifier from the linguistic signifier, which he describes a
‘psychic entity with two faces:’ a combination of two elements - signifier
(Saussure’s ‘acoustic image’) and signified - that together constitute the
sign; as such, it refers to the signified object it denotes. According to this
definition, ‘the signifier is the phonic manifestation of the linguistic sign’
(CpA 5.1:10). As used by Jacques Lacan, however, the signifier cannot be
considered as an element derived from the problematic of the sign, but rather
as a fundamental element constituting the nature and truth of the unconscious
(CpA 5.1:11). While Peirce famously defined the signifier as what ‘represents
something for someone,’ Lacan declares that the psychoanalytic signifier
‘represents a subject for another signifier.’ Their functions of representation
thus differ radically. To elucidate this function, Leclaire cites two
important essays from previous issues of the Cahiers, Jacques-Alain Miller’s
‘La Suture’ (CpA 1.3) and Jean-Claude Milner’s ‘Le Point du signifiant’ (CpA
3.5). For Miller, the central paradox of the Lacanian signifier is that ‘the
trait of the identical represents the non-identical, from which can be deduced
the impossibility of its redoubling, and from that impossibility the structure
of repetition as the process of differentiation of the identical’ (CpA 5.1:12).
Milner adds that ‘The signifying order develops itself as a chain, and every
chain bears the specific marks of its formality’: the vacillation of the
element, the vacillation of the cause, and ultimately the vacillation of
transgression itself, ‘where the term that transgresses the sequence, situating
as a term the founding authority of all terms, calls the one to be repeated as
term transgression itself, an agent [instance] which annuls every chain’ (CpA
5.1:12). Leclaire embraces these formulations, but points out that they do not
explain how the psychoanalyst can distinguish a given signifier. While any
element of discourse may be a signifier, the psychoanalyst must be able to
differentiate between signifiers, to privilege some over others. He warns
against ‘the error of making the signifier no more than a letter open to all
meanings,’ and argues that ‘a signifier can be named as such only to the extent
that the letter that constitutes one of its slopes necessarily refers back to a
movement of the body. It is this elective anchoring of a letter (gramma) in a
movement of the body that constitutes the unconscious element, the signifier
properly speaking’ (CpA 5.1:14). Its development of a kind of prototype
of the sought-after ‘logic of the signifier’ accounts for the inclusion of
Georges Dumézil’s ‘Les Transformations du troisième du triple’ in Volume 7 (CpA
7.1). Dumézil argues that the multiple references in Roman legend to figures
named ‘Horace’ (for instance, the story of Horatius Cocles in Livy 2.10) ‘have
a signifying trait in common’ [un trait significatif] (CpA 7.1:9). All the
narratives concern single combatants performing feats of extraordinary military
prowess. The recurrence of these narratives, suggests Dumézil, indicate the
remnants of a ritual ‘function’ (CpA 7.1:19-23). This emphasis on a recurrent
function resonates with Milner’s insistence to Leclaire on the homogeneity of places,
as opposed to the heterogeneity of terms, in the ‘Compter avec la psychanalyse’
segment in Volume 3 (CpA 3.6:96). In his analysis of Freud’s ‘A Child is
Being Beaten’, also in Volume 7, Jacques Nassif arrives at an account of ‘the
place assigned to the subject in the signifying order’ (CpA 7.4:88). He
suggests that the model can also help to explain the process of the
overdetermination of symptoms, which can be thought as a ‘co-presence in the
same archaeological disposition’ of superseded phases (CpA 7.4:86). Fantasy
thus becomes the privileged site where the unconscious, structured like a
language, ‘communicates with the signifying order that is language properly
speaking’ (CpA 7.4:88). In their questions to Michel Foucault which open
Volume 9, the Cercle d’Épistémologie enquires into Foucault’s method for
reading texts, navigating his conception of language and the signifier. ‘What
use of the letter does archaeology suppose? This is to say: what operations
does it practice on a statement in order to decipher, through what it says, its
conditions of possibility, and to guarantee that one attains the non-thought
which, beyond it, in it, incites it and systematises it? Does leading a
discourse back to its unthought make it pointless to give it internal
structures, and to reconstitute its autonomous functioning?’ (CpA 9.1:6).
In his ‘Remarques pour une théorie générale des idéologies’ in Volume 9, Thomas
Herbert [Michel Pêcheux] develops an Althusserian account of ideology in which
the logic of the signifier plays a key role. Herbert establishes how operations
which take place within the ‘ideology of the empirical form’ are ‘fascinated by
the problem of the reality to which the signifier must adjust’ (CpA 9.5:80). In
establishing these semantic adjustments, the process itself is never forgotten
or hidden. Indeed, it is the very process of adjustment itself that is the
motor of ideological operations, and ruptures, at this level. By contrast, with
ideologies of the speculative form, the operation takes place at the level of
syntax, that is, in the relation of signifier to signifier, not in the
‘adjustment’ of signifier to signified. In Herbert’s reading, the ‘social
effect’ is well described by Lacan’s description of the mechanism in the
signifying chain which produces the subject effect in language: ‘the signifier
represents the subject for another signifier.’ What is essential to this
Lacanian formulation is that the sequence is one that covers its own traces;
unlike the adjustment between signifier and signified that occurs out in the
open in type ‘A’ ideologies (empirical form), in type ‘B’ (speculative form)
the subjectification that occurs is constitutively forgotten. The ‘subject
effect’ covers over the rupture that was its own condition. The ideas of Nicos
Poulantzas serve Herbert in the following formulation: ‘let us say briefly that
the putting into place of subjects [i.e., the syntactic chain] refers to the
economic instance of the relations of production, and the forgetting of this
putting into place to the political instance’ (CpA 9.5:83). In other words,
what goes by the name of ‘politics’ in this social formation, i.e., the
‘State’, is the sign of the forgetting of the social ordering itself, which is
anterior to ‘politics’. In their preamble to the dossier on the ‘Chimie
de la Raison’ which concludes Volume 9, the Cercle d’Épistémologie presents the
‘chemistry of reason’ – found in the works of D’Alembert, Lavoisier, Mendeleev,
or Cuvier – in a manner that evokes the ‘logic of the signifier’ that has been
the journal’s guiding concern: To construct a chemistry of reason is thus
to refer the sciences to the jurisdiction of the whole [tout], but this is also
by the same stroke to submit them to another necessity. For this whole is also
substantial since, being the science of the simple and the compound [composée],
chemistry must direct its effort toward generating, through the sole operation
of combination, all the materials that make all the things of the world; saving
phenomena thus requires that chemistry constitute them as such, as a plenitude
and liaison of substances. We see here that the crucial relation [relation] to
the whole is but the reverse of a relation [rapport] to the representation to
which chemistry is so intimately tied, namely that, given that anything
representable is an object of analysis, all analysis is thus deduction from a
representable body (CpA 9.11:169).Grice: “Fano is too obsessed with the
‘acoustic image’ (imagine Acustica) whereas Saussure is careful to add
“acosutique ou sensible” – ‘immagine Acustica o imagine sensibile” – if we
allow for imagine sensibile, the priority of the sound evaporates, and so does
that of the tongue – and all the glossological societies of Europe!” -- Giorgio
Fano. Fano. Keywords: Fano insists that the semiogonia, i. e. the origin of
meaningful gestures will provide a clue as to the essence of the semiotic
communication. He relies on Morris, Ferruccio Landi, Peirce, and Croce. He is
interested in Croce’s views on ‘expression’ and Landi’s views on ‘lavoro.’ Fano
is critical of Peirce. This is going on at the same time as Grice is giving
seminars on Peirce at Oxford. Grice: “I agree with Fano that ontogenesis
repeats phylogenesis, and that we should concentrate on utterances which are
meaningful generally – ‘signare’ is a good verb in Italian for that.’ Grice:
“In my view, it is the agent who signs that… ‘signa che’ – signat quod. The
‘-ficare’ only complicates things. A dark cloud ‘signa’ rain. And, by my hand
gesture, I sign that going out is not a good day in view of the coming rain. Keywords:
glossogonia, glottogonia, teoria glottogonica, dottrina glottogonica, teoria
glossogonica, dottrina glossogonica, semiotics of the tongue, Croce. La glossogonia.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689659858/in/photolist-2mR7Xaf-2mPF8UJ-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKD233
Grice e Fardella – sensuale, sensismo, sensualismo –
romano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trapani). Filosofo. Grice: “I like Fardella; for
one, he is a systematic philosopher; for another, he compares Aristotle
(‘demonstratio peripatetica’) with Cartesio, as the Italians call him
(‘demonstratio cartesiana’) – And while Italians consider him a reactionary
Cartesian, I deem him a closet
Aristotelian!”. Studia a Messina sotto Borelli, dal quale accetta l’atomismo di
Lucrezio, ma abbracciò il pensiero di Cartesio, dopo averne appreso gli
insegnamenti durante il suo soggiorno a Parigi, grazie alle conversazioni con
Arnauld, Malebranche e Lamy. Insegna
matematica a Roma, Modena, e Padova. Tenne corrispondenza con Leibniz e
polemizza con Giorgi attacca il cartesianesimo. Il suo razionalismo, per quanto
riconosca che solo Cartesio trova, fra gli antichi e i moderni, il retto e
naturale metodo di filosofare, è tuttavia relativo, adeguato com'è al platonismo.
Il mondo è organizzato secondo principi d’aritmetica e geometria. Ogni cosa ha peso,
numero e misura, ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche.
Mediante l’aritmetica e la geomtria si comprende il mondo e si comprende così
la logica. Nel punto, che non ha peso,
non ha grandezza, non è divisibile, è tuttavia l'origine di ogni estensione. Nel
punto, come il numero nell'unità, si risolve l'estensione. L'anima, che non ha
estensione (non e ‘res extensa’), è un punto. Non è possibile dimostrare
l'esistenza indipendente della realtà materiale. La stessa esperienza ci
insegna che spesso nel sogno percepiamo oggetti che veramente non possiamo
ammettere realmente esistenti. Quante volte, la notte, mentre dormo, vedo
splendere il sole sopra l'orizzonte e vedo muoversi in vari modi moltissime
cose prodigiose, che non sono niente extra ideam? Dunque, quel che sento e *vedo*
non può in nessun modo essere dedotto come realmente esistente. E se si
obbietta che una cosa è sognare, altra cosa è la veglia, per lui le cose che
percepiamo nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose percepite con
maggiore chiarezza, distinzione e ordine, benché non siano niente in sé. I
sensi non danno certezza del mondo, la quale può ritrovarsi soltanto in la
legge dell’aritmetica e della geometria.
Altre opere: “Universae philosophiae systema, in qua nova quadam et
extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta explanantur
(Venezia); “Universae usualis mathematicae theoria” (Venezia); “Utraque dialectica
rationalis et mathemathica”; “Animae humanae natura ab Augustino detecta in
libris de Animae Quantitate, decimo de Trinitate, et de Animae Immortalitate”
(Venezia); Pensieri (Napoli); “Lettera antiscolastica” (Napoli). Recensito
immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico volume sulla rivista
scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema, Descartes e
l'eredità cartesiana in Italia” Dizionario biografico degli italiani. Fardella
elaborated a Cartesian philosophy of language, pretty much avant Chomsky, but
using the same sources: Arnauld. While Chomsky focuses on Harris and others, he
could at least have dropped the “Fardella” name! Grice: “He possibly did have
some Italian friends in the Bronx!” Wikipedia Ricerca Sensismo Lingua Segui
Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Sensazione (filosofia). «Infatti, dato che ogni sensazione è necessariamente
gradevole o sgradevole, si è interessati a godere delle prime e a sottrarsi
alle seconde. Questo interesse è sufficiente a spiegare le origini delle
operazioni dell'intelletto e della volontà. Il giudizio, la riflessione, i
desideri, le passioni e via dicendo, non sono altro che la sensazione stessa,
la quale si trasforma in diverse maniere» (E. Condillac, da Trattato
sulle sensazioni) Il sensismo è un termine che designa quelle dottrine
filosofiche che riportano ogni contenuto e la stessa azione del conoscere al
sentire, ossia al processo di trasformazione delle sensazioni, escludendo in
tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia riportabile ai sensi. A
volte viene usato come suo sinonimo sensualismo, che però trova definizione
diversa. OriginiModifica Mentre nella storia della filosofia la parola
sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele[1], per indicare la
facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni
al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono
ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti. Già Protagora affermava
che l'anima non fosse altro che un complesso di sensazioni: fu una tesi ripresa
in maniera più approfondita dagli stoici e dagli epicurei. La cultura
romana e quella medievale hanno conservato il concetto riduttivo di senso,
proprio della definizione aristotelica: è solo nei tempi moderni, con Locke
prima e poi specialmente con Kant, che la parola senso assume il significato di
sentire insieme alla consapevolezza di ciò che avviene sentendo. I
sensisti moderniModifica La dottrina sensista si precisa nella filosofia
moderna, con il pensiero rinascimentale, nella filosofia della natura di
Bernardino Telesio (1509–1588), che dà vita a una prima forma di metodologia
scientifica basata sull'esperienza, e poi in Tommaso Campanella(1568-1639) e
Antonio Persio (1543-1612). Quest'ultimo intende la natura come un
complesso di realtà viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio
fine (in base al concetto aristotelico di entelechia), e d'altra parte tutte
unificate e armoniosamente dirette verso un fine universale da una comune Anima
del mondo, secondo la concezione tipicamente neoplatonica. La visione
campanelliana è detta per questo pansensismo cosmico, (dal greco πάν, pàn, che
significa tutto, e sensismo) a indicare una specie di sensibilità cosciente di
tutto l'universo: il grande bestione vivente nella visione di Giordano
Bruno. Il sensismo nel '600Modifica Caratteristiche del sensismo, che lo
accostano al materialismo, si trovano in Thomas Hobbes(1588-1679) il quale
negli Elementi (1640) e nel De corpore (1655) sviluppa il suo sistema
materialistico, meccanicistico onnicomprensivo, basandolo sull'elemento
sostanziale corpo e su quello accidentale di moto. La sensazione è il risultato
del moto dei corpi che generano le immagini, le sensazioni di piacere e dolore
e le passioni. Tutto si origina da un moto, da un'azione a cui corrisponde un
contromovimento, una reazione, che produce immagini fenomeniche; tutta la vita
teoretica e morale può essere ricondotta alla sensazione. Pur da una
posizione di deciso rigetto della filosofia di Hobbes, anche Anthony
Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury esprimerà una teoria di tipo
sensista. Il sensismo di CondillacModifica Condillac Il termine
"sensismo" è stato attribuito prevalentemente alla dottrina di
Condillac (1714-1780) espressa nel Traité des sensation (1754), la quale
riprende molte formulazioni che erano state proprie delle teorie di John Locke
(1632-1704), [2]eliminandone però gli aspetti più propriamente psicologici, e
sottolineando come tutte le facoltà conoscitive si sviluppino, in modo più o
meno diretto, dall'azione dei sensi. In questo senso, è famoso
l'esempio di Condillac, il quale suggerisce di immaginare una statua dalle
fattezze umane, la quale progressivamente si anima a mano a mano che prendono
vita i vari sensi, e in particolare il tatto, il quale le permette la
consapevolezza della realtà propria e del mondo circostante. Ciò che finora
veniva attribuito all'attività spirituale, al giudizio, al desiderio e alla
volontà non sono che "sensazioni trasformate". Sensismo e
materialismo Modifica
Va sottolineato che il sensismo non coincide con il materialismo, giacché il
primo si limita a esprimere la posizione di chi afferma il primato della
conoscenza sensibile, senza tuttavia determinare in alcun modo i contenuti che
questa conoscenza possa raggiungere. La posizione sensista riguarda
quindi esclusivamente la forma della conoscenza, in particolare il modo in cui
si formano e si espletano le varie facoltà conoscitive. Dire che la nostra conoscenza
si origina dalla sensazione non vuol dire che la materia di per sé sia causa di
movimento e sensazione per cui l'uomo alla fine sia un essere completamente
materiale. Proprio in ragione di questo, Condillac poté teorizzare l'esistenza
di Dio e l'immortalità dell'anima, congiungendo sensismo gnoseologico e
spiritualismo. La via del materialismo su base sensistica venne
intrapresa invece da Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), Claude-Adrien
Helvétius (1715-1771) e Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789), più conosciuto
con lo pseudonimo di Mirabaud. Per Julien Offray de La Mettrie
estensione, movimento e sensibilità caratterizzano tutto ciò che è materiale;
l'uomo stesso è una macchina ("L'homme machine") condizionata da
leggi biologiche. Helvetius condivide con Condillac l'idea che la
conoscenza derivi dalle sensazioni ed estende quindi, nell'opera Lo Spirito
(1758), la natura sensibile anche alla moralità riducendola a pure motivazioni
utilitaristiche. Per Holbach l'affermazione decisa del materialismo
è collegata all'ateismo e alla negazione di ogni libera volontà nel
comportamento dell'uomo. Il materialismo in effetti era negato dagli
illuministipoiché essi vi vedevano il mascheramento della vecchia pretesa
metafisica di spiegare in maniera onnicomprensiva e totale l'universo. Si può
affermare che, da molti di loro, il materialismo era sostenuto non tanto per
ragioni gnoseologiche quanto per fini politici e morali come una polemica
protesta, cioè, nei confronti dell'autoritarismo politico e religioso dei loro
tempi. NoteModifica ^ Aristotele, De anima (II, 5, 416 b 33) aveva dato
una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora
molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere
umano come caratteristica peculiare della sua individualità. ^ «Nihil est in
intellectu, quod non prius fuerit in sensu». (Locke Saggio sull'Intelletto
Umano, Libro II, Cap. 1, § 5. «Nulla è nell'intelletto che non fu già nei
sensi».) Ed aggiungeva Leibniz(1646-1716):«excipe: nisi intellectus ipse»
(Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto umano, Libro II, Cap. 1, § 6.) «fatta
eccezione per l'intelletto stesso». Bibliografia Modifica Guido Calogero, «SENSISMO»,
in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. Voci
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dizionario «sensismo» Collegamenti esterniModifica sensismo, su Treccani.it –
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Guido Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1936. Modifica su Wikidata sensismo, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN )
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filosofia Ultima modifica 1 anno fa di 2.32.16.76 PAGINE CORRELATE Materialismo
concezione filosofica Étienne Bonnot de Condillac filosofo,
enciclopedista e economista francese Sensazione (filosofia) concetto filosofico
Wikipedia Il contenuto Sessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica
Gli atteggiamenti e i comportamenti riferibili alla sessualità nell'antica Roma
sono stati variamente descritti nell'arte romana, nella letteratura latina e
nel Corpus Inscriptionum Latinarum; in misura minore anche da reperti di
archeologia classica, quali manufatti di arte erotica (vedi ad esempio l'arte
erotica a Pompei e Ercolano) e di architettura romana. Rapporto
sessuale in posizione con donna sopra, calco in gesso di un medaglione in
terracotta del I secolo. L'iscrizione dice: "guarda come mi stai aprendo
bene". È stato talvolta ipotizzato che la "licenza sessuale
illimitata" fosse una delle caratteristiche più peculiari del mondo Romano
antico[1]: "La sessualità degli antichi Romani non ha mai avuto buona
stampa in Occidente, da quando si è verificato il predomino culturale del
cristianesimo. Nella fantasia popolare e nella cultura di massa questa è
sinonimo di licenziosità e abuso sessuale"[2]. Tuttavia la sessualità non
è stata affatto esclusa dalle preoccupazioni del mos maiorum[3], il nucleo
della tradizione etica della civiltà romana; ciò si è verificato attraverso
consolidate norme sociali che hanno interessato la vita pubblica, privata e
finanche militare[4]. "Pudor", ossia vergogna-pudore, è stato
un fattore di regolazione del comportamento[5], oltre che parte di sentenze
legali riguardanti casi di trasgressioni sessuali avvenute sia durante il
periodo della repubblica romana che in quello dell'impero romano[6]. Il
censore, pubblico ufficiale nonché magistrato adibito alla supervisione della
"moralità pubblica", era anche atto a determinare il rango (ossia la
classe sociale) degli individui; egli aveva tra gli altri anche il potere di
rimuovere quei cittadini ritenuti colpevoli di cattiva condotta sessuale dal
senato romano e/o dall'antica casta aristocratica del patriziato, ed in alcuni
casi ciò è effettivamente avvenuto[7]. Lo studioso e filosofo francese Michel
Foucault, nella sua opera Storia della sessualità, ha considerato la realtà
sessuale in tutto il mondo greco-romano come severamente disciplinata dalla
moderazione e dall'arte di gestire il piacere sessuale[8]. La società
romana era fortemente intrisa di patriarcato(vedi la figura del Pater familias),
e il concetto di mascolinità si basava essenzialmente sulla capacità di
governare se stessi e gli altri, cioè oltre che gli schiavi e i sottoposti
anche la propria persona, e ciò valeva pure nell'ambito delle relazioni
sessuali[9]. "Virtus", la virtù-il valore, è stato un ideale
mascolino di auto-disciplina attiva e che si viene direttamente a riferire alla
parola latina indicante il maschio-Vir (la virtù è pertanto caratteristica
dell'uomo inteso come rappresentante mascolino della società). Un
satiro in compagnia di una ninfa, simboli mitologici della sessualità. Mosaico
rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei. L'ideale corrispondente al termine
"Vir" per la donna era la pudicitia, spesso tradotta come castità o
modestia; ma essa rappresentava in realtà anche una qualità personale più
pro-positiva e finanche competitiva, che doveva ben raffigurare sia il fascino
che l'auto controllo di cui doveva essere dotata per Natura la matrona
romana[10]. Le donne delle classi superiori avrebbero dovuto essere colte,
forti di carattere, ed attive nell'impegnarsi a mantenere la posizione del
proprio clan familiare all'interno della società civile[11]. Ma, tranne
pochissime eccezioni, la letteratura ha conservato nei riguardi della
sessualità solamente le voci dei colti patrizi di sesso maschile; è
sopravvissuta quindi soltanto una parte del "discorso sessuale"
presente nell'antica Roma. L'arte visiva era invece solitamente creata da
individui di status sociale inferiore e rappresentanti di una gamma etnica più
ampia di quella più prettamente letteraria; ma essa si è anche trovata a
doversi adattare al gusto ed alle inclinazioni di coloro che erano abbastanza
ricchi da permettersela e che potevano includere durante l'epoca imperiale
anche alcuni liberti[12]; pertanto, anche in tal caso, non risulta essere
completamente affidabile. Alcuni atteggiamenti e comportamenti di natura
sessuale ben presenti all'interno della cultura romanadifferiscono notevolmente
da quelli della successiva cultura occidentale[13]. La religione romana ad
esempio promuoveva la sessualità come uno degli aspetti fondamentali di
prosperità per l'intero Stato; singoli individui potevano rivolgersi alla
pratica religiosa privata, o anche alla magia, per migliorare la loro vita
erotica o la salute e capacità riproduttiva; inoltre la prostituzione
nell'antica Roma era legale, pubblica e diffusa. Soggetti artistici che oggi
definiremmo senza esitazione come pornografia erano ampiamente presenti tra le
collezioni d'arte delle famiglie più rispettabili e di elevato status
sociale[14]. Si riteneva del tutto naturale, e il fatto in sé era
"moralmente" irrilevante, che un uomo adulto potesse essere attratto
sessualmente da adolescenti di entrambi i sessi; la pederastia veniva
tranquillamente accettata fintanto che essa riguardava partner maschili - anche
giovanissimi - che non fossero cittadini romani, quindi coloro che non erano
nati liberi o attualmente in una condizione di schiavitù. La dicotomia moderna
di eterosessuale ed omosessualenon costituiva in alcuna maniera la distinzione
primaria del pensiero romano nei riguardi della sessualità ed in lingua latina
non esistono neppure parole indicanti gli attuali termini[15] che vengono a
distinguere nella sua totalità l'identità di genere o l'orientamento sessuale.
Nessuna censura morale vigeva contro l'uomo che godesse degli atti sessuali
compiuti con donne o altri uomini di livello inferiore al suo; a patto che
questi comportamenti non venissero a rivelare carenze o eccessi nel carattere,
né violassero i diritti e le prerogative degli altri coetanei maschi. Era
invece la caratteristica dell'effeminatezza a venir percepita in maniera
unanimemente negativa, con casi divenuti celebri di denuncia letteraria
pubblica a mo' di scherno e invettiva; questo poteva accadere particolarmente
all'interno della retorica politica, quando si accusavano spesso e volentieri
gli avversari di essere effemminati, cioè affetti da forti carenze caratteriali
e pertanto del tutto inaffidabili anche per quel che concerneva la gestione della
cosa pubblica. Il sesso praticato con moderazione con prostitute o
giovani schiavi maschi non è mai stato considerato come improprio o un rischio
che potesse "viziare" l'intrinseca mascolinità, costitutiva dell'uomo
romano adulto; l'importante era che il cittadino assumesse sempre il ruolo
sessuale attivo e mai quello passivo (vedi attivo e passivo nel sesso).
L'ipersessualitàtuttavia è stata d'altro canto condannata sia moralmente che
come patologia medica, questo sia negli uomini che nelle donne. La componente
femminile della società era solitamente tenuta ad un codice morale più rigoroso
rispetto alla sua controparte maschile[16]; relazioni omosessuali tra donne
sono scarsamente documentate, ma la sessualità femminile in genere è stata
ampiamente celebrata o insultata, a seconda dei casi, in tutta la letteratura
latina. Nella sua generalità, gli antichi Romani si trovarono ad avere
categorie di genere, se così si può dire, più flessibili rispetto all'antica
Grecia[17]. Anche se analizzare la sessualità nell'antica Roma in rigidi
termini di opposizione binaria "penetratore-penetrato" può risultare
in parte fuorviante e dunque può oscurare la pienezza dell'espressività
sessuale antica tra individui presi nella loro singolarità[18], l'assenza d'una
qualsiasi altra "etichetta" per l'interpretazione culturale
dell'esperienza erotica fa sì che tale distinzione continui ad essere
utilizzata[19]. Anche la rilevanza stessa data alla parola
"sessualità" nella cultura romana antica è stata da alcuni contestata
ed è oggetto di disputa[20]. Arte e letteratura erotica Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Arte erotica e Letteratura erotica. Pan
che insegna al suo eromenosDafni a suonare il flauto. La letteratura antica
concernente la sessualità romana rientra principalmente in quattro categorie:
testi giuridici, medici, poetici e politici[21]. Riferimenti a tipologie di
espressività sessuale ci provengono dalla commedia del teatro latino, dalla
satira, dalla poesia amorosa e dall'invettiva, dai graffiti, dagli incantesimi
magici e dalle iscrizioni; tali forme culturali considerate come minori
nell'antichità hanno avuto molto più da dire nei riguardi della sessualità che
i generi cosiddetti più elevati della tragedia e dell'epica. Varie
informazioni sulla vita sessuale della popolazione è sparsa anche nella
storiografia (nei riguardi di personalità conosciute), nell'oratoria e in
alcuni testi filosofici, oltre che negli scritti di medicina, agricoltura e di
altri argomenti tecnici[22]. I testi di diritto romanosi soffermano su quei
comportamenti che si volevano disciplinare o vietare, senza necessariamente
indicare quel che le persone realmente facevano o meno[23]. I principali
autori latini le cui opere hanno contribuito significativamente alla
comprensione della sessualità nell'antica Roma comprendono: Il
commediografo Tito Maccio Plauto, le cui opere ruotano spesso su trame
concernenti casi sessuali, con giovani amanti ad esempio tenuti separati dalle
avverse circostanze (200 a.C. circa). Lo statista e moralista Marco Porcio
Catone(detto "il Vecchio") il quale offre scorci sulla sessualità
vigente in un momento storico che successivamente fu considerato come epoca
avente gli standard morali più elevati, di tutta la storia latina (150 a.C.
circa). Il poeta e filosofo Tito Lucrezio Caro, che presenta un lungo trattato
sulla sessualità epicurea nella sua opera De rerum natura (55 a.C. circa). Gaio
Valerio Catullo, le cui poesie esplorano tutta una serie di esperienze erotiche
avvenute verso la fine dell'epoca repubblicana; esse spaziano da un più
delicato sentimento romantico (l'amore verso le donne-Lesbia e nei confronti
dei ragazzi-Giovenzio) per giungere fino alle invettive più brutalmente oscene
("Pedicabo ego vos et irrumabo"-io ve lo metto in culo e in bocca; 50
a.C. circa). Marco Tullio Cicerone con numerosi interventi avvenuti in Senato
in cui attacca il comportamento sessuale degli avversari politici, a cominciare
da Gaio Giulio Cesare più volte additato come sessualmente ambiguo e quindi
anche pericoloso per l'incolumità statale; ma anche con lettere disseminate di
pettegolezzi contro l'élite romana che gli si opponeva (45 a.C. circa). I poeti
Sesto Properzio e Albio Tibullo, che rivelano alcuni degli atteggiamenti
sociali dell'epoca quando descrivono le loro storie d'amore avvenute con
giovani donne e adolescenti maschi. Publio Ovidio Nasone, in particolare con i
suoi Amores e Ars amatoria i quali, secondo la tradizione, hanno contribuito
notevolmente ad affrettare la decisione dell'imperatore romanoAugusto di
esiliare il poeta; ma anche tramite la sua raccolta epica Metamorfosi la quale
presenta tutta una serie di miti a forte impronta sessuale (e ancora una volta
sia con esempi di amori tra uomini e donne che tra uomini e ragazzi)
riguardante figure divine ed esseri umani, con un'enfasi particolare data allo
stupro - alla violenta aggressione di tipo sessuale - attraverso la lente della
lettura mitologica (10 d.C. circa). Marco Valerio Marziale, le cui osservazioni
sulla società in genere sono spesso e volentieri arricchite e rinforzate da
invettive sessualmente esplicite (100 d.C. circa). Decimo Giunio Giovenale, che
inveisce contro i costumi sessuali del suo tempo, attaccando con particolare
fervore le donne e gli uomini effeminati (200 d.C. circa). Ovidio elenca anche
un certo numero di scrittori molto noti al tempo per il materiale salace
contenuto nelle rispettive opere, nessuna delle quali è però riuscita a
giungere fino a noi[24]. Manuali sessuali greci, ma anche semplici testi di
natura pornografica[25] sono stati pubblicati sotto il nome di famose etere
(-cortigiane) e diffusi ampiamente. Le novelle erotiche di Aristide di Mileto,
i Milesiaká furono tradotte da Sisenna, uno dei pretori del 78 a.C.; Ovidio
definisce il libro come una raccolta di misfatti-crimina e ci dice che l'intera
narrazione era infarcita con "barzellette sporche"[26]. A seguito
della battaglia di Carre nel 53 a.C. i parti sarebbero rimasti scioccati nel
trovare proprio quel libro nel bagaglio ufficiale appartenente a Marco Licinio
Crasso[27]. L'arte erotica a Pompei e Ercolano, rinvenuta solamente a
partire dal tardo XVIII secolo, è una ricca fonte di indizi sulla natura della
sessualità nell'antica Roma, anche se non del tutto priva di ambiguità; alcune
delle immagini paiono difatti contraddire almeno in parte le preferenze
sessuali sottolineate in letteratura, ma potevano queste essere destinate ad un
intento satirico, per provocare quindi il riso o alternativamente per sfidare
gli atteggiamenti convenzionali seguiti[28]. Oggetti di uso quotidiano
quali specchi e vasi in ceramica sigillata potevano essere decorati con scene
decisamente erotiche le quali potevano andare dalle eleganti danze compiute in
abiti succinti a disegni espliciti di penetrazione sessuale[29]. Dipinti
erotici sono stati trovati nelle case più rispettabili della nobiltà romana,
come nota Ovidio: "vi è un piccolo dipinto (-tabella[30]) raffigurante
varie tipologie di accoppiamenti... ma anche una Venere bagnata che si asciuga
i capelli gocciolanti con le dita, a malapena coperta dalle acque"[31].
Questa Venere carica di erotismo appare tra le vari immagini che un intenditore
d'arte potrebbe sicuramente apprezzare[32]. Tutta una serie di dipinti
rinvenuti all'interno delle terme suburbane di Pompei, scoperti solo nel 1986 e
pubblicati in riproduzione nel 1995, presentano una varietà di scenari erotici
che paiono destinati a divertire lo spettatore con rappresentazioni sessuali
assai scandalose, tra cui un ampio numero di posizioni sessuali, sesso orale e
sesso di gruppo eterosessuale, omosessuale e lesbico a scelta[33].
L'arredamento di una camera da letto romano poteva riflettere letteralmente il
suo uso sessuale: il poeta augusteo Orazio possedeva presumibilmente una stanza
con le pareti interamente ricoperte di specchi, di modo che quando aveva la
compagnia di una prostituta poteva osservarla da tutte le angolazioni
possibili[34]. L'imperatore Tiberio aveva le camere da letto decorate con i più
lascivi e sconci dipinti e sculture, ma veniva rifornito costantemente di
"guide del sesso" ricche di consigli e proposte scritte appositamente
per lui dal medico greco Elefantide[35]. Nel II secolo si è verificato un
autentico boom di testi riguardanti la sessualità, scritti sia in lingua greca
che in lingua latina, assieme ai romanzi d'amore[36]; ma questo discorso franco
e sincero sulla sessualità scompare quasi del tutto dalla letteratura
successiva, con i temi sessuali che vengono riservati alla scrittura medica o
alla teologia cristiana. Nel III secolo il celibato era divenuto un
ideale per un crescente numero di fedeli cristiani; gli stessi padri della
Chiesa come Tertulliano e Clemente di Alessandria hanno disquisito sul fatto
che anche il sesso coniugale dovesse essere consentito solamente per la
procreazione. Nel martirologio la sessualità viene descritta come una delle
peggiori torture rivolte contro la santa castità del cristiano[37],
soffermandosi anche sugli atti di mutilazione sessuale (in particolare i seni)
a cui venivano sottoposte in special modo le donne[38]. L'umorismo osceno
di Marziale è stato per breve tempo fatto rivivere nel IV secolo dallo studioso
e poeta Ausonio, seppur nominalmente cristiano, evitando però la predilezione
dell'autore latino nei confronti della pederastia[39]. Sesso, religione e
Stato Modifica Così come per
gli altri aspetti della vita romana, anche la sessualità è stata sostenuta e
regolata da precise tradizioni religiose (vedi religione romana), sia per
quanto concerne il culto pubblico statale sia per quel che riguarda le pratiche
religiose private e magiche. La sessualità è in ogni caso una categoria
importante del pensiero religioso romano[40]. Il complemento di maschile
e femminile è stato di particolare importanza per la definizione del concetto
romano di divinità. I Dei Consenti erano un consiglio di coppie divine
maschio-femmina equivalenti in qualche misura alle dodici maggiori divinità
Greche (vedi gli Olimpi)[41]. Almeno due tra i "sacerdozi statali"
erano svolti congiuntamente da una coppia di coniugi[42]. Le vergini
Vestali, uno status sacerdotale riservato alle donne, prendendo il voto di
castità perenne, si vedevano riconosciuta una relativa indipendenza dal
controllo maschile; tra gli oggetti religiosi di maggior pregio che avevano in custodia
vi era anche il "fallo sacro"[43]. il fuoco di Vesta doveva evocare
l'idea della purezza sessuale nella femmina e contemporaneamente rappresentare
il potere procreativo del maschio[44]. Gli uomini che servivano nei vari
collegia di sacerdoti (vedi pontefice (storia romana)) avrebbero dovuto in ogni
caso sposarsi e crearsi una famiglia. Cicerone ha dichiarato che il desiderio
di procreare era il vivaio della repubblica, causa prima per l'esistenza di
quella forma di istituzione sociale chiamata matrimonio; a sua volta la
casa-domus rappresentava l'unità familiare ch'era il mattone della vita
urbana[45]. Molte delle festività romane stagionali contenevano in sé
degli elementi sessuali: i Lupercalia del mese di febbraio sono stati celebrati
fino al V secolo ed includevano un rito arcaico di fertilità; mentre i
Floraliaerano caratterizzati da danze che si svolgevano tra persone nude. In
alcune tra le più importanti feste religiose del mese di aprile, partecipavano
e venivano ufficialmente riconosciute anche le prostitute. Le connessioni
esistenti tra riproduzione umana, prosperità generale e benessere dello Stato
vengono ben incarnate dal culto romano di Venere, che si differenzia dalla sua
controparte Greca Afroditesoprattutto per il suo ruolo di madre dell'intero
popolo romano, questo attraverso il figlio per metà mortale Enea[46].
Durante il periodo delle guerre civili degli anni 87-82 a.C. Lucio Cornelio
Silla, in procinto d'invadere il proprio stesso paese con le legioni
assoggettate al proprio comando, ha fatto emettere una moneta raffigurante una
Venere incoronata in qualità di suo personale nume tutelare, affiancata da un
Cupido in possesso di un rametto di Palma (segno di vittoria). Sul retro vi
erano tropaion (trofei militari) assieme a simboli degli àuguri, sacerdoti
statali che svelano il volere degli dei. L'iconografia collega quindi la
divinità dell'amore col buon augurio di successo militare e con l'autorità
religiosa. Il dittatore romano assunse anche il titolo di
Epafrodito-appartenente ad Afrodite[47]. Il fascinus fallico era
onnipresente nella cultura romana ed appare praticamente su ogni tipo di
oggetto, dai gioielli agli antichi campanelli eoliche o tintinnabulum fino alle
lampade[48]; era inoltre un potente amuleto atto a proteggere i bambini[49] e
ai generali che celebravano il proprio trionfo[50]. Cupido è colui che ispira
il desiderio erotico; Priapo invece, importato dalla Grecia, rappresenta più la
vera e propria lussuria, intrisa però d'un fondamento fortemente umoristico; Mutunus
Tutunus promuoveva infine il sesso coniugale. Il dio Liber (versione latina di
Dioniso) si prendeva cura, tra le altre cose, anche delle "risposte
fisiologiche" durante l'atto sessuale. Vi erano infine tutta una serie di
divinità atte a supervisionare ogni aspetto della relazione amorosa, dal
concepimento fino al parto[51]. Quando un maschio assumeva la toga virile
Libero diveniva il suo patrono; secondo quel che raccontano i poeti, in questo
momento egli lasciava la modestia innocente (-pudor) caratteristica
dell'infanzia per acquisire la libertà sociale (-Libertas) e poter iniziare
così la sua personale vita sessuale[52]. La mitologia classica tratta
spesso di temi sessuali anche molto impegnativi, quali adulterio, incesto e
stupro; l'arte e la letteratura hanno proseguito con la scuola alessandrina la
trattazione di figure mitologiche erotiche le quali compivano in modo molto
umano, ma anche umoristico, atti sessuali in seguito del tutto rimossi dalla
dimensione religiosa[53]. Concetti morali e giuridici Modifica
Castitas Modifica
La parola latina castitas, da cui deriva l'attuale castità, è un sostantivo
astratto che denota "una purezza morale e fisica di solito in un contesto
specificamente religioso" e a volte, ma non sempre, riferendosi specificatamente
alla castità sessuale[54]. Il relativo aggettivo castus-puro poteva esser usato
sia per riferirsi a luoghi ed oggetti, così come anche alle persone;
l'aggettivo "pudicus" (da cui pudicizia, pudore) descrive in maniera
più particolareggiata una persona che è sessualmente morale[54]. I
rituali di Cerere concernevano sia la castitas che la sessualità, incarnando la
Dea anche la maternità; la torcia portata in suo onore in processione durante
lo svolgersi del corteo nuziale era associata alla purezza sessuale della
sposa[55]. Vesta era la divinità primaria del pantheon romano associata al
concetto di castitas, ed era essa stessa una Dea vergine; le sue sacerdotesse
vestali dovevano mantenersi vergini per tutta la vita, avendo fatto voto di
rimanere nubili. Incestum Modifica
L'incestum, da cui deriva l'attuale incesto, ossia ciò che è "non
castum", è un atto che viola la purezza religiosa[54], forse sinonimo di
ciò che è "nefas" (nefasto) ovvero religiosamente
inammissibile[56]. La violazione ad esempio del voto di castità
professato da una Vestale era considerato come incestum: la punizione
riguardava sia la donna che l'uomo che la rendeva impura attraverso il rapporto
sessuale, sia che l'atto fosse stato consensuale che ottenuto con la forza. Lei
veniva seppellita viva, lui lapidato nel Foro. La perdita di castitas di una
vestale equivaleva alla rottura del patto stipulato tra Roma e gli dei, la pax
deorum[57] e veniva generalmente accompagnata dall'osservazione di cattivi
presagi (-prodigia). L'accusa d'incestum che veniva a coinvolgere una vestale
poteva spesso coincidere con una situazione di agitazione politica e con
pericoli di sommosse[58]. Marco Licinio Crasso venne assolto dall'accusa
d'aver commesso incestum con una vestale che condivideva il proprio nome di
famiglia[59]. Quello che oggi s'intende per rapporti incestuosi erano solo una
delle forme di incestum[54], a volte tradotto anche come sacrilegio. Quando
Publio Clodio Pulcro si travestì da donna, violando così i riti della Bona Dea
rivolti esclusivamente alla componente femminile della società, si attirò
l'accusa di incestum[60]. Stuprum Modifica
Nel diritto romano, ma anche nella morale vigente comune, lo stuprum è il
rapporto sessuale illecito, traducibile come "depravazione
criminale"[61] o crimine sessuale[62]; esso viene a comprendere diversi
reati di natura sessuale, tra cui vi è anche "l'atto sessuale illegale
ottenuto con la forza"[63] e l'adulterio (uno stupro morale rivolto contro
il coniuge). Inizialmente col termine stuprum è stato considerato un atto
vergognoso in generale, o qualsiasi disgrazia pubblica, il che includeva ma non
si limitava alla sessualità considerata illecita[64], ma ai tempi della
commedia romana di Tito Maccio Plauto la parola aveva già acquisto il suo più ristretto
significato sessuale[65]: innanzitutto uno stuprum può avvenire solo tra
cittadini, in quanto qualsiasi violenza sessualecommessa contro la schiavitù
era perfettamente lecita e quindi non punibile. Proprio la protezione contro la
cattiva condotta sessuale è sempre stato tra i diritti legali che maggiormente
contraddistinguono il cittadino dal non-cittadino[65]. Raptus Modifica
Derivante dal verbo latino rapio/rapere, significa "strappar via, portar
via, rapire". Nel diritto romano il termine raptio viene utilizzato
principalmente per indicare il rapimento o sequestro[66]. Il mitico ratto delle
Sabine rappresenta un sequestro della sposa o rapimento a scopo matrimoniale in
cui la violazione sessuale delle donne diviene un problema del tutto secondario.
Il sequestro di una ragazza non sposata dalla casa di suo padre era in certi
casi una "fuga di coppia" messa in atto in quanto non vi era il
permesso paterno alla celebrazione delle nozze. Leggi relative alla
violenza sessuale (azioni sessuali commesse con violenza o coercizione) sono
state codificate per la prima volta solo verso la fine dell'era repubblicana,
mentre il rapimento avvenuto con lo scopo di commettere un reato sessuale è
emerso come distinzione giuridica[67]. Offerte votive di Pompei: peni,
seni e un utero. Guarigione e Magia Modifica
L'aiuto divino poteva essere ricercato anche tramite rituali religiosi privati
che avvenivano, associati a lunghi trattamenti medici, col compito di
migliorare o bloccare la fertilità, o per cerar di curare malattie degli organi
riproduttivi Teorie della sessualità Modifica
Antiche teorie riguardanti l'ambito sessuale sono stati prodotti da e per
un'élite istruita. La misura in cui queste teorizzazione del sesso abbia
effettivamente interessato il comportamento quotidiano rimane discutibile,
anche tra coloro che fossero stati attenti agli scritti filosofici e medici che
hanno presentato tali opinioni. Questo si presenta come un discorso elitario,
mentre spesso deliberatamente critica i comportamenti più tipici o comuni, ma
allo stesso tempo non può essere assunta per escludere la possibilità che
questi valori fossero più o meno ampiamente seguiti nella società.
Una coppia eterosessuale, lampada a olio. Nel IV libro di [Lucrezio], il
De rerum natura viene fornito uno dei passaggi più estesi sulla sessualità
umana nella letteratura latina. Yeats descrivendo la traduzione da John Dryden
l'ha definita la più bella descrizione del rapporto sessuale mai scritto[68].
Lucrezio era contemporaneo di Catullo e di Cicerone(verso la metà del I secolo
a.C. ed il suo poema didattico è una presentazione della filosofia
epicureaall'interno della tradizione della tradizione della poesia latina di
Ennio. L'epicureismo era materialista e dedito all'edonismo; il sommo bene
qui è il piacere, definito come l'assenza di dolore fisico e stress emotivo.
L'epicureo cerca di gratificare i suoi desideri con il minimo dispendio di
passione e fatica. I desideri sono classificati come quelli che sono naturali e
necessari, come la fame e la sete; quelli che sono naturali ma non necessari,
come il sesso; e quelli che non sono né naturali né necessari, compreso il
desiderio di dominare sugli altri e glorificare se stessi[69]. È in questo
contesto che Lucrezio presenta la sua analisi dell'amore e del desiderio
sessuale, che contrasta l'ethos erotico di Catullo e ha influenzato i poeti
d'amore del periodo augusteo[70] La sessualità maschile Modifica
Durante tutta l'epoca repubblicana la libertà politica di un cittadino romano
("Libertas") è stata definita in parte dal diritto come un preservare
il corpo dalla costrizione fisica, il che comprendeva sia la punizione
corporale che l'abuso sessuale[71]. Il valore-virtus era quella cosa che
rendeva un uomo adulto ancor più completamente uomo/maschio-vir ed era questa
una delle principali tra le virtù considerate attive[72]. Gli ideali
romani di mascolinità furono così la premessa per l'assunzione di un ruolo
attivo e dominante in ogni campo e sfera della vita; questa era anche la prima
tra le direttive imposte al comportamento sessuale maschile: "lo slancio
verso l'azione potrebbe esprimersi più intensamente in un ideale di dominio che
riflette la gerarchia della società patriarcale romana"[73]. La mentalità
di conquista faceva parte di un vero e proprio culto della virilità che, in
particolare, dava forma alle "regole" riguardanti le pratiche
omosessuali[74]. Un tal accento posto sull'idea di sottomissione e dominio ha
portato gli studiosi a vedere le espressioni della sessualità maschile degli
antichi romani esclusivamente in termini di modello binario
penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di
cercare gratificazione sessuale era quello d'inserire il suo pene nel/nella
partner[18]. Permettere di lasciarsi penetrare invece rappresentava una
minaccia contro la sua libertà in quanto cittadino e contro la propria
integrità sessuale: l'attività sessuale definisce così, almeno in parte, la
definizione di libero cittadino rispettabile dallo schiavo o dalla persona
"libera ma sottomessa-passiva". Ci si aspettava ed era
socialmente accettabile per un maschio romano nato libero il voler intrattenere
rapporti intimi con partner di entrambi i sessi, questo almeno fintanto che
egli prendeva ed assumeva su di sé il ruolo dominante[75]. Oggetti consentiti
del desiderio erano quindi le donne di qualsiasi condizione sociale o
giuridica, coloro che esercitavano la prostituzione maschile o gli schiavi,
mentre i comportamenti sessuali al di fuori dal vincolo matrimoniale dovevano
essere limitati a schiavi e prostitute o, meno frequentemente, ad una
concubina. La mancanza di autocontrollo, anche nella gestione della
propria vita sessuale, era un'indicazione che quell'uomo era incapace di
governare gli altri[76]; il puro e semplice godimento dato dal "basso
piacere sensuale" minacciava pertanto di erodere l'identità maschile
elitaria della società, così come la stima ed il rispetto rivolti naturalmente
alla persona istruita[77]. Era un punto di orgoglio per Caio Gracco il
sostenere che durante il suo mandato come governatore provinciale rimase senza
alcuno schiavo scelto tra i ragazzi di più bell'aspetto, che nessuna prostituta
visitò la sua casa, e che non avvicinò mai gli schiavi-bambini appartenenti ad
altri uomini[78]. In epoca imperiale, preoccupazioni circa la perdita
della libertà politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore sono
stati espressi da un percepibile aumento di comportamento omosessuale passivo
tra gli uomini liberi, accompagnato ciò anche da una crescita documentata di
punizioni corporali inflitte ai cittadini[79]. La dissoluzione degli ideali
repubblicani di interità fisica in relazione alla Libertas contribuisce e viene
riflessa dalla licenza sessuale e dalla decadenza associata con
l'Impero[80]. Nudo eroico rappresentante Eurialo e Niso, esempio di
omoerotismo maschile in linea con la morale romana a detta di Publio Virgilio
Marone. Jean-Baptiste Roman 1827. Nudità maschile Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Storia
della nudità. Mostrarsi nudi in pubblico poteva essere offensivo o sgradevole
anche in ambienti tradizionali; Cicerone deride Marco Antonio come indegno di
apparire quasi nudo come partecipante al Lupercalia, anche se ciò veniva
ritualmente richiesto[81]. La nudità è uno dei temi principali di questa festa
religiosa che attira l'attenzione di Ovidio nei Fasti, il suo lungo forma poema
sul calendario romano[82]. Augusto, durante il suo programma di revivalismo
religioso, tentò di riformare i Lupercalia, in parte sopprimendo l'uso della
nudità, nonostante il suo aspetto di fertilità[83]. Connotazioni negative
di nudità includono la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri sono
stati spogliati, e la schiavitù, dal momento che gli schiavi in vendita sono
stati spesso esposti nudi. La disapprovazione nei confronti della nudità era
quindi nei tutta nei confronti della "marcatura" ch'essa dava al
corpo (esser nudi marchiava d'indegnità il corpo deprivandolo della nobiltà che
lo caratterizza in quanto cittadino; questo significato era molto più presente
rispetto a quello d'esser una mera questione di cercare di reprimere il
desiderio sessuale considerato inadeguato[84]. L'influenza proveniente
dall'arte greca tuttavia ha portato sempre più a creare ritratti di nudità
eroicariferibili sia agli uomini che alle divinità romane, pratica questa che
ha avuto inizio nel II secolo a.C. Quando le statue dei generali romani nudi
alla maniera del culto rivolto ai sovrani ellenistici cominciarono per la prima
volta a diffondersi, vi fu da parte della popolazione una forte reazione
"scandalizzata", non tanto o non semplicemente perché veniva esposta
la figura maschile nuda, ma soprattutto in quanto evocante concetti di regalità
e divinità che si trovavano in contrasto con gli ideali repubblicani di
cittadinanza così com'era incarnata dalla toga[85]. Il dio Marte si
presenta come uomo barbuto maturo in abito di generale, ciò quando viene
concepito come padre del popolo in tutta la sua dignità, mentre le sue
raffigurazioni giovanili, senza barba e nudo, mostrano tutta l'influenza
proveniente dalla rappresentazione greca di Ares. Nella prima arte augustea e
giulio-claudia l'adozione programmatica dello stile neoatticoe dell'arte
ellenistica ha portato alla più complessa significazione del corpo maschile
mostrato nudo, parzialmente nudo oppure indossante una lorica musculata (o
corazza eroica)[86]. Una notevole eccezione nei confronti della nudità in
pubblico riguardava le terme, purtuttavia anche in quest'ambito gli atteggiamenti
sono cambiati nel corso del tempo. Nel II secolo a.C. Catone il
Vecchiopreferiva non fare il bagno nudo alle terme in presenza del figlio,
mentre Plutarco pare sottolineare il fatto che nei suoi tempi e in quelli
immediatamente precedenti poteva esser ritenuto assai vergognoso per gli uomini
maturi esporre i loro corpi davanti a maschi più giovani[87]. In seguito vi fu
addirittura la possibilità per uomini e donne di fare il bagno
assieme[88]. Fallicismo Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Simbolismo fallico. La sessualità romana, così
com'è ripetutamente rappresentata in letteratura, è stata descritta come
essenzialmente fallocentrica[89]. Il "fallo" (simbologia del
pene in erezione) doveva avere il potere di scacciare il malocchio ed altre
forze soprannaturali malefiche; è stato utilizzato come amuleto dalle capacità
"fascinatorie" (fascinus), di cui sopravvivono molti esempi in
particolare sotto forma di tintinnabulum[90]. Il fallo dalle dimensioni e
dalla lunghezza esagerata è stato associato nell'arte romana col dio Priapo,
divinità itifallica per eccellenza). La raccolta poetica di autori anonimi
intitolata Carmina Priapea fa parlare direttamente il "dio dei
giardini", che minaccia allegramente di stupro tramite sesso anale
qualsiasi ladro potenziale e chiunque si azzardi ad oltrepassare i confini
della casa quando non ben accetto dai padroni. La maledizione scagliata da
Priapo può causare sia l'impotenza che uno stato tormentoso di eccitazione
perenne senza alcuna possibilità di remissione, il priapismo. Ci sono
all'incirca 120 termini latini registrati per indicare metaforicamente l'organo
sessuale maschile e nella stragrande maggioranza dei casi questi vengono a
descrivere il sesso del maschio come uno strumento d'aggressione, quando non
come una vera e propria arma[91]. L'oscenità più comune per chiamare il pene è
"mentula", molto utilizzato da Marziale al posto di termini più
gentili o soft. Virga, come altre parole significanti ramo, asta, palo, trave
erano metafore comuni, così anche vomere o aratro. Castrazione e
circoncisione Modifica
Alcuni romani, bramosi di conservare il più a lungo possibile la bellezza
pre-adolescenziale e femminea dei propri schiavi (considerati e chiamati come
deliciae o delicati-"giocattoli, delizie") a volte li facevano
sottoporre poco dopo la pubertà alla castrazione, cioè all'asportazione dei
testicoli nel tentativo di preservare l'aspetto androgino della loro
giovinezza. L'imperatore Nerone aveva il suo castrato preferito di nome Sporo,
che giunse fino al punto di sposarlo in una cerimonia pubblica[92].
Effeminatezza e travestitismo Modifica
Quella di effeminatezza era tra le accuse preferite rivolte agli avversari nel
corso dell'invettiva politica; essa colpiva soprattutto coloro che difendevano
le istanze dei populares, quella fazione politica i cui capi si presentavano
come difensori del popolo (democratici), che si trovava perennemente in
contrasto con gli ottimati, l'élite conservatrice nobiliare[93]. Negli
ultimi anni della repubblica varie personalità tra i populares sono state
tacciate d'esser irrimediabilmente effeminate, oltre a Gaio Giulio Cesare anche
Marco Antonio, Publio Clodio Pulcro e Lucio Sergio Catilina assieme a tutti i
suoi amici cospiratori (vedi congiura di Catilina): venivano tutti derisi in
quanto eccessivamente curati (ben vestiti e profumati) o perché giravano voci
insistenti su loro trascorsi sessuali con altri uomini nei cui confronti
avrebbero assunto il ruolo denigrato della femmina; allo stesso tempo però
l'effeminato era anche il donnaiolo, il Don Giovanni impenitente in possesso di
fascino e carisma superiori alla norma e che amava vestirsi elegantemente ed
esser sempre profumato[94]. Forse l'episodio più celebre di
crossdressingnell'antica Roma si è verificato nel 62 a.C. quando il succitato
Clodio Pulcro violò i riti annuali della Bona Dea e che erano riservati alle
sole donne; essi si svolsero nella casa di Cesare, nell'epoca in cui questi si
trovava quasi al termine del suo mandato di pretoree s'apprestava ad assumere
l'investitura di pontefice massimo. Clodio si travestì come una flautista per
riuscire ad entrare, come viene descritto da Cicerone che lo addita come
sacrilego[95]: «Togli il suo vestito color zafferano, la sua tiara, le
sue scarpette dai lacci viola, il suo reggiseno e il suo Salterio, togli il suo
comportamento sfacciato e il suo crimine sessuale, ed ecco che allora Clodio si
rivela improvvisamente come un democratico.[96]» Le azioni di Clodio, che
era stato appena eletto questore ed era in procinto di compiere trent'anni,
sono spesso state considerate come un ultimo scherzo giovanile. La natura tutta
femminile di questi riti notturni ha attirato nel corso del tempo molta
speculazione pruriginosa negli uomini; sono state fantasticate come enormi orge
lesbiche compiute tra i fumi dell'alcol e che potevano pertanto anche essere
molto divertenti da osservare[97]. Clodio si suppone che avesse avuto lo scopo
di sedurre la moglie di Cesare, ma la sua voce maschile lo ha smascherato prima
di poter riuscire ad averne la possibilità. Lo scandalo ha spinto Cesare a
cercare di ottenere un divorzio immediato per poter in tal maniera tenere sotto
controllo i danni sopravvenuti alla propria reputazione, dando origine alla
famosa frase divenuta proverbiale "la moglie di Cesare deve essere sopra
di ogni sospetto." L'incidente ha riassunto comunque il disordine vigente
durante gli ultimi anni della repubblica romana[98]. L'ambiguità sessuale
è poi una caratteristica peculiare dei sacerdoti della dea Cibele conosciuti
come Galli, il cui abbigliamento rituale includeva capi femminile. Essi sono a
volte considerati come una specie di sacerdozio transgender, in quanto veniva
richiesto loro di sottoporsi ad auto-evirazione ad imitazione di Attis. La complessità
dell'identità di genere nella religione di Cibele e Attis e nel relativo mito
sono ben esplorate da Catullo in una delle sue poesie più lunghe, il Carme
63[99]. Rapporti omosessuali Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Omosessualità nell'Antica Roma. Lato della
Coppa Warren che mostra il "conquistatore erotico" del puer delicatus
(ragazzino), incoronato. Gli uomini romani erano del tutto liberi di avere
rapporti sessuali con maschi di status inferiore, senza per questo aver alcuna
percezione di una qualche perdita di mascolinità; soltanto coloro che
prendevano il ruolo passivo nel rapporto (a volte indicati come sottomessi)
venivano fortemente denigrati come deboli e privi di virilità. I
cittadini romani che erano solitamente contrassegnati come "maschile"
potevano attuare la penetrazione sessuale di uomini sia verso coloro che
esercitavano la prostituzione maschile che nei confronti degli schiavi i quali
solitamente erano ragazzi sotto i vent'anni d'età[100]. La letteratura
comprende molte opere che parlano di omoerotismo; comprende le poesie di
Catullo[101]dedicate al suo ragazzino quattordicenne di nome Juventius
(Giovenzio), le elegie di Tibullo[102] e Properzio[103], la seconda egloga
delle Bucoliche di Virgilio e diverse poesie di Orazio. Lucrezio affronta il
tema dell'amore provato nei confronti dei ragazzi nel suo De Rerum Natura
(4.1052–1056). Sebbene Publio Ovidio Nasone includa di trattare esempi
mitologici di omoerotismo nelle sue Metamorfosi, egli risulta altresì prendere
al riguardo una posizione che è insolita fra i poeti d'amore latini, ed in
effetti tra i Romani in generale, quando esprime opinioni aggressivamente
eterosessuali. Il Satyricon di Petronio Arbitro è talmente permeato di erotismo
culturale di tipo omosessuale che nei circoli letterari europei del XVIII
secolo, il suo nome è diventato addirittura un sinonimo di omosessualità.
Anche se il diritto romano non riconosceva il matrimonio tra uomini, nel
periodo imperiale alcune coppie maschili celebrarono riti matrimoniali
tradizionali. Tali forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono
riportati da fonti che li deridono; i sentimenti dei partecipanti non sono
registrati. Lo stupro sugli uomini Modifica
Gli uomini che erano stati violentati perdevano la legittimazione all'agire
sociale, ne venivano esentati; acquisivano lo status di infamia, lo stesso
degli uomini dediti alla prostituzione maschile o di quelli che assumevano
volontariamente il ruolo passivo nell'atto sessuale. Secondo il giurista
Pomponio, dopo che l'uomo è stato violentato con la forza dai ladri o dal
nemico in tempo di guerra, dovrebbe sopportarne lo stigma. I timori di stupri
di massa a seguito di una sconfitta militare veniva esteso anche ai maschi
oltre che alle potenziali vittime di sesso femminile. Il diritto romano
ha affrontato lo stupro di un cittadino di sesso maschile già nel II secolo
a.C., quando venne emessa una sentenza riguardante una causa che potrebbe aver
coinvolto un maschio di orientamento omosessuale; anche se un uomo che aveva
lavorato nell'ambito della prostituzione non poteva essere violentato per una
questione di diritto, è stato stabilito difatti che anche un uomo poco
raccomandabile e discutibile fosse in pieno possesso degli stessi diritti degli
altri uomini liberi di non avere il proprio corpo sottoposto da una sessualità
forzata. In un libro sull'arte della retorica del I secolo a.C. lo stupro di un
maschio nato libero (ingenuus) è equiparato a quello di una matrona ed in
quanto ciò trattarsi di un crimine capitale. La Leges Iuliae#Lex Iulia de vi
publica et privata (17 a.C.) definisce lo stupro come il sesso forzato contro
un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione, una sanzione
alquanto rara nel diritto romano. Costituiva inoltre un delitto capitale per un
uomo rapire un bambino nato libero per utilizzarlo in scopi eminentemente
sessuali; la corruzione del protettore del ragazzo per averne l'opportunità ne
rappresentava un'aggravante: in questo caso la negligenza degli accompagnatori
poteva essere perseguita sotto varie leggi, riversando patte della colpa su
coloro che non erano riusciti nelle loro responsabilità come guardiani,
piuttosto che sulla vittima. Anche se la legge riconosceva l'irreprensibilità
della vittima, la retorica utilizzata dalla difesa indica che i cosiddetti
"atteggiamenti colpevoli" avrebbeto potuto essere sfruttati fra i
giurati. Nella sua collezione di codici aneddotici che si occupavano d
assalti alla castità, lo storico Valerio Massimo dispone in egual misura di un
numero di vittime di sesso maschile rispetto a quelle di sesso femminile.
Sessualità militare Modifica
Il soldato romano, come ogni romano libero e rispettabile dello Stato, avrebbe
dovuto mostrare autodisciplina in materia di sesso. Ai soldati colpevoli di
adulterio veniva dato un congedo disonorevole, mentre agli adulteri condannati
era impedito l'arruolamento[104], con condanne rigorose che potevano vietare le
prostitute e i magnaccia dal campo,[105]. Anche se in generale l'esercito
romano, sia in marcia che in un forte permanente (castra) mantenevano tra i
partecipanti un numero di seguaci di campo che potevano includere anche le
prostitute. La loro presenza sembra essere data per scontata e menzionata
soprattutto quando poteva diventare un dato problematico[105]; per esempio
quando Scipione Emiliano stava partecipando all'assedio di Numanzianel 133 a.C.
respinse i seguaci sessuali del campo come una delle sue misure per il
ripristino della disciplina[106]. Forse la cosa più singolare è il
divieto contro il matrimonio romano mentre si faceva parte degli effettivi
dell'esercito imperiale. Nel suo primo periodo, Roma aveva un esercito di
cittadini che avevano lasciato le proprie famiglie per prendere le armi, quando
ve ne fosse stato bisogno. Durante l'espansionismo della media repubblica
romana, Roma iniziò ad acquisire vasti territori da difendere come le province
(vedi la provincia romana), ma nel corso dell'epoca di Gaio Mario (fino all'86
a.C.) l'esercito era stato sempre più professionalizzato. Il divieto di
matrimonio per i soldati in servizio iniziò sotto Augusto (27 a.C.-14 d.C.),
forse per scoraggiare le famiglie al seguito dell'esercito e compromettendone
così la sua mobilità. Il divieto di matrimonio era applicato a tutti i ranghi
fino a quello del centurione; mentre per gli uomini delle classi dirigenti
c'era l'esenzione. Con il II secolo la stabilità dell'impero conosciuta come
pax romana ha costretto la maggior parte delle unità a forti permanenze in
terre lontane, cosicché si potevano spesso sviluppare rapporti anche con donne
locali. Sebbene legalmente queste unioni non potevano essere formalizzate in
matrimonio legittimo, è stato riconosciuto che il loro valore stava nel fornire
un supporto emotivo. Dopo che un soldato fosse stato dimesso, alla coppia
era concesso il diritto di matrimonio legale in quanto cittadini (il connubium)
e tutti i bambini che già eventualmente avevano veniva loro concesso lo status
di esser nati cittadini[107]. Settimio Severo revocò il divieto augusteo nel
197[108]. Altre forme di gratificazione sessuale a disposizione dei
soldati erano l'uso di schiavi, gli stupri di guerra e la relazione tra persone
dello stesso sesso[109]. Il comportamento omosessuale tra i soldati è stato
oggetto di sanzioni, compresa la pena la morte[105] in quanto violazione della
disciplina e del diritto militare. Polibio (2 sec a.C.) riferisce che
l'attività omosessuale all'interno delle forze armate era punita con la
fustuarium, una fustigazione fino a morte[110]. Il sesso tra commilitoni
violava il decoro romano in quanto s'intratteneva un rapporto sessuale con un
altro maschio nato libero. Un soldato aveva sopra ogni altra cosa il dovere di
mantenere la propria mascolinità, non consentendo in nessun caso pertanto che
il proprio corpo potesse essere utilizzato per scopi sessuali. Questa integrità
fisica era in contrasto con i limiti imposti sulle sue azioni come uomo libero
all'interno della gerarchia militare; più sorprendentemente, i soldati romani
erano i soli cittadini regolarmente sottoposti a punizioni corporali, riservate
al mondo civile soprattutto agli schiavi. L'integrità sessuale ha contribuito a
distinguere lo status del soldato, che altrimenti avrebbe sacrificato molto
della sua autonomia civile rispetto a quella dello schiavo[111]. Nella
guerra, subire lo stupro equivaleva alla sconfitta, un altro motivo per il
soldato di non compromettere il proprio corpo sessualmente[112]. La
sessualità femminile Modifica
A causa dell'enfasi romana data alla famiglia, la sessualità femminile è stata
considerata una delle basi per l'ordine sociale e la prosperità. Ci si
aspettava che le donne romane esercitassero la propria sessualità all'interno
del matrimonio, e venissero premiate per la loro integrità sessuale (pudicitia)
e fecondità. Augusto concesse onori e privilegi speciali alle donne che avevano
dato alla luce almeno tre bambini, attraverso lo Ius trium liberorum; la sua
legge morale era incentrata sullo sfruttamento della sessualità delle
donne. Il controllo della sessualità femminile era considerata necessaria
per la stabilità dello Stato, tanto che era sancito nella forma più vistosa
data dalla verginitàassoluta delle Vestali[113] attendenti al sacro fuoco. Una
vestale che avesse violato il proprio voto sarebbe stata sepolta viva in un
rituale che avrebbe imitato per alcuni aspetti le pratiche funerarie romane ed
il suo amante l'avrebbe seguita[114]. La sessualità femminile, sia disordinata
sia esemplare, spesso poteva avere impatti anche profondi sulla religione di
Stato in tempo di crisi per la repubblica romana[115]. Come avveniva per
gli uomini, anche per le donne libere che si fossero esposte sessualmente, come
prostitute od esecutrici di lenocinio, o che si fossero rese disponibili
indiscriminatamente, sarebbero state escluse dalla protezione legale dovuta
loro nonché dalla rispettabilità sociale[116]. Molte fonti letterarie
romane approvano le donne rispettabili che esercitano la passione
esclusivamente all'interno dell'istituzione matrimoniale[117]; mentre la
letteratura antica prende con prepotenza una visione fortemente maschilista
della sessualità, il poeta augusteo Publio Ovidio Nasone esprime invece un
interesse esplicito e praticamente unico del modo in cui le donne subiscono il
rapporto sessuale[118] (ciò innanzi tutto nellArs amatoria ma anche negli
Amores). Il corpo femminile Modifica
Gli atteggiamenti morali nei confronti della nudità femminile differivano,
almeno in parte, da quelli dei Greci, pur essendo notevolmente influenzati da
loro; questi ultimi avevano idealizzato il corpo maschile nudo - il nudo eroico
- mentre ritraggono sempre le donne rispettabili coperte. La parziale nudità
delle dèe nell'arte imperiale romana, tuttavia, poteva mettere in evidenza il
seno come parte fisica dignitosa, ma in quanto per renderne un'idea piacevole
d'immagine di nutrimento, abbondanza e tranquillità[119]. L'arte erotica
sopravvissuta di questo periodo indica che le donne con seni piccoli e fianchi
larghi raffiguravano l'ideale forma del corpo umano femminile[120]. Dal I
secolo d.C. l'arte romana comincia a mostrare un vasto interesse per il nudo
artisticofemminile impegnato in varie attività tra le quali anche la
sessualità[121] (vedi l'arte erotica a Pompei e Ercolano); l'arte pornografica
rappresentante donne in qualità di presunte prostitute nel momento in cui
svolgono atti sessuali poteva mostrare il seno coperto da uno
"strophium" (una sorta di reggiseno) anche quando il resto del corpo
era nudo. Nel mondo reale, così come viene descritto in letteratura, le
prostitute a volte si presentavano nude all'ingresso del cubicolo del bordello
a loro riservato, oppure si mostravano indossare abiti di seta trasparente; gli
schiavi (e schiave) in vendita sono stati spesso esposti nudi per consentire
agli acquirenti d'ispezionare i loro eventuali difetti, ma anche per
simboleggiare che non avevano il diritto di controllare il proprio corpo[122].
Seneca il Vecchio descrive il momento della vendita di una donna: "lei si
presentò nuda sulla riva, a piacere dell'acquirente: ogni parte del suo corpo è
stato esaminato e ritenuto. Volete ascoltare il risultato della vendita? Il
pirata ha venduto, il protettore ha comprato, che la si potesse impiegare come
una prostituta"[123]. La visualizzazione del corpo femminile lo rendeva
maggiormente vulnerabile, Varrone ha detto che la vista era il più grande dei
sensi, perché mentre gli altri sono in un modo o nell'altro limitati dalla
vicinanza, la vista poteva penetrare anche fino all'altezza delle stelle; egli
pensava che la parola latina per vista-lo sguardo intenso, "visus",
fosse etimologicamente collegato a vis-forza/potere. Ma il legame tra visus e
vis, continua, implica anche la possibilità sempre presente di violazione
(tramite quindi lo sguardo maschile), come Atteone guardando nuda Diana ne
aveva violato la divinità[124]. Il corpo femminile completamente nudo
come viene ritratto nella scultura romana è stato pensato essenzialmente per
incarnare un concetto universale di Venere, la cui controparte greca Afrodite è
la Deapiù spesso dipinta in stato di nudità nell'arte greca[125].
Genitali femminili Modifica
Il termine basilare osceno per i genitali femminili è "cunnus"-fica,
anche se forse non così fortemente offensiva come per la moderna lingua
anglosassone[126]. Marziale utilizza la parola più di trenta volte, Catullo una
volta e Orazio tre solo nei suoi primi lavori; appare anche nei Priapea e nei
graffiti[127]. Una delle parole gergali usate dalle donne per i loro genitali
era "porcus", in particolare quando donne mature discutevano di
ragazze; Varrone collega quest'uso della parola al sacrificio di un maiale alla
dea Cerere nel corso dei riti preliminari di nozze[128]. Le metafore di
campi, giardini e prati sono anch'esse comuni, come lo è l'immagine dell'aratro
maschile riferito al solco femminile[129]; altre metafore includono la grotta,
la fossa, il sacchetto, il vaso, la stufa, il forno e l'altare[130].
Anche se i genitali delle donne appaiono spesso nelle invettive e all'interno
dei versi satirici come oggetti di disgusto, sono invero raramente presenti
nell'elegia d'amore[131]. Ovidio, il più eterosessuale dei poeti classici
d'amore, è l'unico che si riferisce al dare un piacere alla donna attraverso la
stimolazione dei genitali[132]; Marziale invece scrive dei genitali femminili
solamente in una maniera offensiva, descrivendo la vagina di una donna come
fosse l'esofago di un pellicano.[133] e la paragona inoltre al sedere del
ragazzo come ricettacolo per il fallo[134]. La funzione della clitoride
("landica") è stata ben compresa[135]; nel latino classico il termine
era di un'oscenità altamente indecorosa ritrovato solo nei graffiti e nei
Priapea. Il clitoride era solitamente indicato come una metafora, come ad
esempio fa Giovenale quando lo chiama "crista" (cresta)[136]
Omosessualità femminile Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. Le parole greche indicanti
una donna che preferisce il sesso con un'altra donna includono l'hetairistria
(da confrontare con hetaira-cortigiana/compagna), tribas (plurale tribadi) e
lesbia Sessualità e gioventù Modifica
Sia i maschi che le femmine nati liberi potevano indossare la "Toga
praetexta", una toga bianca normale con una larga striscia viola sui
bordi; era riservata ai ragazzi cittadini che non avevano però ancora raggiunto
la maggiore età. Questa toga assegnava chi la portava lo status di
inviolabilità[137]; lo stupro di un ragazzo nato libero costituiva un crimine
capitale. Riti di passaggio Modifica
Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sessualità è ancora vuota.
Aiutaci a scriverla! Sesso, matrimonio e società Modifica Relazione padrone-schiavo Modifica
L'attrattiva sessuale era una delle caratteristiche principali richieste negli
schiavi in quanto considerati proprietà oggettiva, il loro padrone poteva
utilizzarli sessualmente a piacimento o anche richiederli in prestito se
appartenevano ad altri. Le lettere di Cicerone hanno suggerito ad alcuni
studiosi che egli potesse aver avuto una relazione omosessuale a lungo termine
col proprio schiavo, e poi liberto, di nome Marco Tullio Tirone.
Prostituzione Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Prostituzione nell'antica Roma. Atti sessuali e
relative posizioni Modifica
Masturbazione Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia della masturbazione. Ermafroditismo e
androginia Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Ermafrodito, Afrodito e Androgino. Note Modifica ^ Catharine Edwards, The Politics
of Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), p. 65. ^
Beert C. Verstraete and Vernon Provencal, introduzione a Same-Sex Desire and
Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Press,
2005), p. 5. Per una più estesa discussione su come la percezione moderna della
decadenza sessuale romana sia stata prodotta ad arte dalla polemistica
cristiana nei suoi strali anti-pagani, vedi Alastair J. L. Blanshard,
"Roman Vice," in Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity
(Wiley-Blackwell, 2010), pp. 1–88. ^ Rebecca Langlands, Sexual Morality in
Ancient Rome (Cambridge University Press, 2006), p. 17. ^ Karl-J. Hölkeskamp,
Reconstructing the Roman Republic: An Ancient Political Culture and Modern
Research (Princeton University Press, 2010), pp. 17–18. ^ Langlands, Sexual
Morality, p.17. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 20. ^ Elaine Fantham,
"Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican
Rome", in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus
to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 121; Amy Richlin,
"Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman
Law against Love between Men", Journal of the History of Sexuality 3.4
(1993), p. 556. Under the Empire, the emperor assumed the powers of the censors
(p. 560). ^ Michel Foucault, Storia della sessualità vol. II: la cura di sé
(New York: Vintage Books, 1988), vol. 3, p. 239 (in contrasto con la visione
cristiana della sessualità come "legata al male") et passim, e come
viene sintetizzato da Inger Furseth and Pål Repstad, An Introduction to the
Sociology of Religion: Classical and Contemporary Perspectives (Ashgate, 2006),
p. 64. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale
University Press, 1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano),
p. xii. ^ Langlands, Sexual Morality, pp. 37–38 et passim. ^ Cantarella,
Bisessualità nel mondo antico, pp. xii–xiii. ^ John R. Clarke, Looking at
Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250
(University of California Press, 1998, 2001), pp. 9, 153ff. ^ Langlands, Sexual
Morality, p. 31, in special modo la nota 55; Clarke, Looking at Lovemaking, p.
11. ^ Thomas A. McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World
(University of Michigan Press, 2004), p. 164. ^ Craig Williams, Roman
Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p. 304, citando Saara
Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum
Fennica, 1983), p. 122. ^ Martha C. Nussbaum, "The Incomplete Feminism of
Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman", in The Sleep of Reason:
Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome (University of
Chicago Press, 2002), p. 299. ^ Marilyn B. Skinner, introduction to Roman
Sexualities (Princeton University Press, 1997), p. 11. ^ a b Langlands, Sexual
Morality, p. 13. ^ Edwards, The Politics of Immorality, pp. 66–67, especially
note 12. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 8, sostiene che gli antichi romani
"non hanno un'idea consapevole della loro sessualità". Vedi anche
Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman
Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas",
in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 15–16 et
passim, e la discussione di costruttivismo sociale contrario all'essenzialismo
di Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of
Rome", in The Roman Cultural Revolution (Cambridge University Press,
1997), p. 2ff. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 9. ^ Amy Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire", in A Companion to the Roman Empire
(Blackwell, 2006), p. 330. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire,"
p. 331. ^ Ovid, Tristia 2.431ff. ^ Jasper Griffin, "Propertius and
Antony", Journal of Roman Studies 67 (1977), p. 20. ^ Ovid, Tristia 2. 413
and 443–444; Heinz Hofmann, Latin Fiction: The Latin Novel in Context
(Routledge, 1999), p. 85. ^ Plutarco, Vita di Crasso 32. ^ Clarke, Looking at
Lovemaking, p. 3 et passim. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 108. ^ La
"Tabella" era un piccolo dipinto portatile, distinto dalla pittura
murale permanente. ^ Ovidio, Tristia 2, così com'è citato da Clarke in Looking
at Lovemaking, pp. 91–92. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 93. ^ Clarke,
Looking at Lovemaking, pp. 3 and 212 ff., quotation on p. 216. ^ L'osservazione
critica proviene da Svetonio, Vita di Orazio: Ad res Venerias intemperantior
traditur; nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut
quocumque respexisset ibi ei imago coitus referretur; Clarke, Looking at
Lovemaking, p. 92. ^ Svetonio, Vita di Tiberio 44.2; Clarke, Looking at
Lovemaking, pp. 92–93. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire,"
p.329. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 329. ^ Ad
esempio, Agatha of Sicily e Febronia of Nisibis; Sebastian P. Brock and Susan
Ashbrook Harvey, introduction to Holy Women of the Syrian Orient (University of
California Press, 1987), pp. 24–25; Harvey, "Women in Early Byzantine
Hagiography: Reversing the Story," in That Gentle Strength: Historical
Perspectives on Women in Christianity (University Press of Virginia, 1990), pp.
48–50. I racconti di mutilazione del seno si trovano nelle fonti e nell'iconografia
cristiana, non nell'arte e nella letteratura romana.. ^ Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," p. 330. Anche se non vi sono dubbi
sul fatto che Ausonio fosse un cristiano, le sue opere contengono molte
indicazioni che dimostrano un notevole interesse - forse addirittura ne è stato
un praticante - nei riguardi delle religioni tradizionali romane e celtiche. ^
Come sostenuto da Ariadne Staples in tutto il suo From Good Goddess to Vestal
Virgins: Sex and Category in Roman Religion (Routledge, 1998). ^ Celia E.
Schultz, Women's Religious Activity in the Roman Republic (University of North
Carolina Press, 2006), pp. 79–81; Michael Lipka, Roman Gods: A Conceptual
Approach (Brill, 2009), pp. 141–142 ^ See Flamen Dialis and rex sacrorum. ^
Mary Beard, J.A. North, and S.R.F. Price, Religions of Rome: A History
(Cambridge University Press, 1998), vol. 1, p. 53; Robin Lorsch Wildfang,
Rome's Vestal Virgins: A Study of Rome's Vestal Priestesses in the Late
Republic and Early Empire (Routledge, 2006), p. 20. ^ Staples, From Good
Goddess to Vestal Virgins, p. 149. ^ Cicerone, De officiis 1.17.54: nam cum sit
hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas
in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id
autem est principium urbis et quasi seminarium reipublicae; Sabine MacCormack,
"Sin, Citizenship, and the Salvation of Souls: The Impact of Christian
Priorities on Late-Roman and Post-Roman Society," Comparative Studies in
Society and History 39.4 (1997), p. 651. ^ Com'è espresso nella prima
invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro nel De rerum natura: "Begetter
(genetrix) of the line of Aeneas, the pleasure (voluptas) of human and
divine." ^ J. Rufus Fears, "The Theology of Victory at Rome:
Approaches and Problem," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt
II.17.2 (1981), pp. 791–795. Silla poteva in quel momento essere o meno stato
un àugure. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity
in Classical Antiquity(Oxford University Press, 1999), p. 92. ^ Martin Henig,
Religion in Roman Britain(London: Batsford, 1984), pp. 185–186. ^ Plinio,
Naturalis historia 28.4.7 (28.39), dice che quando un generale celebrava un
trionfo, le Vestali appendevano l'effigie del Fascinus nella parte inferiore
del suo carro per proteggerlo dall'invidia. ^ Robert Turcan, The Gods of
Ancient Rome(Routledge, 2001; originally published in French 1998), pp. 18–20;
Jörg Rüpke, Religion in Republican Rome: Rationalization and Ritual Change
(University of Pennsylvania Press, 2002), pp. 181–182. ^ Iter amoris,
"journey" or "course of love". See Propertius 3.15.3–6;
Ovidio, Fasti) 3.777–778; Michelle George, "The 'Dark Side' of the
Toga," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture(University of
Toronto Press, 2008), p. 55. Robert E. A. Palmer, "Mutinus Titinus: A
Study in Etrusco-Roman Religion and Topography," in Roman Religion and
Roman Empire: Five Essays(University of Pennsylvania Press, 1974), pp. 187–206,
ha sostenuto che quello di Mutunus Tutunus fosse un sotto-culto di quello che
era dedicato a Libero; Agostino di Ippona, De civitate Dei 7.21, ha detto che
un fallo era un oggetto divino utilizzato durante la Liberalia per respingere
le influenze malevoli dalle colture. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 46–47.
^ a b c d Langlands, Sexual Morality, p. 30. ^ Barbette Stanley Spaeth, The
Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, 1996), pp. 115–116, citing
Festus (87 in the edition of Müller) parlando della torcia, rileva che le
sacerdotesse devote e dedicate al culto di Cerere nelle province romane
nordafricane fanno voto di castità come avviene tra le Vestali (Tertulliano, Ad
uxorem 1.6 Oehler). Ovidio nota che Cerere è soddisfatta anche da piccole
offerte, purché siano caste (Fasti 4.411–412). Statius dice che Cerere stessa è
casta (Silvae 4.311). La preoccupazione di associare la dea con la
"castitas" può avere a che fare con la sua funzione di tutelare i
passaggi oltre i confini, compresa quindi anche la transizione tra la vita e la
morte, come avviene nelle religioni misteriche. ^ H.H.J. Brouwer, Bona Dea: The
Sources and a Description of the Cult (Brill, 1989), pp. 367–367, note 319. ^
Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus, p. 51; Susanne William Rasmussen,
Public Portents in Republican Rome («L'Erma» di Bretschneider, 2003), p. 41. ^
Wildfang, Rome's Vestal Virgins, p. 82 et passim. ^ Crassus's nomen was
Licinius; the Vestal's name was Licinia (see Roman naming conventions). His
reputation for greed and sharp business dealings helped save him; he objected
that he had spent time with Licinia to obtain some real estate she owned. For
sources, see Michael C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to
50 BC (University of Toronto Press, 1990), p. 84. The most likely year was 73
BC; Plutarch, Life of Crassus 1.2, implies that the prosecution was motivated
by political utility. One or more Vestals were also brought before the College
of Pontiffs for incestum in connection with the Catiline Conspiracy (Alexander,
Trials, p. 83). ^ The sources on this notorious incident are numerous; Brouwer,
Bona Dea, p. 144ff., gathers the ancient accounts. ^ Bruce W. Frier and Thomas
A. J. McGinn, A Casebook on Roman Family Law (Oxford University Press, 2004),
pp. 38 and 52. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression
in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 30. ^ Stuprum cum vi
or per vim stuprum: Richlin, "Not before Homosexuality," p. 562. ^
For instance, in the mid-3rd century BC, Naevius uses the word stuprum in his
Bellum Punicum for the military disgrace of desertion or cowardice; Elaine
Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in
Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature
from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 117. ^ a b
Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties," p. 118. ^ Diana
C. Moses, "Livy's Lucretia and the Validity of Coerced Consent in Roman
Law," in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval
Societies (Dunbarton Oaks, 1993), p. 50; Gillian Clark, Women in Late
Antiquity: Pagan and Christian Life-styles (Oxford University Press, 1993), p.
36. ^ Moses, "Livy's Lucretia," pp. 50–51. ^ Stuart Gillespie and
Philip Hardie, introduction to The Cambridge Companion to Lucretius(Cambridge
University Press, 2007), p. 12. ^ A scholiast gives an example of an unnatural
and unnecessary desire as acquiring crowns and setting up statues for oneself;
see J.M. Rist, Epicurus: An Introduction (Cambridge University Press, 1972),
pp. 116–119. ^ Philip Hardie, "Lucretius and Later Latin Literature in
Antiquity," in The Cambridge Companion to Lucretius, p. 121, note 32. ^
Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford
University Press, 1998), p. 326. See the statement preserved by Aulus Gellius
9.12. 1 that " it was an injustice to bring force to bear against the body
of those who are free" (vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^
Elaine Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius'
Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of
Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects
of Propaganda in the De bello gallico: Caesar’s Virtues and Attributes,”
Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus
and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon
Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome
(Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford
University Press, 1999), p. 18. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World,
p. xi; Skinner, introduction to Roman Sexualities, p. 11. ^ Richlin, The Garden
of Priapus, p. 225. ^ Catharine Edwards, "Unspeakable Professions: Public
Performance and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, pp.
67–68. ^ Edwards, "Unspeakable Professions," p. 68. ^ Aulus Gellius
15.12.3; Williams, Roman Homosexuality, pp. 20–21, 39. ^ Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire,
p. 329. The law began to specify harsher punishments for the lower classes
(humiliores) than for the elite (honestiores). ^ This is a theme throughout
Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the
Monster (Princeton University Press, 1993). ^ Julia Heskel, "Cicero as
Evidence for Attitudes to Dress in the Late Republic," in The World of
Roman Costume (University of Wisconsin Press, 2001), p. 138; Larissa Bonfante,
"Nudity as a Costume in Classical Art," in American Journal of
Archaeology 93.4 (1989), p. 563. ^ Ovid, Fasti 2.283–380. ^ Carole E. Newlands,
Playing with Time: Ovid and the Fasti (Cornell University Press, 1995), pp.
59–60. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 69–70. ^ Paul Zanker, The Power of
Images in the Age of Augustus (University of Michigan Press, 1988), p. 5ff. ^
Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, pp. 239–240, 249–250 et
passim. ^ Plutarch, Life of Cato 20.5; Williams, Roman Homosexuality, pp.
69–70; Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, p. 6. ^ Fino alla
tarda Repubblica, un bagno di casa probabilmente offerto le donne un'ala o
struttura separata, o ha avuto un programma che permetteva alle donne e agli
uomini di fare il bagno in tempi diversi. Dalla tarda Repubblica fino alla
prevalenza del cristianesimo nel tardo impero, non vi è una chiara evidenza di
balneazione mista. Alcuni studiosi hanno pensato che solo le donne delle classi
inferiori si bagnassero con gli uomini, o le prostitute che erano infames, ma
Clemente di Alessandria ha osservato che le donne delle più alte classi sociali
potevano essere viste nude ai bagni. Adriano vietata la balneazione mista, ma
il divieto non sembra fosse rigorosamente rispettato. In breve, i costumi
variavano non solo nel tempo e nei luoghi, ma anche rispetto alla struttura
sociale predominante; vedi Garrett G. Fagan, Bathing in Public in the Roman
World (University of Michigan Press, 1999, 2002), pp. 26–27. ^ Clarke, Looking
at Lovemaking, p. 84; David J. Mattingly, Imperialism, Power, and Identity:
Experiencing the Roman Empire (Princeton University Press, 2011), p. 106. ^ Amy
Richlin, "Pliny's Brassiere," in Roman Sexualities, p. 215. ^
Mattingly, Imperialism, Power, and Identity, p. 106. ^ Williams, Roman Homosexuality,
pp. 251–252, citing Suetonius, Life of Nero. ^ Edwards, The Politics of
Immorality, pp. 63–64. ^ Edwards, Politics of Immorality, p. 47 et passim. ^
The case, which nearly shipwrecked Clodius's political career, is discussed at
length by his biographer, W. Jeffrey Tatum, The Patrician Tribune: Publius
Clodius Pulcher (University of North Carolina Press, 1999), p. 62ff. ^ P.
Clodius, a crocota, a mitra, a muliebribus soleis purpureisque fasceolis, a
strophio, a psalterio, <a> flagitio, a stupro est factus repente
popularis: Cicero, the speech De Haruspicium Responso 21.44, delivered May 56
BC, and given a Lacanian analysis by Eleanor Winsor Leach, “Gendering Clodius,”
Classical World 94 (2001) 335–359. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. ^
Edwards, The Politics of Immorality, p. 34; see also W. Jeffrey Tatum, Always I
Am Caesar(Blackwell, 2008), p. 109. ^ Stephen O. Murray, Homosexualities
(University of Chicago Press, 2000), pp. 298–303; Mary R. Bachvarova,
"Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic
Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the
Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford University Press, 2008), pp. 19, 33,
36. See also "Hermaphroditism and androgyny" below. ^ Williams, Roman
Homosexuality, p. 85 et passim. ^ Catullo, Carmina 24, 48, 81, 99. ^ Tibullus,
Book One, elegies 4, 8, and 9. ^ Propertius 4.2. ^ Thomas A.J. McGinn,
Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press,
1998), p. 40. ^ a b c McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 40. ^
David Potter, "The Roman Army and Navy," in The Cambridge Companion
to the Roman Republic, p. 79. ^ Pat Southern, The Roman Army: A Social and
Institutional History (Oxford University Press, 2006), p. 144. ^ Sara Elise
Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the
Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, p.
3. Il [[De Bello Hispaniensi|]], circa la guerra civile di Cesare sul fronte
della Spagna romana, parla di un ufficiale che ha una concubina di sesso
maschile (concubinus) che si porta appresso. ^ Polibio, Storie 6.37.9
(translated as bastinado). ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service:
Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge
University Press, 2008), p. 93. See also "Master-slave
relations"below. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. Roman law
recognized that a soldier was vulnerable to rape by the enemy: Digest 3.1.1.6,
as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Beth
Severy, Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire (Routledge,
2003), p. 39. ^ Hans-Friedrich Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus
(Routledge, 2002), p. 51. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 57. ^ See further
discussion at Pleasure and infamy below. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p.
103. ^ Roy K. Gibson, Ars Amatoria Book 3(Cambridge University Press, 2003),
pp. 398–399. ^ Cohen, "Divesting the Female Breast," p. 66; Cameron,
The Last Pagans, p. 725; Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical
Art," passim. See discussion of the iconography of breastsfollowing. ^
Kelly Olson, "The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress
and the Fabrics of Roman Culture (University of Toronto Press, 2008), p. 143;
Clarke, Looking at Lovemaking, p. 34. ^ Clarke, "Look Who's Laughing at
Sex," in The Roman Gaze, p. 160. ^ Alastair J. L. Blanshard, Sex: Vice and
Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, 2010), p. 24; Kyle Harper,
Slavery in the Late Roman Mediterranean, AD 275–425 (Cambridge University
Press, 2011), pp. 293–294. ^ Seneca, Controversia 1.2. ^ Varro, De lingua
latina 6.8, citing a fragment from the Latin tragedian Accius on Actaeon that
plays with the verb video, videre, visum, "see," and its presumed
connection to vis (ablative vi, "by force") and violare, "to
violate": "He who saw what should not be seen violated that with his
eyes" (Cum illud oculis violavit is, qui invidit invidendum); David
Frederic, "Invisible Rome," in The Roman Gaze, pp. 1–2. Ancient
etymology was not a matter of scientific linguistics, but of associative
interpretation based on similarity of sound and implications of theology and
philosophy; see Davide Del Bello, Forgotten Paths: Etymology and the
Allegorical Mindset(Catholic University of America Press, 2007). ^ Clement of
Alexandria, Protrepticus 4.50; Allison R. Sharrock, "Looking at Looking:
Can You Resist a Reading?" in The Roman Gaze, p. 275. ^ Adams, The Latin
Sexual Vocabulary, pp. 80–81. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 81. ^
Varro, On Agriculture 2.4.9; Karen K. Hersch, The Roman Wedding: Ritual and
Meaning in Antiquity (Cambridge University Press, 2010), pp. 122, 276; Barbette
Stanley Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, 1996), p. 17.
^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, pp. 82–83. ^ Adams, The Latin Sexual
Vocabulary, pp. 85–89. ^ Richlin, The Garden of Priapus, pp. xvi, 26, 68–69,
109, 276 et passim. ^ Throughout the Ars Amatoria ("Art of Love");
Gibson, Ars Amatoria Book 3, p. 399. ^ Martial, Epigrams 11.21.1, 10: tam laxa
... quam turpe guttur onocrotali; Richlin, The Garden of Priapus, p. 27. ^
Richlin, The Garden of Priapus, pp. 49, 67; Clarke, Looking at Lovemaking, pp.
21, 48, 116. ^ Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 97. ^ Juvenal 6.422;
Adams, The Latin Sexual Vocabulary, p. 98. ^ Il bordo viola appare anche sulle
toghe dei magistrati tra le cui funzioni vi è anche quella di presiedere ai
sacrifici; era inoltre la toga indossata da un figlio in lutto dopo aver
effettuato i riti funebri, ed infine lo stesso colore appariva sui veli delle
Vestali; Judith Lynn Sebesta, "Women's Costume and Feminine Civic Morality
in Augustan Rome," Gender & History 9.3 (1997), p. 532, and
"Symbolism in the Costume of the Roman Woman," p. 47. Bibliografia Modifica Adams, J.N. The Latin Sexual
Vocabulary. Johns Hopkins University Press, 1982. ISBN 978-0-8018-4106-4.
Brown, Robert D. Lucretius on Love and Sex. Brill, 1987. Cantarella, Eva.
Bisexuality in the Ancient World. Yale University Press, 1992. ISBN
978-0-300-04844-5. Clarke, John R. Looking at Lovemaking: Constructions of
Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250. University of California Press, 1998,
2001. Edwards, Catharine. The Politics of Immorality in Ancient Rome. Cambridge
University Press, 1993. Fantham, Elaine. "Stuprum: Public Attitudes and
Penalties for Sexual Offences in Republican Rome." In Roman Readings:
Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian.
Walter de Gruyter, 2011. Frederic, David, ed. The Roman Gaze: Vision, Power,
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correlate Modifica Arte erotica a Pompei e
Ercolano Omosessualità nell'Antica Roma Sessualità nell'antica Grecia Storia
della sessualità umana Altri progetti Modifica
Portale Antica Roma Portale Erotismo Ultima modifica 23
giorni fa di Rodolfo Baraldini PAGINE CORRELATE Omosessualità nell'antica Roma
Irrumatio tipo di pratica del sesso orale Lex Scantinia Wikipedia Il
contenuto Omosessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli
atteggiamenti sociali nei confronti dell'omosessualità nell'antica Roma e i
comportamenti relativi differiscono - spesso in una maniera assai notevole - da
quelli assunti della contemporanea civiltà occidentale e presenti in essa; il
tema deve pertanto essere affrontato necessariamente attraverso la visione del
mondo e della sessualità tipica della maggioranza delle società antiche, molto
diversa da quella moderna. Graffito in versi proveniente da Pompei
antica. Lo scrivente, bruciato dalle fiamme d'amore, incita il mulattiere a
smetterla di bere e a pungolare semmai i muli per arrivare prima a casa, dove
un bel ragazzo, di cui egli è innamorato, lo attende (là ove l'amore è dolce).
Il ruolo passivo come discriminante morale Modifica
Per le antiche civiltà precristiane intrise di paganesimo, soprattutto per
quelle del mondo classico (antica Grecia e antica Roma), non esisteva
un'autentica differenziazione individuale basata sull'orientamento sessuale o
di identità di genere. Piuttosto, questa esisteva in base al ruolo assunto
all'interno del rapporto sessuale: l'identificazione e le leggi che regolavano
le relazioni e le varie pratiche amorose non si fondavano sull'oggetto del
desiderio (una persona dello stesso sesso o di quello opposto), ma la
discriminante era bensì data dal fatto che quella persona ricoprisse un ruolo
attivo e associato quindi alla virilità e alla mascolinità, oppure uno passivo,
generalmente considerato come estremamente degradante e tipico della
femminilità (era dato cioè dall'atto che poteva essere dominante o sottomesso,
come viene indicato anche nell'uso dei termini catamite e irrumatio).
Agli antichi romani era peraltro completamente sconosciuta anche la dicotomia
del concetto moderno tra un'esclusiva omosessualità e un'altrettanto esclusiva
eterosessualità[1], proprio per il fatto che l'identificazione sessuale
avveniva per lo più in base al ruolo svolto durante l'atto intimo (vedi attivo
e passivo nel sesso); la stessa lingua latina manca di parole traducibili con
eterosessuale o omosessuale come un'identità consapevole di chi prova
attrazione solo nei confronti di persone dell'altro o del proprio stesso
sesso. Antinoo, il giovane di cui s'innamorò l'imperatore romanodel
II secolo Publio Elio Traiano Adriano. Quando l'amato morì, Adriano ne fece
letteralmente un dio, innalzandogli decine di statue in tutto l'impero. La
società romana seguiva i dettami del patriarcato, un sistema impregnato da
forti connotazioni di maschilismo; per i maschi adulti ingenui, quelli che
possedevano cioè a tutti gli effetti la cittadinanza romana (la
Libertas-libertà politica e il diritto di governare sé stessi e la propria
familia con l'autorità derivante dal pater familias), la Virtus è stata sempre
intesa come una delle qualità attive per eccellenza e attraverso la quale
l'uomo-vir si viene maggiormente a definire. Gli uomini erano liberi
d'intrattenere rapporti sessuali con altri maschi senza alcuna percezione di
perdita di virilità o di status sociale, fintanto e a condizione che avessero
assunto la posizione di comando (sessualmente penetrativa). Il ruolo
attivo come segno di virilità Modifica
La mentalità di conquista e il culto della virilità formano nel corso del tempo
anche le relazioni omoerotiche; la pratica omosessuale a Roma si afferma molto
presto come rapporto di dominazione, ad esempio del cittadino sopra lo schiavo,
il tutto a conferma della decisa virilità mascolina dell'uomo romano; la
schiavitù nell'antica Roma contemplava difatti anche una decisiva sudditanza
sessuale nei confronti di chi deteneva il potere sopra altre persone[2].
L'ideale romano di mascolinità funge in tal modo da premessa all'assunzione di
un ruolo attivo sempre e comunque, preso e innalzato a valore supremo: ciò
costituiva "la prima direttiva del comportamento sessuale maschile per i
Romani"[3]. Partner maschili accettabili erano sia gli schiavi sia
tutti coloro che si dedicavano alla prostituzione maschile ma anche quelli il
cui stile di vita li immetteva nel nebuloso campo sociale dell'infamia, gli
esclusi dalle normali protezioni accordate a ogni cittadino, questo anche se
fossero stati tecnicamente liberi. Pur preferendo nella generalità dei casi la
pederastia(compagnia intima con giovani di età compresa tra i 12 e i 20 anni),
con i minori di sesso maschile nati liberi agli uomini adulti era rigorosamente
proibito qualsivoglia tipo di approccio, mentre i prostituti di professione e
gli schiavi potevano essere anche molto più vecchi[4]. Omosessualità
femminile Modifica
Le relazioni omosessuali tra le donne sono meno documentate. Anche se le donne
nell'antica Romaappartenenti alle classi più alte (come le matrone) erano
solitamente istruite e vi sono esempi noti di scrittura poetica e vaste
corrispondenze con parenti di sesso maschile, molto poco e frammentario è ciò
che è sopravvissuto rispetto a quello che potrebbe essere stato effettivamente
scritto da mani femminili. Gli scrittori maschi hanno mostrato ben poco
interesse al modo in cui le donne hanno sperimentato e vissuto la sessualità in
generale; il poeta latino dell'era augustea (vedi Storia della letteratura
latina (31 a.C. - 14 d.C.)) Publio Ovidio Nasone risulta qui un'eccezione,
dimostrandosi particolarmente acuto e sensibile al riguardo; ma egli è anche
uno dei più strenui sostenitori di uno stile di vita fortemente improntato
all'amore verso le donne e in opposizione alle norme sessuali romane
alternative a esso[5]. Durante la repubblica romana e nel corso
dell'epoca costituita dal principato e dall'inizio dell'alto impero romano
assai poco viene registrato riguardo a relazioni sentimentali tra donne, mentre
prove migliori e di più ampio genere sussistono, anche se variamente disperse,
per il successivo periodo del tardo impero romano e della tarda
antichità. Excursus storico Modifica
Quando si parla di omosessualità nella romanità antica bisogna necessariamente
distinguere almeno tre grandi periodizzazioni storiche, in cui spesso cambia la
concezione e la visione e accettazione stessa dei rapporti omosessuali:
il periodo dell'Età regia di Roma e quello repubblicano antecedente al 146 a.C.
(Grecia romana); il periodo repubblicano successivo alla conquista della Grecia
fino all'Alto Impero romano; infine il periodo del basso Impero. Busto
antico romano di ignoto adolescente, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo
e datato al II secolo d.C. Periodo antecedente la conquista della Grecia Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Vizio greco (antica Roma). Nel periodo
repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali
erano osteggiati e visti con sospetto. I Romani identificavano infatti il
rapporto tra persone dello stesso sesso come il vizio greco, sostenendo che nei
loro antenati non esistesse l'omosessualità, ritenuta un'offesa al costume
degli avi (il famoso mos maiorum), contraria al rigore del "civis
Romanus" e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della società
romana stessa. La libertà politica di un cittadino è stata definita in
parte dal diritto di preservare il proprio corpo da qualsivoglia costrizione
fisica, comprendente pertanto sia la punizione corporale sia l'abuso
sessuale[6]; il sentimento di mascolinità era la premessa imprescindibile della
capacità di governare sia sé stessi sia altre persone di status inferiore[7] e
la Virtus, come già sottolineato, è il valore che rende l'uomo più pienamente
uomo: la virtù attiva per eccellenza, quindi[8]. Periodo successivo alla
conquista della Grecia e Alto Impero Modifica
Con la conquista della Grecia, assieme alla cultura della Grecia classica, Roma
assorbe anche molte usanze, tra cui il cosiddetto "amore greco". Ma i
civesromani praticavano l'omosessualità solamente con gli schiavi e con i
liberti. Era deprecabile che un cittadino assumesse il ruolo passivo in un
rapporto omosessuale, perché questo era in conflitto con una certa ideologia
virile e dominatrice presente in tutta la società romana. La conquista
sessuale diviene presto metaforacomune, utilizzata spesso nell'arte retorica
romana più favorevole all'imperialismo[9], e la mentalità da conquistatori, inerente
anche alla sfera della sessualità nell'antica Roma, faceva parte di un culto
generico della virilità il quale poteva condurre anche a particolari forme di
pratiche omosessuali tra gli uomini[10]. Gli studiosi contemporanei tendono
pertanto a vedere le espressioni inerenti alla sessualità maschile umana
all'interno della civiltà romana in termini di opposizione binaria nel modello
penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di
cercare gratificazione sessuale era quello di inserire il suo pene nel/nella
partner[11]: permettere di lasciarsi penetrare avrebbe invece minacciato la
propria libertà come cittadino, oltre che la sua intrinseca integrità sessuale.
Il ruolo passivo indicante sottomissione era sommamente disprezzato e visto come
sintomo di mollezza, di rinuncia alla virilità e perciò deprecabile e
vergognoso, specialmente se era un cittadino romano a ricoprirlo.[12] Ci
si aspettava ed era socialmente accettabile per un uomo romano nato libero di
voler consumare esperienze sessuali con entrambi i tipi di partner, sia
maschili sia femminili, l'importante era mantenere un ruolo dominante[13]. La
moralità del comportamento dipendeva poi anche dalla posizione sociale del
partner, indipendentemente dal fatto che fosse un uomo o una donna; le donne e
i giovani uomini sono stati entrambi considerati normali oggetti del desiderio,
ma fintanto che si manteneva al di fuori del vincolo matrimoniale un uomo
avrebbe dovuto cercare di soddisfare i propri desideri solo con schiavi,
prostitute (che spesso erano schiave o ex-schiave anch'esse) e gli infames (i
succitati sottoposti a infamia). Il sesso di un partner non determinava
se questa relazione fosse accettabile o meno, sempre però a patto che il
godimento di un uomo non usurpasse l'integrità di un altro uomo: era altamente
immorale ad esempio avere una relazione con la moglie di un altro uomo nato
libero, con una ragazza in età da marito o con un ragazzo minorenne di buona
famiglia, o con lo stesso cittadino libero adulto; mentre l'uso sessuale degli
schiavi di un altro uomo doveva sottostare al permesso del proprietario. La
mancanza di autocontrollo, anche nell'ambito della gestione della propria vita
sessuale, indicava platealmente che quell'uomo era del tutto incapace di
governare gli altri; troppa indulgenza nei confronti dei "bassi piaceri
sensuali" minacciava di erodere l'identità del maschio dell'élite nella
sua qualità di persona istruita (quindi migliore e destinata a
governare)[14]. Particolare della tomba-monumento di un giovane che
mostra un antico ragazzo romano con indosso una bulla, l'amuletopensato per
proteggere un bambino nato libero da influenze sovrannaturali malevoli e lo
segnava come sessualmente indisponibile/intoccabile. La Lex Scantinia (149
a.C.) condannava espressamente l'uomo nel caso di rapporti omosessuali tra un
adulto e un puer o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora
che portavano i ragazzi che non avevano ancora raggiunto l'età della piena
maturità sessuale (fino ai 15-17 anni)), mentre nel caso di rapporto
omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due
assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000
sesterzi. La Lex Scantinia, di cui non ci è pervenuto il testo ma che
abbiamo solamente attraverso citazioni tratte dagli scritti del filosofo Marco
Tullio Cicerone, di Decimo Magno Ausonio, dello storico Gaio Svetonio
Tranquillo, del poeta Decimo Giunio Giovenale e infine da parte degli autori
cristiani Tertulliano e Prudenzio, è un'importante testimonianza a
dimostrazione del fatto che l'omosessualità veniva praticata in tutti gli
ambienti sociali. Stele funebre dell'adolescente Philetos, del demo
di Aixone (prima metà del I secolo d.C.) che indossa la toga. Esposta nel cortile
interno coperto del "Museo archeologico del Ceramico" ad Atene. In
età imperiale, le ansie circa la perdita della libertà politica e la
subordinazione del cittadino all'imperatore si sono espresse nella percezione
di un aumento del volontario comportamento omosessuale passivo tra gli uomini
liberi, accompagnato da una crescita documentata nell'esecuzione di punizioni
corporali sui cittadini[15]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di
integrità fisica in relazione alla "libertas" contribuisce alla
licenza sessuale e si riflette nella decadenza associata con
l'impero[16]. A ogni modo, analizzando i testi e i poemi degli scrittori
antichi, non si può fare a meno di notare alcune contraddizioni, almeno dal
punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualità: se da una
parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta omoerotiche,
vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi e liberti (in
molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo[17]), o addirittura dando consigli
su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo[18]); dall'altra altri
scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento, contro
chi si macchia di effeminatezza (gli uomini che ricoprono il ruolo passivo nei
rapporti omosessuali maschili) soprattutto se cittadini romani, scherniti e
derisi quando non violentemente attaccati come causa di decadimento sociale (lo
stesso Catullo nei Carmina 16, 25 e 33). Questa apparente contraddizione
è in un certo senso giustificata dalla visione che della società avevano i
romani, tipicamente e prettamente maschilista, dove il ruolo attivo in un
rapporto sessuale, sia con donne sia con uomini, era sintomo di virilità e
veniva esaltato, in rapporto anche alla superiorità della Gens Romana sopra gli
altri popoli, destinata quindi a dominarli anche sessualmente[19]. Giulio
Cesare Modifica
Statua di Giulio Cesare, esempio di nudo eroico. Anche molti uomini illustri
tra i più noti e stimati, uno fra tutti Gaio Giulio Cesare - membro autorevole
della Gens Giulia e capostipite della dinastia giulio-claudia - provavano una
forte attrazione nei confronti di persone dello stesso sesso: l'omosessualità,
o meglio la bisessualità, di Cesare è ben testimoniata da Cicerone secondo cui
egli era "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i
mariti". I suoi gusti nella sfera sessuale furono spesso motivo di
pettegolezzo e canzonatura da parte sia dei detrattori sia degli stessi soldati
a lui sottoposti; Plutarco e Svetonio[20] narrano approfonditamente della sua
relazione omoerotica avuta in gioventù con l'ultimo sovrano del regno di
Bitinia Nicomede IV; non vi fu nemico o personaggio pubblico che non cogliesse
l'occasione, anche a distanza di anni, per fare della maldicenza a proposito
dei rapporti particolari intercorsi fra il giovane Cesare e il re. Cesare
veniva di volta in volta definito "rivale della regina di Bitinia",
"stalla di Nicomede", "bordello di Bitinia". Marco
Campurnio Bibulo, collega di Cesare nel consolato del 59, riprendendo la
vecchia accusa che lo dipingeva come regina di Bitinia, per attaccare la
sfrenata ambizione di Cesare che manifestava tendenze monarchiche affermò:
"Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno". I
legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume che
consentiva ai soldati di indirizzare il giorno del trionfo versi piccanti e
scurrili al proprio comandante, intonarono un canto che suonava più o meno
così: (LA) «"Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem:
ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui
subegit Caesarem"» (IT) «Cesare ha sottomesso le Gallie, ma
Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso,
non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui.» (Svetonio, Vita di Cesare.)
Lo stesso Cicerone, riferendosi ai fatti di Bitinia, scriveva nelle sue lettere
che con Nicomede IV Cesare “aveva perso il fiore della giovinezza” e un giorno,
in Senato, durante una seduta in cui Cesare per perorare la causa di Nisa,
figlia di Nicomede, ricordava i benefici ricevuti da quel re, Cicerone
pubblicamente lo interruppe esclamando: “Lascia perdere questi argomenti, ti
prego, poiché nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e ciò che tu hai dato a
lui”. Gaio Valerio Catullo[21] ebbe a sostenere che Cesare e il suo
ufficiale Mamurra durante la campagna di Galliaavessero avuto una relazione, ma
più tardi si scusò: in quest'episodio Cesare dimostrò tutta la sua clementia,
concedendo al poeta il suo perdono e lasciandogli frequentare la sua domus.[22]
Marco Antonio, infine, insinuò, nel tentativo di diffamare il suo avversario
durante la guerra civile, che Cesare avesse avuto un rapporto anche con il
nipote Ottaviano, e che la causa della sua adozione fosse stata proprio la loro
relazione amorosa. Ottaviano Augusto da giovinetto. Omoerotismo tra
gli imperatori Modifica
D'altra parte, tra i primi imperatori romani tutti (tranne Claudio) ebbero
predisposizione ad abituali e ripetute esperienze omoerotiche: dopo Cesare,
soprannominato con dileggio la "Regina di Bitinia" e la "moglie
di tutti i mariti"; Augusto, il quale quand'era chiamato ancora solo
Ottaviano veniva additato con disprezzo dai detrattori col nome di Ottavia:
Marco Antonio ebbe modo in seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato
la sua adozione da parte di Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre
dire che Svetonio[23] descrive l'accusa rivoltagli da Antonio come pura
calunnia politica. Dopo che Marco Favonio fu catturato e giustiziato a
seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquistò uno dei suoi schiavi, un
certo Sarmento, quando tutte le proprietà del nemico sconfitto vennero messe in
vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello
stesso futuro imperatore[24]. Quinto Dellio dirà in seguito a Cleopatra che,
mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino acido da Antonio,
Ottaviano si stava gustando il "catamite Falerno" a Roma[25].
Busto giovanile di Tiberio. Tiberio a Capri prediligeva i ragazzini
appena puberi raccolti tra i figli della comunità locale e li chiamava i suoi
"pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina o
intrattenevano rapporti sessuali tra di loro[26]; è sempre Svetonio a dirci,
forse volutamente esagerando (tanto da fargli commentare: "si rese
colpevole anche di azioni ancora più turpi e infamanti, che a mala pena si
possono riferire e ascoltare, o addirittura credere"), che l'anziano
imperatore avesse addestrato dei fanciulli in tenerissima età per andare in
seguito a vivere con lui nella residenza di Villa Jovis, li invitava poi a
scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a risvegliare i suoi sensi con baci
e morsi. Nelle ville capresi infine, le orge sarebbero state all'ordine del
giorno e si sarebbero svolte davanti a una collezione di dipinti erotici di
arte greca da prendere a modello.[27]. Caligola era bisessuale e
incestuoso; Neronesottopose a castrazione il suo schiavo adolescente Sporo per
poi incoronarlo come propria sposa reale, ma sposò anche un uomo di nome Pitagora.
Anche i successivi imperatori pare non fossero immuni dall'amore tutto
maschile: Servio Sulpicio Galba, che amava gli uomini grandi e grossi;
Vitellio, soprannominato spintria ("marchetta") per esser stato tra i
favoriti di Tiberio quando si trovava alla sua corte a Capri durante gli anni
giovanili[28]; Domiziano, accusato dagli avversari di essersi prostituito per
far carriera al pretore Clodio Pollione e poi per interesse al predecessore
Marco Cocceio Nerva, fu accusato anche di mollezza[29] e di essere un
dissoluto. Ebbe varie relazioni con uomini, come del resto anche il fratello
Tito:[30] il grande amore provato nei confronti dell'eunuco Flavio Earino[31],
suo schiavo affrancato, fu celebrato sia da Stazio[32] sia da Marco Valerio
Marziale[33]. Traiano era noto per la sua predilezione nei confronti dei
bei ragazzi[34]; Publio Elio Traiano Adriano fece diventare il suo giovane
amante Antinoo dopo la morte niente meno che un dio, innalzandolo in apoteosi;
Eliogabalo a 18 anni promise metà dell'impero a chi fosse riuscito a dotarlo di
genitali femminili per poter così diventare una donna a tutti gli effetti[35],
scandalizzando l'intera Roma che lo vide sposarsi con un auriga, un certo
Ierocle di Smirne. I busti di Adriano e Antinoo al British Museum. Adriano
e Antinoo Modifica Il
caso riguardante la relazione d'amore tra Adriano e Antinoo è particolarmente
significativo; l'imperatore ebbe per anni come suo amasio preferito questo
giovinetto di origini greche (che molto probabilmente non era uno schiavo)
proveniente dalla Bitinia.[36]. Dopo la sua morte, avvenuta in
circostanze rimaste in parte oscure, Adriano innalzò in apoteosi l'amato
Antinoo e fondò un culto organizzato dedicato alla sua persona che si diffuse
presto a macchia d'olio in tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il
proprio diletto, fondò la città di Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo
dove il ragazzo aveva trovato la sua prematura fine terrena e che divenne un
centro di culto per l'adorazione del "dio Antinoo" in forma di Osiride.
Infine Adriano, per commemorare il ragazzo, organizzò dei giochi che si
tenevano in contemporanea ad Antinopoli e ad Atene, con Antinoo divenuto
simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore. Busto di Polideuce,
allievo e amante[37][38] di Erode Attico; quando egli morì in giovane età nel
173/174[39] divenne un autentico oggetto di culto da parte di Erode. Erode
Attico e Polideuce Modifica
Il filosofo di origini greche ed esponente della seconda sofistica Erode Attico
(Lucius Vibullius Hipparchus Tiberius Claudius Herodes Atticus), è stato un
retore e politico al servizio dell'impero; amico personale di Adriano, tra i
suoi allievi vi fu anche il giovane erede al trono Marco Aurelio. Erode era
noto, oltre che per la ricchezza e munificenza (fece costruire tra gli altri
anche l'Odeo di Erode Attico) nella sua qualità di filantropo e mecenate di
opere pubbliche, anche per i numerosi rapporti amorosi con i propri discepoli,
in riferimento alla tradizione della pederastia greca. Il suo affetto nei
confronti del figlio adottivo Polideuce (Polydeukes/Polydeukion, da
"Polluce") ha creato uno scandalo, non per il rapporto omosessuale
intercorrente tra i due o per la giovane età del ragazzo, ma per l'intensità
della passione dimostrata, considerata smodata e del tutto sconveniente.
Quando l'adolescente morì prematuramente Erode - come già precedentemente
l'imperatore Adriano aveva fatto con Antinoo - incominciò un plateale culto
della personalità del defunto e proclamandolo "eroe", facendo costruire
tutta una serie di statue e monumenti in suo onore. L'anziano visse in un
parossismo di disperazione pubblica alla morte del suo eromenos[40], arrivando
a commissionare giochi sontuosi, iscrizioni e sculture su ampia
scala[41]. Rilievo votivo in marmo pentelico del II secolo
raffigurante l'apoteosidi Polideuce, il ragazzo amato da Erode Attico. Qui è
mostrato con attributi eroici: il serpente e la sua nudità. Lo scrittore
Luciano di Samosata racconta, nella sua biografia del filosofo esponente del
cinismoDemonatte che questi affermò di avere in suo possesso una lettera
proveniente dal defunto giovinetto; quando Erode chiese di essere informato su
che cosa vi fosse scritto, Demonatte gli disse che il ragazzo dichiarava di
essere triste perché il suo amante non era ancora giunto a fargli visita
(nell'aldilà)[42]. Demonatte vuol qui criticare come eccessiva e indegna
di un filosofo l'espressione dei sentimenti di dolore di Erode: soltanto
l'enorme ricchezza e l'enorme potere di Erode gli permisero di esprimerlo in
modo pubblico, anziché celarlo nel silenzio. Arte erotica e oggetti di
uso quotidiano Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Arte erotica a Pompei e Ercolano e Simbolismo
fallico. Le rappresentazioni della sessualità omosessuale maschile e lesbica
sono meno rappresentate nell'arte erotica dell'antica Roma rispetto a quelle
che mostrano atti sessuali tra maschio e femmina. Un fregio di Pompei antica
presente alle Terme Suburbanemostra una serie di sedici scene di posizioni sessuali,
in cui ve n'è una omosessuale e un'altra lesbica, oltre ad abbinamenti
omosessuali in rappresentazioni di sesso di gruppo. Due uomini e
una donna che si accoppiano. Pittura parietale pompeiana, da una delle Therms
(bagni), parete sud degli spogliatoi - dipinta intorno al 79 a.C. Il sesso a
tre (o threesome) nell'arte romana mostra solitamente due uomini che penetrano
una donna, ma in una delle tante scene presenti nei muri delle "Terme
suburbane" si vede un uomo penetrare una donna in posizione da dietro
mentre a sua volta viene penetrato da un altro uomo posto dietro di lui: questo
scenario viene descritto anche da Catullo nel Carmen 56ritenendolo un fatto
umoristico[43]. L'uomo in mezzo potrebbe essere un cinaedus-cinedo, un uomo
cioè a cui piace subire il sesso anale ma che al contempo è anche considerato
attraente dalle donne[44]. Anche l'attività sessuale a quattro (foursome o
"quartetto") appare, in genere composta da due donne e due uomini e a
volte in coppie composte da persone dello stesso sesso. Gli atteggiamenti
romani verso la nudità maschile (vedi storia della nudità) differiscono anche
in maniera notevole se confrontati con quelli assunti dagli antichi Greci, che
hanno sempre considerato le rappresentazioni idealizzate del nudo maschile come
espressione di eccellenza, ad esempio attraverso il nudo eroico. L'uso della
toga virile designa un uomo romano come libero cittadino[45]; connotazioni
negative della nudità includono anche la sconfitta in guerra, dal momento che i
prigionieri venivano spogliati, e la schiavitù, poiché gli schiavi messi in
vendita in piazza erano spesso esposti nudi[46]. Amuleti fallici
della fertilità e della buona fortuna. Al tempo stesso il Phallus-fallo è stato
visualizzato ubiquitariamente in forma di fascinus, ossia un "fascino
magico" pensato per allontanare le forze maligne (come i moderni cornetti
portafortuna), ed è divenuto col tempo una decorazione facente parte delle
consuetudini e che si ritrova ampiamente tra le rovine pompeiane, in particolare
sotto forma di speciali campanelli eolici detti Tintinnabulum[47]. Il
fallo eretto e smisurato del dio Priapo potrebbe originariamente essere servito
per uno scopo apotropaico, ma in arte il suo aspetto grottesco ed esagerato
provoca spesso una grande risata[48]. L'ellenizzazione tuttavia ha
influenzato la rappresentazione della nudità maschile all'interno dell'arte
romana, portando a una più complessa significazione della forma del corpo umano
maschile mostrato nudo, parzialmente nudo o indossando la lorica musculata[49].
La coppa Warren, skyphos romano d'argento che rappresenta una scena
erotica omosessuale. Warren Cup Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Warren Cup. La Coppa Warren è una coppa
d'argento raffigurante due scene di atti omosessuali in ambiente di
simposio(pratica socio-rituale della convivialità collegata al banchetto), di
solito datata al tempo della dinastia giulio-claudia (I secolo d.C.)[50]. Si è
sostenuto[51] che i due lati di questo calice rappresentino la dualità nella
tradizione presente nel mondo classico dell'istituzione della pederastia greca
in contrasto con la forma esistente all'interno della cultura romana.
Sulla parte della coppa che rappresenta l'ideale greco vediamo un uomo maturo
con la barba mentre si unisce in posizione da dietro a un giovane maschio già
sviluppato e muscoloso il quale gli sta seduto sopra. L'adolescente si tiene in
equilibrio rimanendo attaccato con la mano sinistra a un sostegno, così da
mantenere una posizione sessuale altrimenti imbarazzante o scomoda. Uno schiavo
bambino osserva la scena di nascosto attraverso una porta socchiusa.
L'uomo con la corona del "conquistatore erotico" e il suo puer
delicatus. Lato B della Warren Cup Il lato romano della coppa invece mostra un
puer delicatus, all'incirca di 12 o 13 anni, mentre viene tenuto saldamente
stretto tra le braccia di un maschio più anziano, ben rasato e in perfetta
forma fisica. Mentre il primo uomo con la barba può essere greco, con un
partner che partecipa più liberamente all'incontro e con uno sguardo di
piacere, la sua controparte, che ha un taglio di capelli più grave, sembra a
tutti gli effetti essere romano e quindi utilizza uno schiavo; la corona di
mirto che indossa simboleggia inoltre il suo ruolo di conquistatore
erotico[52]. La coppa potrebbe essere stato concepita come un ritratto
atto a stimolare la conversazione su quel tipo di ideali di amore e di sesso,
che avevano luogo durante i banchetti simposiali tradizionali greci[53].
L'antichità della Coppa Warren è stata però contestata e potrebbe invece
rappresentare la percezione dell'omosessualità greco-romana com'era al momento
della sua ipotetica fabbricazione, forse a cavallo tra il XIX e il XX
secolo[54]. Busto di Publio Virgilio Marone. Letteratura omoerotica Modifica
Numerose testimonianze riguardanti la presenza dell'omosessualità e
dell'omoerotismo in generale ci vengono da poeti e scrittori dell'epoca. Il
tema omoerotico viene introdotto in letteratura latina a partire dal II secolo
a.C. con la crescente ellenizzazione e una sempre maggior influenza Greca sulla
cultura romana. Il console nonché letterato Quinto Lutazio Catulofaceva
parte di un circolo letterario frequentato da poeti che componevano brevi
strofe richiamantesi alla moda della poesia ellenistica; uno dei suoi pochi
frammenti superstiti è costituito da una poesia d'amore rivolta a un maschio
con un nome greco[55]. L'innalzamento della letteratura greca, ma anche
dell'arte greca in generale a modello espressivo in ambito poetico ha promosso
tra le altre cose anche la celebrazione dell'omoerotismo come uno dei segni
distintivi delle personalità urbanizzate e maggiormente sofisticate[56].
Nonostante ciò non vi sono prove o ipotesi generali su come questo abbia potuto
avere un qualsiasi effetto sull'espressione del comportamento sessuale nella
vita quotidiana reale tra i romani[57]. L'amore greco ha influenzato
esteticamente i latini in relazione ai mezzi di espressione, molto meno nei
riguardi della natura dell'omosessualità romana in quanto tale. L'omosessualità
nell'antica Greciadifferiva da quella Romana principalmente nell'idealizzare
dell'eros tra i cittadini maschi nati liberi di pari status, anche se di solito
con una differenza di età (vedi pederastia greca) inserita nell'istituto erastes-eromenos.
L'esistenza di un rapporto erotico-sentimentale tra un ragazzo e un adulto al
di fuori della famiglia, visto come un'influenza positiva tra i Greci, nella
società romana avrebbe minacciato l'autorità del paterfamilias[58].
Poiché le donne romane erano attive nell'educazione dei figli e si mescolarono
con gli uomini socialmente, e le donne delle classi dirigenti spesso
continuavano a consigliare e influenzare i loro figli e mariti anche nella vita
politica, l'omosocialità non era così diffusa a Roma così come lo era stata ad
esempio nell'antica Atene la quale ha indubbiamente contribuito a produrre il
più avanzato livello di cultura pederastica, quella della pederastia
ateniese[59]. La poesia neoterica dei Poetae novi introdotta alla fine del
II secolo si è concretizzata negli anni attorno al 50 a.C. preminentemente con
l'opera poetica di Caio Valerio Catullo (i Liber o Carmina) la quale include
diverse poesie che esprimono il suo forte desiderio nei riguardi di un giovane
nato libero chiamato esplicitamente "Giovenzio" (Juventius); il
poeta, oltre ad amare l'amica Lesbia non era quindi meno ambiziosamente
desideroso dei baci del suo bel ragazzo quattordicenne, che esalta in vari
versi di volta in volta amorosi o ironici, definendolo effeminatoe
passivo.[60]. Il nome latino e lo status di cittadino libero del ragazzo
amato da Catullo sovverte totalmente la tradizione romana[61], ma
contemporaneamente a lui anche Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura
riconosce esplicitamente la propria attrazione nei confronti dei
"ragazzi"-pueri, il che può designare invero un partner sottomesso
accettabile e non necessariamente ragazzino appena adolescente[62]; vi si può
leggere inoltre che il piacere sublime consiste nel trasferire il proprio seme
in un'altra persona, preferibilmente in un ragazzo piuttosto che in una
donna[63] «Si agita in noi questo seme, appena l'adolescenza rafforza le
membra. Dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme Così
dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere lo trafigga un fanciullo di
membra femminee tende là ove è ferito e anela a congiungersi e in quel corpo
spandere l'umore tratto dal corpo[64].» Eurialo e Niso, 1827,
Louvre. A testimoniare il fatto che il fenomeno omosessuale stava divenendo
sempre più un rapporto di desiderio e amore, interviene anche Publio Virgilio
Marone, il quale racconta nell'Eneide le storie di due coppie di guerrieri, gli
appartenenti al popolo dei troiani Eurialo e Niso[65] e i latini Cidone e
Clizio, che nel reciproco amore trovano la forza per combattere da autentici
eroi (soltanto Cidone scamperà alla morte)[66]; coppie di giovani uniti da un
tenero legame omoerotico. Di Clizio, Virgilio ci dice che è ancora un
giovinetto, solo una leggerissima barba bionda incornicia il suo bellissimo
volto; su Cidone invece il poeta non dà una descrizione fisica: scrive invece
che prima di Clizio ha amato altri adolescenti, sicché è da ritenere che
rispetto al compagno egli abbia un'età leggermente superiore (Eneide, libro X,
vv.324-330). Il particolare rapporto che lega Eurialo e Niso è definito
dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come
serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità
omoerotica. Qui il poeta si avvale della tradizione dell'omosessualità militare
nell'antica Grecia, ritraendo apertamente il rapporto amoroso esistente tra
questi giovani il cui valore militare li segna solidamente come autentici
uomini romani (viri)[67]. Virgilio descrive il loro legame come "pius",
collegandolo alla virtù suprema della "pietas", in egual modo
posseduto dallo stesso eroe Enea; una relazione avallata come "onorevole,
dignitosa e collegata ai valori della centralità di Roma"[68].
Ancora nelle Bucoliche il poeta latino canta e descrive numerosi amori
omosessuali e riconducibili alla pederastia greca, come la vicenda riguardante
il giovane schiavo Alessi che viene concupito sia dal suo padrone Iolla sia dal
bel pastore Coridone (Ecloga II), o quella di un altro pastore di nome Menalca
il quale elogia la bellezza di Aminta (Ecloga III)[69]. Il mito di
Ciparisso e Apollo, tratto dal racconto di Ovidio descritto nelle Metamorfosi
(Ovidio). Temi omoerotici appaiono anche nelle opere di altri poeti del periodo
augusteo (vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.)): Albio
Tibullo[70], Sesto Properzio[71] e Quinto Orazio Flacco fra tutti. A schierarsi
invece decisamente a favore dell'amore femminile sarà Publio Ovidio Nasone:
avere una relazione sessuale con una donna è più piacevole perché, a differenza
delle forme di comportamento omosessuale ammesse all'interno della cultura
romana, qui il piacere è reciproco[72]. Non mancano comunque anche in questo
autore descrizioni di amori omosessuali, tutti appartenenti alla tradizione
della mitologia greca: Ati e Licabas, il dio Apollo con Giacinto e
Ciparisso[73]. Thomas Habinek ha fatto infine notare che il significato di
rottura presentato da Ovidio nella categorizzazione delle preferenze sessuali è
stata oscurata nella storia della sessualità umana dal concetto di
eterosessualità (considerata normale e innata) sopravvenuto nella più tarda
cultura occidentale[74]. Nella letteratura del primo periodo dell'impero
romanoun posto privilegiato spetta al Satyricon di Petronio Arbitro; la narrazione
è talmente permeata da riferimenti al comportamento omosessuale che nei circoli
letterari europei del XVIII secolo il nome dell'opera finì col divenirne un
sinonimo[75]. Anche il poeta e autore di epigrammi Marco Valerio Marziale
spesso deride le donne come uniche partner sessuali preferendo di gran lunga i
bei ragazzi-pueri. Atti sessuali Modifica
Oltre al sesso anale, che viene frequentemente descritto sia nell'arte
figurativa sia in quella letteraria, era comune anche il sesso orale. Uno dei
graffiti di Pompei è in questo caso inequivocabile: "Secundus felator
rarus" ("Secundus è un fellatore di rara abilità")[76]. A
differenza che nell'antica Grecia, il pene di grandi dimensioni era un
importante elemento d'attrattiva; Petronio ne descrive uno veduto in un bagno
pubblico[77]. Molti imperatori vengono raffigurati circondati da uomini con
grandi sessi[78]. Il poeta Ausonio fa una battuta su un trio sessuale
maschile in cui "quello che sta nel mezzo compie il doppio
dovere"[79]. Impudicitia Modifica
Il sostantivo astratto impudicitia (aggettivo impudicus) raffigura la negazione
assoluta della pudicitia (morale sessuale, castità); come caratteristica dei
maschi spesso implica la volontà e il desiderio di essere penetrati
sessualmente[80]. Ballare era espressione, per un maschio, di impudicitia (la
danza era difatti caratteristica della prostituta e dell'effeminato)[81].
L'impudicitia può anche essere associata a comportamenti in quegli uomini
giovani che avevano conservato un certo grado di fascino da ragazzini, ma che
erano comunque abbastanza grandi da esser tenuti a comportarsi secondo le
ferree regole maschili e a sottostare alle sue normative. Giulio Cesare fu
accusato di portare l'infamia su di sé perché quando aveva circa 19 anni
assunse per un certo periodo di tempo il ruolo passivo in una relazione
pederastica con Nicomede IV re di Bitinia e in seguito anche per i molti
"affari sessuali" avuti con donne adultere[82]. Lucio Anneo Seneca il
giovane (il tutore di Nerone) ha osservato che "l'impudicitia è un crimine
per colui che è nato libero, una necessità in uno schiavo, un dovere per il
liberto"[83]. Come già detto la pratica omosessuale a Roma affermò
il potere del cittadino sopra gli schiavi, confermandone al di sopra di ogni
dubbio la propria mascolinità[84] Ganimede rapito dall'aquila di
Giove. Scultura romana copia di un originale greco, esposta nel Palazzo Grimani
a Venezia. Il termine catamite, indicante per lo più un giovane prostituto, è
una derivazione latina del nome "Ganimede". Ruoli sessuali Modifica Un uomo o un ragazzo che assumeva il
ruolo passivo all'interno della relazione omosessuale poteva venir denominato
in vari modi, tra cui i più comuni e frequenti erano cinaedus, pathicus,
exoletus, concubinus (prostituto), spintria (marchetta), puer(ragazzo), pullus
(pulcino), puso, delicatus(specialmente come puer delicatus-ragazzino
squisito), mollis (molle, utilizzata in genere come qualità estetica in
contrapposizione alla naturale aggressività maschile), tener (tenero, in
opposizione alla durezza mascolina), debilis (debole), effeminatus(effeminato),
discintus (discinto, volgare come una prostituta) e morbosus (malato).
Come si può notare, il significato del termine moderno gay (come anche di
omosessuale) non è contemplato in quest'elenco, in quanto nel pensiero antico
non v'era alcun'idea di identità sessuale: la persona era invece definita solo
dal ruolo svolto all'interno dell'atto sessuale (attivo=maschio;
passivo=femmina)[85]. Alcuni di questi termini, come exoletus, vengono a
riferirsi specificamente a un adulto: gli antichi romani, fra cui vigeva il
valore sociale contrassegnato come mascolinità, limitavano genericamente la
penetrazione anale ai prostituti maschi o agli schiavi di età inferiore a 20
anni (chiamati ragazzi)[86]. Alcuni uomini più anziani potevano a volte
preferire il ruolo passivo; Marco Valerio Marziale descrive ad esempio, nella
sua solita maniera molto schietta, il caso di un uomo che aveva assunto il
ruolo passivo facendo occupare al suo giovane schiavo quello attivo:
(LA) «Mentula cum doleat puero, tibi, Naevole, culus Non sum divinus, sed
scio quid facias.» (IT) «Se al tuo schiavetto fa male l'uccello;
mentre tu, Nevolo, hai il culo dolorante Non è necessario essere un mago per indovinare
quel che è accaduto.» (Epigrammi (Marziale) liber III-LXXI) Il desiderio
di un maschio adulto di essere penetrato sessualmente veniva considerato un
morbus, una malattia; il desiderio di penetrare un bel ragazzo era invece
considerato del tutto normale[87]. Cinaedus Modifica Cinedo è una parola dispregiativa che denotava un maschio
con una identità di genere considerata deviante dalla norma, per la sua scelta
di determinati atti sessuali o per la preferenza di certi partner sessuali;
tali preferenze erano percepite come una carenza di virilità[88]. Catullo
definisce cinedo (cioè un effeminato senza attributi virili) il collega poeta
Marco Furio Bibaculo che si trova in compagnia d'un suo amico, nel famoso Carme
osceno numero 16, in cui afferma senza tanti giri di parole che "pedicabo
ego vos et irrumabo" (io ve lo metto prima nel didietro e poi direttamente
in bocca). Anche se in alcuni contesti il cinedo può denotare
l'omosessuale passivo[88], ed è il termine più frequentemente usato per
indicare un maschio che si è lasciato penetrare analmente[89], un uomo chiamato
cinedo poteva bensì, in certi determinati casi, anzi esser considerato molto
attraente e desiderabile per le donne[88] (non necessariamente quindi equivale
al termine dispregiativo inglese faggot[90] o agli italiani frocio-checca,
tranne per il fatto che tutti questi termini vengono usati per deridere e
insultare un uomo considerato carente di virilità): con caratteristiche così
ambiguamente androgine che le donne possono trovare sessualmente anche molto eccitanti)[91].
L'abbigliamento, l'uso di cosmetici e i manierismi (atteggiamenti, movimenti,
modi di parlare) di un cinedo lo contrassegnavano inequivocabilmente come un
effeminato[88]: ma la stessa effeminatezza che gli uomini romani potrebbero trovare
allettante in un puer, diventa assolutamente poco attraente nel maschio adulto
e anziano[92]. I cinaedus rappresentano quindi l'assenza generalizzata fatta
persona di quello che i Romani consideravano un vero uomo, e la parola rimane
di fatto intraducibile nelle lingue moderne[93]. In origine un cinaedus
(parola derivante dal Greco Kinaidos) era un ballerino professionista
generalmente poco più che adolescente, di origini persiane o comunque
orientali, la cui performance era caratterizzata da una danza accompagnata dal
suono di tamburelli e timpani e da movimenti ancheggianti del sedere che
mimavano il rapporto anale[89]. Concubinus Modifica Alcuni uomini romani tenevano un
concubinus (concubina maschio) in casa fino a quando non si sposavano con una
donna: Eva Cantarella ha descritto questa forma di concubinato come "una
relazione sessuale stabile, non esclusiva ma privilegiata"[94].
All'interno della gerarchia degli schiavi domestici, il concubinus sembra
essere stato considerato in possesso di uno status speciale o comunque
abbastanza elevato, e che veniva minacciato con l'arrivo di una moglie.
In uno dei suoi inni nuziali (Ephitalamium) Catullo[95] il concubinus dello
sposo si ritrova ansioso per il suo futuro e con la paura d'esser
abbandonato[96]: i suoi lunghi capelli saranno tagliati e dovrà d'ora in poi
ricorrere alle schiave per la sua gratificazione sessuale, il che indica
ch'egli prevedeva di dover presto cambiare ruolo sessuale da passivo ad
attivo[97]. Al concubino poteva poi anche capitare di intrattenere relazioni
sessuali con le donne della casa, diventando magari anche padre di qualche
bambino, questo almeno a seguire le invettive di Marziale (Epigrammi
6.39.12-4)[98]. I sentimenti e la situazione del concubino sono trattati
nella citata poesia matrimoniale di Catullo e occupano 5 strofe: egli svolge un
ruolo attivo durante la cerimonia, distribuendo le noci tradizionali che poi i
ragazzi dovevano lanciare in segno di buon augurio (un po' come il riso nella
tradizione occidentale moderna)[99]. Il rapporto di un cittadino romano
col proprio concubino poteva essere sia discretamente tenuto nell'ombra sia
manifestato in modo più aperto: i concubini maschi a volte partecipavano anche
alle cene (convivium) indette dal padrone di casa e rappresentar ufficialmente
la parte di compagno, un ruolo particolarmente ambito e pregiato[100]. Marziale
sembra anche suggerire che il concubino del padrone di casa poteva esser
ereditato dal figlio alla morte de padre[101]. Un ufficiale poteva anche essere
accompagnato durante le campagne militari dal proprio concubino[102].
Come il catamite e il puer delicatus (vedi sotto) il ruolo del concubino è
stato regolamentato ispirandosi al mito greco di Ganimede (il cui nome in
latino diventa Catamitus), il principe adolescente troiano rapito da Zeus
affinché lo servisse sull'Olimpo come coppiere[103]. La concubina
femminile, che poteva anche essere una donna libera, manteneva uno status
legale tutalato dal diritto romano, ma i concubinus no dal momento che erano tipicamente
degli schiavi[104] Pathicus Modifica
Pathicus era una parola un po' soft per indicare l'uomo che è stato penetrato
sessualmente; deriva dall'aggettivo greco phatikos (verbo paskhein) ed
equivalente al latino patior-pati-passus (subire, sottomettersi, sopportare e
soffrire)[89]: il termine passivo deriva proprio dal latino passus[85].
Pathicus e cinaedus non sono spesso così distinti nell'uso che ne fanno gli
scrittori latini, ma cinedo può essere indicativamente il termine più generale
per indicare un maschio non conforme al suo ruolo di vir - vero uomo; mentre
pathicus denota precisamente un maschio adulto che ha assunto il ruolo passivo
da donna all'interno di un rapporto, che desidera essere usato così[105].
Nella cultura romana sodomizzare un altro maschio adulto esprime quasi sempre
disprezzo e desiderio d'umiliazione; il pathicus può essere interpretato
allora, ancor più che come omosessuale passivo, come un masochista a cui piace
farsi umiliare (da un uomo o da una donna indifferentemente): potrebbe anche
esser penetrato da una donna tramite un dildo o essere costretto a eseguire
cunnilingus, senza dimostrare alcun desiderio di assumere un ruolo attivo o
alcuna eccitazione sessuale[106]. Puer Modifica
Con la parola puer s'indicava sia un ruolo nell'ambito sessuale sia uno
specifico gruppo d'età[107]. Sia puersia il suo equivalente femminile
puella-ragazza possono riferirsi al partner sessuale di un uomo. Il cittadino
romano nato libero all'età di 14 anni assumeva la toga virile[108] e questo era
il primo rito di passaggio oltre l'infanzia, ma doveva attendere poi fino a
17-18 anni prima di poter cominciare a prender parte attivamente alla vita
pubblica[109]. Uno schiavo, che non veniva mai considerato un vir, un uomo
vero, sarebbe stato chiamato puer, ragazzo, per tutta la vita[110]. I
pueri venivano utilizzati come alternativa sessuale alle donne[111], cosa che
non si poteva assolutamente fare con gli adolescenti maschi nati liberi[112]:
accusare un uomo romano d'essere un puer era un insulto contro la sua virilità,
soprattutto in campo politico[113]. Un cinedo anziano, un omosessuale passivo
potevano anche voler presentare sé stessi come puer[114]. Puer delicatus Modifica Il puer
delicatus era uno "squisito" schiavo giovanissimo, scelto dal padrone
per la sua bellezza come giovane amante[115], citato anche al plurale come
deliciae ('dolcetti' o 'delizie')[116] A differenza dell'eromenos greco,
che era protetto dal costume sociale, il romano delicatus rimaneva sempre
invece, sia fisicamente sia moralmente, inferiore rispetto all'adulto che ne
disponeva[117]. La relazione spesso coercitiva, di sfruttamento e non certo
alla pari, tra il padre di famiglia e il delicatus (il quale poteva benissimo
anche essere un minore di 12 anni), può essere definita come pedofila a
differenza della pederastia greca[118]. Il ragazzino, appena compiuti 13
anni, veniva a volte castrato nel tentativo di preservare intatti nel tempo i
suoi caratteri giovanili: l'imperatore Nerone fece questo nei confronti del suo
puer Sporo, che fece evirare per poterlo poi sposare[119]. Vari pueri
delicati sono stati idealizzati nella poesia latina: nelle Elegie erotiche di
Tibullo il delicatus di nome Marathus indossa abiti sontuosi e molto
costosi[120]. La bellezza che doveva caratterizzare il delicatus è stata
misurata mediante le norme e misure apollinee, soprattutto per quanto
riguardava i lunghi capelli i quali avrebbero dovuto sempre essere ondulati e
profumati[121]. Il tipo mitologico per eccellenza del delicatus era rappresentato
da Ganimede, il principino troiano rapito da Zeus per diventare il proprio
compagno divino nonché coppiere alla corte olimpica[122]. Nel Satyricon, il
ricco liberto Trimalcione parla del puer delicatuscome di un bambino-schiavo al
servizio sia del padrone sia della padrona di casa[123]. Pullus Modifica Il
termine pullus indicava genericamente un piccolo animaletto e in particolare il
pulcino[124]: era una parola affettuosa usata tradizionalmente per un
ragazzo-puer che era stato amato da qualcuno in senso osceno[125]. Il
lessicografo Sesto Pompeo Festo ne fornisce la definizione illustrandola con un
aneddoto comico: Quinto Fabio Massimo Eburno, console nel 166 a.C. e poi
censore era molto noto per il suo rigore morale, tanto da guadagnarsi il soprannome
(Cognomen) di Eburno che significa avorio (l'equivalente moderno più simile
potrebbe essere anche porcellana); questo a causa del suo candido e avvenente
aspetto. Si diceva fosse stato colpito tempo addietro da un fulmineproprio
sulle natiche (riferimento a una voglia che aveva sul sedere)[126]. Si scherzò
quindi sul fatto che fosse stato contrassegnato da Zeus signore dei fulmini che
s'era accorto della sua bellezza tanto da farne il proprio pullus/pulcino[127]
pensando anche al rapporto esistente tra il re degli Dei col giovanissimo
coppiere catamite Ganimede. Anche se l'inviolabilità sessuale dei
cittadini maschi minorenni era di solito molto ben sottolineata, quest'aneddoto
è una prova che anche i giovani romani di buona famiglia avrebbero potuto passare
attraverso una fase in cui potevano esser veduti come "oggetti
sessuali"[128] Forse colpito dal destino,[129]questo stesso membro della
illustre Gens Fabia ha dovuto concludere la sua vita in esilio come punizione
per aver ucciso suo figlio dopo averlo incolpato di impudicitia[130]. Nel
IV secolo il poeta Ausonio registra la parola pullipremo e dice che per primo
tale termine è stato utilizzato dal poeta satirico Lucilio[131]. Pusio Modifica
Etimologicamente relazionato a puer, anche pusiosignifica ragazzetto; spesso
aveva una connotazione spiccatamente sessuale e umiliante[132]. Giovenaleindica
che il pusio era desiderabile in quanto più compiacente e al contempo meno
impegnativo di quanto fosse una donna[133]. Scultimidonus Modifica Questo è un relativamente raro termine
gergale[134] tra i più volgari (equivalente a pezzo di m. o buco di c.)[89]che
appare in uno dei frammenti di Lucilio[134] e glossato[135] come: "coloro
che elargiscono gratuitamente il proprio orifizio anale-scultima" (cioè la
parte corporea più intima di sé, come fosse la parte interna di una
prostituta/scortorum intima)[89]. Iolao assieme all'eroe e amante
Ercole. Mosaico dalla Fontana del Ninfeo di Anzio, Museo Nazionale Romano a
Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Sottoculture Modifica
Il mondo e la cultura latina hanno avuto una tale ricchezza di parole per
indicare gli uomini al di fuori della norma maschile-vir, che alcuni studiosi
sostengono l'esistenza di una vera e propria sottocultura di tipo omosessuale a
Roma[136]. Plautomenziona una strada che era conosciuta come luogo d'incontro
con giovani che praticavano la prostituzione maschile[137], e anche i bagni
pubblici sono indicati come uno dei luoghi più usuali quando si voleva andar in
cerca di partner sessuali maschi: Giovenale indica il grattarsi la testa con
l'indice come segno di riconoscimento reciproco (nella II delle sue
Satire). Apuleio dice che i cinaedi formavano una vera e propria alleanza
sociale allo scopo di realizzar il piacere generale, soprattutto organizzando
banchetti e feste: nelle Metamorfosi (Auleio) (o Asino d'oro) descrive un
gruppo che ha acquistato e condiviso un concubinus; mentre in un'altra
occasione hanno invitato un giovane molto ben dotato (rusticanus iuvenis)
alternandosi subito dopo nel sesso orale su di lui[138]. Altri studiosi,
soprattutto quelli che sostengono il punto di vista del costruttivismo
socio-culturale, sostengono invece che non vi è mai stato un gruppo sociale
identificabile di maschi che si sarebbero auto-identificati come appartenenti a
una qualche "comunità omosessuale"[139]. Matrimonio omosessuale Modifica
(LA) «Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta
referri» (IT) «Vivi ancora per qualche tempo e poi vedrai, vedrai
se queste cose non si faranno alla luce del sole e magari non si pretenderà che
vengano anche registrate.» (Giovenale, Satira II, vv 135-136.) Anche se,
in generale, i romani consideravano il matrimonio come unione eterosessuale al
fine di generare figli, durante il periodo imperiale si sono verificati episodi
in cui coppie maschili hanno celebrato il rito tradizionale del matrimonio
romano in presenza di amici; queste forme di matrimonio tra persone dello
stesso sesso sono riportati da fonti che ne deridono gli intenti, mentre non
vengono registrati i sentimenti dei partecipanti. Il primo riferimento
nella letteratura latina di un matrimonio avvenuto tra uomini si trova nelle
Filippiche di Marco Tullio Cicerone, il quale si trova a insultare Marco
Antonio per essere stato in gioventù "la sgualdrina" di Gaio
Scribonio Curione e aver "stabilito con lui un matrimonio vero e proprio
(matrimonium), come se avesse indossato una stola(l'abito tradizionale di una
donna sposata) da matrona"[140]. Anche se le implicazioni sessuali a cui
vuole alludere Cicerone sono chiare, il punto fondamentale del passaggio
oratoriale del filosofo stoico latino è quello è di gettare discredito su
Antonio indicandolo nel ruolo di sottomesso all'interno del rapporto
omosessuale, mettendo così in tal maniera in dubbio la sua virilità di
cittadino; non vi è alcun motivo di pensare che siano stati effettivamente
eseguiti riti matrimoniali ufficiali[141]. Sia Marziale sia Giovenale -
nelle sue Satire - si riferiscono al matrimonio tra uomini come a un fatto che
non accade di rado, cioè come qualcosa di usuale e diffuso, abbastanza
ricorrente all'interno della società dell'epoca, anche se poi i due autori
citati si ritrovano a disapprovarlo[142]. Il diritto romano non ha mai
ufficialmente riconosciuto il matrimonio tra uomini, ma uno dei motivi
principali di disapprovazione espressi nella satira datata alla prima metà del
II secolo è che continuare a celebrarne i riti avrebbe anche potuto condurre a
un'aspettativa di registrazione ufficiale per tali unioni[143]. Giovenale
si scaglia contro la diffusione dei rapporti omosessuali, identificati dal
poeta con l'effeminatezzae il vizio in generale; passa a descrivere coloro che
mascherano i propri vizi sotto il mantello della filosofia greca: i pervertiti
si vestono effeminatamente in pubblico, vi è poi chi difende la sua causa in
vesti trasparenti, chi giunge fino al punto di sposare un qualche
"suonatore di corno"... ma peggio ancora sono coloro che partecipano
ai misteri della Bona Deavestiti e truccati come fossero delle donne (II
satira). Busto di Nerone. Nerone Modifica
Varie fonti antiche (tra cui Svetonio, Tacito, Dione Cassio, e Aurelio Vittore)
affermano che l'imperatore romano del I secolo Nerone abbia celebrato ben due
matrimoni pubblici con degli uomini, una volta assumendo per sé il ruolo della
moglie (questo accadde col liberto chiamato Pitagora), un'altra volta invece
prendendo il ruolo del marito (con l'eunucoSporo); vi sono poi indizi su un
terzo caso in cui sembra aver avuto ancora la parte della moglie[144]. Le
cerimonie neroniane includevano elementi tradizionali come la dote e
l'indossare il velo da sposa romana[141]. Anche se le fonti al riguardo si
trovano a essere nella loro generalità pregiudizialmente ostili, lo stesso
Dione Cassio fa implicitamente notare che gli atti pubblici e politici di
Nerone venivano considerati molto più scandalosi dei suoi matrimoni con degli
uomini[145]. Sporo rimase accanto a Nerone fino all'ultimo giorno, e si
tramanda che fu presente anche alla sua morte (Vita di Nerone 48, 1; 49, 3), e,
addirittura, secondo Sesto Aurelio Vittore (Epitome de Caesaribus 5, 7),
sarebbe colui che resse il gladio con cui egli si dava la morte. Un ruolo di
rilievo al suo personaggio compare viene dato anche in varie opere teatrali che
descrivono tale evento (ad esempio Martello 1735). Alcuni studiosi considerano
quella effettuata su Sporo come la prima operazione di cambiamento di sesso
storicamente descritta[146]. Profilo dell'imperatore Eliogabalo.
Eliogabalo Modifica
Agli inizi del III secolo il giovanissimo imperatore di origini siriache
Eliogabalo è indicato per esser stato la sposa in un matrimonio che ha voluto
celebrare col suo partner maschile; ma anche molti altri uomini maturi della
sua corte sembra avessero dei mariti ufficiali, facendo per lo più notare che
ciò era fatto a imitazione dei "matrimoni imperiali"[147].
L'orientamento sessuale di Eliogabalo e la sua identità di genere sono stati
origine di controversie e dibattiti; va notato, però, che in Eliogabalo l'aspetto
religioso e quello sessuale erano profondamente intrecciati, come normale nella
cultura orientale, ma la società romana non comprese questo aspetto a essa
alieno e dunque considerò stravaganti e scandalose le pratiche sessuali del
proprio imperatore, tra cui le orge, i rapporti omosessuali e transessuali, la
prostituzione, all'interno delle quali va intesa la ricerca - nella figura
dell'androgino - del desiderio di castrazione. Stando a quanto ne dice il
membro del senato romanoe storico contemporaneo Cassio Dione Cocceiano, la sua
relazione più stabile sarebbe stata quella con un auriga, uno schiavo biondo
proveniente dalla Caria di nome Ierocle, al quale l'imperatore si riferiva
chiamandolo suo marito,[148]. La Historia Augusta, scritta un secolo dopo i
fatti, afferma che sposò anche un uomo di nome Zotico, un atleta di Smirne, con
una cerimonia pubblica svoltasi nella capitale.[149]. Cassio Dione
scrisse inoltre che Eliogabalo si dipingeva le palpebre, si depilava e
indossava parrucche prima di darsi alla prostituzione nelle taverne e nei
bordelli di Roma,[150] e persino all'interno del palazzo imperiale:
«Infine, riservò una stanza nel palazzo e lì commetteva le sue indecenze,
standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e
scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro, mentre con voce dolce e
melliflua sollecitava i passanti.» (Cassio Dione Cocceiano, Storia
romana, lxxx.13) Erodiano commenta che Eliogabalo sciupò il suo bell'aspetto
naturale facendo uso di troppo trucco[151]. Venne spesso descritto mentre «si
deliziava di essere chiamato l'amante, la moglie, la regina di Ierocle», e si
narra che abbia offerto metà dell'Impero romano al medico che potesse dotarlo
di genitali femminili[152]. Di conseguenza, Eliogabalo è stato spesso descritto
dagli scrittori moderni come transgender, molto probabilmente
transessuale.[153][154] Proibizioni legali chiare e nette contrarie al
matrimonio omosessuale cominciarono ad apparire durante il IV secolo, via via
che la popolazione dell'impero romanostava sempre più convertendosi al
cristianesimo[143]. Sileno ed Eros abbracciati. Bassorilievo in
terracotta degli inizi del I secolo. Lo stupro omosessuale Modifica Il
diritto romano ha affrontato la questione relativa allo stupro di un cittadino
di sesso maschile già nel II secolo a.C.[155], quando venne emessa una sentenza
all'interno di una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento
omosessuale. È stato stabilito che anche un uomo "disdicevole e
discutibile" (infamis e suspiciosus) aveva lo stesso diritto appartenente
a tutti gli altri uomini liberi che il proprio corpo non fosse sottoposto al
sesso forzato[156]. Nella "Lex Julia de vi publica"[157],
registrata nei primi anni del III secolo ma con tutta probabilità risalente al
tempo del dittatore romano Gaio Giulio Cesare lo stupro viene definito come un
forzare al rapporto sessuale un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto
di esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto
romano[158]. Gli uomini che erano stati stuprati venivano esentati dalla
perdita dello status giuridico e sociale subita da coloro che concedevano
volontariamente il proprio corpo per dare piacere agli altri (soprattutto
attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane che si dedicava alla
prostituzione maschile o che comunque intratteneva sessualmente altri uomini
era sottoposto a infamia e pertanto escluso dalle protezioni legali di regola
concesse ed estese a tutti gli altri cittadini[159]. Considerata come una
questione di diritto, uno schiavo o una schiava non avrebbero potuto essere
violentati, ma in quanto oggetto di proprietà e non in quanto persone il
proprietario dello schiavo poteva tuttavia perseguire il violentatore per danni
alla proprietà[160]. Il timore di stupri di massa a seguito di una
sconfitta militare si estendeva anche a tutte le potenziali vittime di sesso
maschile (in primis i bambini) oltre che alle donne[161]. Secondo il giurista
Pomponio qualunque cosa l'uomo abbia subito (compresa la violenza sessuale a causa
della forza soverchiante dei ladri o da parte del nemico in tempo di guerra), è
una cosa che si deve sopportare senza alcuna stigmatizzazione[162]. La
minaccia di un uomo di sottoporne un altro alla pedicatio (rapporto anale) o
irrumatio (rapporto orale) è un tema assai frequente delle invettive poetiche,
particolarmente famosa quella espressa da Catullo nel suo "Carmen
16"[163] ed è stata anche una forma comune di millanteria maschile[164];
lo stupro è stato inoltre una delle punizioni tradizionali inflitte su un uomo
adultero da parte del marito offeso[165], anche se forse più come fantasia di
vendetta che effettivamente realizzato nella pratica[166]. In una
raccolta di dodici aneddoti che si occupano di "assalti subiti dalla
castità" lo storico Valerio Massimodispone le vittime di sesso maschile a
parità di numero se confrontate con le donne[167]. In un caso di processo farsa
(esempio processuale) descritto da Seneca il Vecchio, un adulescens (un giovane
che non ha ancora formalmente incominciato la propria vita da adulto) viene
violentato da dieci suoi coetanei; anche se il caso è ipotetico Seneca qui
presuppone che la legge contempli la possibilità effettiva di un tal
accadimento[168]. Un'altra ipotesi immagina un caso estremo in cui la vittima
di stupro venga indotta al suicidio; qui il maschio nato libero (appartenente
agli ingenui) che ha subito violenza si uccide[169]: i romani consideravano lo
stupro su un ingenuus come uno tra i peggiori crimini che potevano essere
commessi, assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ancora in
condizione di verginità e il furto all'interno di un tempio romano[170].
Relazioni omoerotiche nelle forze armate Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Omosessualità militare nell'antica Grecia. Il
soldato romano, come ogni altro cittadino maschio libero e rispettoso dello
Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina anche in materia sessuale.
Augusto aveva vietato ai militari di sposarsi e questa proibizione è rimasta in
vigore per l'esercito romanoimperiale per quasi due secoli[171]; le forme di
gratificazione sessuale a disposizione dei soldati rimanevano quindi la
prostituzione e l'utilizzo di persone ridotte in schiavitù, lo stupro di guerra
e le relazioni tra persone dello stesso sesso[172]. Il Bellum
Hispaniense, narrante gli eventi della guerra civile romana (49-45 a.C.) nella
Spagna romana, cita un ufficiale che tiene con sé un concubinus/prostituto
durante tutta la campagna militare. Il sesso tra commilitoni tuttavia violava
il decoro romano, contrario a ogni tipo di rapporto sessuale tra cittadini
liberi; di primaria importanza per un soldato era mantenere intatta la propria
virilità (da vir, la sua condizione di uomo) non permettendo mai quindi che il
suo corpo potesse venir utilizzato da altri per soddisfare scopi
sessuali[173]. In guerra lo stupro simboleggiava la sconfitta, un motivo
che rendeva il corpo del soldato costantemente vulnerabile sessualmente[174].
Durante il periodo della repubblica romana gli atti omosessuali tra commilitoni
erano soggetti a sanzioni severe, che potevano comprendere anche la condanna
capitale[175], in quanto violazione della disciplina militare; Polibio (II
secolo a.C.) riferisce che la punizione per un soldato che volontariamente avesse
acconsentito a essere sottomesso sessualmente, quindi sottoposto a
penetrazione, era il fustuarium(ossia la bastonatura a morte)[176]. Gli
storici romani registrano racconti cautelativi di ufficiali che abusano del
loro potere per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali e
quindi a subire conseguenze disastrose[177]. Agli ufficiali più giovani, che
ancora potevano mantenere alcune delle caratteristiche attrattive
adolescenziali favorite maggiormente nelle relazioni tra maschi, era consigliato
di rinforzare le proprie qualità maschili e non usare profumi, né tagliarsi i
peli alle narici e non radersi le ascelle[178]. Un episodio riferito da
Plutarco nella sua biografia di Gaio Mario illustra il dovere del soldato di
mantenere la propria integrità sessuale nonostante le pressioni che potevano
provenire dai suoi superiori. Una bella e giovane recluta di nome Trebonio[179]
aveva subito molestie sessuali per un certo periodo di tempo dal suo ufficiale
superiore, che si trovava anche a essere il nipote di Mario, Gaio Luscius. Una
notte, dopo essersi nuovamente difeso, in una delle numerose occasioni in cui
era stato sottoposto alle attenzioni indesiderate dell'uomo, Trebonio è stato
convocato alla tenda di Luscius. Incapace di disobbedire al comando del suo
superiore, si trova così a essere improvvisamente l'oggetto di una violenza
sessuale e, a questo punto, sfoderata la spada uccide Luscius. La
condanna per l'uccisione di un ufficiale tipicamente provocava l'esecuzione
immediata. Quando è stato portato a processo, il ragazzo è stato però in grado
di produrre testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere
Luscius, e che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno,
nonostante le profferte di regali costosi". Marius non solo ha assolto
Trebonio dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma gli ha consegnato
una corona (vedi ricompense militari romane) per il coraggio
dimostrato[180]. Diana e Callisto (1770), di Nicolas-René Jollain.
Lesbismo Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. I riferimenti al sesso tra
donne non sono frequenti nella letteratura latina della repubblica romana e
dell'inizio del principato (storia romana). Ovidio, che è uno dei massimi
sostenitori d'uno stile di vita generalmente rivolto all'amore per le donne,
descrive e nota poi con partecipazione la storia di Ifi (o Ifide, cresciuta e
allevata come fosse un maschio) che s'innamora di Iante e in seguito anche di
Anassarete: si tratta di uno dei pochissimi miti lesbici presenti nella
tradizione classica[181]. Scena di sesso lesbico. Terme Suburbane
(Pompei). In epoca imperiale successiva le fonti riguardanti relazioni
omosessuali tra donne divengono via via più abbondanti, in forma di ricette mediche,
incantesimi e pozioni d'amore, tesi di astrologia e interpretazione dei
sogni[182]. Un graffito rinvenuto nei muri di Pompei antica esprime il
desiderio di una donna nei confronti di un'altra: "vorrei poter tenerla
stretta al collo, abbracciandola ed accoglier tutti i suoi baci sulle mie
labbra[183]. Parole di lingua greca indicanti una donna che preferisce la
compagnia intima di un'altra donna includono hetairistria (in parallelo a
hetaira-compagna (l'etera o cortigiana), tribas (tribade, da cui deriva
tribadismo) e lesbia (dall'isola di Lesbo patria della poetessa Saffo). Alcuni
termini della lingua latina sono tribas (per prestito linguistico,
fricatrix-colei che strofina o sfrega (i propri genitali su quelli di un'altra)
e virago (da vir-uomo, quindi una donna-maschio)[184]. Saffo e le
sue amiche a Lesbo, dipinto erotico di Édouard-Henri Avril. Un primo
riferimento ai rapporti omosessuali tra donne definito come lesbismo si trova
nello scrittore greco del II secolo Luciano di Samosata: "dicono che ci
sono donne come quelle di Lesbo, di aspetto maschile e che si prendono come
consorti altre donne, proprio come se fossero uomini"[185]. Dato che
il modo di pensare romano nei riguardi del rapporto sessuale era eminentemente
fallocratico e richiedeva in ogni caso un partner attivo dominante gli
scrittori uomini immaginavano che nella sessualità tra lesbiche una delle due
donne avrebbe dovuto utilizzare un fallo finto (dildo) oppure avere una
clitoride eccezionalmente grande tanto da consentire con essa la penetrazione
sessuale; per entrambe sarebbe stata un'esperienza piacevole proprio in quanto
si verificava l'atto penetrante[186]. Raramente menzionati nelle fonti
romane, oggetti a forma di fallo da utilizzare al posto del reale penemaschile
sono un popolare elemento di comicità nella letteratura greca e nell'arte in
genere[187], anche attraverso la tradizione del simbolismo fallico; esiste
invece una sola raffigurazione nota nell'arte romana di una donna che penetra
con questo sistema un'altra donna, mentre l'utilizzo di un fallo artificiale da
parte di donne è più comune nella pittura vascolare greca[188]. Marco
Valerio Marziale descrive le lesbiche come aventi appetiti sessuali fuor di
misura che, prese da quest'esagerazione di desiderio, potevano giungere a
eseguire atti sessuali con penetrazione su altre donne, ma anche su
bambini[189]; i ritratti imperiali di donne che sodomizzano ragazzi, che bevono
e mangiano come i maschi e che s'impegnano in vigorosi regimi fisici, possono
riflettere in parte le ansie culturali circa la crescente indipendenza delle
donne romane[190]. Identità di genere Modifica
Mosaico che mostra Ercole mentre porta un abbigliamento femminile ed è in
possesso di un gomitolo di lana (a sinistra), mentre Onfaleindossa la pelle del
Leone di Nemea. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Temi transgender nell'antica Grecia.
Travestitismo e crossdressing Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia del crossdressing. Il crossdressing
appare nell'arte e nella letteratura latina in vari modi per contrassegnare
l'incertezza nell'identità di genere: come invettiva politica, quando un
uomo pubblico è accusato di indossare abiti eleganti e seducenti al modo degli
effeminati. come tropo mitologico, come nella storia di Ercole e Onfale che si
scambiano gli abiti e con essi anche i ruoli sessuali. come una forma di
investitura religiosa, ad esempio nel sacerdozio degli adoratori di Cibele.
molto raramente come feticismo di travestimento. Ulpiano categorizza
l'abbigliamento romano sulla base di coloro che possono più opportunamente
indossarlo: l'abbigliamento virilia-da uomo e caratteristico dei
paterfamilias-i capi famiglia; puerilia è invece l'abbigliamento che marca chi
lo indossa come bambino o minore; muliebria sono i capi d'abbigliamento della
materfamilias; communia quelli che possono essere indossati da entrambi i
sessi; infine i familiarica ovvero gli abiti per i famigli, i subalterni e gli
schiavi di una casa[191]. Un uomo che volesse indossare abiti adatti alle
donne, osserva sempre Ulpiano, rischierebbe di farsi oggetto di scherno: le
prostitute erano le uniche donne a cui era concesso d'indossare a piacere anche
la togamaschile, essendo loro di fatto al di fuori della categoria sociale e
legale normativa indicante la donna[192]. Un frammento del commediografo
Accio sembra riferirsi a un uomo che indossava segretamente "fronzoli più
adatti a una vergine"[193]. Un esempio di travestitismo è riferito in una
causa legale, in cui "un certo senatore era abituato a indossare di sera
vestiti da donna"[194]. In una delle lezioni di diritto lasciateci da
Seneca[195] un giovane-adulescens viene violentato mente indossava abiti da
donna in pubblico, ma il suo abbigliamento è spiegato come atto di sfida
compiuto davanti agli amici, non come una scelta basata sulla ricerca del
piacere erotico[196]. L'ambiguità di genere era una caratteristica dei
sacerdoti della Dea Frigia Cibele: conosciuti come Galli, il loro guardaroba
rituale comprendeva capi di abbigliamento femminile. Essi sono a volte
considerati come un'autentica casta sacerdotale transgender o transessuale:
durante la celebrazione più importante in onore della Dea, a imitazione di
Attis si auto-eviravano presi da smania e follia sacra[197]. La complessità
della religione e del mito di Cibele e Attis viene esplorata in una delle
poesie più lunghe di Catullo, la numero 63. L'Ermafrodito
dormiente, conservato al museo del Louvre. Ermafroditismo e androginia Modifica
Il termine ermafroditismo viene riferito a una persona nata con caratteristiche
fisiche di entrambi i sessi (vedi intersessualità); nell'antichità la figura
dell'ermafrodita era una delle questioni primarie riguardanti l'identità di
genere[198]. Plinio il Vecchioosserva nella sua Naturalis historia che "ci
sono anche coloro che sono nati con entrambi i sessi, sono quelli che noi
chiamiamo ermafroditi, un tempo detti androgini" (dal Greco Andr-uomo +
Gyn-donna; un uomo che è anche una donna quindi)[199]. Lo storico Diodoro
Siculo del I secolo a.C. scrisse che "alcuni dichiarano che il nascere di
creature di questo tipo sia un evento meraviglioso (teratogenesi) in quanto,
essendo un fatto molto raro, sia annunziatore del futuro, a volte con profezie
benevole e altre con previsioni più malevoli"[200]. Isidoro di Siviglia
descrive in maniera abbastanza fantasiosa un ermafrodito come colui "che
ha il seno destro di un uomo e quello sinistro di una donna e dopo l'atto
sessuale possono diventare sia il padre sia la madre dei loro eventuali
figli"[201]. Secondo il diritto romano un ermafrodito doveva essere
classificato o come maschio o come femmina, non esistendo una terza possibilità
all'interno della categorizzazione giuridica[202]: l'ermafrodito rappresenta
così una "violazione dei confini sociali, in particolare di quelli
fondamentali per la vita quotidiana, come l'essere maschio o l'essere
femmina"[203]. Nella religione romana tradizionale la nascita di un
ermafrodito rientrava nell'ambito del prodigium, un evento cioè che segna
un'interruzione nella pace tra Dei e umani; ma Plutarco osserva anche che
mentre una volta erano considerati dei presagi divini, ora gli ermafroditi
erano diventati oggetto di piacere-deliciae e venivano ampiamente contrattati e
venduti al mercato degli schiavi[204]. Ermafrodito in un dipinto
murale di Ercolano (prima metà del I secolo). Nella tradizione mitologica
classica Ermafrodito era un ragazzino molto avvenente e grazioso figlio di
Hermes(il romano Mercurio) e Afrodite (Venere)[205]. Ovidione ha scritto in
dettaglio il racconto più famoso e influente, nelle sue Metamorfosi[206]
sottolineando che, anche se il bel giovane era nel pieno della sua bellezza e
attrattiva adolescenziale, respinse l'amore che gli veniva offerto esattamente
come già aveva fatto Narciso[207]. La ninfa Salmace che lo aveva scorto
lo desiderò immediatamente: rifiutata lei finse di ritirarsi ma poi, appena il
ragazzo cominciò a spogliarsi per poter fare il bagno nel fiume, si slanciò su
di lui abbracciandolo stretto e nel contempo pregando gli Dei di non essere mai
separati. Gli spiriti benevoli accolsero la sua richiesta supplicante e così i
due corpi, quello del ragazzo e quello della ninfa, si fusero in uno dando
luogo a un essere fisicamente bisessuato. Come risultato tutti gli uomini
che andavano a bere dalle acque di quella sorgente avrebbero sentito sempre più
crescere dentro sé caratteri da effeminatoe il morbo
dell'impudicitia[208]. Il mito di Ila, il giovane compagno e amante
maschio di Ercole che venne rapito da una ninfa delle acque (Lympha), condivide
con Ermafrodito e Narciso il tema dei pericoli che si affacciano sul maschio
adolescente nell'età della transizione che lo dovrebbe portare alla
riconosciuta virilità adulta, e che invece ha esiti differenti per ognuno[209].
Raffigurazioni di Ermafrodito erano molto popolari tra i romani:
"Rappresentazioni artistiche di Ermafrodito portano in primo piano le
ambiguità concernenti le differenze sessuali costitutive di uomini e donne,
nonché l'intima ambiguità esistente in tutti gli atti sessuali... Gli artisti
trattano sempre Ermafrodito in qualità di spettatore di sé stesso, che scopre
improvvisamente la sua più autentica identità sessuale... La figura di
Ermafrodito è una rappresentazione altamente sofisticata, invadendo i confini
esistenti tra i due sessi che sembra essere così chiara nel pensiero
classico"[210]. Macrobio descrive infine una forma maschile della
Dea Venere la quale aveva il suo culto principale nell'isola di Cipro: dotata
di barba e genitali femminili, indossava invece abiti femminili. Gli adoratori
di tale divinità travestita erano uomini vestiti da donna e donne vestite da
uomini[211]. Il poeta latino Laevius ha parlato dell'adorazione di una Venere
che non si sapeva bene se fosse maschio o femmina (sive femina sive mas);
questi è stato talvolta chiamato Afrodito e in diversi esemplari di scultura
questi si tira su le vesti rivelando d'avere genitali maschili, gesto
tradizionalmente riconducibile a un rito magico dal potere apotropaico. La
transizione da paganesimo a cristianesimo Modifica
Infine non va sottovalutato il fatto che, è vero, nel tardo impero romano fu la
condanna cristiana a rendere l'omosessualità un reato (cioè uno stuprum) sempre
e comunque; tuttavia la terminologia usata per giustificare la condanna non è
cristiana, ma è ripresa dalla filosofia greca e non dalla teologica ebraica. Il
concetto di "contro natura", per esempio, viene da Platone, non dalla
Bibbia. Per l'ebraismo, l'omosessualità non è "contro natura", ma
semmai "impura", "abominazione" (to'ebah)[senza
fonte]. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Omosessualità ed Ebraismo. Tuttavia è innegabile
che il Cristianesimo e la morale giudaica e testamentaria funzionarono da base
e fulcro alle leggi che, successivamente adottate dagli imperatori cristiani
come Costante, Teodosio I e Giustiniano, proibirono e punirono con la pena
capitale il nuovo reato di omosessualità. Teodosio era infatti fortemente
influenzato dal vescovo di Milano Sant'Ambrogio, tanto che quando promulgò la
legge che condannava gli atti omosessuali passivi era sotto una penitenza
assegnata dallo stesso Ambrogio[212] in un contesto in cui si stava svolgendo
una lotta tra ariani e cattolici e in cui gli "eunuchi", molto
influenti nella corte imperiale, erano schierati per la maggior parte con gli
ariani affermando la natura umana di Gesù, ed esercitavano pressioni nei
municipi contro i cristiani niceni, cioè cattolici, che sostenevano la duplice
natura, divina e umana di Gesù, figlio di Dio[213]. Nel 389, cioè un anno prima
del decreto che puniva gli atti omosessuali, un decreto di Teodosio tolse agli
eunuchi neo-ariani il diritto di fare e ricevere testamento[214]. Sotto
il dominio cristiano Modifica
Nel Basso Impero il modo di concepire l'omosessualità cambia via via in modo
sempre più restrittivo, fino ad arrivare al codice Teodosiano che, recependo
due leggi precedenti databili rispettivamente al 342 e 390 d.C., reprimeva
l'omosessualità passiva e l'effeminatezza con la pena capitale o la
mutilazione, mentre con Giustiniano (483-565 d.C.) ogni manifestazione di
omosessualità, anche attiva, fu bandita perché in ogni caso offendeva Dio, con
riordino del sistema della persecuzione criminale e con pena di morte per
infanda libido, formulando anche un giudizio morale ("infanda" =
letteralmente che non può esser detta, innominabile). Le cause di questo
cambiamento legislativo, di irrigidimento e intolleranza sempre più crescente
verso l'omosessualità sono ancora oggi dibattute da alcuni storici e studiosi.
Indubbiamente un ruolo importante fu svolto dalla morale cristiana e dal
passaggio del Cristianesimo da religione segreta e proibita a religione di
Stato, unica ammessa in tutto l'Impero. La morale cristiana infatti, a
differenza di quella pagana greco-romana, considerava comunque peccato l'atto
omosessuale, di là dal ruolo svolto, contrapponendo, alla visione maschilista
tipica della società romana sul sesso, una visione più ascetica e distaccata in
cui il sesso era sempre considerato un peccato e un atto impuro, al di fuori
della finalità di unione nella complementarità sessuale evocata in Genesi 2-3 e
della apertura alla procreazione, e quindi dividendo le pratiche sessuali in
lecite (rapporto tra uomo-donna atto alla riproduzione, sacralizzato a Dio
tramite il matrimonio) e in illecite (tutto il resto, cioè gli atti sessuali
non atti alla riproduzione, tra cui anche l'omosessualità attiva e passiva,
oltre che la masturbazione). Alcuni studiosi tuttavia ritengono che
l'irrigidimento fosse stato coadiuvato, senza niente togliere alla morale
cristiana sempre più dominante, anche a un certo puritanesimo pagano sempre più
crescente di fronte alla decadenza dei costumi tipica del Tardo Impero.
Apollo tra gli amati Giacinto (mitologia) e Ciparisso (1834), di
Aleksandr Andreevič Ivanov (pittore). Scultura del 1846 di Herman Wilhelm
Bissen che ritrae Ila, bellissimo giovinetto amato da Ercole. Uno dei
tanti busti dedicati da Adriano ad Antinoo. Rapporto sessuale tra Antinoo
e l'imperatore Adriano in uno dei tanti dipinti erotici di Édouard-Henri
Avril. Corteo trionfale del dio Bacco. Mosaico del II secolo. Busto
romano di ragazzo (forse Polydeukes amato da Erode Attico), conservato
all'Ermitage di San Pietroburgo e risalente al II secolo d.C. Note Modifica
^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p.
304, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome
(Societas Scientiarum Fennica, 1983), p. 122. ^ Eva Cantarella, Secondo natura.
La bisessualità nel mondo antico, 1988 p. 100. ^ Craig A. Williams, Roman
Homosexuality(Oxford University Press, 1999), p. 18. ^ Williams, Roman
Homosexuality, passim; Elizabeth Manwell, "Gender and Masculinity,"
in A Companion to Catullus (Blackwell, 2007), p. 118. ^ Thomas Habinek,
"The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman
Cultural Revolution (Cambridge University Press, 1997), p. 31 et passim. ^
Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford
University Press, 1998), p. 326. Si veda la dichiarazione conservata in Aulo
Gellio 9.12. 1 sul fatto che vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^
Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo
antico-"Bisexuality in the Ancient World" (Yale University Press,
1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Elaine
Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius'
Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of
Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects
of Propaganda in the De bello gallico: Caesar's Virtues and Attributes,”
Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus
and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon
Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome
(Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Davina C. Lopez, "Before Your Very Eyes:
Roman Imperial Ideology, Gender Constructs and Paul's Inter-Nationalism,"
in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 135–138. ^
Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, p. xi;
Marilyn B. Skinner, introduzione a Roman Sexualities (Princeton University
Press, 1997), p. 11. ^ Rebecca Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome
(Cambridge University Press, 2006), p. 13. ^ Per un ulteriore approfondimento
su come l'attività sessuale definisce il libero cittadino rispettabile dallo
schiavo considerato non-persona e quindi passibile di qualsiasi abuso, vedi
anche la voce Sessualità nell'antica Roma nella parte riguardante la relazione
schiavo-padrone. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression
in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 225. ^ Catharine
Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in
Ancient Rome," in Roman Sexualities, pp. 67–68. ^ Amy Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire
(Blackwell, 2006), p. 329. La legge ha cominciato con l'indicare pene più
severe per le classi più basse (humiliores) rispetto all'elite (honestiores). ^
Questo è un tema esposto da Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient
Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton University Press, 1993). ^
Liber (Catullo) Carmina 21, 37, 55, 56, ^ Elegie (Tibullo), Libro I, 4 ^ Eva
Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale University
Press, 1992, 2002, pubblicato originariamente nel 1988 in italiano), p. xii. ^
Svetonio, Vita di Cesare 45-53; ^ Carmina, 29. ^ Svetonio, Vita di Cesare, 73.
^ (Vita di Augusto 68, 71) ^ Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the
Emergence of the Roman Empire, CUP, 2006, p. 263, in books.google.com ^
Plutarco,http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Plutarch/Lives/Antony*.html
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in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, p. 223, confronta l'uso
di cinaedus come "faggot" nella canzone dei Dire Straits intitolata
"Money for Nothing", in cui un cantante è chiamato esplicitamente
"that little faggot with the earring and the make-up" e "gets
his money for nothing and his chicks for free." ^ Williams, Roman
Homosexuality, pp. 203–204. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 55, 202. ^
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Study of Roman Sexuality," pp. 218, 224. ^ Richlin, "Not before
Homosexuality," p. 534; Ronnie Ancona, "(Un)Constrained Male Desire:
An Intertextual Reading of Horace Odes 2.8 and Catullus Poem 61," in
Gendered Dynamics in Latin Love Poetry (Johns Hopkins University Press, 2005),
p. 47; Mark Petrini, The Child and the Hero: Coming of Age in Catullus and
Vergil(University of Michigan Press, 1997), pp. 19–20. ^ Williams, Roman
Homosexuality, p. 229. note 260: Martial 6.39.12-4: "quartus cinaeda
fronte, candido voltu / ex concubino natus est tibi Lygdo: / percide, si vis,
filium: nefas non est." ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World,
pp. 125–126; Robinson Ellis, A Commentary on Catullus (Cambridge University
Press, 2010), p. 181; Petrini, The Child and the Hero, p. 19. ^ Quintiliano,
Institutio oratoria 1.2.8, disapprova la frequentazione sia di concubini sia di
(amicae)di fronte ai propri figli. Ramsey MacMullen, "Roman Attitudes to
Greek Love," Historia 31 (1982), p. 496. ^ Williams, Roman Homosexuality,
p. 24, citing Martial 8.44.16-7: tuoque tristis filius, velis nolis, cum
concubino nocte dormiet prima ^ Caesarian Corpus, De Bello Hispaniensi 33;
MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," p. 490. ^ "They use
the word Catamitus for Ganymede, who was the concubinus of Jove,"
according to the lexicographer Festus (38.22, as cited by Williams, Roman
Homosexuality, p. 332, note 230. ^ Butrica, "Some Myths and Anomalies in
the Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman
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Teratogenic Grid," p. 57, citing Martial 5.61 and 4.43. ^ Richlin,
"Not before Homosexuality," p. 535. ^ Williams, Roman Homosexuality,
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1.3.45 e Svetonio, Vita di Caligola 13, as noted by Dorota M. Dutsch, Feminine
Discourse in Roman Comedy: On Echoes and Voices (Oxford University Press,
2008), p. 55. See also Plauto, Poenulus 1292, come ha osservato Richard P.
Saller, "The Social Dynamics of Consent to Marriage and Sexual Relations:
The Evidence of Roman Comedy," in Consent and Coercion to Sex and Marriage
in Ancient and Medieval Societies (Dumbarton Oaks, 1993), p. 101. ^ Le parole
pullus e puer possono derivare dalla stessa radice Indo-Europea; vedi Martin
Huld, la definizione "child," nell' Encyclopedia of Indo-European
Culture (Fitzroy Dearborn, 1997), p. 107. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus:
Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992),
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l'antiquité (Jérôme Millon, 2003 reprint, originally published 1883), p. 47. ^
Richlin, The Garden of Priapus, p. 289. ^ Richlin, The Garden of Priapus, p.
289, trova la reputazione di Eburno come "pulcino di Giove" e la sua
successiva estrema severità contro l'impudicitia del figlio come molto
significativa e stimolante. ^ Cicerone, Pro Balbo 28; Valerio Massimo 6.1.5–6;
Pseudo-Quintiliano, Decl. 3.17; Paolo Orosio5.16.8; T.R.S. Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic (American Philological Association, 1951,
1986), vol. 1, p. 549; Gordon P. Kelly, A History of Exile in the Roman
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Priapus, p. 289. ^ Williams, Roman Sexuality, p. 17. ^ As at Apuleio, L'asino
d'oro 9.7; Cicerone, Pro Caelio 36 (in riferimento al suo nemico personale
Publio Clodio Pulcro); Adams, The Latin Sexual Vocabulary (Johns Hopkins
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Caelio (Bolchazy-Carducci, 1995), p. 78. ^ Giovenale, Satire 6.36–37; Erik
Gunderson, "The Libidinal Rhetoric of Satire," in The Cambridge
Companion to Roman Satire(Cambridge University Press, 2005), p. 231. ^ a b
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Glossarum Latinarum IV p. xviii; see Georg Götz, Rheinisches Museum 40 (1885),
p. 327. ^ Primarily Amy Richlin, as in "Not before Homosexuality." ^
Plautus, Curculio 482-84 ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 201. ^ As
summarized by John R. Clarke, "Representation of the Cinaedus in Roman
Art: Evidence of 'Gay' Subculture," in Same-sex Desire and Love in
Greco-Roman Antiquity, p. 272. ^ Cicerone, Fillippiche 2.44, citato da Williams,
Roman Homosexuality, p. 279. ^ a b Williams, Roman Homosexuality, p. 279. ^
Martial 1.24 and 12.42; Juvenal 2.117–42. Williams, Roman Homosexuality, pp.
28, 280; Karen K. Hersh, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity
(Cambridge University Press, 2010), p. 36; Caroline Vout, Power and Eroticism
in Imperial Rome (Cambridge University Press, 2007), pp. 151ff. ^ a b Williams,
Roman Homosexuality, p. 280. ^ Le fonti sono citate da Williams, Roman
Homosexuality, p. 279. ^ Dione Cassio 63.22.4; Williams, Roman Homosexuality,
p. 285. ^ Tra gli altri: Durant (1935: vol. 3, p. 282); Koranyi (1980: 35). ^
Williams, Roman Homosexuality, pp. 278–279, citando Dione Cassio e Elio
Lampridio. ^ Cassio Dione, lxxx.15. ^ Historia Augusta, x. ^ Cassio Dione,
lxxx.14. ^ Erodiano, v.6. ^ Cassio Dione, lxxx.16. ^ Benjamin 1966. ^ Godbout
2004. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 561. ^ As recorded in
a fragment of the speech De Re Floria by Cato the Elder (frg. 57 Jordan = Aulus
Gellius 9.12.7), as noted and discussed by Richlin, "Not before
Homosexuality," p. 561. ^ Digest 48.6.3.4 and 48.6.5.2. ^ Richlin,
"Not before Homosexuality," pp. 562–563. See also Digest 48.5.35 [34]
on legal definitions of rape that included boys. ^ Richlin, "Not before
Homosexuality," pp. 558–561. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient
World, pp. 99, 103; McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 314. ^
Williams, Roman Homosexuality, pp. 104–105. ^ Digest 3.1.1.6, as noted by
Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Richlin, The Garden of
Priapus, pp. 27–28, 43 (in Marziale), 58, et passim. ^ Williams, Roman
Homosexuality, p. 20; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, p. 12; Amy
Richlin, "The Meaning of irrumare in Catullus and Martial," Classical
Philology 76.1 (1981) 40–46. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 27, 76 (con
un esempio proveniente da Marziale 2.60.2. ^ Catharine Edwards, The Politics of
Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), pp. 55–56. ^
Valerio Massimo 6.1; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^
Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Quintiliano,
Institutio oratoria 4.2.69–71; Richlin, "Not before Homosexuality,"
p. 565. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 565, citando il
passaggio proveniente da Quintiliano. ^ Men of the governing classes, who would
have been officers above the rank of centurion, were exempt. Pat Southern, The
Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, 2006),
p. 144; Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235):
Law and Family in the Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage
of Roman Soldiers, p. 3. ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service: Ideologies
of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press,
2008), p. 93. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. See section above on male
rape: Roman law recognized that a soldier might be raped by the enemy, and
specified that a man raped in war should not suffer the loss of social standing
that an infamis did when willingly undergoing penetration; Digest 3.1.1.6, as
discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Thomas
A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford
University Press, 1998), p. 40. ^ Polibio, Storie 6.37.9 (metodo antico di
bastinado). ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, pp. 280–282. ^ Phang,
Roman Military Service, p. 97, citing among other examples Juvenal, Satire
14.194–195. ^ Lo stesso nome è citato anche altrove in Plozio Tucca. ^
Plutarco, Vita di Mario 14.4–8; vedi anche Valerio Massimo 6.1.12; Cicerone,
Pro Milone 9, in Dillon e Garland, Ancient Rome, p. 380; in Dionigi di
Alicarnasso 16.4. Discussione di Phang, Roman Military Service, pp. 93–94, e
The Marriage of Roman Soldiers, p. 281; Eva Cantarella, Secondo natura. La
bisessualità nell'antica Roma, pp. 105–106. ^ Ovidio, Metamorfosi (Ovidio)
9.727, 733–4, citato in Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p.
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Female Homoeroticism (University of Chicago Press, 1996), p. 1. ^ The Latin
indicates that the I is of feminine gender; CIL 4.5296, as cited by Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," p. 347. ^ Brooten, Love between
Women, p. 4. ^ Luciano, Dialoghi delle cortigiane 5. ^ Jonathan Walters,
"Invading the Roman Body: Manliness and Impenetrability in Roman
Thought," pp. 30–31, and Pamela Gordon, "The Lover's Voice in
Heroides 15: Or, Why Is Sappho a Man?," p. 283, both in Roman Sexualities;
John R. Clarke, "Look Who's Laughing at Sex: Men and Women Viewers in the
Apodyterium of the Suburban Baths at Pompeii," both in The Roman Gaze, p.
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"The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the
Fabrics of Roman Culture(University of Toronto Press, 2008), p. 147. ^ Digest
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Vedi sopra alla sezione "stupro maschio-maschio"." ^ Lucio Anneo
Seneca il Vecchio, Controversia5.6; Richlin, "Not before
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Homosexuality in Greece and Rome: A sourcebook of basic documents. Univ of
California Press, 2003. ISBN 978-0520234307 Voci correlate Modifica Storia LGBT
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– sentire – atomismo di lucrezio, sensismo di Giorgi – Cartesio is actually
borrowing it all from Platone’s Timeo – for whom the world is also only interpretable
‘more geometrico’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fardella” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690424692/in/photolist-2mKEbWv-2mKGWoQ
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est RES PVBLICA RES POPVLI – l’implicatura di Bruto filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Bologna). Filosofo. Grice: “I like Fassò; for one, he was, like
my friend H. L. A. Hart, a philosophical lawyer! But unlike Hart, Fassò, being
a Roman, knew what he was talking about!” “My favourite is his explication of
Bruto’s reaction when being brought the corpses of his two sons!” Fassò, mi
viene a conforto col suo ottimo lavoro, che dà una diligentissima ed acuta
interpretazione ed esposizione del corso non già logico ma storico, o per
meglio dire, psicologico della formazione della Scienza nuova; esposizione che
è utile possedere e che si segue con curiosità. Con pari bravura è condotta la
ricerca di quel che Vico attinse o credette di attingere ai quattro suoi
autori. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori,). Figlio di Ernesto,
generale dell'esercito, e Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie
Barbieri (il di lei nonno era Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia,
moglie di Lodovico, era sorella di Alberto e Alfredo Dallolio), trascorre i
suoi primi anni, fino all'adolescenza, fra il Piemonte (Mondovì),
l'Emilia-Romagna (Parma) e la Lombardia (Mantova). Temperamento religioso,
ereditato dall'educazione famigliare e dalla frequentazione con un anziano
sacerdote, si caratterizza sempre per il rigore negli studi (perciò Mazzetti,
suo compagno di gioventù, poté definirlo schivo degli incontri e quasi della
società, teso in un impegno di chiarezza mentale, di serietà e finezza di
sentire. Conseguita la maturità classica al Virgilio di Mantova, si laurea a Bologna,
sotto Borsi con “L'elemento demografico nelle provvidenze assistenziali a favore
dei lavoratori: la legislazione del lavoro”. Dopo aver rinunciato ad impiegarsi
come funzionario nell'Unione industriale, ottiene anche la laurea in Filosofia,
sotto Saitta, con “Vico e Michelet”. Confiderà poi al suo allievo, Enrico
Pattaro, che la scelta della filosofia, lungi dall'essere redditizia, è un
matrimonio con «madonna povertà», cui egli, tuttavia, non volle sottrarsi, non
essendo versato, come rivelò a Fausto Nicolini, nella «professione forense».
Svolse, quindi, l'attività di docente di storia e filosofia, inizialmente come
supplente al "Galvani" di Bologna, poi a Forlì e, infine, al Liceo
scientifico "Augusto Righi" di Bologna. Il suo saggio, dedicato a Il
Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese, che, però, a causa
dell'indisponibilità degli editori, sarebbe stato pubblicato, grazie
all'intervento di Giuseppe Saittacome memoria dell'Accademia delle scienze
dell'Istituto di Bologna. Vicino al Partito Liberale Italiano, a guerra
conclusa accetta di candidarsi, per il medesimo partito, alle elezioni comunali
bolognesi. Divenuto assistente volontario di Filosofia del diritto
nell'Ateneo felsineo, fu convinto da Felice Battaglia a concorrere per la
libera docenza, che ottenne nel 1949. Nel medesimo anno, all'Parma, gli viene quindi
assegnato l'incarico in Filosofia del diritto. Aggiudicatosi l'ordinariato, si
trasferì successivamente a Bologna, dove insegnò filosofia giuridica, presso la
Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine politiche, nella Facoltà di
Lettere e Filosofia. Si occupò di studi vichiani (della cui validità
scientifica è testimonianza una epistola di Gioele Solari del 17 maggio 1949,
in cui si apprende che «l'interpretazione giuridica della Scienza nuova
proposta da Fassò supera la visione Croce-Nicolini», ponendosi al livello
qualitativo di quelle del Fubini e del Donati) e groziani, della cura e
traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio e
scrisse Vico e Grozio, nonché, la Storia della filosofia del diritto in tre
volumi, giudicata da Bobbio come la «storia della filosofia del diritto più
completa» esistente «sulla faccia della terra». Oltre Croce, Fassò
criticò anche Gentile, autore di una «concezione speculativa indubbiamente
grandiosa», che si risolveva, però, in «vana retorica», negante, entro la
dialettica dello spirito, la realtà del fenomeno giuridico. Fra le altre opere,
La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; dello stesso anno è La legge
della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia del diritto
uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata rivalutazione»
del diritto naturale; Società, legge e ragione, apparso nell'anno della morte
(i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono scritti precedenti). Le
pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza l'ispirazione teoretica di
Fassò sono, invece, La storia come esperienza giuridica (in cui, ha commentato Bobbio, si dimostra che
tutti i rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un germe di
organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche») e Cristianesimo e
società, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico, incontrando
financo il favore di Prezzolini. Il suo testament disponeva funerali semplici,
«senza fiori e senza seguito di estranei». In un codicillo, inoltre,
soggiungeva che, «se si trovassero miei scritti incompiuti, manoscritti o
dattilografati, non si stampino, perché non possono essere stati riveduti come
avrei ritenuto necessario», congiuntamente all'invito a non raccogliere «in
volume opuscoli sparsi o "scritti minori", operazione che non
dovrebbe mai esser fatta se non dall'autore». Alla memoria di Fassò, oltre che
a quella di Augusto Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di
Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica
Giuridica a Bologna,. Benché Fassò abbia apprezzato il Romano sostenitore della
concezione non normativistica del diritto, egli non poté tacerne il limite,
consistente nell'assenza di una «definizione esauriente» dell'istituzione,
dovuto alla volontà di Romano di tenersi «fuori dal campo della filosofia». Il
più limpido storico del giusnaturalismo». Formatosi filosoficamente nella
temperie culturale neoidealistica, Fassò se ne distaccò, rifiutandone
soprattutto l'immanentismo, con La storia come esperienza giuridica, opera
ispirata dalle suggestioni istituzionalistiche di Santi Romano (ma di questi
deplorerà, nella successiva Storia della filosofia del diritto, il circolo
vizioso, per cui una «istituzione è giuridica [solo] quando è giuridica» A
Croce, che faceva coincidere storia e filosofia, Fassò replicava con
l'identificazione di storia e giuridicità, estendendo il concetto di
istituzione — contrariamente a quanto aveva fatto Romano, e risolvendone così
il «circolo vizioso» — a «tutti gli aspetti della vita sociale, cioè della vita
dell'uomo nella storia, che è sempre vita dell'uomo in società». L'elisione
dell'identità fra realtà storica e razionalità filosofica non implica la
rimozione dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità conoscitiva,
ricadendo la «concreta unità del reale» (sotto l'aspetto gnoseologico) nell'ambito
del privo di senso, sebbene restasse attingibile in uno slancio mistico,
descritto, in una pagina de La legge della ragione, come partecipazione
dell'«uomo al Valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli Dio per unirsi
a lui, trascendendo la propria umanità, la propria soggettività empirica,
storica». È importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia legato
l'Assoluto a uno slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo
misticheggiante, ma — giusta l'osservazione di Lombardi Vallauri — abbia
formulato un «dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità
dell'etica intesa come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione
essenziale della ragione giuridica nel mondo». Proprio il riconoscimento della
centralità della ragione giuridica nel governo della «concreta molteplicità del
reale» costituì, per Fassò, un ulteriore motivo critico nei confronti dell'anti-gius-naturalismo
crociano, da cui, dopo l'approfondimento della storia del giusnaturalismo,
prese più convintamente le distanze. La concezione giusnaturalistica fassoiana,
infatti, cerca di non cadere nell'errore proprio della tradizione precedente
(errore che nella Storia della filosofia del diritto, non esitò a indicare
quale «difetto capitale» della scuola del diritto naturale, consistente
nell'«astrattismo e nel conseguente antistoricismo»), intendendo il diritto naturale
quale «ordine che nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere
inserito proprio per la sua dimensione storica, che è la sua dimensione
essenziale». Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte. B. Croce, Illusione degli autori sui “loro”
autori, su Quaderni della Critica, Laterza, Ora anche in Id., Indagini su Hegel
e schiarimenti filosofici, A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, Cfr. E. Garin,
Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza. La sua ricerca di Saitta, anche
storica, sembra inscindibile da una polemica e da una protesta. Polemica e
protesta che attraversano ugualmente l'attività così del Calogero come dello
Spirito, annoverati talora col Saitta fra gli esponenti della
"sinistra" gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo
benevolmente, di crocianesimo». E.
Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò.
Fassò segue con particolare attenzione i corsi di Saitta, che gli suggerì di
approfondire Michelet, che lo avrebbe condotto a Vico. Scheda senatore Dallolio Alberto, su Scheda
senator Dallolio Alfredo, su senato. Le parole di Mazzetti sono riportate in Faralli,
Il maestro e lo studioso, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il
Mulino, Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno
Accademico, Bologna, Società Tipografica già Compositori,Elenco dei laureati e
diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico. Bologna,
Tipografia Compositori, E. Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni sulla
gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di Fassò, in Rivista di
filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino. “Mi disse che ci sarebbe stato un
concorso per assistente ordinario alla cattedra e mi chiese se fossi
interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due avvertimenti sui quali avrei
dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi sono: "chi fa filosofia
del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa madonna povertà e nell'università
occorre sapere ingoiare amaro e sputare dolce perché l'intelligenza degli
accademici è di regola superiore a quella dei comuni mortali, e ciò implica che
essi siano capaci di cattiverie più raffinate e perfide di quelle di cui sono
capaci i comuni mortali. La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini,
richiamato da E. Pattaro, nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del
pensiero di Guido Fassò, premesso. In altre lettere allo stesso Nicolini, scrive
di non sentire nessuna vocazione per la professione forense. Curriculum vitae
di Andrea Fassò, Consiglio Nazionale del Notariato.. Gli studi vichiani di
Guido Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani, 5, Napoli, Guida, Ha ultimato Il Vico nel
pensiero del suo primo traduttore francese nel ma causa la difficoltà di
trovare un editore — non gli fu possibile pubblicarlo allora: soltanto poté
presentarlo all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Giuseppe
Saitta. E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero dFassò,
in G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto, E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini, 1, Milano, Giuffrè. Dopo i disagi della
guerra, aveva ripreso le proprie ricerche incoraggiato da Felice Battaglia, che
lo convinse ad affrontare l'esame di libera docenza in filosofia del diritto. Conseguita
la libera docenza in filosofia del diritto, nello stesso anno Fassò ebbe il suo
primo incarico in questa materia, all'Parma. Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Battaglia, Guido Fassò:
in memoria, in Rivista internazionale di filosofia del diritto [giunse] alla
libera docenza, e nello stesso anno lo abilitarono a tenere l'incarico della
filosofia del diritto nella Parma, ove divenne professore della materia. Passa
all'Bologna, dove rimase titolare della disciplina, tenuta con alto prestigio e
qualificata dignità fino alla morte che ne chiuse la laboriosa giornata». Enrico Pattaro, Gli studi vichiani di Guido
Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida. Tra le carte
personali di Guido Fassò ho trovato una cartolina postale, vergata fitta fitta
da Gioele Solari. In essa, tra le altre cose, è scritto: ‘Da tempo ero convinto
della verità della interpretazione giuridica della Scienza Nuova: ma Lei ne ha
dato ampia, profonda, persuasiva dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta
è frutto della Sua modestia, e della Sua serietà di studioso. Il suo saggio sui
quattro autori può stare a paro cogli scritti vichiani del Donati e del Fubini
e supera la visione Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della scienza
nuova stanno ancora sulle generali. Finalmente esiste in Italia (dico in
Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del
diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più
complete. Così Bobbio saluta la Storia della filosofia del diritto. In tutta la
filosofia del Gentile si ha una concezione speculativa indubbiamente grandiosa,
ma che si risolve in vana retorica, negante l'esperienza della realtà
effettuale. Non è tuttavia dalla negazione della molteplicità dei soggetti che
discende la negazione della realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come
in quella del Croce, essa è compiuta in relazione alla dialettica dello spirito,
cioè del soggetto assoluto. È importante, infine, sottolineare il valore di
impegno civile che il filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso
venne riconosciuto dalla traduzione greca. Thessalonike, Poseidonas], all'epoca
della dittatura militare in Grecia». Bobbio,
Giusnaturalismo e positivismo giuridico, prefazione di Luigi Ferrajoli,
Roma-Bari, Laterza, Norberto Bobbio, La
filosofia del diritto in Italia, in Jus, Milano, Faralli, I momenti della riflessione critica
su Guido Fassò, Prezzolini chiosa Cristianesimo e società sia in un articolo su
Il resto del carlino sia nel libro Cristo e/o Machiavelli. Conservo la prima
edizione di Cristianesimo e società, egli scrive. La volli come compagna perché
dovevo moltissimo a quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la conferma dotta,
serena, eppure appassionata di un punto di vista importante. Prezzolini ritiene
di aver trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al corrente
della produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi filosofici,
quelle stesse idee che anch'egli aveva manifestato ‘lanciate piuttosto da un
intuito che da un sapere storico Annuario, Bologna, Tipografia Compositori, E.
Pattaro, Ricordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Centro
Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia
del Diritto e Informatica Giuridica, sStoria della filosofia del diritto, edizione
aggiornata C. Faralli, Roma-Bari,
Laterza. Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della filosofia, non
sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti quello del Croce,
che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è sostenuta unicamente sul
terreno della considerazione empirica del diritto, e non vuole avere né
premesse né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra di essa.Neppure il
Romano dà del concetto di istituzione una definizione esauriente». G. Marini, Il giusnaturalismo nella cultura
filosofica italiana del Novecento, in Storicità del diritto e dignità dell'uomo,
Napoli, Morano, Cfr. N. Matteucci, recensione a G. Fassò, Cristianesimo e
società, Giuffrè, Milano, in Il Mulino, «L'esigenza filosofica fondamentale che si palesa
nei lavori del Fassò è quella di uscire dallo storicismo immanentistico dei
Croce e dei Gentile che vedeva nella storia la manifestazione di un principio assoluto
(lo Spirito, l'Atto. Cfr. E. Pattaro, In che senso la storia è esperienza
giuridica: l'istituzionalismo trascendentale, in appendice a G. Fassò, La
storia come esperienza giuridica, C. Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino. L'esperienza
che Fassò aveva avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima
metà del secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani,
condotti in chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva
un'ipoteca con cui dover fare conti precisi, in sede teoretica, sia pure di
filosofia del diritto, venne chiamata ad un inevitabile redde rationem. G.
Fassò, Storia della filosofia del diritto, edizione aggiornata C. Faralli, Roma-Bari,
Laterza, Il giudizio, tuttavia, è già presente in G. Fassò, La storia come
esperienza giuridica. È proprio questo, del resto, il punto debole della
dottrina del Romano, che fu subito rilevato dai suoi critici: il circolo
vizioso in cui egli si aggira, presupponendo la giuridicità di quella
istituzione che poi identifica con il diritto. In altre parole, il Romano
afferma che sono istituzione, ossia ordinamento giuridico, ossia diritto,
quegli enti o corpi sociali che hanno carattere giuridico. B. Croce, Logica
come scienza del concetto puro, C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso,
Napoli, Bibliopolis, B. Croce, La storia come pensiero e come azione, M.
Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, «Si può dire
che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa,
nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata
appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è
più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto
storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo
principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e
dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i
quali realmente sono un solo. La storia come esperienza giuridica. L'esperienza
giuridica non è altro che l'esperienza umana nella sua totalità, la storia
stessa insomma dell'uomo. In che senso la storia è esperienza giuridica:
l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, «La concreta unità del reale,
l'universale concreto, è un residuato della grandiosa retorica metafisica
idealistica. Fassò, con l'onore delle armi, lo colloca nella dimensione che gli
compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile, incomunicabile per definizione:
dell'indiscutibile che è tale non perché sia vero o certo di là da ogni
ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile oggetto di discorso, non è
suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni comprensione e spiegazione
razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di senso. Enrico Pattaro, In
che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale. Resti
chiaro, peraltro, che Fassò rinvia sì al piano mistico l'unità del reale,
l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma che, non per questo, egli professa
una filosofia mistica intuizionistica. Il giudizio di Lombardi Vallauri è
espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano. Considerata nel suo
arco complessivo, forma un dittico, che da un lato ribadisce rigorosamente la
sopragiuridicità della esperienza cristiana giunta al suo culmine (identificato
nella carità), e dall'altro lato riconosce la funzione preziosa della ragione
giuridica ‘nel mondo, dove ogni individuo limita e contraddice l'altro e dove
una norma di coesistenza è indispensabile’») e accolto in Guido Fassò, Società,
legge e ragione, Milano, Edizioni di Comunità, Enrico Pattaro, In che senso la
storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido
Fassò, La concreta molteplicità del reale, il flusso eracliteo dei particolari
concrerti, l'eterogeneo continuum di cui parla richiamando Ross, è la realtà
empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili,
non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente
identici. Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr., per
esempio, Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, M. Tarantino, con
una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis. Contraddittorio è altresì il
concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello, di un
diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto
variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il
codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio
della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere
contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse
fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà
fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori,
si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di
colpo lo svolgimento, concludersi la Storia, morire la vita, disfarsi la
realtà. Sulla presa esplicita di distanza di Fassò da Croce, cfr. Società,
legge e ragione. Ho continuato a ripetere la stessa cosa. Il diritto nasce
dalla natura umana, la quale è natura storica e natura sociale. Ho rifiutato
dapprima, sotto la suggestione dell'anti-gius-naturalismo del tempo in cui ero
cresciuto, di chiamare naturale un siffatto diritto. Più tardi, dopo avere
approfondito la conoscenza storica del gius-naturalismo ed essermi meglio
chiarito la parte che esso ha avuto nella difesa della libertà contro
l'assolutismo politico, mi sono deciso a designare con quell'aggettivo in
realtà equivoco il diritto che la ragione trova nella natura della società. Laddove,
invece, si è riscontrata coincidenza cronologica, si è preferito seguire
l'ordine alfabetico. Altre opere: “I quattro auttori del Vico: saggio
sulla genesi della Scienza nuova” (Milano, Giuffre); “La storia come esperienza
giuridica, Carla Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristianesimo e
società” (Milano, Giuffrè); “La democrazia in Grecia, Carla Faralli, Enrico
Pattaro e Giampaolo Zucchini (Milano, Giuffrè); “Il diritto naturale” (Torino,
ERI, “La legge della ragione, Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo
Zucchini (Milano, Giuffrè); “Storia della filosofia del diritto, Roma-Bari,
Laterza); “Vico e Grozio” (Napoli, Guida); “Società, legge e ragione” (Milano, Edizioni
di Comunità); “Scritti di filosofia del diritto” (Milano, Giuffrè); Diritto della
guerra” (Napoli, Morano). Dizionario biografico degli italiani,.Gli studi
vichiani di Guido Fassò, Centro Studi Vichiani,
5, Napoli, Guida),“Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di
Guido Fassò”, “In che senso la storia è esperienza giuridica:
l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò”, “Lo storicismo di Guido
Fassò”, “Sulla annosa e ricorrente disputa tra positivisti e giusnaturalisti”,
“Un itinerario filosofico tra diritto e natura umana”. L'iniziativa di
raccogliere gli scritti di filosofia del diritto di Guido Fassò è altamente
opportuna e meritoria. Gli studiosi ne debbono essere grati ai curatori: Enrico
Pattaro (che al Maestro è succeduto sulla cattedra bolognese), Carla Faralli,
Giampaolo Zucchini. Con questi tre ricchi volumi diviene facilmente accessibile
una produzione, altri- menti sparsa in riviste e in atti occasionali, che sta a
testimoniare il cammino limpido e coerente di una tra le personalità
intellettualmente più vive ed oneste della nostra cultura del secondo
dopoguerra, pur- troppo strappata anzi tempo agli studi. I curatori avvertono
che del- l'opera di Guido Fassò (1915-1974)rimangono escluse da questa pur
ampia raccolta: a) le opere pubblicate quali volumi separati; b) arti- © Dott.
A. Giuffrè Editore - Milano LETTURE 499 coli occasionali che sono
parsi non riconducibili alla ((filosofia del di- ritto )); c) scritti di
letteratura e di critica cinematografica, risalenti agli anni giovanili (p.
XIII). Si può convenire sull’opportunità di pre- servare la purezza e
omogeneità scientifica della raccolta, escludendo gli scritti delle due ultime
categorie menzionate; giudicheranno i cura- tori, o altri studiosi interessati,
se non sia opportuna la pubblicazione separata degli scritti minori ora
esclusi, per dare un’immagine completa della cultura e dell’evoluzione di
Fassò, ovvero di uno studioso che, alieno quant’altri mai da digressioni e
dilettantismi, mostrava però in ogni pagina la vastità e classicità delle
proprie conoscenze. Evidente è invece la necessità di escludere le opere apparse
quali volumi separati. Tra esse sono opere a tutti note, che hanno saldamente
stabilito il prestigio scientifico di Fassò: basti ricordare gli studi vichiani
e gro- ziani (da I (( quattro auttori D del Vico. Saggio sulla genesi della
Scienza nuova )), del 1949, alla cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto
della guerra e della pace di Grozio, dello stesso anno, a Vico e Grozio, del
1971) e la fondamentale Storia della filosofia del diritto (in tre volumi:
1966, 1968, 1970). Sono anche da ricordare: La democrazia in Grecia, del
1959;Il diritto naturale, del 1964; La legge della ragione, dello stesso anno;
Società, legge e ragione, apparso nell’anno della morte (ma i due ultimi volumi
raccolgono e rifondono scritti precedenti, che si trovano in questa stessa
raccolta). Ricordiamo per ultimi, non per caso, i due scritti in cui è
documentata la fisionomia teoretica di Fassò, il quale, se fu grande storico
del pensiero, ebbe anche un’impronta filosofica originalissima, e una chiarezza
ideale che diede senso unitario ai molti interventi su problemi teoretici, oggi
raccolti nei presenti volumi. Ci riferiamo alle opere L a storia come
esperienza giuridica, del 1953, e Cristianesimo e società, del 1956. Oltre agli
scritti di Fassò, la raccolta contiene: una Nota dei curatori, che spiega i
criteri seguiti (pp. XIII-XV);un’ampia Introduzione di En- rico Pattaro, dal
titolo Sull’assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò (pp.
XIX-LXXXu);na Bibliografia degli scritti filosofico- giuridici di Guido Fassò,
a cura di Giampaolo Zucchini (pp. 1465- 1473); uno studio di Carla Faralli dal
titolo I momenti della riflessione critica su Guido Fassò (pp. 1477-1517). Di
modo che questi volumi offrono una base per chiunque si accosti criticamente
all’opera e al pensiero di Fassò: lo status quaestionis è chiaramente
delineato. È ancora da dire che gli scritti di Fassò sono ripartiti in tre
categorie: a) saggi e articoli, b) voci di enciclopedia, c) recensioni. Se i
((saggie articoli )) occupano la maggior parte dei volumi, notevole è però
anche la mole delle ((vocidi enciclopedia )) (pp. 1205-1377): un genere lette-
rario che Fassò coltivò con assiduità, e che era particolarmente conge- niale
alla sua mente storica, e alla chiarezza concettuale alla quale egli era sempre
solito congiungere rigorosamente la ricostruzione storica: poche pagine sono in
grado, in queste voci, di dare le linee maestre di © Dott. A. Giuffrè Editore -
Milano 500 LETTURE un tema, o dell’opera di un autore (esemplari ci
sembrano, tra le voci su temi teoretici, Democrazia, del 1960,e
Giusnaturalisrno, apparso postumo nel 1976;tra le voci su temi storici, quelle
sui due autori di Fassò per eccellenza, Groot, del 1967,e Vico, apparso postumo
nel 1975). Non molte sono invece le recensioni (28, di contro a 49 voci di
enci- clopedia) in chi pure fu studioso di larghissime letture. Se si tolgono
le recensioni legate agli esordi scientifici e ai loro temi, rimangono pochi
interventi; tra questi dobbiamo ricordare, per l’interesse oggettivo e per la luce
che portano sulla personalità di Fassò, le recensioni dedi- cate ad autori coi
quali egli fu in singolare vicinanza spirituale: come le recensioni a volumi di
Bobbio su temi filosofico-giuridici, o al volume di Piovani, Giusnaturalismo ed
etica moderna (del 1961;la recensione è dell’anno seguente), Peraltro, per
valutare la presenza attiva, insieme critica e costruttiva, di Fassò nella
cultura italiana, si deve pensare alle molte discussioni che egli costantemente
e con passione sollevava su temi storici e teoretici: più della recensione, lo
attraeva la discussione ampia che ruotasse intorno a un problema a lui
congeniale. Si pensi alle osservazioni che egli svolse su due libri di Sergio
Cotta, ancora uno studioso col quale egli fu in profondo dialogo: i libri di
questo su San Tommaso e su Sant’Agostino (degli anni 1955 e 1960)sollecitarono
la meditazione di Fassò in due articoli: .Sa% Tommaso giurista laico? (del
1958) e Sant’Agostino e il giusnaturalismo cristiano (del 1964).Inoltre, tutta
l’attività di Fassò fu segnata dalla polemica, spesso anche dura o sarcastica,
che egli rivolgeva ad autori grandi e piccoli, lontani e vicini. Polemizzava su
temi filologici ed eruditi, riprendendo e correg- gendo; polemizzava su
problemi teoretici, dove non trovasse chiarezza di pensiero, egli che era
scrittore limpido e rifuggiva da qualsiasi ambi- guità o da compiacenti
silenzi. Talvolta colpisce, ancor oggi, la durezza della polemica; ed egli ne
era certo consapevole, e scrisse una volta queste parole, che valgono a
spiegare un tratto della sua personalità: nella sua connaturata avversione ai
(( radicatissimi luoghi comuni (nella ricerca scientifica come nei modi del
pensare politico), egli re- plicava sempre con vigore, e talora con troppo
vigore, e metteva in luce G componenti H opposte a quelle Comunemente
accettate, Seri- veva: (( Forse, nel cercare di metterle in luce, ho calcato
troppo sulla loro importanza? Se questo è avvenuto, è stato (per ricorrere
ancora una volta a Grozio e prendere a prestito da lui l’immagine di cui si
serve a proposito di Erasmo) con l’intenzione con cui si piegano in senso
opposto gli oggetti incurvatisi, per cercare di farli tornare nella posi- zione
giusta D (p. 830). I n quell’occasione, egli parlava delle convin- zioni
diffuse sulle (( componenti )) originarie dell’etica laica, di solito vista
derivare dal protestantesimo e dai suoi moti preparatori; mentre egli vedeva
{< componenti D più ampie, e <<radici H che egli individuava ((pergran
parte proprio nel tomismo (p.809).Egli era quindi in uno dei campi prediletti
della sua indagine; ma quell‘intenzione lì dichia- © Dott. A. Giuffrè Editore -
Milano LETTURE 501 rata e illustrata, con l’immagine degli G
oggetti incurvatisi vale a farci comprendere la intransigente vena polemica, strumento
per ri- portare alla (( posizione giusta H, che nel suo caso era la posizione
della verità scientifica e del rigore metodologico. Di quella vena polemica,
gran parte degli scritti qui pubblicati sono testimonianza, talora viva-
cissima. C’era in Fassò tutta la serietà intellettuale di chi conosce la fatica
della paziente ricerca quotidiana. Non solo la storia del pensiero propriamente
detta, con le sue regole filologiche; anche la filosofia aveva i suoi canoni e
le sue conoscenze tecniche. Nel corso di una pole- mica del 1956, su uno dei
temi che più gli stettero a cuore, quello del rapporto fra cristianesimo e
società, egli scrisse, sulla dignità della filosofia, parole di sapore
hegeliano, che hanno la loro permanente e ritornante validità. Allora, ammoniva
disinvolti (( giuristi cristiani)) a starsene nei propri confini (di giuristi;
il cristianesimo era altra cosa), e scriveva: (( E strano, ma mentre tutti
fanno a gara a dire che la filo- sofia è cosa astrusa, non v’è nessuno che non
si senta legittimato a discuterne senza alcuna preparazione: ciò che non si
sognerebbe di fare riguardo a qualsiasi altro argomento scientifico o tecnico
)) (p. 287). Perché egli, che era in senso proprio e fino in fondo
(<filosofo del diritto )), ebbe chiara la dimensione ((filosofica))della
propria ricerca, e non intese mai che la propria controversa disciplina fosse
riducibile a ri- flessione o generalizzazione di giuristi dotati di vocazione,
tempera- mento, sia pure cultura, Opportunamente, gli scritti di Fassò sono
riprodotti in ordine cro- nologico (all’interno delle tre categorie citate
sopra: saggi e articoli; voci di enciclopedia; recensioni). Se si tengono
presenti anche i lavori pubblicati come volumi a parte, e sopra ricordati, ne
viene la possibi- lità di giungere ad una periodizzazione. Pattaro, nel suo
studio intro- duttivo, suggerisce la quadripartizione seguente: I) il periodo
1947-51, (( dedicato alla storia della filosofia, in particolare a Vico )); 2)
il periodo 1951-58 (che comprende La stovia come esfierienza giuridica e
Cvistia- %esimo e società), (( caratterizzato precipuamente dalla tematica, che
potrebbe dargli il nome, ‘Assoluto e storia )>; 3) il periodo 1958-68
(culminante nei volumi primo e secondo della Storia della filosofia del divitto),
che (( potrebbe intitolarsi a ‘ I1 diritto naturale )>; 4) il periodo
1969-74 (nel quale si conclude la grande opera storiografica), che (( po-
trebbe di converso intitolarsi a ‘I1 diritto positivo D (pp. xx-xxr). Così
Pattaro, e con buone ragioni. Ma egli stesso ricorda che il Maestro ((
riconobbe valida in uno dei suoi ultimi scritti la distinzione-periodiz-
zazione suggerita da Luigi Eombardi Vallauri)) (p. XXI), il quale ve- dittico
>) affermante - così riferiva Fassò consentendo intesa come esperienza religiosa,
e dall’altro (. ..) la funzione essen- ziale della ragione giuridica nel mondo
)) (p. XXI, da Società, legge e vagione, pp. 8-9; Lombardi Vallauri aveva
formulato quel suggerimento deva nella sua ope- ra come un (( G da un lato (.
..) la sopragiuridicità dell’eticità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
502 LETTURE in Amicizia, carità, diritto, Milano 1969,p. 238).Tenendo
presenti i punti di vista espressi dai due studiosi, saremmo propensi a vedere
una tripartizione, che è insieme una partizione temporale e tematica, una
periodizzazione e una distinzione di interessi scientifici; dove i periodi si
collegano l’un l’altro per affinità e per approfondimenti in- terni. I1 primo
periodo è certamente da collocare tra il 1947e il 1951; è il periodo che vede
nascere gli studi su \‘ico e su Grozio, e che è se- gnato dalla presenza di
motivi neoidealistici e dall’emergere dell’origi- nale storicismo di Fassò.
Ilsecondo periodo, dal 1951al 1958,è quello che vede apparire il (<dittico
)) di cui parla Lombardi Vallauri, quel dittico a cui Pattaro dà il nome di ((
Assoluto e storiao. In questi anni è enunciata la filosofia di Fassò; gli anni
successivi approfondiranno e talora ritoccheranno, ma i pilastri sono già posti
saldamente. Dove la periodizzazione di Pattaro sembra meno giustificata, perché
forse c’è soltanto accentuazione all’interno di un’unità, è nella cesura che
pone tra il 1968e il 1969.Sembra di poter dire che tutta l’attività successiva
al 1958,ovvero dal 1959al 1974(e che muove, come Pattaro ricorda, dall’articolo
San Tommaso giurista laico?), è dedicata alla meditazione integrale, per
estensione diacronica e sincronica, del problema della ragione giuridica nel
mondo storico-sociale: è ripercorso tutto il pensiero occidentale; si ha la
progressiva accettazione di un diritto di ragione, il quale ha una sua
autonomia di fronte al diritto tradotto in leggi. Anche la riflessione politica
di Fassò, intensa in quegli anni, e più, certamente, dopo gli sconvolgimenti
del 1968,rientra in quella visione di una ragione che opera nella storia con i
suoi equilibri e meccanismi. Gli scritti raccolti in questi volumi consentono
di ritrovare gli aspetti salienti della meditazione di Fassò, di ripercorrerla
nelle singole tappe del suo maturarsi, di seguire, come in una fuga a più voci,
l’ac- cedere di nuovi motivi a quelli di datazione più antica. In questo senso,
come s’è già detto all’inizio, grande è l’utilità di questa raccolta per chi
studi l’opera di Fassò; non solo, ma per chi si dedichi a ricostruire la vita intellettuale
e morale, la cultura politica di quegli anni, I n questa occasione, a chi
scrive interessa porre in luce alcuni essenziali aspetti teoretici di quella
riflessione. Ma ciò non intende certo sminuire il ri- lievo che si deve
riconoscere a Fassò storico delle idee. Lo studioso di Vico e di Grozio, del
diritto naturale classico, cristiano e moderno, è tale che ogni suo contributo
è degno di attento studio vuoi per l’oggetto trattato, vuoi per ricostruire in
modo più adeguato l’evoluzione dello stile di ricerca storiografica del suo
autore, vuoi infine per gli apporti d’ordine teoretico che esso fornisce. In
quest’ultimo senso, quello che qui interessa maggiormente, molti studi storici
apportano argomenti per la visione della storia e della sua organizzazione
giuridico-politica. Ma per fermarsi al solo rilievo storiografico, si deve
ricordare che in questi volumi tornano studi su molti temi tipici e prediletti
dell’atti- vità di Fassò. Si vedano i vari ritorni su Vico: quello del 1947,11
Vico © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano LETTERE 503 nel pensiero
del suo primo traduttore francese (dedicato al rapporto Vico- Michelet); al
quale si ricollega, ventun anni dopo, U n presunto disce- polo del Vico. Giulio
Michelet; e inoltre vari interventi critici sulla Scienza Nuova e su temi
vichiani, a cominciare dal saggio del 1948, Genesi storica e genesi logica
della filosofia della ((Scienza nuova D, per finire con lo scritto postumo Il
problema del diritto e l’origine storica della (( Scienza Nuova a di G. Vico.
Si vedano anche gli scritti vari su Grozio: Ugo Grozio tra medioevo ed età
moderna, del 1950, e il saggio, assai signi- ficativo per l’evoluzione
personale di Fassò, Ragione e storia nella dot- trina di Grozio, del 1950.
Accanto a tali studi dovrebbero esserne men- zionati molti altri, a cominciare
da quello del 1961 su Sociologia e diritto nella filosofia civile del
Romagnosi, fino ai molti studi su temi storici, sulla laicità immanente in
pensatori cristiani, o sull’evoluzione del pensiero giuridico in senso più
stretto, come nel saggio postumo, scritto per la Storia delle idee politiche,
economiche e sociali diretta da Luigi Firpo, dal titolo La scienza e la
filosofia del diritto: ricostruzione storica ammirevole nella sua lucida
sinteticità, frutto maturo di una mente storica che aveva già prodotto le sue
opere maggiori. Né si devono dimenticare i ritornanti interessi per il mondo
greco, e per la forma democratica che in esso si realizzò: valga l’esempio
dello studio del 1959La democrazia .izell’antica Grecia e la riforma agraria.
Si può dire che non manchi, in questa raccolta, nessuno dei grandi temi
storiografici di Fassò: Vico e Grozio, il pensiero cristiano, l’affermarsi
della ragione giuridica, la grecità. Chi voglia ricostruire l’itinerario scientifico
di Fassò storico delle idee, avrà ora a disposizione un materiale impo- nente,
qui riunito dalle varie sedi in cui egli usava pubblicare i suoi saggi e
articoli, e che erano quasi sempre riviste giuridiche: singolare e
significativa predilezione in un autore che non ridusse mai la filosofia del
diritto a teoria generale del diritto, ne volle preservata la filosoficità, ma
volle anche mostrare come non si potesse prescindere dalla cono- scenza dei
problemi scientifici del diritto. I n questo senso si può esser certi che Fassò
ebbe profonda e genuina dimestichezza con i problemi dei giuristi. Anche lo
stile del suo pensiero e il suo stesso modo di esprimersi, serio e sobrio,
tutto attento alle prove e ai nessi concettuali, risentiva beneficamente della formazione
giuridica e degli interessi giuridici, anche se questi non furono pecu- liari
ad un ramo specifico del diritto, ma si rivolsero piuttosto alla teoria
generale, e semmai ai modi procedurali del divenire del diritto - si pensi
all’interesse per il problema del giudice - come a quelli in cui meglio si
scorge l’originalità della ragione giuridica nel suo affermarsi. Si può anche
dire che la cultura giuridica di Fassò influì sull’originale forma del suo
storicismo, al quale, fino agli ultimi anni, egli non venne mai meno, Gli
scritti appartenenti al primo periodo mostrano Fassò che, movendo dall’interno
della prospettiva neoidealistica, ne esce con una propria visione della realtà
come storia, e della storia come © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
504 LETTURE struttura in sé organizzata, razionale, scandita in
istituzioni. Lo stori- cismo assoluto di Croce (un autore che, pure, Fassò ha
ben conosciuto) è estraneo a questa forma di storicismo, tutto fatto di cose e
di nessi reali, Vico e Grozio sono stati i fondamenti filosofici di questa
visione della storia, Pattaro pone bene in luce come l'avversione di Fassò a un
razionalismo astratto divenga visione storicistica (<nei primi studi
vichiani )) (pp. XXIX-xxx)ri;ferisce quanto Fassò stesso scriveva, sul-
1'((esser vichiani )) per il fatto di avere una (<visione della storia come
concreta razionalità )). Pattaro prosegue illustrando il passaggio di Fassò
dagli studi vichiani, condotti in quell'atmosfera speculativa (non
necessariamente o integralmente condivisa), alla personale vi- sione
storicistica del diritto. Qui influirono le nuove correnti che si affacciavano
in Italia. (<Le suggestioni del neoempirismo che si affac- ciava nella
nostra cultura tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta
trovarono un'accoglienza non ostile in un Fassò convinto che, ' nella filosofia
del diritto, molto spesso l'empirismo non è lontano dallo storicismo ', La
specifica tematica giuridico-filosofica (. , .) lo faceva incontrare con le
correnti sociologiche ed istituzionalistiche, ma nel contempo lo induceva, per
superarne 1" oggettivismo naturalistico ', ad adottare un'impostazione
filosofica di fondo lato sensu kantiana (così Pattaro, ibidem, p. XXIV). In
queste parole è detto l'essenziale sulla visione filosofica di Fassò. I1 quale
descriveva egli stesso, nel 1951, come vedeva la (( crisi dell'idealismo D,
provocata da varie correnti di pensiero, che egli enumerava: il marxismo,
l'esistenzialismo, lo spiri- tualismo cristiano, il neopositivismo. Empirismo e
storicismo, egli li aveva accostati nelle parole prima citate, tratte
dall'Introduzione ai Prolegomeni di Grozio (nella edizione 1961~,p. 7) e
nuovamente li aveva accostati, parlando dell'opera di Alessandro Levi, quando
rite- neva utile muovere, sia pur con misura e senso delle sfumature, dalla
constatazione delle affinità tra (( storicismo idealistico e sociologismo
positivistico )) (in questa raccolta, p. 216). In quello stesso scritto su
Levi, Fassò avvertiva un'analogia tra due generazioni in crisi, quella di Levi,
che usciva dal positivismo, la sua, che usciva dall'idealismo: due generazioni
accomunate da ((una posizione che conduce ad ap- prezzare, non già i beati
possessori della verità, ma coloro che sono andati faticosamente
fabbricandosene una, senza cieche fedeltà a dogmi e senza chiudere gli occhi
davanti alla storia in cammino (ibi- dem, p. 225). Quello scritto su Levi era
del 1954,e vedeva, come altri scritti, lo sgretolarsi dell'idealismo per
l'irruzione di nuove tendenze di pensiero, più legate all'osservazione diretta
dell'esperienza. Rien- trano in questo quadro anche le polemiche che Fassò
condusse in quegli anni contro le facili riesumazioni del diritto naturale,
talora troppo coerenti, e inconsapevoli nella loro professione di un diritto astorico,
talora troppo incoerenti e disinvolte nella loro combinazione di diritto
naturale e storia. Lo storicismo era così diffuso in quegli anni, e senza ©
Dott. A. Giuffrè Editore - Milano LETTURE 505 effettiva
consapevolezza critica, che si ebbero anche coloro che Fassò chiamò i ((
giusnatural-storicisti )) (p. 521). Lo storicismo di quegli anni, e
specialmente all’interno della cultura filosofico-giuridica (una cultura, in
quel periodo, assai vivace, in ricambio con altri àmbiti filosofici e culturali),
fu uno storicismo di origine, più che filosofica, empiristica, o addirittura
empirica: fu lo storicismo di chi era cresciuto nell’indagine delle teorie
giuridiche sociologiche e istituzionalistiche, e aveva medi- tato sul diritto e
sui modi del suo farsi.I1diritto come t( sistema stori- camente progrediente)),
avrebbe detto Savigny; e in modi affini ave- vano pensato Santi Romano,
Gurvitch, Capograssi, per fare soltanto pochissimi ma influenti nomi (per la
valutazione dell’influenza di Capo- grassi, si può qui vedere la recensione di
Fassò alla IntevFYetazione di CaFogYassi, pubblicata da Carnelutti nel 1956).
Anche lo storicismo di Fassò si modellò in aspetti affini, pur nella indubbia
sua penetrazione filosofica. Ma quello storicismo, se aveva le sue basi in Vico
e in Gro- zio, si approfondì e dispiegò nella visione istituzionalistica del
diritto. Tra gli autori di Fassò non è Hegel (né in sé né nelle scuole che a
lui si richiamarono), e non sono gli autori del moderno storicismo indivi-
dualistico, da Dilthey in poi, che tanta influenza avrebbero avuto su Pietro
Piovani, pure affine a Fassò per più interessi ed aspetti. Si può dire allora
che lo storicismo professato da Fassò fu di impronta giu- ridica. Ebbe tratti
affini allo storicismo post-crociano da molti condi- viso in quegli anni; ma
non derivava tanto da precise correnti filosofi- che, quanto dai giuristi non
strettamente positivisti: la scuola storica del diritto in Germania; ma molto
di più le correnti istituzionalistiche; e infine la tradizione di common-law,
da Fassò ammirata come esem- plare organizzazione giuridica e politica e
presidio del valore liberale della dignità deli’individuo. La storia era,
secondo il titolo dell’opera del 1953,esperienza giuridica; e non era questo un
pensiero da poco, ma anzi una robusta e meditata posizione storicistica, perché
il diritto, come struttura razionalizzatrice e regolatrice della convivenza,
mo- strava la ragione immanente alla storia, che era anche l’unica ragione
accessibile all’uomo. Avverso al razionalismo omnicomprendente - fosse la
metafisica metastorica della tradizione o la metafisica della storia come
totalità (idealismo, materialismo storico) -, Fassò credette in una razionalità
che guida la convivenza, che nasce dall’interazione di individui e di gruppi,
che è garanzia di libertà per gli individui. I valori nltimi, invece, non sono
accessibili agli uomini per via razionale; la ragione non può che fermassi a
questo mondo terreno, e studiarlo nelle strutture che in esso si formano e
variano. Era una visione, se voglia- mo parlar filosoficamente, neokantiana,
nel senso di tanto neokantismo diffuso nella filosofia del diritto e nelle
scienze sociali. Conoscibile ra- zionalmente il mondo dei fenomeni come mondo
storico; non-conosci- bile, ma soltanto sperimentabile emozionalmente, il mondo
del valore. Cadeva la fondazione pratica della morale; restava la
inconoscibilità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 506 LETTURE dei
valori ultimi. In questo senso, Radbruch o Max Weber non pensa- vano diversamente.
Quel che ebbe Fassò, a differenza di questi autori (ma non del neokantismo in
genere), fu l’interesse per quel sopramondo che egli affermava non-conoscibile,
e che vedeva tradotto, nella forma più pura, nel cristianesimo, fi questo
l’altro versante della filosofia di Fassò, che si tradusse nel 1956 in
Cristianesimo e società, opera tra le più alte della nostra cultura recente. E
forse interessante notare quel che scriveva Fassò, recensendo nel 1962 il libro
di Piovani sul giusna- turalismo. Piovani faceva sua la proposizione (( la
personalità stessa è l’assoluto )), che d’altronde traeva da Kierkegaard, e la
svolgeva nel senso di un individualismo visto come unico coerente sbocco
dell’etica moderna. Scriveva Fassò: (( E qui si potrebbe, naturalmente, discutere
a lungo (, ..); e del resto anche chi, come me, davanti alle affermazioni di
una presenza, che non sia totalmente mistica, dell’assoluto nell’indi- viduo,
rimanga perplesso, e non veda come un ipersoggettivismo quale quello professato
dal Piovani possa sfuggire al relativismo, non può non apprezzarne il profondo
significato morale: assai più alto in ogni caso di quello delle etiche
oggettivistiche, che, coprendosi della reto- rica dei valori eterni, conducono
all’alienazione dell’uomo, e lo pri- vano di ciò che costituisce la sua umana
essenza morale (p. 1436). Tre affermazioni sono da rilevare in questo passo: a)
v’è il rifiuto della (( retorica dei valori eterni )), giudicata alienante e
tale da privare l’uomo della sua essenza morale, che è, evidentemente,
collegata alla ricerca e all’irrequietezza; b) l’ipersoggettivismo (ma tanto
varrebbe dire sog- gettivismo) non può sfuggire al relativismo, sentito da
Fassò come pericolo; c) Fassò si dichiara (( perplesso )) (( davanti alle
affermazioni di una presenza (. ..) dell’assoluto nell’individuo )), ma con
l’eccezione che si tratti di una presenza a totalmente mistica B. Rifiutate
un’etica oggettivistica e un’etica soggettivistica, che cosa rimane nella
visione morale di Fassò? Rimangono: la razionalità formale del diritto come
ragione vivente nella storia e l’esperienza mistica come unica via di accesso
all’assoluto. Questi due piani sono privi di relazione; ma essi appaiono tali
da produrre queste conseguenze: a) è salvata l’irrequie- tezza che è condizione
della morale; b) è evitato il pericolo del relati- vismo; c) è consentito
l’accesso all’assoluto. 11 mondo dei valori assoluti è accessibile soltanto
all’esperienza mistico-religiosa. La carità, intesa in senso teologico, ovvero
come virtù teologale, è proprio questa capacità di inserirsi nella vita divina,
La simpatia di Fassò va agli spiriti capaci di questa immedesimazione: da San
Paolo a Kierkegaard, va a coloro che hanno ben chiara la di- stinzione tra
mondo della terra, della legge, della ragione, e mondo divino, della carità.
Quella linea del cristianesimo aveva contrapposto il mondo, regno del peccato e
della legge, al regno della carità, del- l’immedesimazione in Dio (quel mondo
che non conosce diritto). Tra © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
LETTURE 507 cristiaizesimo e società v’era quindi un contrasto
ineliminabile, come tra generi diversi e inconciliabili, come tra santità e
peccato, come tra l’assolutezza dei valori e il mondo degli uomini comuni, I1
libro in cui queste tesi erano argomentate fu quello che sollevò le maggiori
pole- miche. Sul piano più propriamente filosofico, Luigi Bagolini fu il cri-
tico più attento - come Pattaro ricorda (pp. LXV-LXVI) a lucida analisi quella
divisione netta tra la realtà e il valore, per affer- marne l’insostenibilità:
gli appariva inconseguente negare la conosci- bilità razionale del valore e
allo stesso tempo parlarne. Ma si può dire - prosegue Pattaro - che Fassò
(iintenzionalmente rinvia tutti i ‘ Va- lori che si pretende siano di questo
mondo nel cielo indefinito e inde- finibile dell’assoluto )) (p. LXVI). Fassò
conobbe e trattò il mondo im- perfetto e relativo; non dimenticò - era la
strada della mistica - il mondo perfetto e assoluto del quale ci hanno dato
testimonianza grandi spiriti, e che noi stessi avvertiamo nel nostro desiderio
di perfezione. Ma quella divisione così recisamente affermata provocò le
polemiche più accese al di fuori del campo propriamente filosofico, e se fu
discussa e rispettata da teologi e da uomini di fede e di chiesa (questa
raccolta ne reca più tracce: dai giudizi del padre Salvatore Lener fino a
quelli espressi nel colloquio di Strasburgo del novembre 1959,dedicato pro-
prio al tema tipico di Fassò: L a révélation chrétienne et le droit), fu trat-
tata invece con non altrettanta serietà e consapevolezza da giuristi, e da
coloro che, professandosi (igiuristi cristiani o, o (( giuristi catto- lici)),
si fondavano proprio sulla tesi opposta a quella sostenuta da Fassò nel suo
libro. Erano due tesi teologiche a confronto, dov’era conoscenza dei problemi;
ma Fassò aveva buon gioco a spiegare ai suoi interolcutori giuristi che la
carità e la giustizia di cui parla il Vangelo riguardano il rapporto con Dio,
rispetto al quale tutto il resto vien dato per soprappiù, e non il rapporto con
gli uomini, che è soltanto una con- seguenza del vivere in Dio. Se carità e
mondo sono in un tale contrasto, non si può parlare, senza cadere in
contraddizione, di diritto cristiano, di giuristi cristiani, di politica
cristiana, di cristianesimo sociale. Ripe- tutamente Fassò polemizzava con i ((
giuristi cristiani )), innanzi a tutti con Carnelutti; e ricordava che carità
non è filantropia, e che la giu- stizia,nelVangelo,((
sta(...)aindicareunasituazioned’ordineesclu- sivamente religioso, l’elezione,
la perfezione, la santità)), e non è la virtù sociale pur teorizzata da teologi
e filosofi morali cristiani, e che San Tommaso definisce iustitia meta$horice
dicta (p. 244). Rispondendo nel 1956a Carnelutti (è lo stesso scritto nel quale
deplorava, con pa- role prima ricordate, che tutti si sentissero autorizzati a
parlar di filo- sofia), Fassò precisava: (( Ciò di cui (. ..) non posso
ringraziare l’illustre Maestro è d’aver pensato che a me non garberebbe
d’aggiungere al mio titolo di filosofo del diritto l’aggettivo ‘ cristiano il
che mi fa ritenere che anche a me, anzi soprattutto a me egli si rivolga,
quando, nell’intitolare il suo scritto garbatamente parodiando l’intitolazione
del © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano - e sottopose 508 LETTURE
mio, parla di pericoli per i ‘filosofi non cristiani Non vedo in verità perché
quell’aggettivo non dovrebbe garbarmi, né che cosa abbia po- tuto far
sospettare ciò al pur benigno lettore: forse perché ho criticato qualche ‘
giurista cattolico (. , .) il quale mostrava di non conoscere con troppa
esattezza alcuni termini usati nei testi cristiani? >) (pp. 285- 286). Nel
1960, quei concetti venivano organicamente presentati, dal punto di vista
storico e teorico, nello scritto Giwtizia, carità e filantro- pia, e furono
anche inseriti negli scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, grande giurista
storico e grande spirito religioso, uno degli spiriti più congeniali a Fassò,
se non forse il più congeniale. La separazione di cristianesimo e società era
pure destinata a scontrarsi con l’opinione dominante nel mondo religioso, e di
coloro che, richiamandosi al cristia- nesimo, intendevano tradurlo nella
società. Fassò dissentiva (( in ma- niera totale )) dalle idee di Felice Balbo
(Ritorna il sufposto cristiane- simo sociale, era il titolo di una nota
polemica del 1958), come pure, naturalmente, dalle idee di chi nutrisse
progetti politici meno radicali. Ribadiva che ((ilcristianesimo è una
religione, e che la religione ha per oggetto Dio e soltanto Dio )), e (( che la
novità, e quindi l’essenziale significato del cristianesimo rispetto alla
filosofia ed alla morale greca ed alla morale ebraica sta tutta in questa sua
proiezione totale verso Dio, che consuma e supera ogni interesse umano e
mondano e perciò anche sociale )) (p. 357). Non negava certo un ideale di vita
cristiano; negava che il cristianesimo potesse tradursi in dettami politici.
Fac- ciamo cristiani noi stessi, diceva; ma guardiamoci dall’a immischiare Dio
nei problemi di Cesare )) (p. 359). E concludeva quelle pagine ammi- rando la
scelta religiosa di Dossetti, che così commentava: a Questo sì è il vero ideale
cristiano; ed è bello vedere che c’è chi, riconosciutolo, ha - o riceve - la
forza di realizzarlo. 1 superficiali interpreteranno tutto ciò come una
rinuncia, come l’accettazione dolorosa di una scon- fitta. Io penso che sia una
grande vittoria, la sola vera vittoria cri- stiana (. ..) B (p. 362). Questa
visione del problema andava risoluta- mente, e con insofferenza dichiarata,
contro la sintesi politico-religiosa di Maritain, che tanto ha influenzato nel
nostro tempo il cristianesimo sociale (si vedano in proposito i vari cenni di
Fassò, e in particolare quelli a p. 382, a p. 597, a 667). E andava contro le
soluzioni e con- ciliazioni dello (<spiritualismo cattolico )) (del quale
spesso si trova menzione in queste pagine), nel quale ultimo Fassò svelava ((
una grave contraddizione (. ..) nello sforzo di assumere una posizione che sia
ad un tempo religiosa e razionalistica, trascendentistica e storicistica,
salvando in pari tempo, e connettendoli e conciliandoli, il valore (tra-
scendente) e la storia, la moralità e la giuridicità, la città di Dio e quella
città terrena, che è pur sempre, per chi senta davvero religiosamente, la città
del demonio e del peccato: soddisfacendo ecletticamente due istanze pienamente
legittime e valide, certo, ma irriducibili fra di loro (. ..) )) (p. 1401;
parole del 1954). © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano LETTURE 509
Tutto un periodo della vita di Fassò - quello che sopra si è detto il secondo -
gravita intorno a questi pensieri; ma è il periodo in ogni senso centrale della
vita di Fassò. Quel che valeva per il problema religioso valeva per l’àmbito
filosofico generale, Di qui anche l’avver- sione di Fassò alle facili combinazioni
di diritto naturale e storia, e ai teorici di un diritto naturale razionalmente
deducibile e perciò anche applicabile (si vedano le ripetute e dure critiche a
Leo Strauss, e parti- colarmente lo scritto del 1958 Diritto naturale e
storicismo, appunto in polemica con questo). L’assoluto non è conoscibile;
conoscibile è soltanto il mondo della storia, e ad essa, come a mondo pervaso
da strutture e istituzioni che si formano, volge lo sguardo lo studioso del
fenomeno giuridico, La storia, aveva scritto Fassò nell’opera del 1953, è
esperienza giuridica; e su quella visione egli avrebbe fondato negli anni le
sue riflessioni, le sue ricerche storiche, i suoi interventi sui pro- blemi
politici e culturali. Di lì nascevano la sua concezione del diritto e la sua
concezione della vita associata. La storia del pensiero giuridico occidentale
conduceva a una visione razionalistica, che poteva ben dirsi ((laicae
liberaleD. Questi due attributi sono usati da Pattaro (a p. XXXIV), e si può
esser d’accordo con quella definizione; natural- mente non dimenticando tutto
quel che s’è detto finora sulla com- plessità e ricchezza del pensiero di
Fassò: nel senso, in ogni modo, nel quale se ne potrebbe parlare per Jemolo, ma
anche per studiosi prima menzionati, e a lui in quel tempo vicini per affinità
di sentire su molti temi, come Bobbio, Piovani, Cotta. In questo senso può
dirsi che dopo il 1958la meditazione di Fassò sia tutta rivolta alla inve-
stigazione storiografica e teoretica di quella visione razionalistica, laica e
liberale della storia, I1 diritto diviene, allora, la ragione cono- scibile
agli uomini, la ragione che salva la convivenza degli individui. L’assoluto può
essere attinto da invididui eccezionali o in momenti eccezionali, è un dono
concesso e non una strada consentita alla ragione; ma il mondo della storia ha
una sua dimensione razionale proprio nel diritto, che assicura istituzioni in
grado di garantire gli individui nel loro vivere in comune, Se Cristianesimo e
società insegna che non si può mescolare Dio a Cesare, le opere successive al
1958, insistendo sul- l’indagine del mondo storico-giuridico, già avviata
nell’opera del 1953, insegnano che neppure si può, né si deve, trasformare
Cesare in Dio, e vedere nella storia valori e significati immanenti. Questa
etica e questa visione politica si chiariscono e arricchiscono via via nella
ri- cerca di Fassò. I1 problema si intreccia con quello del rispetto della
legge, e quindi con la valutazione del positivismo giuridico. Già nel 1960,
Fassò si domandava, e concludeva senza risposte perentorie: (( Dobbiamo
insegnare l’obbedienza assoluta alla legge?>). Era il pro- blema del
fondamento della convivenza e del fondamento dell’obbliga- torietà della legge.
Diventava anche il problema se fosse razionalmente deducibile la democrazia,
Fassò negava, e con chiarezza in uno scritto © Dott. A. Giuffrè Editore -
Milano 510 LETTURE del 1961, che fra diritto naturale e democrazia
ci fosse nesso necessario, contraddicendo in tal modo diffuse concezioni. Conveniva
invece su di un fondamento morale della forma democratica (che per la cristal-
lina mente di Fassò volle sempre dire forma democratico-liberale) della
convivenza. Era un diritto che poteva magari esser detto natu- rale, ma
ricordando la storicità della natura umana: ((ildiritto natu- rale sul quale la
libertà e la democrazia possono fondarsi non può essere un astratto dogma
esterno alla storia dell’uomo: esso non può consistere che nell’idea di
giustizia che l’uomo ritrova nella propria coscienza morale, il cui valore è sì
certamente assoluto, ma il cui con- tenuto può essere soltanto quello che lo
sviluppo storico di questa coscienza comportaD (p. 576). La limpida relazione
su Stato di diritto e stato di gizlstizia, del 1963, rivendicava il valore
dello stato liberale di diritto, che non ha fra i suoi scopi - Fassò concludeva
con i versi di Holderlin - di far dello stato il paradiso dell’uomo, col
risultato di farne un inferno, Si richiamava all’esperienza costituzionale
inglese, che avrebbe ribadita come modello di sviluppo giuridico, civile e
poli- tico nella prolusione bolognese dell’anno successivo, La legge della ra-
giofie. In quell’occasione, contemporanea al libro dallo stesso titolo, Fassò
affermava che (( non possiamo, oggi, rifiutare il giusnaturalismo, quando il
giusnaturalismo si propone come appello alla legge della ragione D (p. 747).
Era un modo di affermare, più che un diritto natu- rale, il diritto di
giudicare le circostanze storiche al lume della ragione; al modo seguito dai
giuristi inglesi di commofi law. Le leggi, il diritto positivo, avevano il loro
valore, e si doveva loro obbedienza, ma la ragione giuridica non si limita a
sistemare i loro dettami, in un modo che sarebbe anch’esso astratto, pur se in
modo opposto a quello tenuto dal giucnaturalismo meta-storico (<<ma se
continuiamo a rifiutare)) - obiettava Fassò a Scarpelli nel 1967 - ((come
abbiamo sempre rifiutato, l’idea di un diritto naturale extrastorico,
immutabile ed eterno, dobbiamo per questo abbracciare il culto di un diritto
positivo altrettanto extrastorico e astratto? p. 789). Stava avvenendo in Fassò
un passaggio dal rifiuto dell’espressione (( diritto naturale ove non fosse
coerentemente inserita in una metafisica soprastorica, ad un’accettazione della
medesima espressione in un senso più lato, come diritto di una natura dell’uomo
che è ragione operante nella storia. In questo senso si poteva anche affermare
un diritto naturale, che giudicasse razionalmente, in modo storico, fatti,
istituzioni, leggi, ma senza sistemazioni assolute. Era il sistema pragmatico,
empirico, sto- rico, anche antiilluministico, seguito dalla civiltà giuridica
anglosas- sone, la quale, non a caso, era anche quella che aveva dato il più
dura- turo esempio di stato democratico-liberale. Su questa base, scientifica e
politico-morale, si sarebbe espresso Fassò negli ultimi anni della sua vita,
durante i sussulti del 1968 e degli anni seguenti, durante quegli avvenimenti e
quelle teorizzazioni che tanto avrebbero influito sulla © Dott. A. Giuffrè
Editore - Milano LETTURE 511 nostra ultima storia, e che da lui
furono giudicati senza le incertezze, le ambiguità, i silenzi, le fragili
adesioni, di cui molti si resero respon- sabili. In verità, tutta la formazione
culturale, oltreché l’intransigenza morale, garantiva Fassò di fronte alla
crisi di quegli anni. Era stato sempre convinto che il diritto è il momento
razionalizzatore nella sto- ria, e che è esso stesso fenomeno storico. I1
riferimento all’esperienza anglosassone gli permetteva di criticare con misura
il positivismo giu- ridicolegalistico(sivedaIlpositivismogiuvidico(( contestato
del1969); ma lo faceva anche accorto, sul piano politico, del valore
irrinunciabile dello stato democratico-liberale, coi suoi valori di tutela
della libertà individilale attraverso metri comuni a tutti gli individui e
attraverso misure inevitabilmente repressive. Contro la riduzione del diritto a
politica, egli non cedette alle nuove idee che si diffondevano tra giuristi e
magistrati, e che pretendevano di richiamarsi a una ((democrazia
sostanziale))(p. 924); seppe subito additare le fonti teoriche di quelle idee,
e le rintracciò in Carl Schmitt, nelle (( parole, certo, di un insigne
giurista; il giurista più insigne del Terzo Reich 1) (p. 925). Poté par- lare,
per quelle correnti, di (( nazismo giuridico )), e dovendo scegliere tra
Positivismo e nazismo giuvidico (pp. 921-932), egli potè richiamarsi
tranquillamente ai suoi autori, e a quella (<ragione artificiale (. ..) di
cui aveva parlato fin dal Seicento Edward Coke )) (p, 931). Si trattava, come
egli intitolava un saggio nel 1972, di vedere in modo razionale e insieme
storico il rapporto tra giudice e legge (si veda Il giudice e l’ade- guamento
del diritto alla realtà storico-sociale, pp. 987-1050, ampia inda- gine teorica
e storica del problema). Vedeva i pericoli insiti nel rifiuto del principio di
legalità; rifiutava, nel 1971, che si potesse parlare del diritto di resistenza
nella società democratico-liberale, e vedeva nella (( contestazione )) di
quegli anni non il riferimento a una ragione diversa per stabilire un ordine
più giusto, ma la negazione di qualsiasi ordine, di qualsiasi istituzione
repressiva, della stessa ragione, in nome di un atteggiamento che definiva
anarchico )) e (( religioso R (pp. 1055-1056); ripeteva che diritto è
necessariamente repressione, e che si trattava soltanto di fare in modo che
quella repressione fosse frutto della ra- gione (si veda, del 1973, Società,
diritto e repressione, pp. 1067-1087). Da questi stessi principi e
preoccupazioni era ispirato l’ampio saggio postumo già menzionato su La
sciefiza e la filosofia del diritto, viste nel loro sviluppo storico. Questa
indagine, come d’altronde tutta la Stovia della filosofia del divitto, ribadiva
la visione del diritto come Fassò era venuto maturandola negli anni della sua
coerente medita- zione. In queste occasioni, di fronte ai problemi più gravi
dei tempi, Fassò poteva richiamarsi a quanto aveva pensato, sul rapporto fra
cristianesimo e storia, nel suo periodo teoretico. (<Nella società - che non
è società, e neppure comunità, ma comunione - dei santi, come si è liberi dal
diritto, così lo si è dalla ragione (. ..). Siccome invece © Dott. A. Giuffrè
Editore - Milano 512 LETTURE purtroppo non siamo guidati dallo
Spirito, siamo, come ci ricordava San Paolo, sotto la legge; e l’unica cosa che
possiam fare per non sen- tirne troppo la ‘ repressione è cercare che essa sia
conforme alla ra- gione (, ..) )) (pp. 1086-1087). Ma sarebbe riduttivo vedere
l’ultimo periodo della riflessione di Fassò nella luce di queste polemiche
contro idee effimere; anche se si doveva ricordarle per rendere onore alla coe-
renza e alla rettitudine dello studioso. In realtà, alla base di quelle
polemiche era la meditazione di tutta una vita, nella quale era sempre stato operante
l’amore per la distinzione: distinzione tra Dio e Cesare, tra esperienza
religiosa ed esperienza giuridica, tra assoluto e storia. Wikipedia
Ricerca Lucio Giunio Bruto politico romano Lingua Segui Modifica Lucio Giunio
Bruto Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana Capitoline
Brutus Musei Capitolini MC1183.jpg Busto di Bruto, nei Musei Capitolini in
Roma. Nome originale Lucius
Iunius Brutus Nascita 545
a.C. circa Roma Morte 509
a.C.[1] Roma Gens Iunia
Consolato 509
a.C. Lucio Giunio Bruto (in latino: Lucius Iunius Brutus; 545 a.C. circa – 509
a.C.) è stato il fondatore della Repubblica romana[2] e secondo la tradizione
uno dei due primi consoli nel 509 a.C.[3]. Biografia Modifica Il
nome di Bruto è legato alla leggendaria cacciata dell'ultimo re di Roma,
Tarquinio il Superbo. Secondo la narrazione di Livio, rafforzata da
Ovidio, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re, di cui era nipote in
quanto figlio di una sorella: nel corso degli eccidi familiari che spesso accompagnano
la presa di potere di un despota, Tarquinio aveva disposto fra l'altro
l'omicidio del fratello di Bruto, il senatore Marco Giunio. Bruto, temendo di
subire la stessa sorte, allora si mimetizzò nella famiglia di Tarquinio,
impersonando la parte dello sciocco (in latino brutus significa sciocco).
Lui accompagnò i figli di Tarquinio, Tito ed Arrunte, in un viaggio all'oracolo
di Delfi[4][5]. I figli chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo
sovrano a Roma e l'oracolo rispose che la prossima persona che avesse baciato
sua madre sarebbe diventato re.[4]Bruto interpretò la parola "madre"
nel significato di "Terra" così, al ritorno a Roma, finse di
inciampare e baciò il suolo.[6] In seguito Bruto dovette combattere in una
delle tante guerre di Roma contro le tribù vicine e tornò in città solo quando
venne a sapere della morte di Lucrezia. Lucio Giunio Bruto da
giovane Il giuramento di Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, 1771 I
littori portano a Bruto i corpi dei due figli, Jacques-Louis David, 1789
Secondo la leggenda, la cacciata dell'ultimo re da Roma ebbe inizio con il
suicidio di Lucrezia, moglie di Collatino e parente di Bruto, perché costretta
a cedere con le minacce alle richieste amorose di Sesto Tarquinio, figlio del
re Tarquinio il Superbo.[2][7] Tito Livio racconta che, suicidatasi
davanti ai suoi occhi, del marito Collatino e del padre di lei Spurio Lucrezio,
Bruto estrasse il coltello dalla ferita e disse: «Su questo sangue,
purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi
chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il
Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e
con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né
alcun altro possano regnare a Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri,
Libro I, 59.) Bruto, il padre ed il marito di Lucrezia giurarono di vendicarne
la morte. Quindi trasportarono il corpo della donna nella piazza principale
della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l'attenzione
della folla, che dopo aver saputo dell'accaduto si indignò per la protervia di
Sesto Tarquinio. Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per
condurre una guerra contro i Tarquini. Le truppe ora riunite riconobbero in
Bruto il loro comandante, facendo rotta su Roma per conquistarne il potere.
Giunti a Roma, Bruto si rivolse al popolo romano riunito nel Foro, raccontando
della triste sorte toccata a Lucrezia. Aggiunse quindi della superbia del
re, Tarquinio, e della miseria della plebe romana, costretta dal tiranno a
costruire ed a ripulire le fogne, invece che portata a combattere come era
nella natura dei Romani.[8] Ancora ricordò dell'indegna morte di re
Servio Tullio, calpestato da sua figlia, moglie di Tarquinio, con un cocchio.
Invocò infine gli dei vendicatori, infiammando gli animi del popolo romano alla
rivolta contro il tiranno, tanto da trascinarlo ad abbattere l'autorità regale
e a esiliare Lucio Tarquinio, insieme alla moglie ed i figli.[8] Partì quindi
per Ardea, dove il re era accampato, per ottenere che anche l'esercito si
schierasse dalla sua parte, dopo aver lasciato il comando di Roma a Lucrezio
(in precedenza nominato praefectus della città, da parte dello stesso Superbo).
Frattanto, Tullia, moglie di Lucio Tarquinio riuscì a fuggire dalla
città.[8] Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò ad Ardea,
Tarquinio il Superbo, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per
reprimere la rivolta. Bruto, allora, informato che il re si stava avvicinando,
per evitare l'incontro, fece una breve diversione e raggiunse l'accampamento
regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati, i quali
espulsero i figli del re, mentre a quest'ultimo venivano chiuse in faccia le
porte di Roma e comunicata la condanna all'esilio.[9] Due dei figli
seguirono il padre in esilio a Cere(Cerveteri), Sesto Tarquinio invece, partito
per Gabii, qui fu assassinato, da coloro che si vendicarono delle stragi e
razzie da quello compiute. In seguito a questi eventi, il prefetto della
città di Roma convocò i comizi centuriati, che elessero i primi due consoli
della città: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio
Collatino.[3][9][10][11] Busto conservato al Museo archeologico
nazionale di Napoli I primi provvedimenti di Bruto furono: evitare che il
popolo, preso dalla novità di essere libero, potesse lasciarsi convincere dalle
suppliche allettanti dei Tarquini, costringendolo a giurare che non avrebbe
permesso più a nessuno di diventare re a Roma;[12]rinforzare il senato ridotto
ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il
totale a trecento, nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista
anche dell'ordine equestre. Da qui l'uso di convocare per le sedute del senato
i padri (patres) ed i coscritti (dove è chiaro che con questo termine si
alludeva agli ultimi eletti). Il provvedimento aiutò notevolmente l'armonia
cittadina ed il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale.[12]
Durante il consolato i suoi figli, Tiberio e Giunio, complottarono con il
deposto re Tarquinio il Superbo, per farlo tornare a Roma come re, ma furono
scoperti grazie ad uno schiavo[13]. Incatenati, chiesero pietà e il popolo,
impietosito, ne chiedeva la loro liberazione. Ma Bruto fu irremovibile, e li
fece uccidere, assistendo personalmente senza versare una lacrima per la loro
morte[14][15]. In seguito alle dimissioni forzate del collega Lucio
Tarquinio Collatino, Bruto chiese al popolo di nominare un altro console in sua
sostituzione, così da non dare adito al sospetto che volesse governare sulla
città come un monarca. Allora i cittadini riuniti elessero Publio Valerio
Publicola.[16] Il suo consolato terminò con la battaglia della Selva
Arsia, combattuta contro gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini, per
restaurarne il potere. Durante la battaglia Bruto si scontrò con Arrunte
Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo e cugino di Bruto; i due, spronati i
loro cavalli al galoppo, si trafissero vicendevolmente con le loro lance, perdendo
la vita nello scontro[17]. Il console superstite, Valerio, dopo aver
celebrato un trionfo per la vittoria, tenne un funerale di grande magnificenza
per Bruto, che fu pianto dalle nobildonne per un anno. Altro Modifica
Servilio Ahala e Bruto in un denario di Marco Giunio Bruto. Marco Giunio Bruto,
il cesaricida che si vantava di essere un discendente di Lucio Giunio Bruto,
nel 54 a.C., dieci anni prima delle Idi di marzo quando Giulio Cesare rimase
ucciso, emise un denario con al diritto la testa di Lucio Giunio Bruto, il
fondatore della repubblica romana e la scritta BRVTVS ed al rovescio la testa
di Gaio Servilio Strutto Ahala e la scritta AHALA.[18] Secondo Michael
Crawford (Roman Repubblican Coinage - p. 455-6) il denario fu emesso quando a Roma
corse la voce che Pompeo volesse diventare dittatore. Critica storica Modifica Il racconto
proviene dall'Ab Urbe condita di Livio e tratta di un punto della storia di
Roma che precede le annotazioni storicamente affidabili (praticamente tutte le
annotazioni precedenti furono distrutte dai Galliquando saccheggiarono Roma nel
390 a.C.) La figura di Bruto nell'arte Modifica
Il busto di Bruto si trova nel palazzo dei Conservatoridi Roma. Proveniva dalla
collezione privata del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che la donò alla città
nel XVII secolo. Trafugato da Napoleone che lo fece esporre al Louvre, fu
riportato a Roma nel 1815. Dante lo citò nel limbo, nel IV canto
dell'Inferno, quando scrive «Vidi quel Bruto che cacciò
Tarquino...» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto IV, 127)
William Shakespeare, nella sua tragedia Giulio Cesare, fa un riferimento a
Lucio Giunio, quando fa ricordare a Cassio che parlava a Bruto, l'altro
cesaricida, lo spirito repubblicano dei propri antenati. Lucio Giunio
Bruto è uno dei personaggi principali de Il ratto di Lucrezia, un poema sempre
di Shakespeare, e nella tragedia di Nathaniel Lee, Lucius Junius Brutus; Father
of his Country. A Giovan Francesco Maineri è attribuito un dipinto,
databile tra il 1490 e il 1493, dal titolo Lucrezia, Bruto e Collatino.
Nel 1789, all'alba della rivoluzione francese, il pittore francese
Jacques-Louis David realizzò il dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei
suoi figli, oggi esposto al Louvre di Parigi. Il dipinto provocò grandi timori
nelle autorità, poiché si temeva un paragone tra l'intransigenza del console
Lucio Giunio Bruto, che non esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro
la Repubblica, e la debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d'Artois,
favorevole alla repressione dei rappresentanti del Terzo Stato. Giunio
Bruto è anche un'opera seria musicata da Cimarosa nel 1781, libretto di Eschilo
Acanzio. Note Modifica
^ Matyszak, pp. 14, 43. ^ a b Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 8. ^ a b
Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 9. ^ a b Livio, Ab Urbe condita libri,
1.46. ^ Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto,
Adelphi, p. 42, ISBN 978-88-459-1788-2. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita
libri, 1.47. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, 1.49. ^ a b c Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, Libro I, 59. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I,
60. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.50. ^ Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, V, 1, 2. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 1. ^
Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 4, 5-6. ^ Tito Livio, Ab urbe
condita libri, Libro II, 5, 5-8. ^ Dionigi racconta che furono due i figli
accusati ed uccisi da Bruto, Antichità romane, Libro VIII, 79. ^ Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, V, 12, 13-14. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II,
6, 6-9. ^ (Iunia 30 e Servilia 17; Sydenham. 932; Crawford 433/2). Bibliografia Modifica Fonti primarie Tito
Livio, Ab Urbe condita. Fonti secondarie William Smith, Dictionary of Greek and
Roman Biography and Mythology, vol. I, Taylor, Walton and Maberly, London,
1849. Philip Matyszak, Chronicle of the roman Republic, New York, Thames &
Hudson, 2003, ISBN 0-500-05121-6. Andrea Carandini, Res publica: Come Bruto cacciò
l'ultimo re di Roma, Milano, RCS Libri S.p.A., 2011, ISBN 978-88-586-1712-0.
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Bruto, Lucio Giunio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2010. Modifica su Wikidata ( EN ) Lucio Giunio Bruto, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Lucio
Giunio Bruto nel Dizionario delle antichità greco-romane di William Smith
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Gentile, Fasso su Romano – iurisprudenza, ius-naturalismo – legge e raggione,
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Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fassò” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761863938/in/dateposted-public/
Grice e Fazzini –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Vieste). Filosofo. Grice: “I like
Fazzini; he can be too theological, but that’s okay!” Divulgatore di materie filosofiche e il fondatore dell'omonima scuola
private a Napoli, una delle più celebri nel Regno delle Due
Sicilie. Figlio di Tommaso e Porzia Medina, che appartenevano a due delle
famiglie più agiate della città. Il suo talento per la matematica fu notato fin
dai primi anni; i genitori decisero quindi di far proseguire i suoi studi in
ambienti che potessero garantire una formazione adeguata. Fazzini si trasferì a
Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco. Qui trascorse
l'adolescenza approfondendo anche lo studio dei classici. Terminato il
seminario, torna a Vieste. Lì, poco dopo il suo rientro, recita in Duomo
un'orazione in lode dell'Arcangelo Michele che fu molto apprezzata dal clero e
dai fedeli. Il rientro nella città natale fu comunque di breve durata. Desiderando
continuare i suoi studi, Fazzini si trasferì a Napoli. Venne ordinato sacerdote
e nello stesso anno ebbe come insegnante Fergola. La scuola di quest'ultimo era
un rinomato centro per la formazione e un punto di incontro per studiosi e
ricercatori del Mezzogiorno. Ne fu uno degli allievi più illustri. Proseguì
anche gli studi in filosofia. Si era avvicinato al sensismo (empirismo). Ottenne
dalla Chiesa il permesso di acquisire testi proibiti sul sensismo, a patto che
non ne divulgasse i contenuti. Questo aspetto della formazione filosofica influirà
sulla sua docenza e sulla sua personalità, determinando una contraddizione che,
secondo le testimonianze di allievi e amici, lo accompagnò per tutta la
vita. Apre una scuola privata in cui venivano insegnate filosofia,
matematica e fisica. La scuola aveva sede nella Strada nuova dei Pellegrini,
nel quartiere di Montecalvario, e divenne uno dei centri di studio più rinomati
di Napoli. Nel periodo di maggior
successo La Fazzini arrivò a contare tra i 300 e i 400 allievi. In una data non
precisabile, dovette quindi spostare la scuola in una sede più grande, in via
Magnacavallo, nello stesso quartiere. Anche dopo aver aperto la propria
scuola, comunque, insegnò presso altre scuole private. Dedica all'insegnamento
sei o sette ore al giorno. La maggior parte del tempo di insegnamento di
Fazzini e dedicata alla matematica. Al servizio di questa attività Fazzini
pubblica aritmetica, geometria piana e geometria solida. Oltre all'insegnamento
della filosofia, si dedica alla ricerca e alla divulgazione. Al servizio di
queste tre attività allestì anche un laboratorio scientifico, considerato
all'epoca uno dei migliori di Napoli. Per Fazzini venne composta da Gaetano
Donizetti una Messa da Requiem oggi perduta, mentre Basilio Puoti recitò un
elogio di Fazzini, di cui era amico. Si occupa a lungo di ricerche scientifiche
in vari campi della fisica. In particolare, studiò l'induzione
elettromagnetica, il magnetismo in generale e la relazione tra luce e
magnetismo. Non pubblica però quasi nulla a proposito di queste ricerche, che
sono note soprattutto attraverso le testimonianze di Tellini e di Gaetano
Fazzini. Era convinto che diverse delle forze naturali allora note, e in
particolare il calorico, la luce, l’elettricismo, il galvanismo e il
magnetismo, fossero in realtà diverse manifestazioni di un'unica forza. Partendo
da questa idea di base, studia soprattutto il magnetismo, e in particolare due
fenomeni di induzione, oggi spiegati in base alla Legge di Faraday, che erano
stati scoperti negli anni immediatamente precedenti: il magnetismo di
rotazione, scoperto da Arago -- il fenomeno per cui un ago magnetico posto
sopra un disco di rame in rotazione inizia a sua volta a ruotare -- l'induzione
tellurica, scoperta da Faraday: la generazione di una corrente elettrica
indotta in un circuito che si muove attraverso il campo geo-magnetico Per
quanto riguarda il magnetismo di rotazione, ripeté e approfondì le esperienze
di Arago notando che la rotazione dell'ago magnetico si verificava anche quando
al di sopra del disco di rame si sovrapponeva materiale isolante, mentre non si
verifica se il disco di rame veniva sostituito da un disco di materiale
isolante. Per quanto riguarda l'induzione tellurica, ne identifica con
maggiore chiarezza le modalità. Cerca poi di combinare lo studio di questo
fenomeno con quello del magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre
diversi apparecchi. Una ricostruzione dettagliata del modo in cui gli
apparecchi operano è fornita sulla base delle testimonianze lasciate da Cirelli
e Gaetano Fazzini. Descrisse una delle sue esperienze sull'induzione tellurica
in una lettera a Faraday.Questa lettera è l'unica descrizione lasciata da
Fazzini in persona riguardo ai propri esperimenti. Eseguì inoltre esperimenti
sul rapporto tra luce e magnetismo, proiettando raggi di luce su un ago
magnetico. Le testimonianze rimaste, tutte indirette, non permettono però di
ricostruire in modo sicuro le intenzioni di Fazzini e i risultati dei suoi
esperimenti. Opere: “Elementi di geometria piana” (Napoli), “Geometria solida:
la sfera e il cilindro (Napoli); Elementi di aritmetica (Napoli). Dizionario biografico
degli italiani. INDICE NOTA DEL CURATORE pag. III » 1
PREMESSE Cap. I » 12 » 25 Cap. III - La terna dei
numeri primi dispari entro la decade » 34 Cap. IV - Il
pentalfa pitagorico e la stella fiammeggiante » 45 Cap.
» 59 Cap. VI - La tavola tripartita » 71 Cap. VII
- La Grande Opera e la Palingenesi » 78 Cap. - La
Tetractis pitagorica ed il Delta massonico II - La quaterna dei numeri composti
o sintetici V - Il numero e le sue potenze II Arturo
Reghini NOTA DEL CURATORE «Il matematico ed erudito fiorentino Arturo
Reghini (1878-1946), alto dignitario della Massoneria prima del suo
scioglimento ad opera del fascismo, fu il più noto esponente del
neo-pitagorismo nel XX secolo e teorico dell’“lmperialismo Pagano”. Amico di
Giovanni Amendola e di Giovanni Papini, personaggio di punta della
scapigliatura fiorentina all’epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La
Voce”, fu a sua volta fondatore delle riviste “Atanòr” (1924), “Ignis” (1925) e
- con Julius Evola - “UR” (19271928). Alla sua opera sono legate la
riproposizione della “magia colta”, neo-platonica e rinascimentale, che
contrappose al Cristianesimo come via d’accesso al divino, ed una critica
radicale dell’occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In collaborazione
con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente attraverso la
formazione di un’élite iniziatica nel quadro di un processo di rigenerazione
della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica
organizzazione ermetico-pitagorica, d’origine pre-cristiana ed erede degli
antichi Misteri. Polemista efficacissimo; fu interventista e fautore del primo
fascismo, ma ruppe con Mussolini all’epoca del delitto Matteotti e con
l’instaurazione della dittatura, ritirandosi nello studio della geometria e della
matematica pitagoriche. Già in vita, sul suo conto s’era formata una corposa
leggenda di “mago” e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo di altre
fantasiose aggiunte». In questi termini, icastici ma sostanzialmente esatti,
una recente biografia (1) presentava la complessa figura di Arturo Reghini. La
storia della presente opera, l’ultima scritta da Reghini prima della morte, è
stata brevemente narrata dal suo discepolo Giulio Parise nella “Nota” di
presentazione ad un opuscolo postumo dello stesso Reghini (2): «Chiesi ad A. R.
lo sviluppo filosofico ed iniziatico della opera sui numeri pitagorici; poté
condurre a termine, in circa due mesi, un volume su I numeri sacri nella
tradizione pitagorica massonica…». 1 DI LUCA N. M., Arturo Reghini. Un intellettuale
neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma, 2003. 2 REGHINI A.,
Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore con una nota sulla
vita e l’attività massonica dell’Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi
Iniziatici, Napoli, s.d. [1946]. III Il libro fu finito di stampare
il 20 gennaio 1947 «per i tipi dello stab. tip. S. Barbara di Ugo Pinnarò, Roma
– Via Pompeo Magno, 29». Editore fu il già citato Parise, attraverso la Casa
editrice Ignis, la medesima che nel 1935 aveva pubblicato lo studio reghiniano
Per la restituzione della geometria pitagorica. Reghini era morto sei mesi
prima, il 1° luglio 1946. Nell’elaborazione del testo elettronico si è
provveduto ad operare le correzioni indicate dall’Editore nell’Errata Corrige
in allegato alla prima edizione del 1947, nonché quelle di errori di stampa
individuati nel corso della trascrizione, come pure a rettificare talune
(rarissime) imprecisioni bibliografiche sparse qua e là ed indubbiamente dovute
alle particolari condizioni in cui Reghini si trovò a lavorare nell’immediato
dopoguerra, senza la possibilità di effettuare gli opportuni riscontri. Con ciò
il Curatore ha inteso assolvere un debito di riconoscenza contratto esattamente
40 anni fa nei confronti di Giulio Parise, sebbene all’insaputa di
quest’ultimo. Cosmopoli, 24 maggio 2007 IV ARTURO REGHINI I
NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA A. Reghini - I Numeri
Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse Premesse Libertà
va cercando ch'è sì cara Come sa chi per lei vita rifiuta. DANTE, Purg., I,
71-72. Secondo quanto affermano concordemente gli antichi rituali e le
antiche costituzioni massoniche, la Massoneria ha per fine il perfezionamento
dell'uomo. Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e
conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era
etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come
osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola,
tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre
vostro che è nei cieli», sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle
Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che «nessuno è perfetto ad eccezione
del Padre mio che è nei cieli». La definizione che abbiamo riportato
sembrerebbe esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa
ha subìto una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario
etimologico del Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il
perfezionamento dell'umanità; e non soltanto molti profani ma anche molti
massoni accettano questa seconda definizione. A prima vista può sembrare che
perfezionamento dell'uomo e perfezionamento dell'umanità significhino la stessa
cosa; di fatto si riferiscono a due, concetti profondamente diversi, e
l'apparente sinonimia genera un equivoco e nasconde una incomprensione. Altri
adopera l'espressione: perfezionamento degli uomini, anche essa equivoca. Ora,
evidentemente, non è possibile sentenziare quale sia l'interpretazione giusta,
perché ogni massone può dichiarare giusta quella che si confà ai suoi gusti, e
magari può compiacersi dell'equivoco. Se però si vuole determinare quale sia,
storicamente e tradizionalmente, la interpretazione corretta e conforme al
simbolismo muratorio, la questione cambia aspetto e non è più questione di
gusti. Il manoscritto rinvenuto dal Locke (1696) nella Biblioteca Bodleyana e
pubblicato solo nel 1748 e che è attribuito alla mano di Enrico VI di
Inghilterra, definisce la Massoneria come «la conoscenza della natura e la
comprensione delle forze che sono in essa»; ed enuncia espressamente
l'esistenza di un legame tra la Massoneria e la Scuola Italica, perché afferma
che Pitagora, un greco, viaggiò per istruirsi in Egitto, in Siria, ed in tutti
i paesi dove i Veneziani (leggi i Fenicii) avevano impiantato la Massoneria.
Ammesso in tutte le loggie di Massoni, acquistò un grande sapere, tornò in
Magna Grecia... e vi fondò una importante loggia in Crotone (1). A vero dire il
manoscritto parla di Peter Gower; e, siccome il cognome Gower esiste in
Inghilterra, Locke rimase alquanto perplesso nella identificazione di Peter
Gower con Pitagora. Ma altri (1) HUTCHINSON, Spirit of Masonry; PRESTON,
Illustrations of Masonry; DE CASTRO, Mondo segreto, IV, 91; ARTURO REGHINI,
Noterelle iniziatiche. Sull’origine del simbolismo muratorio, Rassegna
Massonica, giugno-luglio 1923. 2 A. Reghini - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse manoscritti e le stesse Costituzioni
dell'Anderson fanno esplicita menzione di Pitagora. Il manoscritto Cooke dice
che la Massoneria è la parte principale della Geometria, e che fu Euclide, un
sottilissimo e savio inventore, che regolò quest'arte e le dette il nome di
Massoneria. E delle reminiscenze pitagoriche nelle «Old Charges» è traccia
anche nel più antico rituale stampato (1724) il quale (2) attribuisce un pregio
speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica (3). Gli
antichi manoscritti massonici concordano dunque nell'indicare come fine della
massoneria quello del perfezionamento dell'uomo, del singolo individuo; e le
prove iniziatiche, i viaggi simbolici, il lavoro dell'apprendista e del
compagno hanno un manifesto carattere individuale e non collettivo. Secondo la
concezione massonica più antica, la «grande opera» del perfezionamento va
attuata operando sopra la «pietra grezza», ossia sopra l'individuo singolo,
squadrando, levigando e rettificando la pietra grezza sino a trasformarla nella
«pietra cubica della Maestria», ed applicando nella operazione le norme
tradizionali dell'«Arte Regia» muratoria di edificazione spirituale. Con
perfetta analogia una tradizione parallela, la tradizione ermetica che almeno
dal 1600 compare anche innestata a quella puramente muratoria, insegna che «la
grande opera» si attua operando sopra la «materia prima» e trasformandola in
«pietra filosofale» seguendo le norme dell'«Arte Regia ermetica». Essa è
compendiata nella massima di Basilio Valentino: Visita interiora terrae, rectificando
invenies occultum lapidem (4) oppure nella Tabula smaragdina attribuita da
moderni arabisti al pitagorico Apollonio Tianeo. Secondo invece la concezione
massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra
la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e
perfezionare; e in questo modo all'ascesi spirituale del singolo si sostituisce
la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed
un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine
vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell'individuo, viene
posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato.
La concezione tradizionalmente corretta è sicuramente la prima, e nella
letteratura massonica di due secoli fa ebbero grande voga esagerati e
fantasiosi avvicinamenti ed identificazioni dei misteri eleusini e massonici.
Senza ombra di dubbio il patrimonio ritualistico e simbolico dell'Ordine
muratorio è in armonia soltanto con la concezione più antica del fine della
massoneria; infatti il testamento dell'iniziando, i viaggi simbolici, le
terribili prove, la nascita alla luce iniziatica, la morte e resurrezione di
Hiram, non si capisce quale relazione possano avere coi lavori massonici e con
lo scopo della Massoneria se tutto si deve ridurre a fare della politica.
Storicamente l'interessamento e l'intervento della Massoneria nelle questioni
politiche e sociali si manifesta solo verso il 1730 e solo in alcune regioni
europee col trapiantamento della Massoneria inglese nel continente. Quel poco
che si conosce delle antiche loggie muratorie prima del 1600, mostra la
presenza e l'uso nei lavori massonici di un simbolismo di mestiere,
architettonico, geometrico, numerico; il quale per sua natura ha un carattere
universale, non è legato ad una civiltà determinata e neppure ad una lingua
particolare, ed è indipendente da ogni credenza di ordine politico e religioso.
Per questa ragione il massone, secondo il rituale, non sa né leggere né
scrivere. . Un elemento ebraico compare nella leggenda di Hiram e della
costruzione del Tempio, e le parole sacre del novizio e del compagno (i soli
gradi allora esistenti) che si riferiscono a questa leg(2) The Grand Mystery of
Free-masons discovered wherein are the several questions put to them at their
Meetings and installation, London 1724. (3) VERGILIUS, Bucolicon, Eglo VIII:
Numero impari Deus gaudet. (4) Le iniziali di questa massima formano la parola
vitriol, il solvente universale degli alchimisti, detto ancor oggi acqua
regia. 3 A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica
massonica - Premesse genda sono ebraiche. Questa leggenda non fa parte
del patrimonio tradizionale dell'Ordine; la morte di Hiram non figura negli antichi
manoscritti massonici, e le costituzioni dell'Anderson ignorano il terzo grado.
Comunque la presenza di elementi e parole ebraiche non deve stupire in un tempo
in cui l'ebraico era considerato una lingua sacra, anzi la lingua sacra in cui
Dio aveva parlato all'uomo nel Paradiso terrestre; è una presenza di cui non va
esagerata l'importanza ed il significato, e che non basta certo a giustificare
l'asserzione del carattere ebraico della Massoneria. La lettera G dell'alfabeto
greco-latino, iniziale di geometria e dell'inglese God, che compare talora
nella Stella Fiammeggiante o nel Delta massonico, sembra che sia una
innovazione (senza utilità per chi non sa né leggere né scrivere), mentre quei
due simboli fondamentali dell'Ordine non sono altro che i due più importanti
simboli del pitagoreismo: il pentalfa o pentagramma e la tetractis pitagorica.
L'arte muratoria od arte reale od arte regia, termine di cui fa uso il filosofo
neoplatonico Massimo di Tiro (5), era identificata con la geometria, una delle
scienze del quadrivio pitagorico, e non si capisce come Oswald Wirth, il dotto
massone ed ermetista, possa scrivere che i Massoni del XVII secolo (6) hanno
potuto proclamarsi adepti dell'Arte reale perché dei re si interessarono un
tempo all'opera delle corporazioni costruttive privilegiate del Medio Evo. Gli
elementi di carattere muratorio puro costituiscono, insieme al simbolismo
numerico e geometrico, il patrimonio simbolico e ritualistico arcaico e genuino
della fratellanza. Non diciamo patrimonio caratteristico perché questi elementi
compaiono, almeno parzialmente, anche nel compagnonnage, del resto assai affine
alla Massoneria. In seguito, tra il 1600 ed il 1700, quando le loggie inglesi
principiano ad accettare come fratelli anche gli accepted masons, vale a dire
anche persone che non esercitano la professione di architetto od il mestiere di
muratore, compaiono anche elementi ermetici e rosacroce, ad esempio Elia
Ashmole, come mostra il Gould nella sua storia della Massoneria. Questo
contatto tra la tradizione ermetica e quella muratoria avviene anche fuori
dell'Inghilterra presso a poco nel medesimo tempo, il che naturalmente implica
l'esistenza nel continente di loggie massoniche non derivanti dalla Gran Loggia
d'Inghilterra. Il frontespizio di un importante testo di ermetismo edito nel
1618 (7) contiene accanto a simboli ermetici (il Rebis) anche i simboli
prettamente muratori della squadra e del compasso, ed altrettanto accade in un
libretto italiano di alchimia (8) impresso in lamine di piombo e che risale
presso a poco a quel periodo. In questo libretto è raffigurato, tra l'altro,
Tubalcain che tiene nelle mani una squadra ed un compasso. Ora Tubalcain è
nella Bibbia il primo fabbro; e per un errore etimologico allora accettato ed
assai diffuso, per esempio dall'erudito Vossio, venne identificato con Vulcano,
il fabbro degli Dei e Dio del fuoco, che secondo il concetto degli alchimisti
ed ermetisti presiedeva al fuoco ermetico (od ardore spirituale), fuoco il
quale compiva da solo la grande opera della trasmutazione. In un nostro lavoro
giovanile (9) abbiamo dato una errata interpretazione della parola di passo
Tubalcain, non conoscendo la errata identificazione di Vulcano con Tubalcain
accettata dagli ermetisti ed in generale dagli eruditi del seicento e del
settecento. Ci sembra oggi manifesto che questa parola ed altre parole di passo
traggano la loro derivazione dall'ermetismo, e riteniamo probabile che siano
state introdotte in massoneria e poste a lato delle parole sacre a
testimonianza del contatto stabilito tra le due tradizioni, la muratoria e
l'ermetica. Le parole di passo del 2° e 3° grado non esistono (5) MAXIME DE
TYR, Discours Philosophiques, trad. par FORMEY, Leida 1764. Disc. XI, pag. 173.
(6) Cfr. OSWALD WIRTH, Le Livre du Maître, 1923, pag. 7. (7) Si tratta della
Basilica Philosophica - JOHANNIS MYLII, Francof. 1618. (8) Cfr. PIETRO NEGRI,
Un codice plumbeo alchemico italiano, nella rivista UR, anno 1927, n.ri 9 e 10
[Nota del Curatore: “Pietro Negri” era lo pseudonimo impiegato dallo stesso
Reghini sulla rivista «UR»] (9) Cfr. ARTURO REGHINI, Le parole sacre e di passo
ed il massimo mistero massonico, Todi 1922. 4 A. Reghini - I Numeri
Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse nel rituale del
Prichard (1730). Ermetismo e Massoneria hanno per fine la «grande opera della
trasmutazione», e le due tradizioni trasmettono il segreto di un'arte, che
entrambe designano con il termine di arte regia, già usato da Massimo di Tiro.
Era quindi naturale che si riconoscessero mutuamente affini. Osserviamo come
l'adozione del simbolismo ermetico non avvenga a detrimento della universalità
massonica e della sua indipendenza dalla religione e dalla politica, perché
anche il simbolismo ermetico od alchemico è per sua natura estraneo ad ogni credenza
religiosa o politica. L'arte massonica e l'arte ermetica, detta anche
semplicemente l'arte, è un'arte e non una dottrina od una confessione. Sino al
1717 ogni loggia massonica era libera ed autonoma; i fratelli di una officina
erano ricevuti come visitatori nelle altre purché sapessero rispondere alla
tegolatura, ma ogni maestro Venerabile era l'autorità unica e suprema per i
fratelli di una officina. Nel 1717 si ebbe un mutamento con la costituzione
della prima Grande Loggia, la Grande Loggia di Londra, e poco dopo venivano
compilate per opera del pastore protestante Anderson le Costituzioni massoniche
per le Loggie all'Obbedienza della Gran Loggia di Londra; e, sebbene
teoricamente un'officina potesse e possa mantenere la propria autonomia o mettersi
all'Obbedienza di una Gran Loggia (10), nella pratica vengono oggi considerate
loggie regolari quelle che direttamente od indirettamente sono emanazione e
derivazione della Gran Loggia di Londra, supponendo che questa derivazione e
soltanto essa possa conferire la «regolarità». Ora è molto importante notare
che le Costituzioni dell'Anderson affermano esplicitamente che per essere
iniziato ed appartenere alla Massoneria si richiede solo di essere un uomo
libero e di buoni costumi, ed esaltando (a differenza delle varie sette
cristiane) il principio della tolleranza reciproca di ogni fratello per le
altrui credenze, aggiungendo solo che un massone non sarà mai uno «stupido
ateo». Taluno potrà forse pensare che l'Anderson ammetta che il massone possa
essere un ateo intelligente, ma è più verosimile che l'Anderson da buon
cristiano ammetta che un ateo è necessariamente uno stupido, seguendo la
massima che dice: Dixit stultus in corde suo: Non est Deus. Bisognerebbe qui
fare una digressione ed osservare che in questa disputa tanto chi afferma
quanto chi nega non ha in generale nozione alcuna di quanto afferma esistere o
no, e che la parola Dio viene adoperata di solito con un senso talmente
indeterminato da rendere vana qualunque discussione. Comunque le Costituzioni
della Massoneria sono esplicitamente teistiche; e quei profani che accusano la
Massoneria di ateismo sono in mala fede od ignorano che essa lavora alla gloria
del Grande Architetto dell'Universo; ed osserviamo ancora che questa
designazione oltre ad essere in armonia col carattere del simbolismo muratorio
ha un significato preciso ed intelligibile a differenza di altre designazioni
vaghe o prive di senso come quella di «Nostro Signore», di «Padre di tutti gli
uomini» ecc. Maggiore interesse offre il requisito di uomo libero fatto al
profano per iniziarlo ed al massone per considerarlo fratello. L'Anderson non
fa che continuare a chiamare liberi Muratori i FreeMasons, e resta solo da
esaminare in che cosa consista questa freedom dei Free masons. Si tratta solo
di franchigia economica e sociale che esclude gli schiavi o servi e delle
franchigie e dei privilegi di cui godeva la corporazione dei liberi muratori
rispetto ai governi degli stati e delle varie regioni in cui essa svolgeva la
sua attività? Oppure questo appellativo di liberi muratori va inteso anche in
altro senso di non schiavo dei pregiudizii e delle credenze che non era il caso
di ostentare? Se cosi fosse sarebbe vano cercarne le prove documentate, e la
questione resterebbe indecisa. Pure è possibile dire qualche cosa in proposito
grazie ad un documento del 1509 la cui esistenza od importanza sembra non sia
stata finora avvertita, (10) O. WIRTH esprime categoricamente questa opinione
(Livre du Maître, p. 189). 5 A. Reghini - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse Si tratta di una lettera
scritta il 4 febbraio 1509 ad Enrico Cornelio Agrippa da un suo amico italiano,
certo Landolfo, per raccomandargli un iniziando. Scrive Landolfo (11): «E' un
tedesco come te, originario di Norimberga, ma abita a Lione. Curioso indagatore
degli arcani della natura, ed uomo libero, completamente indipendente del
resto, vuole sulla reputazione che tu hai già, esplorare anche lui il tuo
abisso... Lancialo dunque per provarlo nello spazio; e portato sulle ali di
Mercurio vola dalle regioni dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo
scettro di Giove; e se questo neofita vuole giurare i nostri statuti, associalo
alla nostra confraternita». Si tratta di una associazione segreta ermetica
fondata da Agrippa ed è manifesta l'analogia tra questa prova dello spazio da
fare affrontare all'iniziando e le terribili prove ed i viaggi simbolici della
iniziazione massonica, sebbene qui la prova si effettui sulle ali di Ermete;
Ermete psicopompo, il padre dei filosofi secondo la tradizione ermetica, è la
guida delle anime nell'al di là classico e nei misteri iniziatici. Anche qui
compare la qualifica di uomo libero, sufficiente ad aprire le porte a chi bussa
profanamente alla porta del tempio; anche qui compare in sostanza il principio
della libertà di coscienza e conseguentemente della tolleranza; le due
tradizioni parallele muratoria ed ermetica pongono la stessa unica condizione
al profano da iniziare: quella di essere un uomo libero; e ne deriva che
presumibilmente essa non si riferiva alle franchigie particolari delle
corporazioni di mestiere, che sarebbe stato del resto fuori di luogo pretendere
dagli accepted Masons che non erano muratori di mestiere ma liberi muratori. Il
carattere fondamentale delle Costituzioni massoniche dell'Anderson sta adunque
nel principio della libertà di coscienza e della tolleranza, che rende
possibile anche ai non cristiani di appartenere all'Ordine. Nelle Costituzioni
dell'Anderson la Massoneria conserva il suo carattere universale, non è
subordinata ad alcuna credenza filosofica particolare né ad alcuna setta
religiosa, e non manifesta alcuna tendenza a lavori di ordine sociale e
politico; può darsi che questo carattere aconfessionaJe e libero inspirasse
anche la Massoneria anteriore al 1717 e che l'Anderson non abbia fatto altro
che sancirlo nelle Costituzioni. Trapiantandosi in America e nel continente
europeo la Massoneria conserva in generale questo suo carattere universale di
tolleranza religiosa e filosofica e resta aliena da ogni partecipazione ai
movimenti politici e sociali, talora accentuando, come in Germania, il suo
interesse per l'ermetismo. Sorgono per altro a partire circa dal 1740 i nuovi
riti e gli alti gradi, i quali però hanno cura di mantenere intatti il rito ed
i rituali dei primi tre gradi, ossia della vera e propria massoneria detta
anche massoneria simbolica od azzurra. I rituali di questi alti gradi sono
talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai
Rosacroce, all'ermetismo, ai Templari, allo gnosticismo, ai catari..., vale a
dire non hanno un vero e proprio carattere massonico, e dal punto di vista
della iniziazione massonica sono assolutamente superflui. La massoneria sta
tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base
degli alti gradi e delle camere superiori dei varii riti. Il compagno libero
muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente terminato la sua grande
opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche funzione veramente massonica
soltanto se contribuissero alla corretta interpretazione della tradizione
muratoria ed a una più intelligente comprensione ed applicazione del rito ossia
dell'arte regia. Naturalmente questo non significa che si debbano abolire gli
alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli
di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere lavori non in
contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo. Però dal
punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed
a camere superiori non li pone in alcun (11) ENRICO CORNELIO AGRIPPA, Epistol.
Cfr. anche la monografia di ARTURO REGHINI premessa alla versione italiana
della Filosofia Occulta di Agrippa. 6 A. Reghini - I Numeri Sacri
nella tradizione pitagorica massonica - Premesse modo al di sopra di quei
maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale
massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come
quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello
di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono
solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di
snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per
imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi,
sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la
lettera delle Costituzioni della Fratellanza. La prima alterazione appare in
Francia, simultaneamente alla fioritura degli alti gradi. Il fermento degli
spiriti in cotesto periodo, il movimento dell'Enciclopedia, si ripercuotono
nella Massoneria, che si diffonde largamente e rapidamente; ed accade cosi per
la prima volta che l'interesse dell'Ordine si dirige e si concentra nelle
questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata
opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che
la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse,
l'influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e
culminò poi nell'impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in
seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni
politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la
tradizione massonica, sebbene sia tutt'al più la tradizione massonica francese,
ben distinta dalla antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è
la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la
massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata
la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della
conseguente disunione e debolezza della Massoneria di fronte agli attacchi ed
alla persecuzione fascista e gesuitica. Comunque anche i fratelli che seguono
questa tradizione massonica francese non hanno dimenticato il principio della
tolleranza, e nelle loggie massoniche italiane, anche prima della persecuzione
fascista, si trovavano fratelli di ogni fede politica e religiosa, compresi i
cattolici ed i monarchici. Va anche ricordato che nel periodo di poco
precedente lo scoppio della rivoluzione francese non tutti i massoni
dimenticarono la vera natura della Massoneria, sebbene disorientati dalla
pleiade di riti diversi e contrastanti; e si tenne il Convento dei Filaleti
allo scopo di rintracciare quale fosse la vera tradizione massonica, ossia, la
vera parola di maestro che, secondo la stessa leggenda di Hiram, era andata
perduta. Al Convento dei Filaleti convennero massoni di ogni rito, tutti
desiderosi di ristabilire l'unità. Il solo Cagliostro, che aveva fondato il
rito della Massoneria Egiziana in soli tre gradi, dedito esclusivamente
all'opera della edificazione spirituale, rifiutava di partecipare al Convento
dei Filaleti per ragioni che sarebbe lungo esporre. L'influenza massonica
francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l'impero, anche in Italia;
la presenza anche oggi di alcuni termini tecnici nei «travagli» massonici come
il «maglietto» del Venerabile, versione poco felice del maillet ossia del
martello, ne fa testimonianza (12)12. La massoneria francese e quella italiana
ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme
talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e
positivista seguendo la voga filosofica del tempo. Non si può dire per altro
che la massoneria divenne in Italia una massoneria materialista, perché non
soltanto fu sempre tollerante di tutte le opinioni, ma venerò in modo speciale
la grande anima di Giuseppe Mazzini; ed i grandi massoni italiani come
Garibaldi, Bovio, Carducci, Filopanti, Pascoli, Domizio Torrigiani e Giovanni
Amendola furono tutti idealisti e spiritualisti. Era riserbata alla teppa
fascista la selvaggia furia di devastazione dei (12) Cosi pure pietra polita
invece di pietra levigata dal francese pierre polie; lupetto ed anche lupicino
che è una versione di louveton, a sua volta trasformazione fonetica e semantica
da Lufton, figlio di Gabaon, nome generico del massone secondo i primitivi
rituali inglesi e francesi. 7 A. Reghini - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse nostri templi, delle nostre
biblioteche ed il vandalismo che fece a pezzi i ritratti ed i busti dei grandi
spiritualisti come Mazzini e Garibaldi che decoravano le nostre sedi. D'altra
parte bisogna riconoscere che, se la massoneria anglosassone ha sempre
mantenuto il carattere spiritualista e non ha mai pensato a dichiarare la
inesistenza del Grande Architetto dell'Universo, essa è stata spesso incline, e
lo è ancora, a conferire un colorito cristiano al suo spiritualismo,
allontanandosi dallo spirito di assoluta imparzialità ed aconfessionalità delle
Costituzioni dell'Anderson. Non si può negare che l'imporre il giuramento sul
Vangelo di San Giovanni sia una manifestazione non troppo tollerante rispetto a
quei profani ed a quei fratelli che, essendo agnostici, o pagani, od ebrei o
liberi pensatori, non sentono particolare simpatia per il Vangelo di San
Giovanni e non sanno nulla della tradizione gioannita. L'intolleranza si
accentua con l'andazzo di infliggere la lettura ed il commento di versetti del
Vangelo durante i lavori di Loggia. Questo mal vezzo, qualora si affermasse,
ridurrebbe i lavori di Loggia al livello di un service di una chiesa quacchera
o puritana, ad una specie di rosario e vespro fastidioso, inconcludente, e
ripugnante alla libera coscienza dei moltissimi fratelli i quali, anche in
Inghilterra, ed in America, non solo non vanno alla messa, e non accettano
l'infallibilità del Papa, ma non accettano più neppure l'autorità della Bibbia.
Vale la pena di provocare il disagio e l'insofferenza tra le colonne senza
sensibile compenso? Si crede proprio con simili mezzi di convertire gli altri
alla propria credenza, e di arginare la potente ondata dell'agnosticismo
inglese ed americano? Queste considerazioni inducono a mantenere alla
Massoneria il suo carattere universale al di sopra di ogni credenza religiosa e
filosofica e di ogni fede politica. Il che non vuol dire che si debba fare
astrazione dalla politica. Occorre infatti difendersi. L'intolleranza non può
lasciare prosperare la tolleranza; e la tolleranza tutto può tollerare salvo
l'intolleranza dichiaratamente ostile. Appena comparvero le Costituzioni
dell'Anderson col loro principio della libertà e della tolleranza la Chiesa
cattolica scomunicò la Massoneria rea appunto di tolleranza; e l'accanimento
contro la Massoneria non si è mai più smentito. In Italia la persecuzione
contro la Massoneria in questo ultimo ventennio è stata iniziata e sostenuta
dai gesuiti e dai nazionalisti (13); ed i fascisti per ingraziarsi questi
messeri non esitarono a provocare l'avversione del mondo civile contro l'Italia
con le loro gesta vandaliche contro la massoneria. I gesuiti hanno perduto
questa guerra; ma la peste dell'intolleranza non è finita, anzi si affaccia
sotto nuove forme e ne segue la necessità di prevenirla. D'altra parte giunge
l'ora, se non erriamo, di spargere la Massoneria sopra tutta la superficie
della terra e di stabilire una fratellanza tra gli uomini di tutte le razze,
civiltà e religioni; e per assolvere questo compito è necessario che la
Massoneria non abbia una fisionomia ed un colorito che appartiene solo alla
minoranza dell'umanità a cui le grandi civiltà orientali, tutta la Cina, tutta
l'India, il Giappone, la Malesia, il mondo dell'Islam si sono dimostrati
refrattarii. La cosa è possibile sin tanto che la Massoneria non si circoscrive
in una qualunque credenza e resta fedele al suo patrimonio spirituale che non
consiste in una fede codificata, in un credo religioso o filosofico, in un
complesso di postulati o pregiudizii ideologici e moralistici, in un bagaglio
dottrinale in cui si creda contenuta ed espressa la verità cui convertire i
miscredenti. Bisogna pensare che, anche se esiste la vera religione o la vera
filosofia, è una illusione il credere di poterla conquistare o comunicare con
una conversione o con una confessione od una recitazione di formule
determinate, perché ognuno intende le parole di questi credi e formule a modo
suo, conforme alla sua cultura ed intelligenza: ed in fondo esse non sono, come
diceva Amleto, che words, words, words. Fin tanto che non ci si ragiona sopra,
permane l'illusione di comprendere queste parole nello stesso modo; appena si
comincia a ragionare, sor(13) Cfr. gli art. di EMILIO BODRERO nell'organo della
Compagnia di Gesù, la Civiltà cattolica, ed il giornale Roma Fascista; cfr.
et.: Ignis e Rassegna Mass., annata 1925. 8 A. Reghini - I Numeri
Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse gono le sette e le
eresie, ciascuna persuasa di possedere la verità. La sapienza non può essere
razionalmente intesa, espressa e comunicata; essa è una visione, una vidya,
essenzialmente e necessariamente indeterminata, incerta; e, aprendo gli occhi
alla luce con la nascita alla nuova vita, ci si avvia a questa visione. L'arte
muratoria od arte regia è l'arte di lavorare la pietra grezza in modo da
rendere possibile la trasmutazione umana e la graduale percezione della luce
iniziatica. Il che non significa naturalmente che la Massoneria abbia il
monopolio dell'arte regia. Durante questi ultimi due secoli la grande
maggioranza dei nemici della massoneria ha fatto sistematicamente ed unicamente
ricorso soltanto all'ingiuria ed alla calunnia facendo leva sui sentimenti
moralistici e patriottici. Si è affermato che i lavori massonici consistono in
orgie abbominevoli, svisando a questo scopo i rituali, si sono svelate le cerimonie
massoniche ponendole in ridicolo, si è accusato i massoni di tradire la loro
patria a causa del carattere internazionale dell'Ordine, si è affermato che la
Massoneria non è altro che uno strumento degli Ebrei, sempre mirando ad
ingannare ed aizzare i fedeli credenti ed il grosso pubblico contro la «Società
Segreta». I massoni naturalmente sapevano bene che non si trattava che di
calunnie; e, non potendoli persuadere, si è pensato a sopprimerli od a togliere
ad essi la possibilità di adunarsi, di lavorare, di rispondere e di difendersi.
Recentemente uno scrittore cattolico (14) ha pubblicato uno studio storico
sopra «la Tradizione Segreta» condotto con competenza ed abilità, ed in cui le
contumelie e le solite calunnie dirette a fare presa sull'animo dei profani
sono state sostituite da una critica insidiosa diretta a fare presa sul lettore
colto ed anche sull'animo dei fratelli. Questa critica afferma che nel fondo
della tradizione segreta è contenuto il vuoto assoluto (pag. 139) e conclude
con l'affermare che «la Scuola Iniziatica o per essa la Tradizione Segreta, non
ha insegnato assolutamente nulla all'umanità» (pag. 155). Veramente non si
capisce bene come si possa allora anche affermare che questo vuoto assoluto,
«questa tradizione segreta coincide (pag. 141), se pure spesso in forma
corrotta, con le dottrine gnostiche», ma non pretendiamo troppo. La Massoneria
è dunque, secondo l'autore, una sfinge senza segreto perché non insegna alcuna
dottrina, ed il lettore è così portato a concludere che essendo priva di
contenuto la Massoneria non val niente. In quanto precede noi abbiamo mostrato
che la Massoneria non insegua alcuna dottrina e non deve insegnarne; e che
questo è un merito e non un demerito della Massoneria. Per concludere poi che,
non contenendo una dottrina, la Tradizione segreta contiene il vuoto assoluto
bisogna credere che soltanto una dottrina possa occupare il vuoto. Afferma
ancora (pag. 153) il Del Castillo che «il sistema iniziatico suppone che l'uomo
possa arrivare a capire con lo sforzo del cervello i problemi insoluti del
cosmo e dell'al di là»; e che la «Chiesa cattolica (pag. 156) oppone alle vane
elucubrazioni dei così detti iniziati la forza intangibile del suo dogma che
deve essere unico perché non possono esistere due verità»; e che il sistema
iniziatico (pag. 152) è incompatibile can il cristianesimo. A queste e simili
affermazioni rispondiamo che ignoriamo la esistenza di un sistema iniziatico,
che non conosciamo iniziati che facciano delle supposizioni, e tanto meno che
si illudano di potere capire col solo cervello e con elucubrazioni di problemi
insoluti: ma non ci è possibile ammettere che la fede in un dogma costituisca
una conoscenza perché sapere non è credere. Anzi noi comprendiamo che la verità
è necessariamente ineffabile ed indefinibile, e lasciamo ai profani l'ingenua e
consolante illusione che sia possibile una qualsiasi formulazione della verità
e della conoscenza in credi, formule, dottrine, sistemi e teorie. Anche Gesù,
del resto, sapeva che le sue parabole non erano che delle parabole, ma diceva
anche ai suoi discepoli che ad essi «era dato intendere il mistero del regno
dei cieli». Evidentemente sola fides sufficit ad firmandum cor sincerum, ma non
sufficit per intendere i misteri. Lo stesso dicasi naturalmente per il solo
raziocinio. E con questo (14) Cfr. RAFFAELE DEL CASTILLO, La tradizione
segreta, Milano, Bompiani, 1941. 9 A. Reghini - I Numeri Sacri
nella tradizione pitagorica massonica - Premesse non intendiamo menomare
il valore della fede e del raziocinio; la sola fede conduce al fanatismo
ignorante, il solo raziocinio conduce alla disperazione filosofica; sono un po'
come il tabacco ed il caffè: due veleni che si compensano; ma naturalmente non
basta fumare la pipa e centellinare il caffè per assurgere alla conoscenza.
Alla conoscenza multi vocati sunt, non tutti; e, tra questi molti, pauci electi
sunt; secondo la Chiesa cattolica invece basta la fede nel Dogma, e conoscenza
e paradiso sono alla portata di tutte le borse a prezzi di vera concorrenza. Riassumendo:
Non esiste una dottrina segreta massonica (15); ma esiste un'arte segreta,
detta arte reale, od arte regia o semplicemente l'Arte; è l'arte della
edificazione spirituale cui corrisponde l'architettura sacra. Gli strumenti
muratorii hanno perciò un senso figurato nell'opera della trasmutazione; ed al
segreto dell'arte regia corrisponde il segreto architettonico dei costruttori
delle grandi cattedrali medioevali. E' naturale che i liberi muratori venerino
il Grande Architetto dell'Universo, anche se non si definisce cosa si debba
intendere con questa formola. Nell'architettura antica, specialmente in quella
sacra, avevano grande importanza le questioni di rapporto e di proporzione;
l'architettura classica regolava la proporzione delle varie parti di un
edificio, ed in particolare dei templi, basandosi sopra un modulo segreto cui
accenna Vitruvio; sopra l'architettura egiziana e specialmente sopra la
Piramide di Cheope esiste tutta una letteratura che ne mostra il carattere
matematico; ed, anche procedendo con molto scetticismo, è certo ad esempio che
tale piramide si trova esattamente alla latitudine di 30° in modo da formare
col centro della terra e col polo Nord un triangolo equilatero, è certo che
essa è perfettamente orientata e che la faccia rivolta a settentrione è
esattamente perpendicolare all'asse di rotazione terrestre, anzi alla posizione
di questo asse al tempo della sua costruzione. Ed anche i costruttori
medioevali non erano guidati da criterii puramente estetici, e si preoccupavano
dell'orientazione della chiesa, del numero delle navate ecc.; e l'arte dei
costruttori era posta in connessione con la scienza della geometria. La squadra
ed il compasso sono i due simboli fondamentali di mestiere dell'arte muratoria;
e la riga ed il compasso sono i due strumenti fondamentali per la geometria
elementare. La Bibbia afferma che Iddio ha fatto omnia in numero, pondere et
mensura; i pitagorici hanno coniato la parola cosmo per indicare la bellezza
del cosmo in cui riconoscevano una unità, un ordine, un'armonia, una
proporzione; e tra le quattro scienze liberali del quadrivio pitagorico, cioè
l'aritmetica, la geometria, la musica e la sferica, la prima stava alla base di
tutte le altre. Dante compara il cielo del Sole all'aritmetica perché «come del
lume del Sole tutte le stelle si alluminano, cosi del lume dell'aritmetica
tutte le scienze si alluminano, e perché come l'occhio non può mirare il sole
così l'occhio dell'intelletto non può mirare il numero che è infinito» (16).
Lasciando da parte ogni critica di questo passo resta stabilita la posizione
occupata secondo Dante dalla Aritmetica. Tanto la Bibbia quanto l'architettura
portavano alla considerazione dei numeri. Oggi, anche rifiutando di riconoscere
nel cosmo un'unità, un ordine, un'armonia, una legge ed accettando solo un
determinismo limitato dalla legge di probabilità la fisica moderna si riduce
sempre alla considerazione di numeri e rapporti numerici; anzi non restano
altro che quelli, e tanto Einstein quanto Bertrand Russel hanno constatato e riconosciuto
il ritorno della scienza moderna al pitagoreismo. (15) La stessa cosa era già
stata detta dal WIRTH nel 1941: «Comme la méthode initiatique se refuse à
inculquer qui que ce soit, il n'est guère admissible qu'une doctrine positive
ait été enseignée au sein des Mystères» (Le livre du Maître, 119). Il DEL
CASTILLO invece sostiene senza alcuna prova che la Massoneria ha preteso
insegnare una tale dottrina segreta, constata che di questa dottrina positiva
non si trova traccia, ed invece di riconoscere che la sua personale asserzione
non ha fondamento, accusa la Massoneria di millantato credito e di incapacità.
O Vos qui cum Jesu itis, non ite cum Jesuitis. (16) DANTE, Conv. II, 14.
10 A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica -
Premesse Non stupisce quindi che i liberi muratori identificassero l'arte
architettonica con la scienza della geometria e dessero alla conoscenza dei
numeri tale importanza da giustificare la loro pretesa tradizionale di essere i
soli ad avere conoscenza dei «numeri sacri». Dobbiamo per altro fare ancora
alcune osservazioni. La geometria nella sua parte metrica, ossia nelle misure,
richiede la conoscenza dell'aritmetica; inoltre l'accezione della parola
geometria era anticamente più generica che ora non sia, e geometria indicava
genericamente tutta la matematica; di modo che la identificazione dell'arte
reale con la geometria, tradizionale in Massoneria, si riferisce non alla sola
geometria intesa nel senso moderno, ma anche alla aritmetica. In secondo luogo
dobbiamo osservare che questa relazione fra la geometria e l'arte regia
dell'architettura e della edificazione spirituale è la stessa che inspira la
massima platonica: «Nessun ignaro della geometria entri sotto il mio tetto».
Questa massima è di attribuzione un po’ dubbia perché è riportata solo da un
tardo commentatore: ma in opere che indiscutibilmente appartengono a Platone
leggiamo essere «la geometria un metodo per dirigere l'anima verso l'essere
eterno; una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere
le attività dell'anima verso le cose sovrumane», essere «perfino impossibile
arrivare ad una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'astronomia
e l'intimo legame di quest'ultima con la musica» (17). Questa concezione ed
attitudine di Platone è la medesima che si ritrova nella scuola Italica o
pitagorica che esercitò sopra Platone grandissima influenza, di modo che anche
volendo sostenere che la Massoneria si sia inspirata a Platone, si è sempre in
ultima analisi ricondotti alla geometria ed all'aritmetica dei pitagorici. Il
legame tra la Massoneria e l'Ordine pitagorico, anche se non si tratta di
ininterrotta derivazione storica, ma soltanto di filiazione spirituale, è certo
e manifesto. L'Arciprete Domenico Angherà nella prefazione del 1874 alla
ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito
Scozzese Antico ed Accettato, già pubblicati in Napoli nel 1820, afferma
categoricamente che l'Ordine massonico è la stessa, stessissima cosa dell'Ordine
pitagorico; ma anche senza spingersi tanto oltre l'affinità tra i due ordini è
sicura. In particolare l'arte geometrica della Massoneria deriva, direttamente
od indirettamente, dalla geometria ed aritmetica pitagoriche; e non più in là,
perché i pitagorici furono i creatori di queste scienze liberali, a quanto
risulta storicamente e secondo la attestazione di Proclo. Ad eccezione di
alcune poche proprietà geometriche attribuite, probabilmente a torto, a Talete,
la geometria, dice il Tannery, scaturisce completa dal genio di Pitagora come
Minerva balza armata di tutto punto dal cervello di Giove; ed i pitagorici sono
stati i primi ad iniziare lo studio dell'aritmetica e dei numeri. Per studiare
le proprietà dei numeri sacri ai Liberi Muratori e la loro funzione in
Massoneria, la via che si presenta spontaneamente è dunque quella di studiare
l'antica aritmetica pitagorica; e di studiarla sia dal punto di vista
aritmetico ordinario, sia dal punto di vista dell'aritmetica simbolica od
aritmetica formale, come la chiama Pico della Mirandola, corrispondente al
compito filosofico e spirituale assegnato da Platone alla geometria. I due
sensi si trovano strettamente connessi nello sviluppo dell'aritmetica
pitagorica. La comprensione dei numeri pitagorici faciliterà la comprensione
dei numeri sacri alla massoneria. (17) GINO LORIA, Le scienze esatte
nell'antica Grecia, 2a ed., Milano, Hoepli 1914, pag. 110. 11 A.
Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La
Tetractis pitagorica ed il Delta massonico CAPITOLO I La Tetractis
pitagorica ed il Delta massonico No, io lo giuro per colui che ha trasmesso
alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice
dell'eterna natura. Detti aurei. Riesumare e restituire l'antica
aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono
rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed
affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la
esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione.
Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filologico, ci atterremo
soltanto a quanto resulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è
soltanto nostra opinione o resultato del nostro lavoro. La bibliografia
pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione
delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni
che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe
stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica;
secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbiamo per
certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo
Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo
dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di
Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotile chiamava
scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria.
Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu
Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale,
e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce
armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora
od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia
scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne
avrebbe ostacolato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del
segreto che i pitagorici mantenevano, sopra i loro insegnamenti, o parte almeno
di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur
la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica
delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre
cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione
ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono
di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono
materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale.
Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di
Aristotile e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarentino Archita,
uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno
storico del pitagoreismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente
l'influenza del pitagoreismo e 12 A. Reghini - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta
massonico possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non
appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè
Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neopitagorici nei primi
secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco
di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la
fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto
questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al
Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la
philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di
Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic
of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista
inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neopitagorico; e tra gli
storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia,
Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck
Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo
numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo
dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non
accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava
l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo
metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così
semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità.
In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione,
la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre
operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità,
ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione
permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per
ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere
già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di
unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od
una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del
dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua
rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua
riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità,
bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il
suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che
la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione
tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi
è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una
illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I
pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o
separava da sé stessa, che si scindeva in due: ed indicavano questa
differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la
matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio, l' di
tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa resistenza di
un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e
tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o
raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici
l'unità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti.
L'unità era rappresentata dal punto ( = segno) od anche, quando venne in uso il
sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva
per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione
dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento
di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere
successivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti
allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che
si può ottenere soltanto come addizione di due unità, 13 A. Reghini - I
Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis
pitagorica ed il Delta massonico tutti i numeri interi possono essere
considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cinque è 5 = 1 + 1 +
1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di
questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non
era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari.
Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari
(1), ed Aristotile (2) parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a
sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre
tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di
parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati
come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di
due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro simiglianza col paio,
così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre
gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due
addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di
proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei
numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari
hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi
sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo (epipedo) in cui un lato
contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo
carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade
che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a
sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica:
esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due
parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come
noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può
dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia
in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath (3) questa distinzione tra
pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a
credere; ed il Reidemeister (4) dice che la teoria del pari e del dispari è
pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei
pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero
impari, dice Virgilio, Deus gaudet. La tradizione massonica si conforma a
questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come
risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei
gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una
distinzione, una polarità, si ha una analogia con la coppia del pari e del
dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il
dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il
destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre,
ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione
superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre
alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di
un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è
il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è
l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così
con la trinità la manifestazione od epifania della monade nel mondo
superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo (5) osservò che il due ha un
carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché
ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade
che (1) PLATO, Parmenide, 143 d. (2) ARISTOTILE, Topiche, 2, 137. (3) HEATH, A
History of Greek Mathematics, I, 70. (4) E. REIDEMEISTER, Die arithmetic der
Griechen, 1939, pag. 21. (5) PROCLO, Comm. alla 20a proposizione di Euclide, e
cfr. TAYLOR, The Theoretic Arithmetic of Pythagoreans, 2a ed., Los Angeles
1924, pag. 176. 14 A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione
pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta
massonico sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si
ottiene il medesimo resultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della
somma e per il tre il prodotto dà di più, ossia, si ha: 1+1=2>1.1
; 2+2=4=2.2 ; 3+3=6 Grice: “Some of my Oxonian friends are
masonic, and some are Pythagorean!” Lorenzo Fazzini. Laurentis Maria Antonius. Fazzini.
Keywords: la matematica di Pitagora, Platone, aritmetica, geometria,
definizione di assioma, problema, lemma, numero, demonstrazione, ragione,
postulato, numero sacro, reghini – crotona, Taranto, aristosseno, meloponto
filolao crotone crotona -- ecc. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fazzini”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689413478/in/photolist-2mLKeCe-2mKBKN7-BK4WFZ-BK3k3B
Feliceto
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Grice e Ferdinando – la
masculinita, il maschio e la tarantella -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosofo. Grice:
“I like Ferdinando; for one he describes himself as a ‘philosophus,’ which is
good – second, he deals with ‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’
which is good, and third he follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini
“Socrate Salentino”, studia grammatica, poetica, greco e latino sotto Riccio,
intimo amico di Paolo e Aldo Manuzio. Si trasferì successivamente a Napoli dove
studia filosofia. Si laurea in filosofia. Ebbe dieci figli. Tra le saggi principali
del Ferdinando grande rilievo assumono i “Teoremi Filosofici”, dedicati alla
sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del
tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o
Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico
nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e
appassionata analisi della storia di Mesagne.
Dal punto di vista culturale, l'opera di riferimento per eccellenza del
Ferdinando è fuor di dubbio Centum Historiae, dedicata a Giulia Farnese,
Marchesa di Mesagne, di cui l'autore fu medico di fiducia, intimo amico e
compagno di viaggio, come quello che li condusse a Roma dove Epifanio conobbe
Cinzio Clemente, medico di Paolo V e fu contattato, per la sua fama, da noti
scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Marco Aurelio Severino, con cui
ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della
salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del
mignolo e si connette con la vena ulnare.
Profondo conoscitore dei classici e seguace non solo delle teorie di
Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da Mercuriale, Eustachio,
Falloppia e Fracastoro, attento alle tradizioni della sua terra, propose un nuovo
metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato, in una perfetta
sinergia tra lo studio teorico e la sua applicazione clinica. Per la sua grande
cultura e competenza fu richiesto non solo in tutta la provincia, ma anche a
Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i concittadini per la sua bontà d'animo, curava
anche senza compenso somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue
diagnosi si concentrava sull'importanza delle analisi del sangue valutandone
consistenza, opacità, densità e colore e riteneva centrale per la terapia
attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serviva non solo
di salassi, purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma preparava anche
dei farmaci di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili di erbe
mediche a seconda della terapia. Nella sua vita si occupò anche di due casi di
interesse neurologico e pediatrico, descritti nei particolari nelle Centum
Historiae, e nutre anche uno spiccato interesse nei confronti del tarantismo e
della musica come terapia “certissima”. Grazie alle sue opere, in cui
l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella storica, grazie ad
uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che mantenne con i
medici napoletani, fu uno dei più importanti intermediari fra la cultura medica
napoletana e quella di Terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto Ferdinando, si
sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere
venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo
morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la
“musico-terapia”somministrata al malato da vere e proprie orchestre composte da
violinisti, chitarristi e soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il
tamburello assume una funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché
scandisce il tempo modificando via via il ritmo del brano che, divenuto
frenetico, viene assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La
credenza vuole che il malato dopo essere stato morso dovesse espellere il
veleno scatenandosi a ritmo di musica, ma non di una qualunque. Il tema
musicale doveva essere scelto in base al colore della tarantola responsabile
del morso. Il primo documento che testimonia il legame tra musica e taranta è
il Sertum Papale de Venenis redatto, presumibilmente da Guglielmo di Marra da
Padova, nel primo anno del pontificato di Urbano V. Il secondo a documentare
per esperienza diretta questa connessione fu Ferdinando. Nelle sue Centum
Historiae analizza, tra gli altri, il caso di un suo giovane concittadino, tale
Pietro Simeone, pizzicato mentre dormiva di notte in un campo. Il medico
credette fermamente nella musica come terapia “certissima” criticando chi
sosteneva che il tarantismo non fosse necessariamente scatenato da un morso tanto
reale quanto velenoso. Inoltre, fu il primo a proporre come metodo di cura per
i tarantati morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri). Kircher riferisce nel suo Magnes un episodio
accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli
sospetti su quanto starebbe alla base di questa terapia. Come il veleno
stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua eccitazione
dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai creduto se non
l'avessi appreso per testimonianza dei Padri ricordati, che son degnissimi di
fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito fu tenuto un esperimento nel
palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri Padri, e d tutti i
cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto questo
ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta una
taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo
d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la
taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi,
allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la
bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle
zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il
tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il
ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella
circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i
suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo
anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò
per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la
cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti
il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici
citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le
diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano
vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle
saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata
dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo
esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla
cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto
terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita
proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum
Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste
Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De
coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu
tarantolae.” Ernesto De Martino La terra del rimorso,Milano,Est, Magnes sive de
arte magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da: Mario Marti e Domenico Urgesi, Epifanio
Ferdinando, medico e storico del Seicento. Atti del convegno di studi, Besa
Editrice, Nardò, Altre fonti: Atanasio
Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Ernesto De Martino, La
terra del rimorso, Est, Milano, M. Luisa Portulano Scoditti, A. Elio Distante,
Roberto Alfonsetti, Enzo Poci. Edizione Assessorato alla Cultura Città di
Mesagne, Mesagne, Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, M.
Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, La peste, traduzione italiana
del De peste aureus libellus, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio
Distante, Epifanio Ferdinando Le centum historiae e la medicina del suo tempo,
Città di MesagnM. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio
FerdinandoDe Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione italiana del De Vita
Proroganda seu juventute conservanda..., Napoli, M. Luisa Portulano Scoditti e
Amedeo Elio Distante,, Atti del XLI Congresso Nazionale della Società Italiana
Storia della Medicina, Mesagne. Grice: “Ferdinando says that tarantella proves
that the aspects of reason are not sufficient, since the dance is irrational –
Churchill liked it though and he thought his bronze of the male dancer in his
garde reminded him of his adventures in Southern Italy when he would dance nude
in the hills!” -- Epifanio Ferdinando. Ferdinando.
Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ferdinando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690423022/in/photolist-2mS22wB-2mRKf98-2mRFDHV-2mRjrN1-2mPMaQM-2mPsU62-2mPpmMv-2mNzeEc-2mN35cA-2mN8Hgb-2mMYDGZ-2mMLXtT-2mLQc9e-2mLGjg5-2mKR9ZM-2mKCdPg-2mKQqs3-2mKLP2r-2mKLYsa-2mKGVU3-2mKMqqn-2mKCQBD-2mKBsEN-2mPBcdN-2mKw3hq-2mKBwcu-2mKxnN1-2mKEJsY-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mHGgw3-F7umuM-Gz3rcP-Cntjci-o64NpB-nriWaK-nt38ne-no9vGL
Grice e Fergnani – il
gesto e la passione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice:
“I love Fergnani; especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to
them extravagant Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto
Banfi. Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”,
“Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia”
e “Nuova corrente”. Fu figura di spicco
nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács,
Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona);
“Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino, “Prassi di Gramsci”
(Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica
dell’esistere” Feltrinelli, Milano);
L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre,
Farina Editore, Milano, “Sartre sadico” (Farina Editore, Milano); “Esistire” (Farina
Editore, Milano); Kierkegaard (Farina Editore, Milano); “Il gesto e la
passione” Farina Editore, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina Editore, Milano. “L’Esistenzialismo” Farina Editore, Milano, “Sartre”
(Farina Editore, Milano); “Jaspers, Farina Editore, Milano); F. Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”,
Corriere della Sera. La lezione di
Franco Fergnani", in Materiali di Estetica,Massimo Recalcati, L'ora di
lezione, Einaudi, Torino, F. Papi. Fisiognomica
interpretazione del carattere di una persona sulla base del suo aspetto
esteriore Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai
cercando l'album di Franco Battiato, vedi Fisiognomica (album). La fisiognomica
o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica[1] che attraverso la
fisiognomia o fisiognomonia[2] pretende di dedurre i caratteri psicologici e
morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e
dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche
physis(natura) e gnosis (conoscenza). Fin dal XVI secoloquesta disciplina
godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università.
La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per
distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile
ma più generico.[3] Esempi di fisiognomica di criminali, secondo
Cesare Lombroso: "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli"
Tutto il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia
estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e
l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del
divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava
pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale. Descrizione Modifica Esistono due principali tipi
di fisiognomica: la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una
correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in particolare del
viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di credito
scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione
statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti
caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al
comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento
genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo
genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichitàModifica Riferimenti a
relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono
all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime
indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene
del V secolo a.C. dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di
quest'arte. I giovani che volevano entrare nella scuola
pitagoricadovevano dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica
(ephysiognomonei).[4] Il filosofo Aristotele, nel IV secolo a.C., si
riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie. Aristotele
stesso era d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di
Analitici primi(2.27): «È possibile inferire il carattere dalle
sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati
assieme da influenze naturali: dico 'naturali' perché se forse, apprendendo la
musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di
quelle influenze che sono per noi naturali; piuttosto faccio riferimento a
passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è
accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno
corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni
specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle
sembianze.» (Traduzione A. J. Jenkinson) Il primo trattato sistematico
sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il volumetto Physiognomica attribuito
ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola. È diviso in due
parti e quindi probabilmente in origine erano due lavori separati. La prima
sezione tratta soprattutto del comportamento umano sorvolando su quello degli
animali. La seconda sezione è incentrata sul comportamento animale dividendo il
regno animale in maschile e femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze
tra l'aspetto umano e il comportamento. Dopo Aristotele, i trattati più
importanti sono: Polemo di Laodicea, de Physiognomonia (II secolo a.C.),
in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica (IV secolo d.C.), in greco Anonimo
latino, de Physiognomonia (IV secolo d.C.) La fisiognomica moderna Modifica
Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra:
"profonda disperazione"; a destra: "collera mischiata con
paura") La fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto
umano in grado di rivelare peculiarità caratteriali, era piuttosto diffusa nel
Rinascimento ed è risaputo che Leonardo ne era appassionato, come pure
Michelangelo. «Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di
Michelangelo di scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai
"moti" e alle "apparenze" del corpo umano. Esso
evidentemente non si sarebbe fondato sui rapporti e sulla geometria, e nemmeno
sarebbe strato empirico come quello che avrebbe potuto scrivere Leonardo; i termini
"moti" ( che fa pensare alle "emozioni" oltre che ai
"movimenti") e "apparenze" fanno invece ritenere che
Michelangelo avrebbe insistito sugli effettipsicologici e visuali delle
funzioni del corpo.» (James Ackerman, L'architettura di Michelangelo,
Torino, 1968, p. 13) Il trattato di Pomponio Gaurico intitolato De Sculptura,
pubblicato a Firenze nel 1504, presenta questo tipo di conoscenza nei termini
seguenti: «La fisiognomica è un tipo di osservazione, grazie alla quale
dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell'animo.[...] Se
[gli occhi] saranno piuttosto grandi e con uno sguardo un po' umido,
mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose,
ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che
fosse Alessandro il Macedone. [...] Se vedrai un naso pieno, solido e tozzo,
come quello dei leoni e dei molossi, lo considererai segno di forza e
arroganza. [...] La fronte quadrata, che ha la lunghezza quanto l'altezza, è
indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza, animo
splendido» (Estratti citati da Michiaki Koshikawa, Individualità e
concetto. Note sulla ritrattistica del Cinquecento in: AA.VV., Rinascimento.
Capolavori dei musei italiani. Tokyo-Roma 2001(catalogo della mostra di Roma, Scuderie
Papali del Quirinale. 15.09.2001-06.01.2002), Milano,Skira, 2001, p. 41) Gli
studi di fisiognomica influenzarono artisti del Cinquecento - come Sofonisba
Anguissola (Fanciullo morso da un gambero) e Fede Galizia (Ritratto di Paolo
Morigia) - nell'interpretazione dell'emotività del soggetto ritratto. Il
principale esponente della fisiognomica pre-positivista è stato il pastore
svizzero Johann Kaspar Lavater (1741 - 1801) che fu amico, per un breve
periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu pubblicato per
la prima volta in tedesco nel 1772 e divenne subito popolare. Venne poi
tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti
principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli scritti
di Giambattista della Porta (1535 - 1615) e del fisico e filosofo inglese
Thomas Browne (1605 - 1682) del quale lesse e apprezzò Religio medici. In
questo lavoro Browne discute della possibilità di dedurre le qualità interne di
un individuo dall'aspetto esteriore del viso: «(...)nei tratti del nostro
volto è scolpito il ritratto della nostra anima (...).» (R.M., parte 2:2)
In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera
Christian Morals (1675circa): «Poiché il sopracciglio spesso dice il
vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le
inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della
fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni
simili. Su questo si basa la fisiognomica...» (C.M., Parte 2, sezione 9)
A Thomas Browne è accreditato l'uso della parola caricatura in inglese, sulla
quale si cercò di basare con fini illustrativi l'insegnamento della
fisiognomica. Browne possedeva alcuni scritti di Giambattista della Porta
tra cui Della celeste fisionomia[5][6] nel quale egli sosteneva che non sono
gli astri ma il temperamento ad influenzare sia l'aspetto che il carattere. In
De humana physiognomia (1586) [7][8][9][10] Porta usò delle xilografie di
animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I lavori di Porta
sono ben rappresentati nella libreria di Thomas Browne ed entrambi erano
sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in natura
come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative o firme
delle loro proprietà medicamentose. La popolarità della fisiognomica,
nonostante precursori come Marin Cureau de La Chambre nel XVII secolo, crebbe
soprattutto durante il XVIII e XIX secolo. Trovò in particolare nuovo vigore
negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano Cesare Lombroso, il
quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella criminologia forense e
nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la pena capitale come unica
soluzione contro la tendenza criminale innata e pertanto non educabile con la
sola pena detentiva. La fisiognomica influenzò anche altri campi al di
fuori della scienza, come molti romanzieri europei tra i quali Honoré de
Balzac; nel frattempo la 'Norwich connection' alla fisiognomica si sviluppò
attraverso gli scritti di Amelia Opie e del viaggiatore e linguista George
Borrow, inoltre fra molti romanzieri inglesi del XIX secolo si diffuse l'uso di
passaggi molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in
particolare Charles Dickens, Thomas Hardy e Charlotte Brontë. Nel XX
secolo questa dottrina è stata da più parti tirata in campo a supporto di
ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza. La frenologia era pure
considerata fisiognomica. Fu creata intorno al 1800 dai fisici tedeschi Franz
Joseph Gall e Johann Spurzheim e si diffuse nel corso del XIX secolo in Europa
e negli Stati Uniti. In sostanza la fisiognomica moderna subisce nel
tempo una serie di modificazioni strutturali che la specializzano in varie
discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi alla antropologia criminale di
Cesare Lombroso). Essa infatti è proporzionale alle conoscenze del periodo, ma
ancor più alle metodologie impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna,
si invade un campo vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche
di mirabolanti imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità
intellettive umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai
fratelli Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di
volontari indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un
monumento alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso
prove scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista
Dario David (La vera storia del cranio di Pulcinella: le ragioni di Lombroso e
le verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il
piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto
umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo
dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti
indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia,
tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che
siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che
magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo
meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare
comportamento e sembianza. Benedict LustModifica Per Benedict Lust questa
scienza non aveva nulla di pseudo-scientifico; egli aveva osservato, per il
rigoroso metodo naturopatico che sviluppava in quegli anni, che quando la gente
guariva, cambiava anche in volto. Eliminando le scorie e le tossine, il viso
diventava più "snello": il doppio mento scompariva, tornava a vedersi
il collo in quei volti che prima lo avevano "sepolto" sotto strati di
tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni casi erano più folti. Per
tutto questo cominciò a sviluppare un sistema di diagnosi
"all'inverso", ossia: se le modificazioni, una volta che la gente
guariva da un determinato male erano costanti, allora significava anche che,
quando e quanto più quelle caratteristiche facciali "sintomatiche"
erano presenti in una persona, tanto più la persona era anche affetta da quel
determinato "male" specifico di cui le alterazioni nel viso erano
soltanto un sintomo. NoteModifica ^ Enciclopedia Garzanti di Filosofia,
Milano 1981, alla voce corrispondente. ^ fisiognomonìa o fisiognomìa, in
Enciclopedia generale Sapere.it De Agostini. ^ Vocabolario Treccani alla voce
"Fisiognomia" ^ Aulo Gellio, Noctes Atticae, I, 9, 1 ^ ( LA )
Giovanni Battista Della Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella (a
cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, vol.
1, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. ^ Alfonso Paolella, G.B. Della
Porta e l'astrologia: la Coelestis Physiognomonia, in M. Montanile (a cura di),
Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del teatro e l'opera di G.B. Della
Porta", Salerno, 23 maggio 2002, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e
Poligrafici internazionali, 2004, pp. 19-42. ^ Giovanni Battista Della Porta,
Humana Physiognomonia / Della Fisionomia dell'uomo libri sei, in Alfonso
Paolella (a cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della
Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011/2013. ^ Alfonso Paolella,
L’autore delle illustrazioni delle Fisiognomiche di Della Porta e la
ritrattistica. Esperienze filologiche, in "Atti del Convegno La “mirabile”
Natura. Magia e scienza in Giovan Battista Della Porta (1535-1615)",
Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore,, 2015, pp. 81-94. ^ ( DE ) Alfonso Paolella,
La fisiognomica di G.B. Della Porta e la sua influenza sulle ricerche
posteriori, in "Atti del Convegno Giovan Battista Della Porta nel IV
Centenario della morte (1535-1615)", Piano di Sorrento, 27 febbraio 2015,,
Roma, ed. Scienze e Lettere,, 2015, pp. 43-62. ^ ( DE ) Alfonso Paolella, Die
Physiognomonie von Della Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in
Morgen-Glantz 18 (2008), "Zeitschrift der Christian Knorr von
Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst. Wege und Motive der
Rezeption von Giovan Battista Della Porta in Europa - Akten der 17. Tagung der
Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie
Zeller und Laura Balbiani, 2008, pp. 137-152. Voci correlate Modifica
Bruno Lüdke, la più celebre vittima della Antropologia Criminale di Lombroso.
Emanuel Felke, studioso di naturopatia, applica l'omeopatia, l'iridologia e la
fisiognomica Benedict Lust, utilizza la Fisiognomica nella sua diagnosi medica
e ne sviluppa una vertente tutta sua. DisciplineModifica Frenologia Patognomia
Caratterologia Personologia Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote
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Johann Kaspar Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero Giovanni
Battista Della Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo
italiano Wikipedia Il Nudo eroico concetto dell'arte classica
Lingua Segui Modifica Il nudo eroico o nudità ideale è un concetto dell'arte e
della cultura classica che si propone di descrivere l'utilizzo del corpo umano
nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca; con esso si vuole indicare
che il soggetto umano apparentemente mortale raffigurato nella scultura è in
realtà un essere semi-divino, ossia un Eroe. L'Apollo del Belvedere
attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo eroico-divino dell'antichità, al
Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha avuto il suo inizio durante il
periodo della Grecia arcaica (800-480 a.C.) ed in seguito adottato anche dalla
scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto ha operato sia per i
ritratti di figure maschili che per quelli di figure femminili (nei ritratti di
Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni esempi romani ci ha potuto
portare alla strana giustapposizione tra un gusto iper-realistico (difetti
fisici o elaborate acconciature femminili) con la visione idealizzata del
"corpo divino" in perfetto stile greco. Il Galata morente.
Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita con altri tipologie di
nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio la nudità (che richiama
al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in battaglia dai nemici barbari,
come il Galata morente[2]. Dopo essere scomparsa per quasi tutto il
Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte moderna quale esempio di Virtù
(il vero, il bello e il buono) incarnate dal corpo umano maschile nudo. Tra la
fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo questa metafora ha rappresentato la
perfetta raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero
incarnare il più alto status esistenziale[4]. Riapparso con grande vigore
soprattutto durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui
l'eredità classica ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta:
molto famosi sono i nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la
figura del suo David) o quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che
tiene in mano la testa di Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore,
per fare solo due esempi tra i tanti)[5][6][7][8]. Un principe
seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale romano.
Statua eroica di un generale romano con la testa di Augusto (I secolo .C.),
al museo del Louvre. Statura romana con la testa di Marco Claudio
Marcello(I secolo, da un prototipo greco del V secolo a.C.).
Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore (1802-1806) di Antonio
Canova, all'Apsley House a Londra. StoriaModifica Leonida alle
Termopili (1814) di Jacques-Louis David. Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità. Achille in assetto da
battaglia, rilievo ateniese del 240 a.C. La nudità maschile era di norma
socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari dell'antica
Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura ellenica. A
quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu praticata per
primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro in seguito
introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece sostengono
che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di corsa
durante la V olimpiade (720 a.C.) il quale a metà percorso si liberò della
fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei
movimenti[5]. La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse
servire ad uno scopo magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il
simbolismo fallico e l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma
della sua introduzione, la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e
dalle arti in una sua idealizzante formale e concettuale, generando una
prolifica ed influente iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in
dipinti di navi e numerosi kouroiarcaici[9]. Nel V secolo a.C., quando
appaiono le prime palestre o ginnasio di atletica, la nudità atletica era già
diffusa: la stessa parola ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che
significa nudo[5]. NoteModifica ^ Trajanic woman as Venus (Capitoline
Museums) ( JPG ), su indiana.edu, Indiana University. ^ Hallett, 2005, pag. 10.
^ Jean Sorabella, "The Nude in Western Art and its Beginnings in
Antiquity", su Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The
Metropolitan Museum of Art, 2000. ^ J. Colton, Monuments to Men of Genius: a
Study of Eighteenth Century English and French Sculptural Works, Ph.D. NewYork
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"Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies,
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0-8018-1640-8, SBN IT\ICCU\MIL\0633135. BibliografiaModifica Christopher H.
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Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of
Archaeology, vol. 111, n. 1, 2007, pp. 35–60, DOI:10.3764/aja.111.1.35, ISSN
0002-9114 (WC · ACNP). Robin Osborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and
Greek Art, in Gender & History, vol. 9, n. 3, 1997, pp. 504–528,
DOI:10.1111/1468-0424.00037, ISSN 0953-5233 (WC · ACNP). Tom Stevenson, The
'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late Republican and Augustan
Rome, in Greece & Rome, 2, vol. 45, n. 1, Cambridge University Press,
aprile 1998, pp. 45–69, JSTOR 643207. Voci correlateModifica Nudo artistico
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di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di
InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Storia della nudità Storia degli
atteggiamenti sociali delle varie culture verso la nudità Apollo di
Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he
was French, but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he
thought he was an emperor and as such, as every student at Milano laughs at,
that he should convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh
opposed!” Franco Fergnani. Fergnani. Keywords:
il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ –
E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are,
some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori
romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Fergnani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762395305/in/dateposted-public/
Grice e Ferrabino – la terza Roma – la base
mitologica di Latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo. Grice: “I like Ferrabino; if I were not into
the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a
Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon!” “Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano
le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la
mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del
Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio di Angelica Toesca,
donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato,
uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo
motivo non volle far battezzare i figli. Compì il primo ciclo di studi
dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue
gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente
trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrisse a Torino. Inizia a
frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo
impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle
finanze paterne. Il suo tutore fu Graf. Verso il terzo anno iniziò a seguire con
crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di Sanctis,
sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegnò a a Torino, Palermo, Napoli, e
Padova. Fu rettore dell'Ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di
filosofia romana presso a Roma. Morta la prima moglie Mercedes, Ferrabino
concluse il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi
battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con
la quale si stabilì a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La
Cittadella di Assisi" diventando grande amico di Rossi, fondatore di “Pro
Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, Ferrabino prese l'abitudine di
trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive
alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la Democrazia
Cristiana e rimase al Senato. Divenne presidente della Enciclopedia Italiana,
incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. Era stato intanto incaricato di presiedere al
Consiglio Superiore delle Accademie e promosse il Centro nazionale per il
catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche
diventandone il presidente. Divenne
corrispondente dell'Accademia del Lincei e corrispondente nazionale della
stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica. Presidente della Società Nazionale
"Dante Alighieri" e insieme a Vincenzo Cappelletti, fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia romana, l'età dei
Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia
di un mito” (Bocca, Torino) – with a
section on the myth among the Latins, and a later section on the
treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Le Monnier,
Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero
ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather
than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani,
Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “Giulio Cesare” (Unione Tipografica,
Edizione Torinese); “La vocazione umana”
(Nuova Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria
Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Casa Editrice Società per Azioni,
Padova); “Trilogia del Cristo” (Casa editrice Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana,
Brescia); “Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e
cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Edizioni
Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli,
Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire” (G. Giappichelli, Torino);
“Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia della storia” (G. C.
Sansoni); “Trasfigurazioni” (Aldo Martello, Milano); “Pagine italiane, Il Veltro, Roma); “Misticamente” (Stamperia
Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente),
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico
Illustrato, Jannaccone, Sturzo, Istituto
della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, Nel Centenario
Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider,
Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di S. Matteo) II: Il figlio di Dio
(nella testimonianza di S. Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di S.
Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani. Roma
era il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la
religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo [1849],
trepido e quasi adorando. Per me, Roma era - ed è tuttavia malgrado le vergogne
dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la
trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà morale
all'Europa!. Così, nel 1864, Mazzini ricordava il proprio ingresso nella città
poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a
ciò,ribadival'importanza cheRomaavevanellasuavisionepolitica, secondo la quale
l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di
liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma
dei Cesari e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe
nata la Roma del Po- polo, centro della nuova religione dell'umanità. Si
trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari
elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva
predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che
l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do
indirettamente la passione per le idee di libertà e di repubblica. È indicativo
che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Giuseppe
Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in
primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice del pontefice»; inoltre il
«primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella
Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia
era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era
sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Federico Chabod -
«Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti
s'eran riversati verso l'Italia medie- vale, l'Italia dei Comuni, di Pontida,
della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro
II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori
della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo
a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di
gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di
traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma
l'importanza di quel richiamo dipende- va, in fondo, dalle peculiarità stesse
dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al
passato e alla tradizione cul- _.. turale che ben difficilmente avrebbero
potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrisse Garibaldi
nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano
dal profetismomazzinianocomeCarloCattaneo.AncheCavourebbe a riconoscere quel
nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'-
sodel25marzo1861che<<Romasoladeveesserelacapitaled'Ita- L. lia»4.Dopo la
spedizione tentata da Garibaldi nel 1862, <<Romao Cmorte» divenne la
~arola .d'~rdine de~~e~~~~E~.!:!c~i),I~trog~)Verni che parevano loro dimentichi
àel comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della
Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni
legate alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma,
confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo-
li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché
estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della
Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe,
in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei
democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe
dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870
al 1896, Bari, Laterza, 1965, p. 234. J Cito in P. Treves, Videa di Roma e la
cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, 1962, p. 78. 4 C.
Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino,
Einaudi, 1962, p. 224. TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di
influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti
neoguelfi,sullasciadelgiobertianoPrimatomoraleeciviledegliIta- liani, del 1843.
Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno
mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti
proponeva una confederazione «sotloTiìu- '." l G. Mazzini, Note
autobiografiche, Milano, Rizzoli, 1986, p. 382. . " 'I I I
~messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p
r MazzInl,la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per
molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della
scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano
soprattutto gli esponenti della Sini- stra5. I sogni d'una missione che la
nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciareàl-morido-stndèvano'piùes'eÌnéntecon1a
reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura
internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e
analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si
irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale
centrouniversalediscienza.Tuttavia,Romaavevarappresentato un «mito animatore»
dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Gioacchino Volpe)6,era ormai troppo
connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente
evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a
«dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a
Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se
stessi e il proprio paese. i I Ii I I i I l I ! I j j ! ~ j guerriera e
con,qui~tatrice,cara soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro
anChe al fascino che emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e
anticlericale cdebrata da democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre.
Ma proprio questo è una conferma dellapervasivitàdd
tema,dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub- blico dell'epoca. Ciò non toglie
che nelle evocazionidd mito di Roma (e di molteplici e diversi miti, anzi) ci
fosse molto artificio e un sen- tore, spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo
non dipendeva però - come a molti è sembrato - da una co!maturata propensione
degli italiani agli eroismi verbali e alla retorica magniloquente, ben- sì
dall~particolare storia dd nostro paeserlSenzagli ideali «romanh> non
V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia
unita; <<ma,probabilmente - osservava Rosario Romeo-, non ci sarebbe
stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei miti romani dipese
anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga misura di impronta
carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd diffon- dere gli
ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per ciò stesso, nd
tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali erano
inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi,
mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto
alimentòilriferimentQaRomacomebasediuncon- fronto tra la viltà dd presente, da
un lato, e, dall' altro, l'antica gran- , dezza e l'eroismo «romano» degli
uomini dd Risorgimento. In so- , stanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia
un giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse
andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea
risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche.
Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e
diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di
Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione
tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la
gloriadiRomaelarealtàmeschirtadiunanUOVB!lisanzio.Così,nd mito di Roma
rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di fondo della cultura
politica dell'Italia unita, una specie - po- tremmo dire - di bovarismo
nazionale, c.onsistentenella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd
rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra
sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi
Cavour,Bari, Laterza.1984, p. 5l7. 9M~, Note autobiografiche,cit., pp. 89 e 5-6
(da una lettera dell'agostd 1871). . Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè
nell'epoca dell'impe- J, rialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a
giustificazione ! di un particolare diritto italiano all'espansione e della
necessità che il..n.1JQv~'.Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori
roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato
mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla
emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche
traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871come,nd
<<motoinevitabilechechiamal'Europa aincivili- re le regioni Mricane»,
Tunisi dovesse spettare per contiguità geo-
graficaall'Italia.«Esullecimedell'Adante- proseguiva- svento- lò la bandiera di
Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra- neo si chiamò Mare nostro.
Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi
l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo»7. Certamente,
nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari, e spesso opposti
significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I , Su tutto ciò resta
fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, . ciL 7 G. Mazzini,
Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, 1941, voI. XCII, pp.
167-168. 6G.Volpe,ItaliamodernaF,irenze,Sansoni,1973,voI.I,p.26.... .-."',
"... Galeati. Wikipedia Ricerca Terza Roma concetto storico Lingua
Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione che ha due
accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano
d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso
per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la
città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o
Impero Romano d'Oriente. Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla
terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale
d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella
della Roma dei papi. Uso del termine per Mosca Uso del termine in Italia Modifica
L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il
Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della
«Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere
contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui
fare da modello all'Italia e all'Europa intera.[1] L'ideale mazziniano
sarà ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime
come Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una
nuova civiltà.[1][2] Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato il
31 dicembre 1925 in Campidoglio, profetizzava una nuova era per Roma che
avrebbe visto il territorio dell'Urbe espandersi fino ad approdare a uno sbocco
sul mare.[3] Una lunga citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata
del Palazzo degli Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano
Minucci: «La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive
del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno» La costruzione del
quartiere dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in
questa direzione.[4] Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel
quartiere EUR di Roma Note Modifica
^ a b Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo,
2001. ^ Parallelamente in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo
Reich. ^ Discorso pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo
Governatore di Roma il 31 dicembre 1925. ^ AA.VV., E42. Utopia e scenario del
regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987. Voci correlate Modifica Antica
Roma Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Terza
Roma, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su
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S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB EDIT.
Digitized by the Internet Archive in 2011 with funding
from University of Toronto
http://www.archive.org/details/kalypsosaggiodunOOferr
KALYPSO ALDO FERRABINO
KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito
TORINO FRATELLI BOCCA, EDITORI MILANO - BOMA
1914 PROPRIETÀ LETTERARIA yti
779987 Torino — Tipografia Vincenzo Bona
(12496). A MERCEDE PALLI KALYPSO LIBRO I.
— STORIA. Capitolo I. La storia del mito . . . pag. 3-37 È
necessaria e legittima, 3 — Il suo triplice valore, 8 — Caratteri,
18 — Il genio mitopeico, 23 — Ka- lypso, 36. Capitolo II.
Andromeda pag. 39-107 Prima di Euripide, 39 — Euripide, 58 — Dopo
Eu- ripide, 89. Capitolo III. La Demetra d'Enna . . pag.
109-157 Il mito siculo, 109 — Il mito greco, 118 — Il mito
siracusano, 127 — Il mito contaminato, 135. Capitolo IV. L'abigeato
di Caco . . pag. 159-206 Presso gli Indiani e i Greci, 159 — Presso i
Latini, 170. — I poeti, 183 — Gli storici, 197 — I razio- nalisti,
201. Capitolo V. Cirene mitica pag. 207-255 11 sostrato
storico, 207 — L' " Eea , di Cirene e d'Ari- steo, 210 — Cirene in
Tessaglia, 218 — Cirene in Libia, 228 — Euripilo ed Eufemo, 233 — Gli
Eufe- midi e Batto, 248 — Conchiusione, 254. Capitolo VI.
Kalypso pag. 257-318 L'intuizione mitica, 257 — Le manifestazioni
mitiche, 267 — L'evoluzione della mitopeja letteraria, 284 —
Il flusso e riflusso delle saghe, 301 — La fine, 308. vili
INDICE LIBRO IL - INDAGINE. Avvertenza pag.
321 Capitolo I. Andromeda „ 323-369 Il racconto di
Ferecide, 323 — Perseo, 326 — Acrisie, Preto, Polidette, Ditti, 328 —
Atena e la Gorgone Medusa, 338 — Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I
miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co (frr. 159. 160),
356 — I frammenti dell'* Andromeda „ di Euripide, 358 — Euripide nel 412,
368. Capitolo II. Il culto di Demetra inEnnajart*;. 371-395
La questione , 371 — I caratteri del culto ennense nell'età
storica, 372 — Il primitivo probabile nucleo siculo, 378 — Le
versioni greche del nitto di Kora, 386. Capitolo III.
L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 11 problema, 397 — Il valore
del mito indiano, 399 — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e
Dio- nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407 Gli
eruditi, 412 — Conchiusione, 420. Capitolo IV. Cirene mitica pag.
421-448 Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —
Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru- zione dell'Eea di
Cirene, 430 — Euripilo ed Eu- femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 —
Calli- maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis- sima,
448. LIBRO I STORIA A.
Ferrabino, Kalypso. CAPITOLO I. La Storia del
Mito. I, — nitto di Kora, 386. Capitolo
III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 11 problema, 397 — Il
valore del mito indiano, 399 — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio
e Dio- nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407 Gli
eruditi, 412 — Conchiusione, 420. Capitolo IV. Cirene mitica pag.
421-448 Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —
Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru- zione dell'Eea di
Cirene, 430 — Euripilo ed Eu- femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 —
Calli- maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis- sima,
448. LIBRO I STORIA A.
Ferrabino, Kalypso. CAPITOLO I. La Storia del
Mito. I, — È necessaria e legittima. Non esatta,
anzi può dirsi fallace la nozione del mito che è più diffusa. Andromeda,
esposta su lo scoglio al mostro marino ; la ninfa Cirene, domatrice
di leoni ; Cora di Demetra, rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi,
la forza di Ercole piegò annientandolo (1) : tali persone e
vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di Mitologia
greca e latina, inducono, ciascuna, al pensiero un racconto, non pur
defi- nito ne' termini e preciso ne' particolari , ma costante nel
contenuto, si da valere (usando espressioni proprie a fenomeni
differenti) per (1) Cfr. in questo voi. i cap. II, III, IV,
V. E cosi ri- spettivamente ogni volta chC;, nel testo, si allude a
uno fra questi quattro miti. I. - LA STORIA DEL
MITO classico o canonico, da apparire quel mito. Né il
prevalente costume , a pari di molti, è senza motivi : già che si
ricollega per un lato ai modi che, nel concepire ed esporre miti ,
tennero i compilatori alessandrini, quando miti non più
s'inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e a scopo di
conservazione erudita cia- scuno si ordinava secondo uno schema
princi- pale, ne' margini sol tanto apposte discrepanze minori e
facili a obliterarsi; si ricollega esso costume per altro lato al vezzo,
— malo quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, — pel quale la
saga chiude in sé una sostanza di verità, in ispecie storica; si che, la
verità non potendo esser che singola, unico similmente sarebbe
l'in- treccio della fiaba onde è compresa. Ora, poiché i criterii
de' gramatici alessandrini, vissuti negli ultimi tre secoli avanti
Cristo, in nessun modo possono essere più i nostri; e né meno è più
nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione né il senso storico, una
tanto facile fede nella veridicità del racconto mitologico ; bisogna
riso- lutamente farsi a considerare qual via possa divenire la
buona non che la nuova. Sùbito sgombra la mente di assai equivoci
e di troppe astrazioni il porre, con precisione sto- rica, i
materiali grezzi della mitologia. // mito di Cirene, — dimostrano questi,
— non esiste : meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi
pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di Callimaco, questa o
quell'altra anfora, un'iscri- zione di Rodi; dopo ciò, e dopo tutto che è
an- dato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di
conseguenza ignoriamo. In altre parole, E NECESSARIA E
LEGITTIMA l'indagine concreta non conosce se non un
com- plesso di componimenti letterarii, manufatti ar- tistici, riti
cultuali ; e sente entro ciascun compo- nimento, ciascun manufatto,
ciascun culto, in sé e per sé, il mito. All'infuori, questo può
tuttavia sussistere; e per vero in due modi. risulta da quelli, sia
per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica ; ma è allora
diverso e nuovo, un altro mito a pena affine a qualunque l'uno di
quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti manufatti culti e spiega
i singoli stadii e i singoli trapassi; ma in tal caso è di- venuto,
non la forma canonica o classica, bensì la storia di quel mito.
Conchiudendo : l'artista moderno clie ci ripete una fra le
molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie .di
vicende, cui sottostò quella fiaba già nel pas- sato; egli, insomma,
elabora una fiaba nuova, la quale può essere per certe analogie di casi
e identità di nomi avvicinata a talune antiche meglio che ad altre,
ma non diviene per questo la fiaba di quei nomi e di quei
casi: questa in qualclie modo ci dà, solo, lo storico , compren-
dendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze della favola e
organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole il mito di
Andromeda, ne legga la storia. Se non che, ond'è nato il concetto di
racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: un fatto,
e una tendenza. — Riandando storie di miti accade di avvertire, chi anche
sia grosso- lano osservatore, quale e quanta rete di interessi
politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di
rivalità religiose, ricopra, I. - LA STORIA DEL MITO
musco boschivo, il crescente tronco della leg- genda. Indi,
la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo e in certo momento, a
quella tra le forme esprimenti la saga, la qual contenga il
particolare simpatico, 1' aneddoto favorevole, o (che basta) si atteggi
nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può
canoniz- zare i miti. altre volte, V ala d' un poeta, la vigoria
d'uno storico. 0, infine, il piti fortuito caso. — Sempre, tuttavia, a
canto di questa pre- minenza d'una fra le forme mitiche, valse a
traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione,
sovente inopportuna. E perché, comparati tra loro diversi racconti d'una
saga, parte coincidevano, e pareva il più, parte dif- ferivano, e
sembrava il meno ; si ritenne lecito prescinder dalle differenze per
insistere su le coincidenze ; e di queste costituire la saga, e
quelle giustaporre in guisa di " varianti „ se- condarie. Cosi le
simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque autori intorno alle
vicende, po- niamo, di Cora, legittimavano la creazione ar-
bitraria d'un fittizio mito di Cora. G-rossolano errore contrassegnato di
superficialità. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure sotto
le uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunché,
men ponderabile forse, ma al- trettanto reale: la complessiva intonazione
del racconto. Il paesaggio medesimo, certo; ma in- combente la luce
di tramutati Soli. L'artificio è cosi palese che stupisce potesse
ingannare e diffondersi. E pure condusse più oltre : a fìngere,
dopo il mito di ciascun personaggio, il mito in sé, quasi ente separato,
capace di influssi attivi E NECESSARIA E LEGITTIMA
e passivi ; senza che divenisse tosto palese, come cotesto
ente non sussista se non col suo predeces- sore logico; come quest'ultimo
sorga da una contaminazione di varie forme letterarie arti- stiche
cultuali; come quindi uniche esse forme costituiscano la realtà da pensarsi
e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per asserire
(e lo asserimmo dianzi) che conoscerle significa giustificarne le
vicende. Ossia : per affermare che solo storicamente si può
conoscere il mito. Ma dopo tale asserto, e dopo scoperti i motivi
reconditi dell' equivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no sia
legit- tima la storia del mito. Difatti chi sa di aver innanzi
espressioni multiformi, cui f uron mezzo le più disparate materie, dalla
parola al colore, dal bronzo al gesto sacerdotale, può sospettare a
ragione che trasceglier quelle espressioni, con- netterle in serie,
narrarle in istoria debba ac- cadere per nessi, non intimi, ma estrinseci
: per identità di nomi di figure d' imprese ; mentre tempi lontani,
fibre tanto varie d'uomini, carat- teri cosi mutati di ambiente,
sembrerebbero per- mettere, o comandare, la distinzion pili recisa.
Sospetto lecito, questo ; ma specioso. — Non im- porta che certa temperie
(dico, ad esempio, l'e- poca di Augusto, o il magistero di Ovidio)
ac- costi molto fra loro due saghe di soggetto diverso; là dove
lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe dell'identico
soggetto. Ciò vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca augustea o
di Ovidio, e del posto che la mitologia prende in quella o presso
questo. Ma è d'altra parte irre- cusabile che ciascuna espressione di un
mito, I. - LA STORIA DEL MITO in
qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle precedenti da un vincolo più
profondo e più in- timo che r argomento : le conosce, ciò è, e le
rielabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste espressioni,
ciascuna è materia greggia rispetto alle successive, ed è sintesi
originale (anche negativamente originale, si capisce) a confronto
con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di farle
scaturire l'una dall'altra : essa, co' suoi criterii di tempi e di
luoghi, con tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a co-
struirne quasi una genealogia ; della quale i rami e i gradi son segnati
da reciproci influssi più o meno profondi, da modelli più o meno
diversi, sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. — Del resto,
il resultato medesimo o, se piace di più, il medesimo soggetto di questa,
che diciamo, storia del mito ne legittima, dopo gli argomenti or
ora esposti, la esistenza. Giunge essa a co- struire sopra varianti forme
favolose un indi- viduo organico e definito : individuo ch'è, come
mostrammo, la leggenda. II. — Il suo triplice valore.
Ma quali saran per essere i modi di tale istoria? Il suo
procedimento è chiaro. Raccolte (suppo- niamo) le espressioni del
racconto su Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per
industria di congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l'ordine
cronologico, se non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti.
IL SUO TRIPLICE VALORE Solo di poi s'inizia un
più arduo lavoro. Il pen- siero, insomma, prende a conoscere quelle
espres- sioni: di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi
; ciò sono i particolari della saga, e quanti ne sieno espressi, e quali,
che scene e che episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il
punto di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati:
per ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i
par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò, fuse.
Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e,
checché sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa
nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a
Cora, si raccolgono, quasi per sé, secondo nessi ed influssi, sino a
costruire lo schema delle lor geniture. — Allora lo scopo è
conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si
avvia: non più dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di
con- troversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto è
delimitato ; quel che può essere certo, è posseduto ; si che le lacune e
il ricolmo si di- stinguono nette. Altrui giudizii su la materia
son superati con l'approvarli o respingerli o mo- dificarli. E insomma
stabilito l'ordine; pel quale lo schema ch'era conquista ultima
dell'indagine, diviene poi quasi base ; e sovr' esso si erige, pei
suoi muri maestri nei suoi archi di commessione co' suoi travi intelajati,
1' edificio definitivo. Il mito ha la propria storia. Il mito
è, da questo momento, vera ricchezza nello spirito nostro. — Si obietta
che è acquisto mal certo, però che sieno per pensarsi o seri-
10 I. - LA STORIA DEL MITO versi ancora, nell'avvenire
come nel passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di-
verse con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto
nuovo. Il clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal
perve- nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia
dei pensieri individuali. — Ma né l'una né l'altra verità scema
l'importanza dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle
fonti tra- mandate o è cosi fatta che impedisca la storia o pure
solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno è
davvero grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-
teplici che non perseguiamo qui), la jattura può variare di entità ma si
riduce tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria
e, traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla
condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In
se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se
dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme
che ciascuna è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per
indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non
intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua
perchè dinamica. — Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito
che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare
1' opera altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra- mutando
in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando
della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto
armonia del discorde, e reso personale l'alieno. IL SUO
TRIPLICE VALORE 11 Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è
anche materiato della più alta virtù di pensiero. Dura come una
fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi mutazioni intervengano
e pentimenti, non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,
superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi- nalmente, nell'aver provocato
la sintesi, se non immutabile, certo personale, in tutta la serie
co- nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon- tane e
disperse. Il mito è, dunque, da quel punto viva ric- chezza
nello spirito nostro. Se facile mostrare tal verità, sottile è però
discernere i valori di- versi della conoscenza in quella guisa
procurata. Ma è necessario, per farla più conscia. Lo storico
si è, durante i successivi momenti della saga, uguagliato a' successivi
artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?
Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi di lui ; e dinanzi a me
la visione ha da concre- tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto
? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al- l'altro,
s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico e questi con loro, fin
quando similmente a ciascuno la materia si sublimi in arte. —
Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-
dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio. Nell'atto
d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme
anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno-
rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello
storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre
precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che
12 I. - LA STORIA DEL MITO là dove l'artista si trova
di fronte a un che di imprevisto, in cui l' impreveggibile è
determi- nato dalla potenza della sua energia creativa ; per contro
lo storico si trova sùbito a conoscere, traverso l'opera compiuta,
appunto quella po- tenza dell'artista e può ponderarla e
giudicarla. L'effetto è che non solo egli si è identificato con una
delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata.
L'attimo di pos- sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico
non si considera pago né pur di questo giudizio che già di per sé lo
eleva sopra l'artista in- tuente : vi avverte un valor m omentaneo e,
te- nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può assurgere a
quell'intuizione sintetica della saga, da cui appajono giustificate le
intuizioni singole degli stadii e delle forme come dallo scopo il
mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito, può quindi esser detto
pregio intuitivo. Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche
di- scipline difatti van di continuo preparando al pensiero
cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti ai linguaggi dell'
antichità, agli scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui
sono attendibili, ai culti con le fogge che di- vennero consuetudinarie,
ai popoli con le cre- denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e
le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse, quelle che
cotesto discipline ci offrono, né tanto meno impongono ceppi all'intelligenza.
Sono, più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi condensando;
consigli, che risparmino fatica in- dividuale o suppliscano a
irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune, cui possono
tutti IL SUO TBIPLICE VALORE 18 riferirsi, che è
stolto trascurare, né si può senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni
cosi cumu- late lungo gli anni da tanti sforzi concordi, convergono
nella storia della leggenda; e quanto più numerose, meglio l'afforzano,
rassodandole l'ossatura, e permettendole o promettendole con- senso
più vasto e interesse più vario. — Fra tutte, precipue quelle in cui s'è
tradotta la coscienza dell'antico e recente, vicino e lontano,
favoleg- giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto. Cento
numi agresti si rinvengono fra cento po- poli, dagli Urali alle Ande,
dall'Islanda all'E- quatore. E i riti, le danze, i canti, i
vestimenti, le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo
insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che ogni gente reca il suo
contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine lacustri, paschi
pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la zolla e il
Sole indorano, notti il- luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime,
fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen- diture
del suolo : l'immenso respiro pànico, che penetra pei sensi ed abbacina
l'anime, ritoma costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre
lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo. Ond'è che son opere in
cui questa varietà spe- ciosa è ricercata con amore intento,
disposta con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi
(1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For- schungen
(Strasburg 1884); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn 1888); J. G. Frazer The
golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn and of the wild (London
1912); W. v. Bau- 14 I. - LA STOBIA DEL MITO
molte leggende sono narrate, molte cerimonie descritte, quelle che
gli uomini dicono e com- piono da quando sorge il lor Sole a quando
tra- monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma ivi nessuna
leggenda vale per sé, nessun rito pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta
l'una, tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua- zione,
perché si vuole, badando al generale ed al comune, conseguire identità
spirituali contro distanze di tempi di luoghi e differenze di
forme. Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre opere, le
quali scaltriscono su gì' infingimenti obliqui di interessate invenzioni
che non è lieve scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli-
genza che tenta le cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia di fantasmi.
Avvertono, queste, come un nome frainteso generasse talvolta un
popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola connesso con l'aggettivo
che significa " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido
Muzio e della destra bruciata. Insegnano che per dar ragione al nome di
una città (Roma?) s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).
Spiegano che un culto greco fra culti romani parve agli antichi
giustificato col narrare qual- mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi
da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare in classi i
fatti; e creano alle classi fin la de- nominazione discorrendo di "
miti etimologici „ per i primi casi ; di " miti etiologici „ per
l'ul- DissiN Adonis und Esmun (Leipzig 1911); E. S.
Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6).
IL SUO TRIPLICE VALORE 15 timo (1). Tutti bisogna che lo
storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua saga, senza
equi- voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti, quindi, è
conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo stesso cbe
ne riesce de- finita, si da impedir confusioni con altre pur si-
miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule della
propedeutica confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in
tal modo scemi la singolarità sua propria; e allora perché farne
storia? Né manco che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica
medesima; già che questa non è mai conchiusa, e di con- tinuo si
accresce, per l'appunto come la espe- rienza dell'uomo in cui la
contenemmo. Ma anzi la storia di un mito ha questo pregio
scientifico: mentre è impregnata, come più latamente può, del
sapere collettivo intorno alla propria ma- teria; mentre è dissimile da
quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; è pronta a
contri- buirvi con tutta sé medesima, per quanto con- tiene di
insolito, e per quanto riafferma del con- sueto. Terzo pregio è un
altro, fors' anche maggiore. (1) Cfr. G. De Sanctis Per la
scienza dell'antichità (To- rino 1909) pagg. 319 sgg., ove in polemica è
chiarito assai bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno-
minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea su la vastità e
gl'indirizzi dell'indagine mitologica può per gli anni 1898-1905
consultare la intelligente ras- segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht
tìber die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband
CXXXVII (1908). 16 I. - LA STOEIA DEL MITO
Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jias- sato e del
presente. La saga è dell' uomo, nasce di lui, or come nebbia da piani
pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano
durante un giorno, e le compongono varia bel- lezza, fin che la tenebra
giunga. Ma il motivo delle trasfigurazioni luminose come del
soprav- venir tenebroso, è secreto dello spirito umano. Secreto
dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede
intorno a sé la meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli
astri, purezze nivee e dentate di vette inviola- bili, scompigli di
chiome arboree nello squassar dei vènti, rigidità delle rupi cui
arcana opera finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli acri
fumi ; vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta su la fronte
le tempie, illu- dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza
ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa- venta ed adora. Secreto,
in fine, dell'uomo che con occhi incerti guata, fra il mento e i
capelli, la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo ed
eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto i muscoli e gli artigli
della belva silvana, per farla sua preda o imitarne il destro miracolo
; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv- vise forme che la
natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie che essa
suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la violenza della
fiera. Appresso, su la prima trama esigua, quasi ragna d' oro fra due
rami d' un mirto, si consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che
l'in- venzione originaria non si perde, ma, serbata tal volta in
reliquarii preziosi, salva altre volte IL SUO TRIPLICE
VALOEE 17 per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer
lento e difficile dei travagli clie martellano Fu- manità nei secoli e le
rodono il cuore invincibile. Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e
agri, forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende, s'esalta
delle cose salienti, supplica, spera, esorta, rampogna. Il suo intreccio
si foggia su i meandri dello spirito. E nello spirito la sua virtii
cerca le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia onde si
crea il diafano contesto verbale o si plasma nella dura materia il moto o
si finge l'an- sito nel colore; e con lei genera creature d'ale e
di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli mostri e deformi. Far
quindi la storia del mito significa spremerne cotesto succo occulto, il
quale si mischia col nostro più profondo pensiero su la vita e
saggia le nostre idee sul bello sul buono sul vero, su l'uomo e la forza
della sua visione, e la forza della sua espressione, e il suo lungo
cammino. — Idee che costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso della
storia d' un mito. Del quale il trapasso di forme può venir conce-
pito geneticamente, l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi
essendo privi di forza generatrice; o in rapporto all'evolversi
comples- sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia- scuna
dipende da una teoria filosofica. Persino chi per orror metafisico mai
abbia voluto im- pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av-
versione nella storia e ve ne lascerà i segni, non giova dire di quale
specie. Onde la cono- scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur
contenendosi nei termini di un limitatissimo fe- nomeno, pur fermando nel
pensiero una por- A. Ferrabino, Kalypso. 2 18 I.
- LA STORIA DEL MITO zioncella minima del grande moto di cui
tutto il passato è pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna
con sé un'idea di quel moto e del nostro pensiero: la stimola e la
cimenta. Filosofìa : senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ;
con cui, diviene moltissimo. in. — Caratteri.
Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen- siamo ora aggiunti in
perfetta fusione di Storia gli altri due, intuitivo e scientifico, non
appare sùbito qual sia la lega comune onde tanto com- patto è il
resultato. Ma lega si rivela l'intel- letto dello storico ; ove i
concetti assimilati dalle discipline propedeutiche, e le idee elaborate
dal pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova nella vita
dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito della realtà
testimoniata. — Di più non può dirsi: che ha da restare intatto il
mi- stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come
larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una
semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto,
soggettiva. Né forse è detto ciò senza stupore di molti ; perché
prevale oggi il principio della oggetti- vità storica, tanto che il
riconoscimento del con- trario nell'opera di chi che sia suona quasi
a rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole
della certezza assoluta, allet- tandoli con un equivoco ch'è quasi una
mistifi- cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel
CARATTEBI 19 racconto delle vicende storielle per cui
un mito si svolse sono le stimmate d'una personalità; né solo, ma
il valore di quel racconto è in queste stimmate ; in quanto la
personalità, non pure as- somma, si anche fonde e ritempra, com'è
neces- sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria
filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che si riconoscono
indispensabili alla costruzione d'una qual siasi storia; e in quanto,
inoltre, dalla misura di esse cognizioni teoria potenza e del loro
commettersi, dalla misura, in breve, della personalità medesima, è
segnato il pregio del contesto narrativo. Dal qual
evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento di chi legge a
fronte di chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re- verenza
ad autorità indiscussa : invece, ragione- vole assenso, ora parziale ora
totale, ora nei par- ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là
degli uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è solo
responsabile e che, scoprendosi con ardi- tezza, accetta onestamente
d'essere imputato. Compito arduo, adunque, è il leggere non meno
che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che quasi mai viene assolto
integro. Ma, per lo più, solo per il lato si adempie che costituisce
l'in- teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato soltanto
sogliono originarsi le censure, le più modeste e le più burbanzose. E a
volta a volta la storia della saga di Cirene deve soddisfare le
pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato, il gusto del
contemplatore. Ora, affinché sia più lieve a tutti costoro l'opera di
critica rielabo- ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, al-
20 I. - LA STORIA DEL MITO meno; non costumava cosi
Tucidide, né Ma- chiavelli ; con pena della moderna indagine)
mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi di cui si è valso
e le vie che ha seguite; onde ne è pronto il riscontro (1).
Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto della soggettività
fin qui rilevata. Quando l'ar- tefice medesimo scinde, pei lettori
critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le for-
mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed esteriori
le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su la
materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perciò, da tal
momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia piena
di realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di- venuti
esteriori e concreti, di cui nella intimità e fluidezza dello spirito
creativo essa si era nu- trita. Il critico, se è (fenomeno raro)
compiuto, vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di
individuatore, tutti questi elementi, scissi prima, organati poi; e
valuta il pregio dei singoli e della mischianza loro. Cosi, quel che fu
già ema- nazione viva d'una vivente persona; imponde- rabile,
quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per tanto, ''
soggettivo „ : diventa pas- sibile di metro, di scandaglio e di analisi;
defi- nito, per tanto, " oggettivo „. Sempre, per opera
dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e i
caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.
(1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.
CARATTERI 21 una. Le sue vicende hanno, inoltre, un
principio e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è quindi un
nascimento e un corrompimento, fra cui si tocca la maturità. La storia
d'una saga sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul suo
finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar la creatura morta, ma
pretensiosa di balsa- marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già
che si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio si compone
: non è elegiaca ; però che, pur la- mentando , se crede , la morte
avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen- siero
senza stingerli col sentimento. Ma en- trambe queste risposte esigono
d'esser più am- piamente delucidate. Qualche pagina innanzi
fu provato (per quanto io credo) che non solo è necessaria la
storia del mito per conoscer il mito, ma è in tutto legittima,
perché opera sopra un individuo pre- ciso il quale ha una reale e non
disconoscibile esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in-
dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun d'essi non può star
solo, ma è in intima atti- nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora
pos- siamo specificare meglio : che ciascuno stadio rappresenta una
creazione spirituale. Sia di poco o di molto momento, vi è immancabile
l'attività (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache
si pro- nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche ["
Atti dell'Acc. Pontaniana , XLIII (1913), a pag. 6 sgg. del-
l'estratto]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica- zione della
storia con la filosofia. 22 I. - LA STORIA DEL MITO
d'un artefice che ha segnato di sé medesimo, con grande o con piccola
impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta
speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi giacevano celate o
n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo si possono
conside- rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele- menti
: la manifestazione, senza cui non sa- rebbe ; la sostanza del
mito desunta dagli stadii anteriori ; l'energia innovatrice
dell'artefice. Di qui, son possibili varie evenienze: o che a un
certo momento ogni manifestazione cessi, per qual siasi motivo, sebbene
ce ne fosse la potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la
mani- festazione appaja inadeguata alle precedenti e per ciò monca
e non bastevole ; o che, in fine, l'energie dell'artefice apportino alla
sostanza della saga violenze che la rinneghino. Nel primo caso, la
catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio; nel secondo è preceduta da uno
scadimento, che la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la
vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban spesso coincidere. Ma la
catastrofe, la morte, è sempre. E la storia, in quanto storia, deve
nar- rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-
vitabilmente, catastrofica. Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe,
senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi- casse, fra
gli uomini che hanno assiduo il fer- mentar delle forze nello spirito,
l'accensione di un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito
di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si spiccano a dieci i
virgulti giovani, v'è motivo a sconforto sol tanto per chi brami,
come IL GENIO MITOPEICO 23 meglio, la distruzion
del tutto. — Rimane, per altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso
del danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual egli era stato
concepito, quale gli artefici l'ave- vano formato, ninna potenza terrena
può ri- crearlo indipendentemente: un individuo inso- stituibile
scompare. E^ scomparso, non lui solo perdiamo. Molte saghe venner create
con bel- l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte, non
tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i bronzi degli
statuarii, i gesti sacer- dotali; non molte, poche divennero
nell'epoca del pili adulto pensiero classico, quando per con-
taminazioni la ricchezza del numero si fu as- sottigliata in bellezza
della specie. E ogni nuova morte sminuisce quella dovizia di una
unità, scema questa bellezza di grande efficacia : quel che
sottentra è copia e grazia dello spirito umano, della mitopeja classica
non più... Una maggior individualità, dunque, è minacciata dalle
morti di questi minori individui mitici. Un colpo di accetta, ognuna ; e
la quercia si squassa. IV. — Il genio mitopeico.
Quella individualità maggiore è oramai em- brionalmente posseduta
dal nostro pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda,
e poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora; appresso, non si
conoscono pure quattro vite di saghe, come fossero di eroi o di santi o
di sta- 24 I. - LA STORIA DEL MITO tisti; ma è
già vivo, se anche non maturo, nel- l'intelletto un nuovo sapere. La ancor
recente esperienza, rotti i termini entro cui si è for- mata, tenta
di organarsi in altro stampo, in- frange l'intuizione del singolo per
disporsi, in che ? come ? Per la risposta, da principio ingan- nano
due parvenze, contradittorie nella forma, entrambe erronee.
La prima parvenza è brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni
acquisite nello studio di quattro miti si possono perseguire due
com- piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel raccogliere
tutti i fatti constatati durante lo studio e nel disporli con altro
criterio che il cro- nologico e genetico : nel guardare, in breve,
il medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da altro pimto di
veduta. H secondo compito, in vece, costringe a trascendere i limiti
segnati dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le saghe
qualcosa che per le quattro soltanto venne sperimentato : costringe a
varcare verso l'ignoto l'esperienza acquisita, pregiudicando da
questa quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo pratico ; come
quelli che servono a concludere ordinatamente sotto la specie di leggi
(nel se- condo caso) o di formule (nel primo) esperienze compiute
storicamente sotto la specie delFindi- viduo. E sono , perché pratici ,
utilissimi ; né giova, secondo piace a taluno, predicarli ride-
voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano, tuttavia, lo stremo di
quanto possa e voglia il nostro pensiero, elaborato che abbia un
certo numero di storie su fiabe. Non può esistere un soggetto vivo
cui attribuire quelle formule e IL GENIO MITOPEICO 25
quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat- teri all'uomo ;
ond'è che ci appajono e le une e le altre, dopo che arbitrarie,
insufficienti. Arbi- trarie le formule, perché incardinate su criterii
che non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e irreale, ma che
vengono dal di fuori imposti alla massa dei fatti storici ; e le leggi,
perchè teme- rariamente affermano più del conosciuto, impe- gnando
in sé, insieme con il già intuito, il non mai visto. Cosi le prime,
avulse dalla realtà viva onde germinano, incadaveriscono in freddo
schema e, come schema, lasciano straripare oltre di sé e sfuggire sotto
di sé la vita vera delle quattro saghe ; le seconde, pur
danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi
affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto : entrambe,
quindi, definimmo or ora insufficienti. Fallita la prova di
questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu
avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca nella nuova opera i
miti, soggetti delle singole storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne
crea uno difatti, f)ur che si astragga un poco come suole il
pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi- rito, cui competano tutti i
caratteri dei varii in- telletti che influirono, di stadio in stadio,
su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente appresi; cui,
quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno e dubbio
religioso, pre- occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-
giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virtù in una sintesi
superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe,
forse. 26 I. - LA STORIA DEL MITO esso pure una
evoluzione, e certi stadii lungo i quali si disporrebbero le sue energie
e i suoi attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di
storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to. Difatti, mentre
chi narra la storia di un mito opera (vedemmo) su stadii, che sono di per
sé congiunti, e che senza nesso non sono né pure compiutamente
intelligibili ; i caratteri in vece e le energie di quel pseudo spirito
vengono solo per caso delimitati, avvicinati e graduati : già che
unico motivo per cui quel falso ente si af- ferma con alcune qualità, e
non altre, con alcune vicende, e non altre, è la scelta,
precedente- mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti, e
non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli attributi muterebbero
numero, specie e succes- sione. Segue, che è necessario guardarsi
dall'in- sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si voglia
ricadere negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui
trascinano formule e leggi. Vinto l'errore, la salute appare
spontanea. Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero e non
artificiato, intuibile dallo storico e sog- getto vivo delle nostre
esperienze anteriori, li- mitate per qualità e per quantità. Ora, se
è (come dicemmo) arbitrario determinare un in- dividuo mitopeico
valevole per quattro miti, perché è introdotto dal caso, ossia dalla
nostra anterior ricerca, il numero di quattro : soppri- mendo quel
numero, ci troveremo dinanzi a un reale individuo, allo spirito
greco-romano in quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei
Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef- fettivamente, di
certamente vivifìcabile, di indù- IL GENIO MITOPBICO
27 bitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova a suo
agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realtà proteiforme ; qui
formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea , rimettendo
di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan- descente. — E
conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto
come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe
conosciute vale ed è esatto per il genio mito- peico, ne è la storia ; è,
sol tanto, incompiuto e insufficiente : perché lembo di un tutto ;
lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di questo
tutto, ha importanza, dev'essere affer- mato, e può assumere,
esprimendosi, un tono generale. La medesima sua incompiutezza poi è
solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cónte
altre assai sarebbero a disposizione del pensiero che volesse conoscerle
in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non è, quando si avverta
che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio mitopeico
risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de- corso
del tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie,
per guisa che dovrà in ogni maniera venir intuito traverso molte si
ma non tutte le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli
uomini che la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli
istituti che remoti echi ci tramandano irrego- lari. — Quattro miti son
dunque poco i3er pos- sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù,
l'animo leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse- gnamento è
certo, se bene incompiuto; insuffi- ciente, non arbitrario.
28 I. - LA STORIA DETi MITO Cosi le storie di quattro miti
conducono alla storia della mitopeja. — La quale pertanto non può
consistere nell'insieme inorganico di quelle quattro singole storie, se
si mantenga incom- piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme
inor- ganico delle storie su le varie saghe conosciute. Tale è
l'uso dei manuali; ed è uso degno del nome e dei libri: che noi vedemmo
dianzi la esigenza di quella più larga istoria emergere a punto dal
succedersi (che è stimolo, dunque, non sodisf acimento) di taluni
racconti men larghi. Come, per analogia, le biografie di cento
indi- vidui non souD la storia della nazione cui ap- partengono, e
che li comprende in sé e in sé li distrugge. Flutti nel mare, le
molteplici saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta
per volta il total genio mitopeico in mar- gini che non sono i suoi
proprii. E a quel modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se
non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte le sue virtù se non se
nella mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in un testo
più ampio i termini in cui si conchiusero le cono- scenze dei
singoli. — Evidenza pari ha, o do- vrebbe avere, un altro vero eh' è
parallelo a questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia di
un mito, nell'atto di mostrare come le mol- teplici manifestazioni
leggendarie potessero ag- grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi
e le fondamentali vicende che accomunano ta- lune fra esse ;
disegnavasi pure , come possi- bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni
molteplici più tosto sotto le rubriche delle di- verse epoche e dei
differenti luoghi, per com- IL GENIO MITOPEICO 29
porre, con criterio cronologico e geografico, la storia della
mitopeja pagana lungo i secoli e traverso le regioni del mondo classico.
Età per età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella
determinata temperie, intervenire su tutto il pa- trimonio favoloso; e
ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello scegliere i soggetti e le
sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale opera, cosi
se siasi estesa a intero l'ambito tem- porale e regionale dei Gentili,
come se sia stata ristretta in taluni confini di paese o di
momento, è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza? o pure,
anche da essa deriva allo spirito un bi- sogno più alto? Senza dubbio, un
paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti
sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v'è organicità :
ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la precedente su essa
aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani riconnettendosi,
quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso negativo o in
positivo. Ma, a parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste
tuttavia. Sopra le differenze più o men no- tevoli fra regioni e tempi,
colpisce in tutt'e due i casi la costanza con cui talune energie
del- l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,
influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor patrio, il senso
naturalistico e l'acume psicolo- gico, lo scetticismo ragionevole ed il
razionale. Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno fra
esse intervengono nella mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si
ritrovano ; e che, come più si discenda nei secoli, non solo si ac-
crescono per numero ma quasi si succedono per 30 I. - LA
STORIA DEL MITO dignità, tramandandosi tal volta nel corso la
fiaccola, umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in
officio di mitopeja ; s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,
cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no- minativi, un'armonia ch'è
ancora imprecisa ma merita indagine; e si desidera cercare questa
armonia e quelle potenze. Concetti empirici, dunque, tali potenze?
ar- bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi. Il tono
generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di
quelle parole vuol indi- care qualcosa di assai individuo e concreto :
al- tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti della storia,
e in determinati punti della terra, hanno gittate singolari riflessi su
la saga, ora iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel-
l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e solo per storia
conoscibili. Le carità patrie di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi
di Dio- nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e d'un
latino : fatta breccia nei confini onde sto- ricamente son racchiusi
entro un'opera e un temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un
l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le differenze, quelli e
queste ordinano in sintesi: fino a divenire, in diverso contesto storico,
la carità patria, il razionalismo, la religione del genio mitopeico
pagano,con valore (si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ;
generale e in- dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin-
gole saghe: individuato, rispetto al genio mito- peico. ,— Di che può
aversi riprova. A quel modo che durante la storia d'una specifi.ca fiaba,
Tinte- IL GENIO MITOPEICO 31 resse più attento
soverchia il cerchio breve del palco ove poche persone son mosse in non
molte vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di quel moto
; del pari, per l'interesse più attento, anche gli amor patrii di
Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e di Luciano,
com- petono fin da principio , dopo che a Vergilio a Luciano a
Dionisio ad Euripide, alla mentalità pagana di cui son pregni, alla vita
de' Grreco- romani nella quale immersi son trascinati su- bendo e
reagendo, come massi che il fiume ha composti e disgretola poi con la
medesima forza. Si che, a rigor di discorso, già i successivi
stadii d'un mito superano il mito, e si proiettano, in altra serie,
su lo sfondo comune, dove li dispone non più affinità di nomi e di casi,
ma di potenze spmtuali. Però a questa disposizione nuova
manca tut- tora l'ordine della successione : che è, anche, l'ordine
secondo cui la mitopeja si evolve. Non può valerci più, adesso, il
criterio cronologico : atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto
del tutto a decider, con certezza che non sia di pallida congettura o non
nasca da arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede versi la
purezza delle sue acque nel mito prima che l' analisi psicologica
vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga darebbe una
propria ri- sposta, diversa secondo vicende casuali o neces- sarie
(1). Qualcuna persino mostrerebbe con- temporanee le manifestazioni in
apparenza più (1) Sul valore di queste es^pressioni cfr.
cap. VI Ka- lypso § IV. 32 I. - LA STORIA DEL
MITO disparate o in sostanza più contradittorie. E, per
tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo di vedere il genio
mitopeico vivere, com'è d'ogni individuo definito, evolvendo le sue
speciali energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres- sioni
che ci richiamano senza dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano
quasi con cer- tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare
ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com- pararle o alle qualità
originarie o agl i ultimi corrompimenti. Ma perché più certe
appajono le prime, a esse la com[)arazione va riferita. E tanto più
si sente, allora, tarda (nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo
spirito mito- peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per
essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa
nuova ; si che il momento della conquista è ben paragonabile
all'oscilla- zione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.
Una storia compiuta dovrebbe però seguire il mostrarsi di ciascuna
energia, segnalando il punto in cui dopo la precedente essa
confluisce nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando il modo
del deformare. Una storia, per contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe,
facendo i suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della sua
incompiutezza, col tratteggiare senza dise- gnarle le linee dell'opera
propria. Tutt'e due vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi
delle forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga introdotto
dall'insita sorte, la vasta e chiara armonia del complessivo progresso
geniale, le cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del-
l'animo e dalle forze del pensiero. IL GENIO MITOPEICO
33 Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia,
apparirebbe la constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia
può scegliere a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di fronte a
noi, in lavori di arte letteraria e ma- nuale o in riti di culto, quando
oramai o per intiero o in buona parte lo spirito onde sono
elaborate ha acquisito le sue virtù : pel che quest'ultime possono
manifestarsi od occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro
reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma,
nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano,
ciascuno, un di- verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che
non è senza evoluzione ma con evoluzione di- versa dall'originaria.
Condizioni di ambiente fanno si che in una sola età, l'augustea, la
leg- genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo e zelo
religioso presso Vergilio, incrinata di scettico dubbio e di saccente
sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità
cronologica, non esitiamo a proclamare più ve- tusta l'una forma a petto
dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal certezza si
con- forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde appare
VergiKo attingere a più antica sorgente che Dionisio ; certezza dovrebbe
durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse possibile per
qual siasi motivo. Com'è del mito di An- dromeda, il quale è già scaduto
in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide lo
solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione patria e di
pensiero religioso. Crii è che la mitopeja ha oramai il possesso
sicuro A. Feeeabino, Kalypao. 3 34 I. - LA
STORIA DEL MITO di ciascuna tra quelle sue forze e di volta
in volta ne fa uso secondo richieggano sorti di- verse. Spetta
all'occliio dello storico separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il
primigenio acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba sia
evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori di quella fiaba; o sia in
vece, insieme, evolutivo nel progresso del genio mitopeico.
Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme, per cui le figure si
moltiplicano disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non
iden- tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in- trecciano
simiglianti e differenti ; e si dispon- gono in racconti svariati, che
ciascuno possiede, quasi nome personale, una peculiare orma, né
confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal- l'arte, ha destino
qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per contro
diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza creativa, la
limitatezza fondamentale della ma- nifestazione : il sottostrato di
potenza definita, di là dalla superficie delle creazioni che si
tra- mutano lungo serie senza termine e fogge senza numero. — E né
meno qui, in quest'altro ufficio, essa si converte in scienza astraente e
classifi- cante. Quando vengono disegnate le vie che la mitopeja
trovò per le sue creature, si adoperano certo concetti empirici e
partizioni; quali fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e
culto, per cui il filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i
medesimi concetti intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con
altri, e non impe- discono che quelle storie concretino individui
ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro IL GENIO
MITOPBICO 35 presenza non può decidere senz'altro contro la
natura storica di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata
storia mitopeica fonde leggi categorie e formule nello scoprire: in
primo luogo, i confini entro cui tutte le ma- nifestazioni favolose son
racchiuse; in secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono
disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo problema,
ch'è denso di realtà storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento
lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? — Il badile ed il
coltello han diritto alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento
travaglio campestre e la sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi
dolci e selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria del
genio mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue potenze,
nell'ordine dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa,
riapparirà a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,
senza sconforto, la fine della mitopeja pagana. — Non senza rimpianto però,
ch'è differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender galoppando
dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera il Sole muove verso
l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza di violenti.
Quella cecità e questa negazione sono stati il prezzo con cui
pagammo altri spettacoli ed altre cer- tezze. Ma il prezzo duole, nel
fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-
digia di opulenza spirituale. 36 I. - LA STORIA DEL MITO
V. — Kalypso. Sin qui tentammo della mitopeja e della
sua storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella
pratica degli studii e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee
bensì alle fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un
motivo interviene spesso a ridurre le indagini e le ricostruzioni del
mito nei confini di una sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica:
nei confini della letteratura. Certo, il genio lette- rario dei
Grreci e dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de' suoi sogni
mitici con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso
senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle
altre arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe (1).
Non cessa però che di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra
le loro espressioni è compiere una arbitraria amputazione.
Lealmente riconoscendola, questa colpa è grave. Né
medicabile. Si può palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi
per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-
proca guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade
nel pur ricco pa- trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più
stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi
da prodotti scolpiti o di- (1) Su ciò V. cap. VI Kalypso §
II. KALTPSO 37 pinti o in altro modo
artisticamente lavorati dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia
monca deve a forza integrarsi di quella sua parte che un caso rende
ben necessaria e come vitale. Con simile pensiero è fatto ricorso alle
notizie cul- tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe-
deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e lenire organiche
deficienze. Ma la plenitudine non è se non nell'intreccio del tutto ; e i
rife- rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto. Mal colmato,
il difetto permane, e si appaja con la incompiutezza cui limitate
esperienze entro esiguo numero di miti costringono il ritratto del
genio pagano facitore di saghe. Permane : la sua radice s'insinua fra
stretto] e rupestri, si che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile
tal volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf- ficiente cosi
della singola favola come della total mitopeja antica , la nostra insoddisfazione
si cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom- bri. Tant'è:
nell'isola ove piaceva a Kalypso di amarlo, con promessa di rendergli
" senza vec- chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,
da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa- tria lontana.
CAPITOLO II. Andromeda d). I. — Prima di
Euripide. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu- ripide
fece rappresentare in Atene una sua tra- gedia intitolata Andromeda^ alla
quale forniva materia un episodio del mito di Perseo. Ma se l'opera
dramatica aveva tratto dalla saga la so- stanza a nutrire la sua
compagine, nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore:
però che lunga già e complessa ne fosse stata, innanzi,
l'evoluzione. Antichissimamente, negli anni cui corrispon-
dono, eco affievolita, i più vetusti canti della epopea e poche mal certe
tracce, una assai uber- ei) Cfr. per tutto questo cap.
l'Indagine in libro II cap. I; di cui si citano i §§ nelle note
successive. 40 II. - ANDBOMEDA tosa terra
di Grecia aveva fecondato di sé un semplice racconto (1). Si
narrava in Tessaglia, e in ispecie nella pianura pelasgia che fu detta
Pelasgiotide poi, di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),
molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non lontano da morte, egli
era tuttora senza prole maschile, unica essendogli nata una figlia
a nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua schiatta, si sarebbe
recato a consultare in Delfi l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in
risposta, non essergli per nascer maschi se non da Danae, ma
dovergli il nipote togliere e trono e vita. Non fu vano il grave mònito;
ed ogni cura fu posta a che la vergine restasse dal generare,
contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio, riusci occultamente a
renderla madre d'un bimbo che fu chiamato Perseo. La nascita, che si
volle tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa vendetta
del re impaurito, il quale decretava che la giovine e il neonato fossero,
— come Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti in balìa
della violenta natura e delle intemperie. Mossero Danae e Perseo verso
l'oriente e per- vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li
accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi nella casa sua e del
fratel Polidette. Il bambino crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso:
tra i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo di muscoli e
destrezza di ginocchia d'occhi di braccia si rivelassero. Allora piacque
al caso (1) Cfr. § II e III. PRIMA DI
EURIPIDE 41 che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima
gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a- dolescente Perseo e
assistesse il vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino. Accadde
l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva sfuggire:
il disco venne dalla mano di Perseo lanciato, — opera d'un nume! — contro
le de- boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o- racolo per tal
modo compiendosi, il nepote ri- conosciuto si ebbe il trono e la dignità
dell'avo. Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice e intiera,
su dal suolo mitico d'una tribù aria, frutto non insolito d'un seme a più
altri simi- gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne
scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve racconto, lo spunto
originario della morte inflitta dal giovine, che si rivendica l'avvenire,
al vecchio progenitore, che il passato ha curvo e fiacco : dal
Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di purpureo sangue, per
illuminare l'oggi, al Sole occidente verso il bujo, circonfuso di
pm-pureo sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la notte,
nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e l'astro giovine regna in luogo
dell'antico, nato da una Danae (donna di quei Danai che nella
leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e sorto, oltre la linea dell'orizzonte,
su dalle case sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti
„ sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo, cui è il mal
grato biancore di ossa a pena commesse, diedero nel principio veste di
muscoli e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di bellezza
e di rigoglio traevano con sé e richiama- vano a tanti concreti
particolari della realtà : le 42 li. - ANDROMEDA
pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo di
Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje
ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,
disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di paura
e di pietà. Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù
venne foggiandosi in forme di plastica umana, s'innestò una di quelle
novelle, simili tra loro come tra essi i cristalli di medesima specie,
nelle quali il popolo par condensare, con la propria esperienza, la
propria filosofìa della vita, i^erché vi fissa gli esempli tipici delle
consuete vicende (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-
stiche delle figure che sospinge la sorte comune. Traverso la fantasia
delle masse, come traverso un vaglio singolare, il complesso, per
esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle
virtù che in genere presso quelli si riscontrano, si affina in una
selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi d'un
personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il
pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo
alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo
schema della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che l'ira
del padre discaccia per pena. Grracili virgulti quello e questo ; cosi
fatti però che im- provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-
tano sopra una determinata leggenda : cui recano, per altro, non esiguo
contributo in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto
impres- sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman- zesca e
forza dramatica. Non fu tuttavia so- PRIMA DI EURIPIDE
43 vrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il più recente
prevalesse sul più antico fino a ri- durlo in oblio: fu, come mi
espressi, innesto; onde l'essenza solare di Perseo, la sede
orientale del bujo Polidette, permasero a costituire il volto
significativo del mito durante tutto questo primo stadio, tessalico,
della sua formazione. Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo
Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,
venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi! mitici fra i
varii popoli della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a offuscar in
gloria e potenza il più antico, ed era situato in un con- chiuso
piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente della penisola. I
due Argo furon quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi il
peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via le leggende
che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra
di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso
nonno, rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-
zione argolica assimilò ben presto la saga tes- sala con i suoi
particolari e le sue figure: persino l'accenno a la Magnesia, che quanto
mai discon- veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro- fondo ;
persino, e specialmente, la morte di Acrisio in Larisa, cui grande varco
di terre e di mare separava dal Peloponneso, si mantenne non
alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era nel
mito ricordata per (1) Cfr. § III. 44 II.
- ANDROMEDA mezzo del suo eponimo Magnete, che si
fìngeva padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome
della persona ogni valore di riferimento al luogo geografico e ripeterlo
fuor d'ogni atti- nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un
sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno adimque, che nemmeno
la nuova leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col
proceder degli anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro
con la mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con
l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete
avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo vennero corretti e adattati:
né è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ; ma si vede
bene quale è per essere il più impor- tante. A Preto fu, nella seduzion
furtiva, sosti- tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui si
faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo : già che forse piacque cosi
adombrare quel Preto che in Argolide doveva riuscir meno noto, e
che aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto naturalistico
simile a Zeus. Ai monti poi della Magnesia, pur permanendo Magnete, fu
sosti- tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai costa
del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perché quell'isola fosse la
prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo è che per essa un lembo
di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata
in Argolide. Da Argo fra tanto il mito si diffonde: attinge Micene,
pe- netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica, che s'inventò
come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di rientrare in Argo e preferisse
PRIMA DI EURIPIDE 45 ceder questa, per riceverne
Tirinto, a suo cugino Megapènte figlio di Preto. Se non che:
con l'irradiarsi la saga, perno Argo, nel Peloponneso; e col pervenire
essa in territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura una
base duplice in cui son contenuti potenzial- mente due ulteriori
sviluppi. Entrambi si devol- vono nel fatto, simiglianti tra loro per
sostrato e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile lo
stabilire la priorità dell'uno su l'altro. Era leggenda fra i Joni
(1) che la dea Atena, cui molto culto si tributava e particolar
reve- renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un mostro
pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una delle Gròrgoni dimoranti al
limite estremo del- l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare
e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo significava trofeo d'una
vittoria conseguita dal- l'iddia avverso la protervia nefasta di
quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica, traccia
della natura xDrima ond'era informata Atena, divinità della luce solare,
nume del tem- porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze
luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero un altro
attributo si riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una
cappa, lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava il suo
splendoreogni qualvolta piacesse a lei di occultarsi : a quel modo che
l'astro sparisce agli occhi umani per molte ore vestendosi di
(1) Cfr. § IV. 46 II. - ANDROMEDA
oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali tuttavia, spunti di
gesta eroiche o divine: le quali, se si accoglievano bene nella figura
di Atena, non formavano ancora intorno alla sua persona una veste
cosi aderente, che non fosse possibile separamela in parte con lievi altera-
zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la Gròrgone e la proprietà
della cappa invisibile si riportavano assai meglio al sostrato
naturalistico della Dea che non al suo individuo, alla folgo- rante
luce che non alla sostanza corporea della effigie umanata. E perché
Perseo quando per- venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in
Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo essere dall'energia
naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva
pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a Pallade; accadde che a
lui pure si attribuissero e l'impresa contro Medusa e il cappuccio
ca- nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio se non quello
di ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una contaminazione delle due
leggende in una; ma di due leggende non indipendenti né ciascuna
distinta per sé, si di due che si ori- ginavano da una medesima
intuizione delle forze naturali, e aggeminate si erano dopo che
aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in luoghi
distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto che ne
nacque, come prese a vi- vere d'una essenza propria, ebbe la sorte
d'ogni materia vivente in organismo : si accrebbe. La fantasia che
plasma le leggende ha certi suoi modi, quasi formule, quasi schemi, nei
quali va PBIMA DI EUEIPIDB 47 foggiando analoghe
le sue opere : essa imprime del suo segno terreno il racconto di quegli
spet- tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti e gesti umani :
prende una seconda volta pos- sesso della sua materia. Cosi non concede
essa all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che l'uomo, e
assistito da soccorrevoli iddii. — facile e pronto il conquisto; vuole
sia arduo: prepa- rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis- mani
senza cui l'opera non può compiersi e per i quali trovare si
richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa,
un'awentui'a preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è
dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per- sonaggi. — Qui,
furono le figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre
sorelle Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un
occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, — si
narrò, — sapevano la sede di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui
non era concesso ad uomo trasvolar fino al limite dell'Oceano
presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che fosse atta a
contenere, dopo spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò
dunque ma non ottenne né quelli né questa se prima non ebbe con violenza
privato le tre vec- chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a
compenso della restituzione i due oggetti cui mirava. Gli fu
agevole poi, auspice Atena, conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita
la falce. Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare diletto,
se pur non quanto Atena, agli Ateniesi; il quale, avendo allora già
assunto rilievo di dio 48 II. - ANDROMEDA
luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc- corritore contro i
mostri bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A
concliiuder la quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana
del fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.
Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine
iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito.
Logicamente la causa dell'avventura e del pericolo aveva a
connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po- lidette. E poiché non
certo l'originalità è più ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor
qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a
noi, non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di
quei tramiti episodici onde abbisognava. Come contro la Chi- mera
fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò la morte; come Q-iàsone in
Colchide venne in- viato perché perdesse nell'arduo cimento la
vita; cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo per stimolo di
Polidette, che innamorato di Danae bramava toglier di mezzo il giovine
di- fensor della donna. Oramai il racconto era compiuto :
armonico, organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla quale
eran fusi i diversi elementi confluitivi da parti lontane. 11 lavorio
invisibile di penetra- zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a
tra- verso strati naturalistici e nove] listici aveva dato alla
fine il suo bel frutto maturo. Analogo al processo d'evoluzione
mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era
PBIMA DI EURIPIDE 49 accresciuto d'un episodio e di due
campeggianti figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso
terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a un tempo,
incomparabilmente più complesso ed inviluppato: tanto che l'indagine
riesce a rico- struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-
cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in- certezze non jDOclie, e
con grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono
i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è Perseo nella sua
natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro è
Cassiepèa o, — come il suo nome significa senza dubbio, — la "
millantatrice „; tipo popolaresco della donna orgogliosa troppo di sua
bellezza che osa com- petere in gara ineguale con le Dee, e n'è
punita per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque di essenza
diversa, che l'uno è naturalistico, novellistico l'altro ; cui tuttavia
compete un co- mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a
commettersi con più altri elementi, a raccoglierli intorno a sé, quasi
per energia magnetica; cosi da allacciare in maglia e in rete più trame
mi- tiche distinte. Per essi si formarono due compa- gini
leggendarie che insieme li contenevano e n'erano quindi accostate fra
loro. — L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in
particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma, Cèfeo, che sarà x)iù
tardi venerato con carattere e attributi di divinità ctonia in Cafìe,
luogo del- l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di po- (1)
Cfr. § V. A. Ferrabino, Kalypao. 50 n. -
ANDROMEDA poli abitanti all'orizzonte fra la luce e
l'ombra. Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli Etiopi, arsi
appunto dal Sol nascente e dal tra- montante, tòcchi dal bujo per un
lato, immersi nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli Etiopi
reggeva il suo popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto
conformi, nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui
come a simili mete muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche
fra gli Etiopi nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a pena
bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu scelto non an mostro
specifico, quale Medusa, ma una vagamente indicata belva che
sorgesse da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc- correvole,
nell'officio di Atena contro la preda gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo
di Vergine, strenua in combattere, ignara di mollezze fe- minee, il
cui maschio nome istesso rendeva ima- gine di possanza non muliebre si
virile: l'An- dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla
impresa ignoriamo; ma possiam senza errore fìngercene uno non dissimile
da quel che ap- prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde con
questo per contenuto forma e valore. Si ottiene un mito modellato sopra i
medesimi schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ; nel quale
i nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte sarebber identiche se non
fosser d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in- variati
se non apparissero scemi al paragone. Un arricchimento però venne ad esso
mito quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette non nell'
aggiungersi d'un personaggio all'azione. PEIMA DI EURIPIDE
51 si più tosto nel trasformarsi profondo del signi-
ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre- parare. Due avventure
di Perseo contro mostri delle tenebre non potevano non venir
avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la minore e
più svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe spontaneo, della
sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si andò
raggenti- lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo
novellistico della fanciulla che l'eroe libera di prigionia, ama e sposa.
Gli era stata al fianco nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi
contro il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del secolo sesto ce
raffigura nell'atto sgraziato del lancio, — constringendole e movendole
le membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne
alla vittoria, bella non forte. Allora, di- venne indispensabile
giustificar la cattività della fanciulla, motivar la lotta di Perseo
contro il mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n
vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese punito nella vita
giovine e florida della figlia, — Andromeda fu tramutata in sua figlia,
— sarebbe appunto stato la causa prima del peri- colo orrendo e
della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto originario dell'episodio
è alterato, nel profondo. La seconda forma possiede la vita che non
la prima. E individuata come non la prima. Da l'una a l'altra
segna il passaggio Andro- meda trasformantesi, e accanto a lei resta
Cefeo che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal mito i
personaggi caratteristici, i fondamentali sono Perseo e Cassiepea.
— 52 II. - ANDROMEDA Cassiepea e Perseo
prevalsero pure, sembra, in un'altra leggenda differente di origine.
Pro- tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten- trione di
cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti. Benefico e malefico egli
può esser difatti : secondo che dietro lui muova il rigente turbine
del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la freschezza dei suoi
vènti temperi l'afe estive ri- cacciando a mezzodì gli affocati
avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo
carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli
sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli,
mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento
de'fìgli di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse- guitarono a
ritroso fin là dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di
questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-
marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si
sarebbe levato col maleficio deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con
la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per
esserne sopraffatto. Non l'au- tunno sopravviene, nella nostra leggenda,
a miti- gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima- vera a
dissipar le brume e i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe
solare che trionfa del re nordico fu, — sembra, — appunto Perseo, in
singoiar duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e trovò, un
motivo in Cassiepea : ancor una volta pare che il vanto di lei fosse
addotto a spiegar la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio :
figlio per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che
PKIMA DI EURIPIDE 53 si dice da Esiodo. Col che si ottenne
anche di fornire compiutezza romanzesca alla favola, quando il significato
naturalistico ne andasse smarrito. C era dunque la materia , idonea
a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé il levame
opportuno, un mito pur esso drama- tico né meno denso di bellezza
poetica. In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera
ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso complesso. —
Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo, ne' quali entrambi
Perseo e Cassiepea appari- vano non pure nell'identità de' nomi ma e
nella analogia degli uffici, non potevano rimanere distinti: e
tanto meno potevano se, — come non è provato ma è forse da ritenere, — un
mede- simo suolo li generava. Si com penetrarono di- fatti fin che
divennero una narrazione sola in cui gli elementi delle due generatrici
sussiste- vano tuttavia presso che integri, là sol tanto alterati
ove fosse parso inevitabile alla logica della commessura. Rimase il
duello fra Perseo e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda da
Cassiepea: ma, — e fu il segno della con- nessione fra le 'due saghe
indipendenti, — la causa della lotta fra i due eroi, fu
rintracciata non più nel supposto vanto d'una madre, ma nella
stessa precedente vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive
nozze. Fineo, si disse, sarebbe stato il promesso sposo di
Andromeda avanti la venuta del giovine liberatore: cosi ignavo
prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare diritti di
precedenza. Inascol- tato ricorse, ancora si disse, al coperto
agguato 54 II. - ANDROMEDA con l'armi. Fu
abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia scatuiigine : senza
che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An-
dromeda, su rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di maternità
fra Cassiepea e Fineo. Chi confronti ora da un lato
l'avventura me- dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed Ermes,
e l'impresa d'altro lato avverso il ketos con il premio della vergine e
il contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei
due episodii, senza indagarne il significato re- condito ; non vi trova
pili tracce di quella simi- gliali za che le saghe della "Maschia,,
e della Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av- verte
dramaticamente diversi, materiati entrambi di moti sentimentali ma or
verso la madre Danae or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe-
rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro la famelica belva ora
contro l'imbelle ostinato. La cosi ottenuta diversità formale, permise
a chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende
di lui, di comporre queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe
e la uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta fu compiuta
da Ferecide, il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico,
e di- venne per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice
(1). Ne possediamo un sunto per (1) Cfr. § I.
PRIMA DI EURIPIDE 55 opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò,
onde è necessario integrarlo col testo del ben più tardo
Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa- dorna. Essa non è più per
noi, nella forma con cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la
lunga gestazione per effetto della sintesi nar- rativa; ma è, di quel
corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa vediamo Perseo compiere
, dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av- venture, la
medusèa e l'etiopica, per ritornar- sene in Serifo a impietrar Polidette
e in Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in
Tirinto il suo regno, che Argo gli era di- venuta infesta. Ma effetto
dell'esser stata rac- colta in sintesi la serie delle gesta eroiche
di Perseo non fu solo di fargli attribuire per arma contro Fineo il
capo della Gorgone o di condurre sul trono di Argo Andromeda re-
gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe all' episodio del ketos
ogni vita autonoma : valse esso qual momento d'una complessiva
azione ed ebbe valore di conseguenza da un lato, di premessa da l'altro.
Parte d'un tutto, doveva dal tutto ricever sua norma e sua im-
portanza: fin che al meno non ne fosse mu- tato il sostanziai contenuto;
e l'essenza sua romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più
quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di particolari le vicende,
di gesti le figure, — non si trasformasse in essenza diversa. Nel
molto che andò perduto eran certo forme varie di cotesta indispensabile
trasformazione. Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli sto-
56 li. - ANDROMEDA rici del secolo quinto (1). Per
essi la favola di Perseo e Andromeda acquista una impor- tanza
nuova di reliquia fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione è un
avvicina- mento verbale : uno de' consueti di cui si com- piacque
la fantasia degli anticM nel conato e nella pretesa di farsi pensiero
critico : fra Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo- gica ma
fonica indusse a ritener quello capo- stipite di questi: non direttamente
però, si bene per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato il nome
" Perse „ per più di verisimiglianza. A dar poi un aspetto anche
meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta ària
di cui doveva esser memoria fra i Persiani, " Artèi „: questo
ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto dall'eroe e
dalla sua discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine, sbiadire
fino alla scomparsa il ricordo degli Etiopi, sudditi di Cefeo nella più
antica saga: però che essi si riconoscessero, in quell'epoca, or
mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud dell' Egitto. In
luogo loro si coniarono i " Ce- fèni „ desumendoli, come traspare,
dall'ap- pellativo medesimo del re. E si pensò che a Cefeo
succedesse nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e Perseo ; che
Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ; e
il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si denominasse Persiano. La
garbata ricostru- zione critica non fini in questo : perché,
difatti, (1) Cfr. § VI. PRIMA DI
EURIPIDE 57 i Cefeni con Perse sarebbero
mossi a sottoporsi gli Artei? La risposta si trovò combinando
questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi semiti che avevan
sede intorno a Babilonia, eran noti altri Caldei abitanti lungo il
Ponto, presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo esiguo di
questi si riteneva un ramo da quelli staccatosi in età antichissime.
Poiché inoltre sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava abitar
Fineo fratello di Cefeo e principe per tanto dei Cefeni; fu facile dire
che i Cefeni avevano abbandonato la regione loro, allor quando da
Babilonia i Caldei eran mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol
tutto la trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di- parte una
schiera di Caldei ad occupare la terra settentrionale dei Cefeni e
scaccia questi ; che si spingono verso gli Allei, li sottomet- tono
e insieme divengono il popolo de' Persiani. Se non che questa
mitopeja di eruditi pur riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda
in singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon- dendogli una
essenza nuova dissonante dal resto della fiaba , finiva però in una
soppressione dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce- feni, la
lotta col ketos, le nozze con Andro- meda, il duello con Fineo, sono un
niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro fatto
s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno più vita
artistica; le con- seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo
realtà nasce; ma la bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune
del nostro pa- trimonio letterario troppo non ci traggono in
58 II. - ANDROMEDA inganno, l'episodio di Andromeda,
che nacque dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii» emergenti
a lor volta su da rigide abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti
della fantasia mitopeica, non solo perde presto la sua autonomia
col commettersi ad altre vicende, ma indugiò a svincolarsi da F impaccio,
e a cir- coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché il
senso critico lo adulterasse e , un poco , lo vituperasse.
n. — Euripide. Fu sorte della tragedia dare a esso
episodio di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu né romanzesco
né storico ; ma psicologico. Di altri non ci rimase sufficiente notizia.
Di Euri- pide possediamo i frammenti bastevoli a rico- struire il
drama, se non ne' suoi particolari di arte e nelle sue forme di tecnica
teatrale, certo nelle sue linee maestre (1). Era consuetudine
ferrea che la tragedia nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in
quale modo i tragedi pervenissero all' elezione del tema e alla
scelta dell'argomento non è possi- bile dire, per la oscurità
imperscrutabile de' pro- cessi artistici tal volta inconsci, e per la
penui'ia (1) Cfr. § VII. I frammenti, naturalmente, son
citati e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^ (Lipsia
1889). EURIPIDE 59 delle notizie tradizionali.
Sol tanto si può con qualche chiarezza intendere come il problema
di arte si presentasse al poeta allor quando si ac- cinse a
elaborare la fiaba di Perseo e Andro- meda ; come, in somma, lo spirito
di lui pren- desse possesso, nell'impeto creatore, della materia
leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal testo
di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel
potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra- verso
l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro
era l'umano, sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel
corruccio di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu- ziale di
Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano la loro unità in un terzo, che
è, in somma, del mito il carattere eroico e la forma romanzesca.
Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen- siero, l'umano, il divino,
l'eroico. Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo più vivo inte-
resse. Non solo difatti egli staccava nella tra- gedia l'episodio mitico
dalla serie narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di
tutta la dramatica greca, di appassionare non la fan- tasia bensì
il sentimento degli sf)ettatori; e lo sottoponeva all'esigenza di \àbrare
per pregio e forza intrinseci non per smaglianza esteriore di
tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie, come sono ben lontane da
quelle che l'hanno creato dinanzi la natura e complicato in
novella, cosi son anche più mature dell'altre che ne han goduto,
con puerile compiacenza, lo straordinario e l'impossibile. Per certo le
più antiche e le moderne cerca van tutte nella saga una verità ;
60 II. - ANDROMEDA ma la verità naturalistica e
la verità eroica non appagavano ora quei cittadini di Atene che vi
desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto spostarsi
dell'interesse mitologico, il colorito ro- manzesco che un tempo riusciva
opportuna o indispensabile commessione fra i due diversi elementi
della fiaba, sopravviveva adesso, in- sieme col divino, quale materia in
apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un
piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di
Dei? E ovvio però che il poeta non vide, come qui cri- ticamente si
espone, il suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo
egli non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere;
ma il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a
seconda dei casi in guise diverse. Poiché ci sono rimaste
nella loro integrità V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel
medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in- trawediamo a bastanza la
vita dello spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte
tentava il nodo mitico di Perseo (1). Il nucleo primo cosi dell'una
come dell'altra tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed
Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per (1)
L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so- ciale d'Euripide
intorno al 412 è fatta di sul testo (edi- zione Murray Oxford s. a.)
di&WEletta e AqW Elettra ed emana da quello. Di più cfr. §
Vili. EURIPIDE 61 vendicare il padre
uccidono la madre ; clie odiano fino a darle la morte la donna da cui
nacquero, ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi che col
sangue di lei scorre nelle lor vene una indicibile virtù di amore e
rispetto : proten- dono da la scena una dolorante maschera umana ;
fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni del teatro. —
E quando Menelao re- duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto
recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im- batte nell'Elena vera,
quella che gli Dei re- carono celatamente in Egitto, mentre un
vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla decennale
guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa s'urta nello spirito
del principe con lo sconforto per i travagli sopportati in vano e
la vita gittata in vano da centina] a di prodi : allora con la sua s'agita
la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e sofferenza
giun- gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra.—
E in queste situazioni palese l'immer- gersi dell'artista nella sostanza
dei personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio com- pleto
di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si- stema filosofico applicato,
co' suoi postulati ge- nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è
espresso, dal profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra
nel terreno la via. Ma di qui non è pos- sibile indurre riferimenti con
l'ambiente storico del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo
stato psichico di lui in quegli anni; ma solo intorno al consueto modo
della sua forza d'arte. L'animo di Euripide si rivela più in là. In
quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò. 62 II. -
ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di
Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non poteva respingerené
poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe
imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or- dine di
Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un simulacro
inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di energie e va-
lore. Cotali interventi divini eran la premessa indispensabile dell'azione
; divennero per Euri- pide radice di nuova tragicità : però che,
tanto più gli parve orribile il delitto di Elettra, in quanto era
ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto più spaventoso il
vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque
le parti divine della tragedia si con- nettono per lui strettamente con
il travaglio umano ; ma costituiscono una forza cieca e buja contro
cui bisogna urtare : simile al peso corporeo che non s'evita con gli
slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime
con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accettò l'oracolo di
Apollo ; ma chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose non
savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... — taccio:
certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non
ri- spose. E anche si domandava, e fece suo inter- prete il Coro,
" perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch'è morta
Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi
(1) Elett. vv. 1245-6. EURIPIDE 63
rispondere con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] "
Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto
della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non
può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di
male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni
del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera.
Il poeta, in quanto poeta, resta per- plesso ; non decide, ma porge
intatta la que- stione al pubblico , dopo averla agitata col
prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in- telligenza.
Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta nelVElena.
Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera
di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il
fine, e a Paride concede una par- venza di quel corpo che nella realtà si
cela ap- presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie ,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar
cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo
Febo... — taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1)
: o sia non ri- spose. E anche si domandava, e fece suo inter-
prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa
ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi
(1) Elett. vv. 1245-6. EURIPIDE 63
rispondere con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] "
Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto
della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non
può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di
male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni
del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera.
Il poeta, in quanto poeta, resta per- plesso ; non decide, ma porge intatta
la que- stione al pubblico , dopo averla agitata col prestigio
dell'arte, e posta con lucidezza di in- telligenza. Del
iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un
capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera
di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il
fine, e a Paride concede una par- venza di quel corpo che nella realtà si
cela ap- presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie ,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp orta paziente l'ignominia che cade
sopra lei incolpevole, con- fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di
Teo- climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello
(1) Elett. vv. 1298-1301. 64 II. - ANDROMEDA
ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto, cortese e
affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai più piccini,
nell'animo, che i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche
qui il problema si formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio
fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro (1) : " Chi è dio,
chi non dio, chi semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto
lontano la sua ricerca, dirà di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere
divine or qua or là balzare con contradittorie e inaspettate
vicende? ,,. Nessuno risponde. Questo silenzio è una tragedia a sé.
Non si svolge materialmente su la scena, accanto i per- sonaggi sé
moventi, ma è nello spirito del poeta, ed è a noi non meno fraterna. Ben
sua, la se- conda tragedia, più che la prima. Non di com- passione,
di simpatia geniale verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma
di spasimo e strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale
nasce ad Euripide nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni
filosofìa. Il suo pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato
or mai la concezione omerica e infantile degli Dei, non vi crede ;
l'ha sostituita con una più matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere
il suo mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta,
sente l'urto fra le due idee; se ne tor- menta : ripete a chi l'ode la
favola bella degli antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua
filo- (1) Elena tv. 1136 sgg. EURIPIDE
65 sofia ; questa e quella compone, senz'accordo logico,
entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi divini, che la
tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta trava-
gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche hqW Eìena^ giunte che il
poeta solo volle e in cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti
; intrusioni sgorgate da un animo che, non pure assorbe in sé per
rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si abbandona, anche
con quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee. Tale
s'originò nel drama di Clitemestra la figura del contadino, povero e
rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto di azioni :
VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in sposa dalla madre,
la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore. Egli, come
apprese la condizione della fanciulla che gli veniva de- stinata e
gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti coniugali, pur
continuando ad ospi- tare nell'umile sua capanna la donna e
fìngendo, per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando
aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime
luci, fanno sfondo i campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi
: la Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di forze sane.
Dopo, ogni suo gesto è virile e so- brio, contenuto e cordiale ; il suo
spirito si rivela semplice perché diritto : e mentre Elettra ed
Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in
valore fino a superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso.
Né basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama gli sguardi
su la sua creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5
66 II. - ANDROMEDA esclamare con maraviglia un
poco attonita (1) : "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a
distinguere la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli uomini.
Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre generoso; e rampolli
onesti di genitori perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la
magnanimità in un corpo povero. C'ome orien- tarsi ? secondo il danaro ?
mal fido criterio questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi-
seria è una malattia, cattivo maestro è il bi- sogno : secondo
l'esercizio dell'armi ? ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe
qual sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde- cisi codesti
problemi. Costui per esempio grande non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg],
non insigne per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure si
rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta figura divien quasi di
maniera e par disegnata per dimostrar una tesi o attingere uno
scopo. Quale tesi o quale scopo si propose Euripide nel concepirla
e nello stagliarla? Non meno larga che neìV Elettra è nelV
Elena la novità introdotta. E anzitutto nella scelta medesima della
favola : un mito secondario che risale a Stesicoro (2) e che, a lato
della principal leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem- brava
destinato a viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo preferi per motivi
ch'è vano indagare; che forse si assommano nel desiderio di met-
(1) Elett. vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe Helene in
Pauly-Wissowa " R. Encyclo- pàdie , VII (1912) pag. 2833.
67 terne in risalto il singoiar contenuto. La
donna bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa- rebbe
stata causa unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed errori
per altri dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli
strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti misogini ; è di
colpo trasformata nella più pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella
ha giurato a Menelao di " morire ma non mai vio- lare il letto
„ (1) ; né ha giurato in vano, che di morire è sul punto, e attiene la
parola, ed è beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a
te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo) il coniugale amore di
Menelao ; che le afferma " Privo di te, io finirò la vita „ (3).
Onde sol più li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da
acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af- fetti traverso anni e
vicende acquista il suo più vero significato quando venga contrapposta
al- l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone, di cui era
intessuta l' Elettra. Fra questa di- fatti e V Elena le attinenze sono
indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe più,
spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e
svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze diven-
gono palesi quando le due cognate si parago- nino fra loro e le due
sorti. Clitemestra non è presso Euripide se non la malvagia donna :
tale la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i
(1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841.
(5) Elett. v. 1278 sgg. 68 II. - ANDROMEDA
vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella bensì rimproverando
ad Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in vano : " la moglie
bisogna che, s'è savia, tutto consenta al marito „ (1); non è
giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne nell'Eliade
(2). No, — osserva sdegnata Elettra, — tu nascesti cattiva (3) : "
tu, prima che fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano
appena da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le
bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la donna che, assente il
marito, adorna la sua bel- lezza, si cancelli come cattiva „ (5).
Appropriato amico di cotesta non buona, figura Egisto, non prode,
non nobile, ma ambizioso della sua grazia corporea e avventurato sol
tanto fra mezzo alle donne. C'è dunque nelle due tragedie il
riscontro fra due coppie : riscontro a base morale, ma in- trodotto
dall'arbitrio dell'artista in miti privi d'ogni cosi fatta
preoccupazione. E perché intro- dotto? perché l'arbitrio?
Alla domanda che per la seconda volta in breve esame ci si presenta
non si deve rispon- dere se non dopo aver rilevato un altro parti-
colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi
in nulla sforzi du- rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di
sdegno contro gl'indovini che, prendendo parte all'im- presa, non
scorsero la verità, non svelarono il comune abbaglio, né evitarono
vittime inutili. Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere
(1) Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.
(4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. BUBIPIDE 69
degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal- cante non
disse né rivelò all'esercito vedendo gli amici morire per una nuvola ; e
né pure Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse, che un
Dio non volle. E perché allora ci rivol- giamo agli auguri ? agli Dei
basta far sacrifizio invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :
furono inventati ad allettaménto della vita, ma nessun ozioso divenne
ricco per gl'ignispicii. Il senno e il buon consiglio sono l'augure mi-
gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso- naggio, non pur
dramaticamente notevole, ma anche moralmente insigne, Teonoe sorella
di Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù di saper tutte
quante cose avvengono ; è quindi invasa da una potenza profetica analoga
alla magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è buona, ella è
giusta, ella è savia : sa, ove occorra, tacere al fratello gli
avvenimenti più vicini af- finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me-
nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che non è fittizio né
casuale : Euripide parla cosi per bocca del Nunzio come per bocca de'
Dio- scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi il suo più
soggettivo pensiero. In questo suo pensiero sta di fatti la
ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della purezza di
Elena, e del dissidio tra le due forme di vaticinio. Il poeta è percosso
da un'unica ansia, di cui quelle son le forme momentanee ; è morso
(1) Elena vv. 744 70 II. - ANDROMEDA
da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii
occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per
cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un marito fedele,
un'indovina equa ; la figura che crea con compiacenza paterna : un
lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av- versa acre e violento
: un bellimbusto galante, una feminetta vana, un augm'e stolto. Da
un lato coloro che rientrano nel suo concetto del bene e del giusto
; dall'altro quelli che appar- tengono al suo concetto del male e
dell'iniquo. Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul principio
che regola la sua morale ; solo la espressione può venirne
discussa. Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo ci
s'accorge che quel bene e quel giusto egli vuole a prò dello Stato, che
VavtovQyóg egli re- puta degno e capace di governare la pubblica
cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna e Menelao gli piace
constituita la polis a scopo di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge
che il suo occhio mira più in là d'una teoria morale: mira, fiso e
intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini ateniesi
sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K
a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret- tano a conchiuder V
Elettra perché debbon " sal- vare le prore nel mar siciliano „. Il
Peloponneso minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte non
volge migliore. E all'interno ? E peggio. La democrazia non dà buoni
frutti dopo la morte di Pericle. Il partito de' temperati si alterna
nel potere con quello degli estremi : ed è tale la
EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli uni non
attingono il governo se non quando le disfatte han dimo- strato
rinettitudine degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri
non li colpiscano a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza; ed
ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra tutti, male comune
nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la sete
del gua- dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui
ciascuno informa l'opere se non le parole : ' beato chi è ricco ', ' la
ricchezza è po- tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il
povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è il danaro '. E la sete
inesausta travolge ognuno in una lotta, ove il pregio morale non
conta, la forza intellettiva non importa più che il tesoro cumulato
; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif-
ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava superarla ; piegar la
realtà possedendola sino al fondo, conoscendola in ogni forma ed
esigenza. E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri- volgimento
costituzionale serpeggiavano e fer- mentavano all'oscuro : si preparava
la rivolu- zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la
materia sociale toccò Euripide ; il suo spi- rito ne fu macerato e
sconvolto : però che contro l'immediata e ineluttabile realtà dello
Stato, ine- riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non
(1) Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig 1884).
Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui è veduto con gli occhi di
Euripide. 72 II. - ANDBOMEDA segui né
l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece con la classe di mezzo. Ebbe il
cuore con gli adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me-
nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica, che il suo genio
d'artista non poteva né doveva sodisfare, in esigenza morale: spostando i
pro- blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di- venne malinconico
di speranze deluse e rina- scenti. A canto alla tragedia religiosa
sussistette nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta-
tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro- blemi, troppo poeta per
saperli risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, —
opportuna- mente, — tutte quante le quistioni minori della vita
sociale e familiare ; le contese minute su questa legge o quel decreto :
le spine sparse lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet- tiva
contro gli auguri, secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le
poleis greche, che repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di
filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro
di Teonoe in cui il vero dono divino si rivela appunto pel modo del
suo uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „
corruccio ancor questo: che favore di auguri aveva secondato l'infausta
spedizione siciliana (1). Cosi tutta Atene può entrare, ed entra,
nel- l'animo del poeta per tal via: melanconico spi- raglio alla
più intensa vita. Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar
la materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della
(1) Tucidide VII 50; Vili 1. EUKIPIDE 73
religione e della filosofia ; preoccupato dalle sorti politiclie e
dalle condizioni sociali della sua patria Atene : Euripide crea i drami
fra l'urto di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e con
VElena^ V Andromeda. Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i
par- ticolari minori e grinciampanti aneddoti della saga ; e colse
di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi imaginò la lotta di
Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento delle due
potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel pensiero di cìii
raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo e ne divenne
mito- grafo, la bellezza era constituita dal numero e
dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il
pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi
dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente
l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo :
dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo
flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor
pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio
della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti
di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete
da lungi; non lontano è il mare onde la belva vorace verrà al
selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali
di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda scia- gm-a. E
notte. All'alba il ketos deve sopravve- nire. E nell'animo degli astanti
la deprecazione 74 II. - ANDROMEDA del
male imminente lotta con la tormentosa ansia pel greve indugio : l'attesa
gravita su i capi come un mostro informe. " sacra notte, qual
lungo cammino con i cavalli percorri, reg- gendo il tuo cocchio su gli
stellanti dorsi del divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „
(1): tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore si ribella
contro l'asprezza del fato e la trista disparità del dolore : "
loerché più larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso
alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta il conforto dividendo
il dolore : " perché chi soffre sente alleviato il suo male, se del
pianto fa parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel petto,
senza sollievo, con la durezza della ma- teria minerale, e non prorompe
se non per voci d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il
moto compassionevole delle compagne, si di- scioglie nella rievocazione
lacrimosa di tutta la vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio
divino onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla pena. I
presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di spasimo
lirico : che si as- sommano nel presente pianto della figlia pu-
nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente
creatovi dall'arte, un'amara voluttà del dolore stesso onde si soffre, e
una insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze avrebbe diritto
pel fiore della sua giovinezza, — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è
recata; non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi
(1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. EUBIPIDE
75 e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere
Tuniformità di questo tormento, giunge a tra- verso l'aria con l'alato
piede Perseo, reduce dal rischio di morte incontro a Medusa: il capo
ne reca in Argo (2). E radioso della sua recente gloria ; bello
della sua giovinezza. Stupisce prima : "" Dei ! a qual terra di
barbari col veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine
d'una vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi! „
(4). Si fa poi sol- lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. "
Tu taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade- guato
interprete del pensiero „ (5). Non senza ran- cuna son le prime parole di
quella : " ma tu chi sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore
la tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof- frire, non
definisce audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole
: " ma tu chi sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). "
vergine, ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni freddezza si
dissipa. Quel che d'ostile era an- cora nelle parole della fanciulla si
placa. Quel che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta.
(1) Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des
Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei particolari
esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237.
Lascio indiscussa la quistione, però, ntorno al coro che il Bethe
riconoscerebbe nella figura a sinistra di Ermes. (2) Fr. 123.
(3) Principio del fr. 124. (4) Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6)
Fr. 127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente
dato dal Nauck. 7G II. - ANDROMEDA La
frase dell'uno accende quella dell'altra ; si susseguono rincalzandosi
per armonizzarsi in un concento unico di vivace simpatia
vicendevole. E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si forma
adesso assai più nell'inconscio secreto del cuore desideroso che nella
vigoria dei muscoli forti e pronti, erompe in promessa : "
vergine! s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-
la sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli è premio
valevole. Ma quel che ora chiede è più che una gloria : è il possesso ma-
gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo animo troppo è ancora
tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme
d'il- ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di pianto,
inducendomi speranze! „. La risposta, che nasce da l'immensità del suo
soffrire, può parer dura al generoso offertore; l'istinto femineo
se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per colpa di te "
ma molto può avvenire contro l'aspettazione... „ (2), La speranza di
campar la vita non è nata o almeno non è del tutto salda; è nata la
fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo passato di vittoria, della
sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli
moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci- narla con sé nel sogno,
a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora
lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde è dato
al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su la
rupe triste sul (1) Fr. 129. (2) Fr. 131. EURIPIDE
77 mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero
! e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia moglie, sia
schiava ! Abbi pietà di me che soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! „
(1). Perseo com- batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico
mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo dei pastori : a
ristoro della fatica, chi recando una tazza d'edera colma di latte, chi
succo di grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola
del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa del salvatore (2).
Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è la fondamental
intuizione psicologica della tra- gedia, il progresso rispetto al mito
ferecideo. In quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco
valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo offerto da Cefeo al
vincitore Perseo. La fan- ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è
vittima nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta: meglio,
l'anima non le è data. Euripide per contro ne fa il centro della scena :
plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce di
sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non
comparabile con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe.
Ella gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si
accoglie d'intorno nel compianto di Eco. Ella contrappone il proprio
forsennato de- siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol
morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando
il giovine eroe giunge, (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr.
145-148. II. - ANDROMEDA la divinità di
lui si menoma e si abbassa di- nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa
in una corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi, tutto sembra
invertirsi : nel riandar le sue glorie Perseo si accresce, nel narrar la
sua doglia An- dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve- nuto
per l'aria pare alla fine attrarre sopra di sé, ch'è per affrontare il
ketos, tutta la luce. Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al
fervido desiderio del prode il grido della sua dedizione, — e si afferma
per tanto di nuovo, vivace, nella sua libertà che dalla passione
forma il volere, del volere compone il proprio decreto. La "
Maschia „ che nel primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di
consiglio Perseo contro la belva, era più vigorosa corporalmente;
non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella tragedia
euripidea, una tanto geniale innova- zione doveva sembrare anche
anarchica urtando contro le consuetudini legali e morali della vita
ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve- lare e temiDcrare agli
occhi dei cittadini. E chiaro che Cefeo interveniva in qualche
modo, o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna, e a
ricomporre nello schema giuridico la mossa ardita della figlia. E fine si
manifestava forse, in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.
L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza effetti. L'amore
della vergine che prima della lotta trionfale era come offuscato di paura
e di speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò di malinconia
contrastando con gli affetti filiali. " Conducimi con te „ aveva
esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica
al EURIPIDE 79 vecchio padre canuto : e
la dipartita ne diveniva grave, aspra la lontananza : era svèlta
ancora (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec- chiezza di
lui. Accanto al padre, la madre : col- pevole, è vero, del rischio; madre
tuttavia. Nel doloroso contrasto levasi l'appello al dio che
travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere i mortali che affligge :
" Ma tu, tiranno di uomini e Dei, Eros, o non mostrarci belle le
cose belle o ajuta benigno gli amanti che penano pene di cui tu sei
l'artefice ! E, per tal modo facendo, onorando sarai ai mortali ; non
facendo, per lo stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia di
che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto piacque al pubblico
perché nella veemenza del- l'amante incontro al Dio della sua passione
tras- pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire, non invoca
la salute del morbo, ma un ajuto a tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto
: l'amore vince. Era ancor questa una giunta di Euripide
al mito. Ma secondaria: un che di convenzionale la gravava ; non
improntandola il segno del pen- siero innovatore, ma parendo scaturir
ovvia dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del- l'artista,
inappagato, volle nutrir d'altro sangue quel dissidio sorto dalla pietà e
dall' affetto e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più larghi.
S'innestarono difatti sopra l'analisi psi- cologica queir ansia pregna di
preoccupazione (1) Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr.
§ VII. 80 II. - ANDKOMEDA politica, quel
travaglio complesso di meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna
delle due tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma-
gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui crede di aver esaurito
per una via la materia psichica del dramma, una nuova senza indugio
gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma generica umanità del suo
pubblico, per eccitarne peculiari moti e destarne i singolari
interessi. Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,
l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro alla difesa della
giovinezza e della passione, da lui concette e atteggiate sotto la piti
seducente specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il pensiero eh'
egli dilige; a Cefeo e forse a Cas- siepea spetta di combatterlo.
Qualunque sia la quistione giuridica o sociale o politica di cui è
per far cenno, dalla sola impostatura dei ter- mini si comprende che
Euripide, — anche una volta, — aspira a risolvere una difficoltà
em- pirica col criterio non dell' utile e del pratico ma del buono
e del bello. La quistione poi non è sola, si consta più ve-
ramente di due. I genitori della vergine s'ar- mano oltre che dei proprii
diritti sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il
congiungimento degli esseri si trasforma in un contratto econo-
mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto da la pietà ospitale, ha
troppo palesemente la peggio di fronte a le ricchezze dell'unica
figlia del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro io
voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche se schiavo, onorabile è
l'uomo ricco ; il libero, bi- sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci
causa della EURIPIDE 81 felicità! „ (1).
Che importa forza di gioventù, ardimento di cuore ? clie importa la
gloria im- mortale, per cui " già morto, già sotto la terra,
sii venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno viva,
l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli, con l'esempio recente, che
si può per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura
(3). Risponde, al ricco anche la sventura esser più lieve che al
povero: già che quello non soffre se non del presente ; questo "
ogni giorno spa- venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-
lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica e
il materialismo gretto si as- somma in una sentenza : " questa delle
ricchezze è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu- ripide
ha torto ; la ragion pratica lo deve con- dannare, se pure lo asseconda
il sentimento. Ha torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non
al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla plutocrazia d'Atene e
alla cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi
dal tragico non vien conseguito, un altro lo è, più dramatico : di
far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di stimolare i cuori. La
memoria è recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il
lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli
de' suppliziati giungono an- cora in Atene ; ognuno interroga l'
imminente destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor- bida
d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando (1) Fr. 142.
(2) Fr. 154. Cfr. § VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr.
137. A. Ferbabiko, Kalypso. 82 li. -
ANDROMEDA cader la sua massima morale il suo rigido e
teorico principio, se non insegna una via, dis- gusta del presente
cammino. Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e
rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, — quarant'anni circa prima
deìVAndromeda^ — Pe- ricle aveva proposto e fatto votare un
psèfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i nati da
genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in
vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di
Ari- stofane. In verità se si pensa agli scambii con- tinui fra Aliene
e gli alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero
gli Ate- niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e
decaduti a un grado inferiore, solo per aver con- tratto unioni con donne
straniere. Pericle stesso fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né
solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno urtava quel decreto
incresciosamente; ma tutte le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se
né pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate- niese, per
esempio, una donna nata in città della Lega marittima, dura e perigliosa
barriera si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur del
loro ajuto di continuo abbisognava, e su la loro fedele assistenza doveva
contare specie du- rante le guerre infelici. Onde il largo spirito
euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse la società de' suoi
tempi, si giovò dell'attributo etnico che la saga conferiva ad Andromeda
per riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad Andromeda
difatti diceva il padre, — o la madre : " Non voglio che tu n' abbia
figli illegittimi ! EURIPIDE 83 che, ai
legittimi in nulla essendo inferiori, sof- frono per legge: da questo è
necessario che ti guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi
fatto mònito è pari alla profondità del problema toc- cato. Perseo
accoglie su di sé le simpatie non pur dell'autore si del pubblico, per la
sua ge- nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia la
eventual vittima della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il
cattivo genio della tragedia avverso il buono : trasporta l'
uditorio intiero contro il decreto e gli strappa, non per
raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo. Aristofane muove a riso
se un suo cotale perde l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide
indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere ma, dopo un estremo
rischio, nel giusto com- penso d' amore. All' architettura passionale
la scenica doveva corrispondere per modo che non s'adombrasse
alcuno né dell'anacronismo né del- l'irrazionaUtà (2), di cui qualche
mediocre spirito potrebbe menare grande scalpore. Anacronismo
e irrazionalità era difatti mo- strare Perseo ed Andromeda sotto
l'aspetto — che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non se
ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano essi indizio d'un'
alterazione del mito ben più profonda ed esiziale di quella operata dalla
ge- nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di
(1) Fr. 141. Cfr. § VII. (2) Mi piace qui ricordare l'arguto
e acuto studio di G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura
(To- rino 1903). 84 II. - ANDBOMEDA
rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti fra la nostra
essenza umana e le favolose vi- cende. Invece, una volta intrusi fini di
ripren- sione politica e di biasimo sociale sopra la trama della
sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita. Eppure il poeta che, a
proposito di Perseo e del ketos, affronta problemi proprii dello
statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che, al me-
desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di Cassiepea :
quegli immette nel mito la società, questi l'uomo ; e tutt'e due
sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si
assiste cosi a una penetrazione suc- cessiva e graduale del fenomeno
solare nella sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento procede,
tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la
fede non ra- zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in
paradigma d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero,
dopo che Perseo è di- venuto pretesto a un problema giuridico, egli
è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni :
segno che già l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince
alla vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono però le sue
prime rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si
profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-
sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò di agitare, anche per
Andromeda e Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della
fede. Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar- lumi
s'intravvede alcunché : " Non vedi come la divinità sconvolge la
sorte ? in un giorno ri- EUKIPIDE 85
volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ; lui, un dio
oscurò dell'antico splendore: piega la vita, piega la fortuna con lo
spirar dei vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,
senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2). E ancora: " La
Giustizia si dice esser figlia di Zeus e seder presso ai falli degli
uomini „ (3). Né manca un moto d'ira contro la divinità che ha
voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è espresso in forma accorta e
velata : non avverso a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha
ub- bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An- dromeda
il Coro — " che dopo averti generata, o afflittissima fra i mortali,
ti concesse all'Ade in favor della patria ! „ (4). Di questi
frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri, è intorno
a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci
della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe
bal- zino su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia
per inscriverle entro le tavo- lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne
renda giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste- rebbe, se
Zeus volesse annotare i peccati degli uomini ; non basterebbe Egli stesso
a tutti esa- minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike
[non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un
concetto di giustizia (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav
al v. 2. Nel se- condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr.
151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr.
506. 86 II. - ANDROMEDA a cui non vede
rispondere né l'opere né i de- creti divini, a cui gli pare meglio s'
addica la condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo fra Zeus
eDike: questa non può seder presso quello. Per lui v'è incoerenza fra
colpe e pene: queste mal rispondono a quelle né sempre presso al
" fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità: un re felice è
tramutato in infelicissimo per l'ambizione di talune iddie ; un eroe
vittorioso non ha la gioja del premio e deve superare nuovi
contrasti; la figlia è punita per la madre. E pure tutto ciò vogliono gli
Dei dall'alto. Che cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?
La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio tragico, - — ritorna, e
accompagna, in tono mi- nore, il concerto delle passioni eroiche e dei
pro- blemi sociali. Ma cotesto non è più mito. E critica del
mito : in quanto esso contiene un ricco elemento reli- gioso.
Critica singolare però : che è insieme atto di negazione e atto di fede.
Euripide accetta la leggenda, la narra senza alterarne il
lineamento essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un
legittimo procedere della divinità. E la sua risposta ha un sottinteso
profondo. Egli po- trebbe difatti negar di credere al racconto per
le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con- trario, perché le
sente, dopo averle psicologica- mente vivificate, umane e, come umane,
verisi- mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo. E una
maniera di sceverar, nella fiaba, la in- corruttibile verità, — il dolore
l'amore la morte, — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti e
le forme divine. Se non che essa verità ca- EURIPIDE
87 duca non è morta, ha vita in assai spiriti an-
cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi
impacci è un travaglio. E il tentativo di ripossedere totalmente il
mito fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque,
dal genio artistico di Euri- pide investito il problema che la leggenda
eroica di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero. Della
leggenda la sostanza umana fu la più riccamente rielaborata : quella in
cui lo spirito creatore si profondò con la sua potenza d'in- tuito
da un lato, con le sue preoccupazioni di politica da l'altro; quella per
cui l'animo si com- piacque della finzione antica, e la godette ri-
creandola. L'elemento divino fu contemplato con occhi di esitazione,
accettato quasi rassegnata- mente. Al di sopra si conservava intanto la
patina eroica, lo splendore delle avventure, la maestà delle figure
e dei gesti. Perseo giunge a volo.; reca il capo di Medusa; trionfa di un
mostro orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga dell'
ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im- mensamente lontano. Non si
sa se nella tra- gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere-
cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali: certo questo fu,
se mai, un fatto di più, non un sentimento nuovo: rientrò insomma nella
sfera estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza umana, elemento
divino, vernice romanzesca non trovarono la loro sintesi se non
nell'unità dello spirito euripideo : sintesi che non è concordia
logica, né armonia estetica ; si bene vita in an- goscioso travaglio ;
nel quale l'intuito psicolo- gico e l'affanno politico e il dubbio
religioso 88 li. - ANDKOMEDA si fondono ;
pel quale il personaggio di Perseo, la sorte di Perseo assommano in un
solo vivo vertice le divergenti passioni dell' intera tra- gedia.
Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per ravvisarla una,
oltre le superfìcie molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo
del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui potè
identificarsi anche il popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno
412 onde nacque e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu- pato
del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet- tacoli, sentimenti simili ne
scaturivano. Agli spettatori come al poeta il fato travaglioso
dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio
d'una vera Dike, si tramutava a poco a poco in un'altra angoscia
più sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le
infortunate vicende della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda
pretende argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi
gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma di Pericle viene opposto
al suo amore; si è quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene,
da quando il suo impulso ideale vien premuto dalla material
cupidigia. L'incerto futuro che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire
che at- tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce la sorte
Atena, apparendo a predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo,
l'assunzione in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra- mutati
in constellazioni. I problemi umani della sua vita sono tronchi da un
intervento divino : non resoluti. Onde più tragico ricade sugli
ascol- tanti il timore per le imminenti sorti della
I DOPO EURIPIDE 89 patria; s'accresce
il senso vivace del mistero che regola le fortune terrene. Se
non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico del mito compaginati
negli spiriti di Euripide e del primo suo pubblico, non significa che
si fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione può, nello
spirito, comporsi per il dolore me- desimo di cui è causa; ma rende,
senza dubbio, disarmonica la forma estetica che la esi^rime- Quindi
l'unità è momentanea, non stabile. Le diverse materie della leggenda si
serbano dis- gregate e inorganiche. E, non potendosi nel tempo, se
non per via di critica, riprodurre iden- tico l'ambiente spirituale del
tragedo e dell'età che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano
derivate non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond' è che il drama
nella storia della fiaba rappresentò una pausa senza echi.
III. — Dopo Euripide. Si assiste, nell'ulteriore vicenda del
mito, a un lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad
Euripide, il processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza
verso una polie- drica complessità: onde naturalismo e novel-
Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan avuto giunta dal
romanzesco, per attingere il sommo della pienezza nel dramatico
travaglio del pensiero religioso e politico, il vertice del-
l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo 90 II.
- ANDROMEDA Euripide, la parabola discende sino ai
confini d'una più consueta mediocrità: si che par nel principio che
fuor dalla corteccia non si sviluppi se non il midollo originario della
fiaba, ma si mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari- dito.
Che la saga non ritorna in sua vecchiezza alle fogge giovanili, acerbe
più che esigue; si bene lo spirito che negli inizii verso lei convergeva
in- tiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo al- largarsi,
se ne distrae ora insensibilmente, e si immerge in altre creazioni.
L'impoverirsi della leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi
del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un nuovo stadio
spirituale, in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a
foggiarsene e riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è
solito allo storico del mito si deve ripetere ancor qui : assai fu
perduto che ci avrebbe di molto giovato nello studio di cosi fatta
decadenza mitica. Non son più che quattro gli autori (1), in cui ci
ritorni il racconto del ketos; ma per fortuna rappresenta ciascuno una
tappa caratteristica. Apollodoro, raccogliendo nella
Biblioteca con l'altre ancor questa favola, si riconnette a Fe-
recide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa aveva assunte nei più
vicini tempi, ma dalla sua origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più,
pio- ti) Dal numero è escluso Igino Fav. 64, come
quello che contiene varianti di particolari, ma non imprime d'un
propi'io segno la fiaba. DOPO EURIPIDE 91
coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi in margine,
ferma la notizia d' una tradizione alcun poco diversa dalla ferecidea
(1). Chi legga distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia
intenti d'investigazione erudita : nel che si appalesa dunque la
caratteristica di questo strato evolutivo. All'autore che la narra la
leg- genda è morta: è cadavere che egli ricompone fra bende, con
qualche cautela, a fin che poco di quelle membra che furono organismo
vada disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui, nell'opera, si
preferisca modello l'antichissimo compilatore ; presso il quale è già
armonia di contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre, una
ragione più alta, intima alla logica dello sviluppo storico, onde
Euripide dev' essere ta- ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto,
e la volgata con tutte le sue piccole e grandi va- rianti è oltre;
più sopra o più sotto, non importa ; è distinta e prevale. Quindi ben fa
chi compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le
produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; già
che la distinzione deve va- lere, se mai per alcuno, per il mitografo
tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apol- lodoro.
Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale
del suo la- voro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da
Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali
intuizioni della saga. Ciò (1) Cfr. § I.
92 II. - ANDROMEDA sono : lo stupore simpatico verso
il romanzesco ; la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per-
sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due giovini. Ciascuna di
queste intuizioni è ripresa e svolta a costituire l'ordito del racconto;
e sol tanto entro i loro limiti il poeta si concede di imitare
altre fonti, sia pure Euripide. Il romanzesco imprenta tutto quanto
il com- patto manipolo degli esametri tra la fine del quarto e il
principio del quinto libro nelle Me- tamorfosi. Sottinteso costante e
necessario è il miracolo della potenza oltreumana: dal volo che
conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del capo gorgoneo che termina
l'episodio. In appa- renza però Ovidio non se ne compiace con la
maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com- primerlo in termini di
umanità. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce convito vien
pa- ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con- fine
mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente
dell'aquila: non insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a
simi- glianza di cignale fra cani in torma : scena cui è abitudine
nella vita comune. E lo scoppiar degli applausi su la spiaggia dopo la
vittoria dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri. In
realtà, queste similitudini umane riescono una più sicura esaltazione
dello stupefacente: — ne- cessarie perché le intuizioni si concretino,
escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla- sticità
chiusa e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto e terreno : —
utili, di più, per creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo
straordinario e il normale. Si compie qui, ac- DOPO EURIPIDE
93 canto a un magistero d' arte più evoluto che vede i
particolari e li esprime non li accenna, uno sforzo per accrescere la
distanza di cui se- parasi la terra dal cielo, la creatura dal
semidio. Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine? Per la
metamorfosi che conchiude, in due ri- prese, il racconto. In quella il romanzesco
si dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa che impietra in
coralli le verghe del mare e converte lo stuolo dei congiurati in
affoltata marmorea di statue danno una sanzione estrema a
l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero ; che ciascuna di
quelle trasforma- zioni ha importanza speciale, né può valere se
non congiunta con la prima o la seconda delle scene in cui il racconto si
divide. La prima è intorno alla venuta di Perseo, al duello
con la fiera, alla vittoria (1). Novamente da l'una parte e da
l'altra egli si av- vince con le penne i piedi ; della curva spada sì
arma : e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e di
sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte etiopiche e i campi
cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che l'incolpevole Andromeda
della materna lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,
avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse agitato i
capelli né gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo l'avrebbe
creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto
dell'apparsa (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H.
Magnus (Berlino 1914). 94 II. - ANDEOitfEDA
bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria. Si
ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca- tene, ma di quelle che
serran fra loro i cupidi amanti, il nome a chi '1 chiede rivela della
terra e di te, e perché porti legami „. Si tace ella da prima né
osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il volto
pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva, — di sgorgante pianto
colmava. A lui, che insiste più spesso, svela, perché celar non sembrasse
delitti suoi proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse
stata fiducia della materna bellezza. Ancor non compiuto il
racconto, l'onda risuona : avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta,
e molta sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do-
loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri entrambi, più
giustamente questa. Non recano ajuto con sé, ma, come vuole il momento,
pianti e lamenti, e si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla :
" Di la- crime molti giorni vi potranno restare ; a porger
sal- vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo nato
da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé' pregna d'oro fecondo; Perseo
vincitor della Gorgone anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali
vo- latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an-
teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene- fizio, pur che
m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore salvata, sia mia, fo patto ,.
Accettano (chi avrebbe per vero esitato ?) e pregano, e promettono
inoltre in dote il lor regno, i genitori. Ecco, quale nave
veloce solca col prominente rostro le acque, da sudanti braccia di
giovini condotta ; tale la fiera, spartendo con l'empito del petto le
onde, tanto dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa
Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando
DOPO EUKIPIDE 95 d'un sùbito il giovane, da i piedi
respinta la terra, alto si leva verso le nubi. Come alla sommità
dell'acque fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista
ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che nel campo sgombro un
serpe al Sole le livide terga concede, da dietro lo afferra, perché la
nefasta bocca non torca, e figge i bramosi artigli nella cervice
squammea; cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della
fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina- chide le
nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata da grave ferita, ora
eretta si aderge nell'aria, ora si asconde nell'acque, ora voltando si
avventa a guisa di fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno
spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga
soprasparse di cave conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove
la tenuissima coda si termina in pesce, ovunque si porga indifesa,
flagella con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti
misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe- santiron madide : né
Perseo osando più oltre affidarsi a' zuppi talari, scorse uno scoglio che
col supremo vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde
agitate. A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i
gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei fianchi
colpiti. D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su-
perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au- silio della schiatta
e salvator io proclamano, Cassìope e (1) Per avere una idea
precisa della " spada ricurva , " falcata „ di Perseo e per
comprendere il v. 720 {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher
Lexicon d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig 1902-9) pag.
2053-4. 96 II. - ANDROMEDA Cefeo padre.
Sciolta da le catene s'avanza la vergine, della fatica e causa e premio.
Egli in acqua attinta purifica le vincitrici mani : e perché dura non
offenda l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,
virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa di Medusa
Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso midollo ancor vivo assorbì la
forza del mostro, al con- tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei
rami assunse rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago
il mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon ripetersi
uguale. Poi che di quelle i semi sparser su l'acque, ancora ai coralli la
stessa natura è rimasta, che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò
ch'era verga nel mare, sopra il mare sasso diventi. Seguono
le scene di festoso tripudio cui s'ab- bandonano con Cefeo e Cassiepea i
Cefeni tutti. E si termina, col libro quarto, il primo episodio,
per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi
sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra Perseo e Cefeo con
Cassiepea. Vibra, ivi, il sen- timento attorno cui Ferecide aveva trovato
rac- colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor- dina. Un che
d'ignoto par che l'attenui come d'un velo. Cosa non senza maraviglia,
giustifi- candosi tutto il successivo evento appunto dal sorger
dell'amore in Perseo e dalla promessa del padre. Anzi, se l'origine dei
coralli è il vertice avventuroso del racconto, questa scena a
l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o, meglio, umano. Ora in
ciò a punto è la causa del poco rilievo concessole dal poeta. Il
suo senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire
DOPO BURIPIDB 97 "iin elemento disgregatore, una
disarmonia nel- l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-
ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil- mente: ella s'induce a
rivelare allo straniero il perché di sua xDOsitura " a fin clie non
sembri celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre: egli sciorina
dinanzi ai piangenti genitori, mentre la belva avanza e il terror tragico
martella i cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene
onorevole genero al re. I più generosi appajono, poveretti, quei due
vecchi che di tutto cuore danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista
fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse alcuno di quei fini
tratti di psicologia di cui è capace in altri casi. I soli accenni più
appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo
per l'aria, e il pudore silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il
calice, e l'ampiezza numerica della forma cela l'esiguità della
intui- zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma un poco anche
guasto la vita. Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti
a banchetto nuziale il re e la regina con la figlia e il genero nuovo, si
fa innanzi Fineo. E l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già
fidan- zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il coraggio di
liberarla col proprio rischio ; ma tenta ora di riaverla quando il ketos
è ben morto. Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell'
im- prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie
(1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. A.
Ferbabino, Kalypso. 7 98 II. - ANDROMEDA
una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti alle feste
nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E i conviti mutati in sìibiti
tumulti potresti assomigliare a golfo che, quieto, sollevi in onde
commosse la fervida rabbia dei vènti. Primo Fineo tra quelli,
temerario autore della con- tesa, agitando un'asta di frassino con
bronzea punta, " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della
car- pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove in falso
oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare, Cefeo opponeva "
Che fai ? qual mente ti spinge in- furiato al delitto ? tale grazia si
rende a ineriti grandi ? con questa mercede compensi la vita di lei ch'è
sal- vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo a
te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero Ammone, ma quella
belva del mare che veniva per farsi satolla delle viscere mie ! Allora
rapita ti fu, quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu
brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non basta che nel tuo cospetto
ella fu avvinta ? che nullo soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in
oltre, ti duoli che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio
? Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era affisso
l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual lo richiese, pel qual
non è orba questa vecchiezza, si porti quanto con opre e parole pattuì ;
e comprendi come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.
Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi (1) È
forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus avrebbe generato
Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof- fitto in forma di pioggia aurea
nel grembo di Danae. DOPO EURIPIDE 99
comincia il combattere. E il racconto si distende lungo per circa
due centinaja di versi : che la battaglia è seguita ne' suoi particolari
con ab- bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu- multo è grande
(1). " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per
la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va- namente pio
suocero, e con la madre la nuova sposa, son favorevoli, e d'ululato
riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei
caduti „. Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla
turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che mi costringete voi
stessi, ausilio richiederò al nemico. Rivolga il viso chi, propizio, è
presente „ : e trasse il capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i
tuoi vanti commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la mano
apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal gesto rimase statua di
marmo ,. All'ultimo è pro- strato, dopo assai altri come Tescelo
irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : "
Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie- trante
della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio ci spinse a
contesa, né brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ; migliore fu
la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.
Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo il resto ti sia
„. A lui, che cosi parlava, né risguardare ardiva quello cui con la voce
pregava, rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti
posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore. (1)
V 30-235 ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg. lOO II. -
ANDROMEDA — ti concederò: da ferro non sarai violato. Che
anzi vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre, nella casa
del suocero nostro, sarai guardato si che la mia sposa da l'imagine del
fidanzato abbia conforto „. E lo impietra. Cosi la vasta e
agitata folla che nel principio commoveva la scena si tramuta in un
popolo rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis- sità, un
gesto di vita. Ed è qui a punto il car- dine del secondo episodio mitico:
efficace tra- passo per il quale la compiacenza ferecidea verso la
riccliezza del movimento e l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di
armoniosa bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di Ovidio;
come di quello che, sviluppando a sé tutta la seconda parte della
leggenda, la equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-
mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia
anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo
a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di
un grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che com-
piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle
perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il
duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più stucchevole
prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si bene monotono.
Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,
senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui banale
mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore
inspes- DOPO EURIPIDE 101 sirle per
ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano uniforme dello sfondo.
Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza;
e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme, sopra un ben intuito
fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e
rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci
apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità
psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana- logo è nella
sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del
mito, né ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non
avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba.
In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo
interesse la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase
una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza
dell'avventura, ora l'agita- zione bellicosa; in parte fu possibile
imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun punto,
l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda
uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che
reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà lo spirito è
distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano
è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, ''
lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le
nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos è a pena
morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian
fra sé 102 II. - ANDROMEDA quattro ciance.
È un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà
le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la bellezza dei
volti? — con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le
compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più
recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori- gliando. L'eco della terra
par muovere da una lontananza. Ma la terra è presente (1).
Tritone e le Nereidi. Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi,
che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'
danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già esso medesimo.
Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come ésca la
vergine, lo assalse ed uccise, attenden- dolo in agguato con molti
guerrieri ? Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa
— Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme
con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete
salvato. Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia un
giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. — Egli uccise il
ketos. If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso per
vero egli ci doveva. Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu
man- dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im- presa ;
dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. — Come, o Tritone ? solo
? o conduceva com- pagni? che altrimenti la via è difficile.
(1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881). DOPO
EURIPIDE 103 Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva
fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora- vano,
esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e
scapparsene a volo. If. — Ma come le guardava ? sono difatti
inguar- dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di
esse. Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose
udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli
diede a vedere l'imagine di Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur
uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma,
sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra
il capo di lei, e prima che le sorelle si destas- sero volò via.
Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra
volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima,
o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da
prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio,
ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la
fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava
pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di
sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le
nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della
morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che 104 li. - ANDBOMBDA
colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava
vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. — Ma in tal modo, come
madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. — Non
rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po'
più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la
figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è presente.
E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali
degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia
finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve
inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché
Perseo fu " preso da amore „ per Andromeda? Risponde: "
bisognava salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo
dell'eroe, che in esso quella non è causa sufficiente e appropriata ;
bensì smaschera l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione
in- ventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica
genetica, diremmo oggi. Ed è DOPO EDRIPIDE 105
la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il
dono delle ali è rilevato come stro- mento mitopeico perché Perseo
potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-
tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le
si soleva attribuire Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una
interessata volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in
Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che
ima- ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la
leggenda non ha più una base di fede, si una di scetticismo sorridente e
maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-
reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da cui sono animate è,
non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da
ne- garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac- cresce d'un
contenuto morale , estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte :
non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che
Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la
gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si,
ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di
Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è
stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo
tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso
dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione
retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito
delle costellazioni 106 II. - ANDROMEDA
denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E
difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai
men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale
l'intellettual sorriso della critica è tutta- via indizio di un
sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio
per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con
la luce della sfera più alta le te- nebre deir ormai superata. La
conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta
a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il
raccónto si di- parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,
il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che
di Grecia aveva tro- vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si
che qui si misura, con precisa esattezza, il re- gresso dell'efficacia
leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per
ciò si connettano con il tragico che, — forse, — non gli aveva trovato
luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,
giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col
ketos. Per contro è notevole che non essi, come non Apollodoro né
Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata
quella nel momento del culminante interesse pel mito, scompare di
(1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^
(Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. DOPO EURIPIDE 107
poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori
vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di
questa leg- genda, sta adunque una singolare originalità ch'è in
contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E
una singolare ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa
diretta. CAPITOLO III. La Demetra d'Enna ^^l
1. — Il mito siculo. Enna: nell'interno della Sicilia,
a presso che mille metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi è
il nome di Pergusa e di Pergo era nella antichità, sopra una larga groppa
dei monti Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au- rore e
dei tramonti settembrini, le pupille be- vono, oltre le giogaje lungo le
valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-
metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia (1) Per
questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note
successive si citano i §§. (2) La descrizione d'uno straniero : 0.
Rossbach Ca- strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig
1912). Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA di lei,
Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue
culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano
forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da
Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-
siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e
delle vendette divine: però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo
del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve- gliare su l'intiera isola, e
proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella
religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il
mal governo di Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le Dee, ivi
vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti
sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto
(1). Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario
ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo
rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più intimo e
sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo pronto
intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia oggi,
molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che s'ignoravano
allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla credenza di quei
Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene
diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in- sieme
erano pregnanti religione e mito. (1) CicER. in Verr. IV
106. IL MITO SICULO 111 È probabile che
gli avvenimenti seguissero cosi (1). Enna, nella sua forte
positura montana, è da presumere fosse uno dei luoghi ove
gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar
rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti l'èra. Le coste,
più agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione
dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse riu-
scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era per alcun
tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non senza
influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi
la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza
anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n'è, fra
gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli scavi archeologici
noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più ve- tuste
necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità mentale, su gli
dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra
tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica
dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute.
Per ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr.
§§ 1 e III. 112 III. - LA DEMETRA d'eNNA
intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del- l'arte e scienza
che insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli
dell'isti- tuto familiare, erano stati il tesoro comune che
gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili.
Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del
no- madismo, avevano per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire
: costituivano, con la loro celata forza e importanza, due poli
essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da
attrarre parecchie fra le medesime divinità della luce e del cielo, e
sopra tutto fra le divi- nità delle tenebre e di quella morte, che la
mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo
valore e la non palese bellezza, cir- condava di ombra nelle celate
viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.
Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva
formazione, conduce a origini tra sé lontane. Il naturismo che venera
l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;
l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi- rito del sasso e la
potenza del seme ; il più ma- turo pensiero che, in fine, riesce a
foggiarsi di tutta la terra una divinità sola o di tutte le biade:
ci riassumono, — nei loro gradi più re- cisi, e nelle loro sfumature
assai meno formula- bili, — la storia sintetica del Nume agreste,
il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina
intorno al suo proprio culto. È un'a- scesa dalla pianta al dio, dalla
terra al cielo : è un germogliare della credenza su da quel suolo
cui si richiama. — Altra via tien la famiglia IL MITO SICULO
113 nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è
morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le mogli e i
figli ; ed è morto la- sciando nella dimora le cose tutte che già
furono segnate del suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme
con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando
con l'ul- timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a
lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa
: rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché
l'ombra di lui non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di
" Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien
sensi- bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano
si penetrano si fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità
del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su
l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto
estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però
sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro;
e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è
processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli
affetti che lo pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si
pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in
poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione
originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella
dei A. Febeabino, Kalypso. 8 114 III. - LA
DEMETRA d'eNNA familiari su dalla morte , non mancano , tra
le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini
influiscano l'uno su l'altro, vicende- volmente, è ben noto. Ma nel caso
speciale anche più efficace influenza vi doveva essere. Però che la
terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i
figli, — la fa- miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle
biade son la ricchezza; perché sono il nu- trimento la salute la vigoria,
de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre
vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo- rasse al sole la spiga; il
Padre morto, perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve
tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che
carestia non affami gli agri- coltori. — Antica accanto a questa, ma anche
maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per
opera delle madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ;
riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i
primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione
perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più
seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo:
" re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo
ma- ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una
figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-
(1) Biade I 303, Euripide Fenici 18. IL MITO SICULO
115 morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel
cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che
Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno
dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare
certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra tosto
suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza,
tanto della generazione umana , quanto della produzione terrestre :
e perché è contraddistinta da una elementare semplicità, che la
rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E
ad ogni modo, — come principio ad effetto, — forma anteriore a
quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in
fa- miglie composte da genitori e figli, da parenti ed
affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della
famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi
della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra
regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi;
sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e ve le
abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una
quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra
sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-
setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle
viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero
tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della
spiga, ad esempio, matura e granita, che 116 III. - LA
DEMETKA d'eNNA s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e
ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e
ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco
l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili
rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di
questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. —
Quando delle figurazioni che si accennarono (1) Una sintesi
su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De
Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili.
IL MITO SICULO 117 è ormai ricca la mente, le fiabe
che possono es- serne conteste sono molteplici, e solo il caso o la
preponderante importanza di taluno tra i fe- nomeni riesce a far
prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla
golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic- cità o
squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il
bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga
e l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina- gione e il
riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si
prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono
per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. — Ma
principalissimo è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il
miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme,
spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito
ennense venne ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui
avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in
una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-
tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at- tribuì. Disse il lamento
della Madre biada cui la biada sua Figlia è rapita, simile al
lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve
che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale,
sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel
che nella proba- bilità storica la congettura può affermare della
originaria saga sicula. Però che troppo esigue tracce ella abbia lasciate
di sé, sopraffatta, più 118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA
tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel che più importa, —
in canti che il pregio del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel
culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria
traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi
secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai
riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee
agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni
rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle
tenebre. n. — Il mito greco. E certo tenebre
graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia,
ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli
stadii per cui in Grecia trapassò la leggenda furono, secondo è
verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare
in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i
due popoli, da intima pa- rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario,
dis- simili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non
che quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a noi pervenuta,
elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo
maggiore, che non toccasse i)ro- babilmente nell'antichissima Enna. Certo
nel- Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri- IL
MITO GRECO 119 buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra
(1), la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del
seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante
con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano
nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più
ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima,
poi ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli
determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con
vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La
ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato
tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente,
nel simbolo di questo, il gustato frutto del melo- grano.
Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno
a Demetra palesa anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a
ba- stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella
presenza di Ecate " bendata di luce ,, e di Elios " chdaro
figlio di Iperione ,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea
delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e
affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che
risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i
giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente
(1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904)
pag. 10 sgg. 120 III. - LA DKMETRA d'eNNA i pili
arcaici personaggi entrati su la scena ac- canto ai protagonisti : però che
essi fossero i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre
„ su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e
notturni del cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel
carme; se bene non vi permanga senza alterazione. Di più,
altro segno di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è
precisa perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede
con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un
certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato
ben suo. Le due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti,
hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade "
Demetra „, ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola
e familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è
tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli
uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi
senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e
la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia,
vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i
campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza
cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì
seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è
bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. — Presso agli
agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei
sot- terranei, addotti da quel vincolo di analogia che
IL MITO GRECO 121 vedemmo pili sopra (1). L'infero
Nume rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la
vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii
supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue
sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra
per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes,
loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente
conquista. — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono
attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con
la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,
risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli che da
l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non
po- tevano congiungersi in parentela, perché s'eli- devano l'una
con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E
poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia supe- rare in
altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure
diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scam-
bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto (1) Pag.
115. 122 III. - LA DEMETRA d'eNNA il tono
austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La
creatura leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due
onde fu composta, ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra
i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso il
marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama
di leggenda ben più ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ;
i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apportò
in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La
vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso né senza
coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la
vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come
il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di
un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per
lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e
le mani pajono comporla e pla- smarla allora per la prima volta in un
fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina
secondo un'architettura severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro
di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli
lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento.
Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-
ficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature
mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo racconto,
IL MITO GBECO 123 diverso (1). Demetra, appreso
da Elios il nome del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza
giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra un sasso, " la
pietra del pianto „, assumendo l'aspetto d'una vecchia donna.
L'incontrano le figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono
col chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira
il sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro,
Metanira, accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe
prodigar sue cure. Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e
attenta al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor- rebbe
donare il sacro dono dell'immortalità ; onde di notte lo pone, con certe
sue arti ma- giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si
accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana. Se non che Metanira,
destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla
e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà libero di morte. Ma
per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi
eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti del suo
culto. — A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima
pompa si rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia
parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari
costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso
mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto
a\Tebber potuto maturità di pensiero e (1) Yv. 91-304.
124 III. - LA DEMETBA d'eNNA soffio d' artista
svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel
primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita
religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la
saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-
vestendo un venerando colore di antichità sacra. Ma anche per altro
rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione
(1). All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale che importa
porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora è rapita
da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del grano, come si semini
e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo
danno ai campi : che " molti nei campi in vano trascinarono i
bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco
dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „
(2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la
figlia per " due terzi del volgente anno „ ritorna in terra la
gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi è
contempo- raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera
all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza
conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti
De- metra è la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e
risorgere culmo, è giusto che le biade esistano prima del ratto
sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-
(1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.
IL MITO GEKCO 125 pita. E la sentenza di Zeus giova a
rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi agreste.
Cosi, sebbene un nuovo senso di uma- nità siasi trasfuso nel racconto a
velarne il si- gnificato primitivo, questo permase non corrotto; si
che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la
diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo)
che, per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa
seconda concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il
ratto, esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è
causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche
dell'apprendere gli uomini la semi- nagione e l'aratura. E l'apprendono a
opera di Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual di
principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con altri (Eumolpo, Diocle,
Polisseno); figura per contro che appare adesso la prima volta, e
prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla- stica pittorica, col
carattere di adolescente gio- vinezza e con l'officio di maestro nella
fatica no- vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio
del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema
anteriore rico- stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si
oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore
riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio che la
trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico,
cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la
terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza mag-
126 III. - LA PEMETRA d'eNNA giore Trittolemo al
Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la
ven- detta di Demetra, che in verità non avrebbe più modo di
attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di
Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a
uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta
permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non
pochie, sviluppando a sé tutta la seconda parte della leggenda, la
equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat- mento e la
metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia anche la
nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta
pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di un
grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che com-
piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle
perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il
duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più stucchevole
prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si bene monotono.
Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,
senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui banale
mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore
inspes- DOPO EURIPIDE 101 sirle per
ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano uniforme dello sfondo.
Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il verso con
eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme, sopra un ben
intuito fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma
e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario
ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità
psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana- logo è nella
sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del
mito, né ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non
avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba.
In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo
interesse la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase
una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza
dell'avventura, ora l'agita- zione bellicosa; in parte fu possibile
imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun punto,
l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda
uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che
reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà lo spirito è
distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano
è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, ''
lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le
nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos è a pena
morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian
fra sé 102 II. - ANDROMEDA quattro
ciance. È un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato.
L'uno dà le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la
bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora questa ora quella alza la
voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare
de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori- gliando. L'eco della
terra par muovere da una lontananza. Ma la terra è presente (1).
Tritone e le Nereidi. Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi,
che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'
danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già esso medesimo.
Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come ésca la
vergine, lo assalse ed uccise, attenden- dolo in agguato con molti
guerrieri ? Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa
— Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme
con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete
salvato. Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia un
giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. — Egli uccise il
ketos. If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso per
vero egli ci doveva. Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu
man- dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im- presa ;
dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. — Come, o Tritone ? solo ?
o conduceva com- pagni? che altrimenti la via è difficile.
(1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881). DOPO
EURIPIDE 103 Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva
fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora- vano,
esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e
scapparsene a volo. If. — Ma come le guardava ? sono difatti
inguar- dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di
esse. Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose
udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli
diede a vedere l'imagine di Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur
uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma,
sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra
il capo di lei, e prima che le sorelle si destas- sero volò via.
Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra
volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi,
bellissima, o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e
da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del
supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse
salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava
pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di
sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le
nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della
morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che 104 li. - ANDBOMBDA
colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava
vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. — Ma in tal modo, come
madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. — Non
rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po'
più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la
figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è
presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali
degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia
finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve
inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché
Perseo fu " preso da amore „ per Andromeda? Risponde: "
bisognava salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo
dell'eroe, che in esso quella non è causa sufficiente e appropriata ;
bensì smaschera l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione
in- ventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica
genetica, diremmo oggi. Ed è DOPO EDRIPIDE 105
la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il
dono delle ali è rilevato come stro- mento mitopeico perché Perseo
potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-
tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le
si soleva attribuire Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una
interessata volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in
Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che
ima- ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la
leggenda non ha più una base di fede, si una di scetticismo sorridente e
maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-
reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da cui sono animate è,
non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da
ne- garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac- cresce d'un
contenuto morale , estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte :
non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che
Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la
gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si,
ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di
Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è
stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo
tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso
dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione
retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito
delle costellazioni 106 II. - ANDROMEDA
denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E
difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai
men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale
l'intellettual sorriso della critica è tutta- via indizio di un
sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio
per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con
la luce della sfera più alta le te- nebre deir ormai superata. La
conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta
a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il
raccónto si di- parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,
il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste,
che di Grecia aveva tro- vato favor di accoglienza fra i Latini (1).
Si che qui si misura, con precisa esattezza, il re- gresso
dell'efficacia leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a
Fineo. Se per ciò si connettano con il tragico che, — forse, — non
gli aveva trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in
entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né
ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non
Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro
motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito,
scompare di (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen
Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. DOPO
EURIPIDE 107 poi con lo scemarsi della simpatia traverso le
posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo
sviluppo di questa leg- genda, sta adunque una singolare
originalità ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii
precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza psichica, che
dell'originalità è la causa diretta. CAPITOLO
III. La Demetra d'Enna ^^l 1. — Il mito siculo.
Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul
mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella
antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso
l'aria diafana delle au- rore e dei tramonti settembrini, le pupille
be- vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei
fiumi, la dorata luce dei piani. De- metra genitrice delle biade,
Cora-Persef one figlia (1) Per questo capitolo v. Vlndagine
in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i §§.
(2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca- strogiovanni,
das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912). Ilo III. - LA
DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano
negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune
cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin
da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna
vi lasciavano giungere certo il pen- siero divoto, supplice per la
famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine:
però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio
e delle spighe, sembrasse ve- gliare su l'intiera isola, e proteggere
l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione
l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di
Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi
; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E
l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto (1).
Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario
ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo
rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più intimo e
sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo pronto
intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia oggi,
molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che s'ignoravano
allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla credenza di quei
Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene
diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in- sieme
erano pregnanti religione e mito. (1) CicER. in Verr. IV
106. IL MITO SICULO 111 È probabile che
gli avvenimenti seguissero cosi (1). Enna, nella sua forte
positura montana, è da presumere fosse uno dei luoghi ove
gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar
rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti l'èra. Le coste,
più agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione
dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse riu-
scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era per alcun
tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non senza
influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi
la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza
anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n'è, fra
gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli scavi archeologici
noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più ve- tuste
necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità mentale, su gli
dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra
tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica
dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per
ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr. §§ 1 e
III. 112 III. - LA DEMETRA d'eNNA intrawedere,
se cauta, poco. Gl'incunabuli del- l'arte e scienza che insieme ammaestra
a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti- tuto
familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi
recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia,
vie meglio possedute e costituite col cessar del no- madismo,
avevano per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano,
con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella
vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le
medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le
divi- nità delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina
dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non
palese bellezza, cir- condava di ombra nelle celate viscere della
terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi
due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a
origini tra sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il
sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi
se ne evolve, e adora lo spi- rito del sasso e la potenza del seme ; il
più ma- turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la
terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, — nei loro
gradi più re- cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-
bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita
degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È
un'a- scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è un
germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. — Altra via
tien la famiglia IL MITO SICULO 113 nel
venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto dopo aver in vita
esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ; ed è morto
la- sciando nella dimora le cose tutte che già furono segnate del
suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme con le vendette da
compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-
timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a lui e sciogliendo
i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta
con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui
non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di " Padre „
ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien sensi- bile
ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano si penetrano si
fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità del Padre
è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su l'altre simili
della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del
Figlio della Figlia; le quali presuppongono però sensi d'affetto di
gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della
famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si
addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi,
protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è processo
comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo
pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla non
piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi antichi
come gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli
iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei A.
Febeabino, Kalypso. 8 114 III. - LA DEMETRA d'eNNA
familiari su dalla morte , non mancano , tra le due, attinenze. Che
il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro,
vicende- volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale anche più
efficace influenza vi doveva essere. Però che la terra sola faccia (se
fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-
miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza;
perché sono il nu- trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle
capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme
e ha fatto che s'indo- rasse al sole la spiga; il Padre morto,
perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana
dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami
gli agri- coltori. — Antica accanto a questa, ma anche maggiore, è
l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle
madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a
pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi,
uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne
di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più seme „ è in
Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re,
non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-
ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una
figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-
(1) Biade I 303, Euripide Fenici 18. IL MITO SICULO
115 morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel
cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che
Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno
dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare
certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra tosto
suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza,
tanto della generazione umana , quanto della produzione terrestre :
e perché è contraddistinta da una elementare semplicità, che la
rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E
ad ogni modo, — come principio ad effetto, — forma anteriore a
quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in
fa- miglie composte da genitori e figli, da parenti ed
affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della
famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi
della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la
terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per
lunghi mesi; sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e ve le
abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una
quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra
sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-
setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle
viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero
tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della
spiga, ad esempio, matura e granita, che 116 III. - LA
DEMETKA d'eNNA s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e
ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e
ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco
l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili
rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché l'aria
l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso
per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di
questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. —
Quando delle figurazioni che si accennarono (1) Una sintesi
su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De
Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili.
IL MITO SICULO 117 è ormai ricca la mente, le fiabe
che possono es- serne conteste sono molteplici, e solo il caso o la
preponderante importanza di taluno tra i fe- nomeni riesce a far
prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla
golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic- cità o
squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il
bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga
e l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina- gione e il
riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si
prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si
attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle
tenebre. — Ma principalissimo è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il
miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme,
spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense
venne ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan
parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in una
delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-
tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at- tribuì. Disse il lamento
della Madre biada cui la biada sua Figlia è rapita, simile al
lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve
che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale,
sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel
che nella proba- bilità storica la congettura può affermare della
originaria saga sicula. Però che troppo esigue tracce ella abbia lasciate
di sé, sopraffatta, più 118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA tardi,
da nuove vicende, e non fermata, — quel che più importa, — in canti che
il pregio del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;
i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria traverso gli anni;
ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti
e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano
alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti,
antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione
era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre.
n. — Il mito greco. E certo tenebre graverebbero del
pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte
non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in
Grecia trapassò la leggenda furono, secondo è verisimile, a un di
presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei
Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima
pa- rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis- simili certo
ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno
nella più vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito
presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo maggiore, che non
toccasse i)ro- babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel- Vlnno
omerico a Demetra^ il quale è da attri- IL MITO GRECO
119 buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la
leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante
l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con cui
la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano nei mesi
dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre
il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi
ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati
a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda
alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto
è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato tra la rapita e il
dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di
questo, il gustato frutto del melo- grano. Oltre poi a
rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno a Demetra palesa
anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba- stanza
antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce ,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i
quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo
del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del
rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra
; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini:
sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. 120 III. - LA
DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi entrati su la scena
ac- canto ai protagonisti : però che essi fossero i più adatti
(ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la " Figlia „
perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. Né
l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se bene
non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno di
compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché
risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una
teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un certo, padre di un
altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le
due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti, hanno assunto
definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „,
ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e
familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è
tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli
uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi
senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e
la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia,
vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i
campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza
cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì
seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è
bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. — Presso agli
agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei
sot- terranei, addotti da quel vincolo di analogia che IL
MITO GRECO 121 vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume
rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la
vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii
supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue
sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra
per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes,
loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista.
— Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come
sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia
di cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus, risplendente face
della terra, è germano di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo
nella secreta germinazione del grano. Uniche non po- tevano
congiungersi in parentela, perché s'eli- devano l'una con l'altra, Cora e
Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché il
contrasto non si poteva dalla fantasia supe- rare in altro modo, il quale
non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero
a differenti nomi dalla medesima persona scam- bievolmente usati, e
la Figlia assunse alquanto (1) Pag. 115.
122 III. - LA DEMETRA d'eNNA il tono austero della Regina, di
cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura
leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta,
ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre,
rigidezza e austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta
adunque ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca
che la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi
e raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che
addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli
difatti non senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno
complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto
quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco
avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia
del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente
per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla
e pla- smarla allora per la prima volta in un fervore pacato di
concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura
severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di
Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi è, più che
in ogni altro senso, in un tranquillo godimento. Segno non piccolo,
di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef- ficacia che all'arte compete
qual balsamo delle belle creature mitiche. Intercalato però
nel mito è un lungo racconto, IL MITO GBECO 123
diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in
preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d
sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo
l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo,
Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte
anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano
nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente
nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea
diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofònte. Al quale
anzi l'Iddia vor- rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;
onde di notte lo pone, con certe sue arti ma- giche, tra le fiamme, fra
cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù
sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta
Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo.
Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle
biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e
Polissèno i secreti del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque
indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi
nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso
etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che
quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e
(1) Yv. 91-304. 124 III. - LA DEMETBA
d'eNNA soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo
e imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per
cui, nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno
alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di
personaggi e di episodii, ri- vestendo un venerando colore di antichità
sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno
attraggono la nostra attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato
un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto.
Questa: nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini
conoscono già l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle
; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che
" molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto
su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini
tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la
sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del
volgente anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il
soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo- raneo al danno, e la sua
conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,
appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del mito
naturalistico: se difatti De- metra è la biada il cui chicco scompar
sotterra per germinare e risorgere culmo, è giusto che le biade
esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col
ritorno della ra- (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv.
305-310. IL MITO GEKCO 125 pita. E la
sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi
agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma- nità siasi trasfuso nel
racconto a velarne il si- gnificato primitivo, questo permase non
corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di
prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto con
un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari eleusinia,
può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro di
messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di maniera
che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio
di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi- nagione e
l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre già
nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con
altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso
la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-
stica pittorica, col carattere di adolescente gio- vinezza e con
l'officio di maestro nella fatica no- vissima e preziosa. Semi ed aratro
definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la
triade recente spezza lo schema anteriore rico- stituendone un altro. Nel
quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito,
ma acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene,
meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio
storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano
coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con
importanza mag- 126 III. - LA PEMETRA d'eNNA
giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ;
bensi sopprime anche la ven- detta di Demetra, che in verità non avrebbe
più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di
Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è
acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di
agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo
diffondersi subì, è vero, non pochimuta- menti, né tutti soltanto di
particolari; giacché, dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne
costume lecito alterare la saga per adattarla alle esigenze e ai vanti
locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni essa si ergeva
con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un Comune
per attingere gli estremi del mondo colto. Unica può starle a paro, per
intima vì- goria di concepimento, e per potenza espansiva, la
favola composta nell'ambito di quel moto filosofico e religioso onde il
pensiero greco, e specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei
Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di " Orficismo „.
Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo
in- treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici ; ma non
tutti i suoi particolari ci impor- tano qui : quelli soltanto che furono
poi efficaci sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.
Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e l'orfica,
s'incontrassero queste versioni greche con la siciliana, tenace per
antichità, infantile per incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un
lungo moto di storia. IL MITO SIRACUSANO 127
in. — Il mito siracusano. I Siculi, che si erano
ritirati su i monti del- l'interno perché incapaci di resistere ai
predoni dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che in Enna
avevan con più insistenza fissato il lor mito agreste, lasciarono nello
scorcio dell'^TH se- colo le coste dell'isola popolarsi di Greci,
sonare dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi di sedi le
quali si trasformavano via via, dive- nendo sempre più salde più ampie
più belle, in città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII e
nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il terreno, o sgombro facendolo
con distruggere e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella
teri'a siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve a fiore
civile intellettuale e artistico grandis- simo in paragone di quelli, e a
distendere sn tutte le portuose spiagge dell' isola un incan-
cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri- monie della loro
mentalità religiosa si radicano ivi senza resistenza, e, nel
trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata
vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale
e (1) Ampio racconto su la colonizzazione greca
dell'Oc- cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I
(Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I (Oxford 1891);
Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia voi. I (Torino 1894).
128 m. - LA DEMBTRA d'eNNA di culto civico,
accopj)iandosi con la congenita irrequieta genialità e l'inconculcabile
aspira- zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli presto a
violare i segreti delle regioni più in- terne e a portarvi il soffio
della propria opera contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol-
versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche i commerci di scambio,
a Enna ebbero a per- venire folate di vento greco fin dal secolo
VI. Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ; perclié non la
minima traccia n' è rimasta ; né fino ad ora gli scavi archeologici e'
illuminano alcun poco. La palese influenza dei Grreci su Enna
co- mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa. Dopo che Gelone
ebbe, con il sussidio del suo alleato Terone tiranno di Agrigento,
sconfìtti ad Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi di
Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana e ne fu assorbita. Qual
resistenza politica op- ponesse non importa qui sapere. Senza
dubbio oppose una resistenza ■ riguardo al suo culto e al suo mito,
che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero essere. La
risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva e la
ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente si
direbbe contaminata, perché è più tosto un compromesso di politica
religiosa, una formula felice per conciliare le pretese o, se piace, i
diritti dei due centri di- versi (2). (1) Cfr. § li.
(2) Cfr. § II. IL MITO SIRACUSANO 129 In
Siracusa Grelone fu un institutore e un pro- pagatore zelante del culto
delle greche iddie Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto
aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il mito del rapimento. E a
quel modo che nel- r Inno a Demetra la favola naturalistica , non
spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien ad arte connessa con un
preciso e determinato centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga
ten- denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro
sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi dei
lor proprii luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e
a applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le cerimonie sacre
vigenti nella loro città. Era un moto religioso, tanto spontaneo e
consueto fra Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la
preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a un certo
nume. Di qui nascono di- fatti sovente contese tra regioni ; in
particolare se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto
della maggior fecondità d'un suolo a paragone d'un altro. Né pare che
Siracusa derogasse alla generale tendenza: però che ci sia rimasto
in- dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la quale vi
s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo di Bione (1) ch'è del sec. I a. C.
non che in altri testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;
onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito, come da una delle bocche
dell'Erebo e del sot- terraneo fuoco. Che se accanto a questo
parti- ci) V. 133. A. Ferrabino, Kalypao.
130 III. - LA DEMETRA d'eNNA colare si pone Taltro, secondo
cui il Dio infer- nale si apre la via del ritorno presso lo stagno
di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti topografici di una saga
che adatta il vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane
è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla zona dell'Etna
l'influenza politica e militare dei Siracusani si è sempre estesa o nel
fatto o nel- l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret-
tamente libero da Enna dimostra qual fosse l'impulso originario del culto
instituito da Ge- lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca-
ducità che lo contraddistingue provano quanto diffìcile fosse serbar
nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i diritti di prima
occu- pante che competevano alla fiaba dei Siculi. La quale
s'imponeva difatti tanto più quanto maggiormente s' era, traverso gli
anni molti, radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati su i
monti, e quanto era più stretta, nel nucleo essenziale per lo meno, la sua
simiglianza con il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po-
tevasi rivestir di fogge e definire con nomi greci ; non asportare dal
lago : ove del resto la feracità del luogo e la credenza, anche
greca, che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so- vente i numi
sotterranei, ne difendevan la vita. E difatti il ratto rimase. I
Siracusani die- dero alla divinità delle biade il nome di De-
metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter- mine di Cora-Persef one ;
il rapitore con quello (1) V. sotto pag. 131.
IL MITO SIRACUSANO 131 di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro
artisti tutto l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben
sapevano, e con quei particolari che eran dive- nuti fissi e
tradizionali. Ma sottostettero ai di- ritti di precedenza. Nel resto si
valsero del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper-
tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna trascinata
Cora-Persefone. A Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge
„ di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca- valli. E noi non
sappiamo molto di più; ma è facile che altri particolari della leggenda
si connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer- doti. Suggello
poi di questo compromesso reli- gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione
ca- ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto di Cora.
Questa avrebbe avuto compagne du- rante la raccolta dei fiori (1' "
antologia „), oltre le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee
vergini. Ora Artemide grandemente importava nel culto siracusano ; Atena
in quello di Imera, città a Siracusa amica durante le guerre del V
secolo specie contro Atene. Per ciò in uno dei suoi rami la leggenda, la
quale ancor qui si vede costretta a riconoscere che a Demetra
doveva esser spettata la signoria di Enna, at- tribuisce al meno quella
di Imera ad Atena, di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto
questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava,
al medesimo livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra
l'esi- genze dell'antichissima saga ennense e le pretese della pili
recentemente sopraggiunta saga sira- cusana, i due centri dovettero
trovarsi concordi 132 III. - LA DEMETRA d'eNNA
nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit- tolemo. Non
poteva esservi dubbio. A Enna Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili
per vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in
Siracusa risale alla luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal
suo ombelico la proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata,
signoreggiano due città siciliane ; il suolo è opulento di biade come non
altrove : certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo
seme, e il primo culmo spuntò da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica,
prevalente, diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano.
Bisognava dunque, da che respinger Trit- tolemo non era dicevole,
adattarlo in Sii^acusa ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza
garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto- lemo, avesse avuto il
favore di Demetra e co- municato alle terre il dono preziosissimo; si
con- cedette che ciò accadesse in occasione del ratto di Cora ; e
fu lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, — gli si premise, —
già dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia
produceva grano, prediletta alle due Dee per la sua fertilità e scelta a
loro dimora. Quindi, — si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto
agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una separazione dunque della
Sicilia dal restante paese, onde il ratto divenne il momento pro-
pizio per diffondere al mondo il privilegio si- culo. Che era non poco
orgoglio. (1) Cfr. § IV. IL MITO
SIRACUSANO 133 Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti
senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che
un poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e
Sira- cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi- tico aveva i
suoi punti topografici fìssi e armo- nicamente collegati ; il culto
preparava salda e e vasta base per un'accorta serie di invenzioni
etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città s'eran tradotti in
accrescimenti della favola, la stessa gara con Eleusi le aveva tribuito
qualche particolare non privo di attraenza. Né manca- rono forse i
cantori che la materia non inde- gnamente lusingasse. E pure a noi non
rimane se non il testo, povero non chiaro e senza vi- goria
espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo. Perché tutto vivace si senta
il contrasto fra la potenzialità artistica del mito e la mancata
espressione di esso, eh' è a un tempo mancata intuizione, piace qui
tradurre dalla Biblioteca istorica (1), lasciando il racconto nel suo
disor- dinato svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola
appresero dai loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il
tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; ...
e che le predette Dee in questa isola primamente ap- parvero ; e che
questa per prima produsse il fi-utto del grano a cagione della feracità
del suolo... (2). A riprova (1) Cfr. Geffcken Timaios'
Geographie des Westens in Phi lologische Untersuchungen , XIII
(1892) pag. 103 sgg. (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.
134 III. - LA DEMETRA d'eNNA adducono il ratto di Cora che
avvenne in quest'isola e che mostra chiarissimamente come in questa le
Dee soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.
Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne' prati intorno ad
Enna. Questo luogo è vicino alla città, per viole insigne e altri fiori d'ogni
genere, e degno di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si
narra che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun- dendosi
loro la naturai virtù. È il prato predetto piano e d'ogni parte ben
irriguo; ai lati però scosceso e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra
giacere nel mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni
l'om- belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a questi,
paludi, e un grande speco con apertura sot- terranea rivolta a settentrione;
dal quale favoleggiano che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora.
Le viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi-
racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta- colo pittoresco e
gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre-
scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme
raccogliessero fioH e preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per
l'intimità e la conversa- zione reciproca si compiacquero specialmente di
que- st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle parti
di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a lei la città e il
territorio chiamato fino ad oggi Atenèo : Artemide ebbe in Siracusa dagli
Iddii l'isola che per lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa-
rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati intorno a Enna.
Favoleggiano poi che Plutone, compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio
presso Sira- cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la
rapita nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane...
IL MITO CONTAMINATO 135 Dopo il ratto di Cora
favoleggiano che Demetra, non potendo ritrovare la figlia, accese
fiaccole nei crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra
abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo- mini i quali
meglio l'accolsero. Più benignamente aven- dola accolta gli Ateniesi, a
essi primi dopo i Sicelioti donò il frutto del grano ; pel che questo
popolo più d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi
misteri eleusinii... (1). Il mito siracusano è qui per intero :
ogni linea ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,
l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala- sciammo per brevità) cenni
etiologici alle feste sacre. Fece difetto il genio architettonico: e
il difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri- pete, — ed è
spesso, — quel suo " favoleggiano „. Altri; non egli: eh' è estraneo
a quel che rac- conta. Modello insigne, questo, del come possano
mascelle di erudito maciullare e rugumare il fiore della saga.
IV. — Il mito contaminato. Il mito siracusano di
Demetra e Cora, imper- niato in Enna e Ciane, e nato dal
compromesso dei due centri religiosi, venne accolto nell'am- biente
poetico di Alessandria. E fu questo l'i- (1) DioDOBo V 3-4:,
4 con qualche omissione. 136 III. - LA DBMETRA d'eNNA
nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di fatti, oltre alla
forma siracusana della favola, erano affluite, ed affluivano, la
primitiva forma dell' Inno omerico, insieme con la variante di
Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove
cotesti elementi, parte simili, parte dissimili, mossi da origini
diverse, avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur
cotesti elementi precipui ; bensì anche alcuni altri secondarii, che per
varie ragioni fos- sero riusciti a trascendere i limiti della
medio- crità espressiva e della ristrettezza geografica, per
intrudersi nella letteratura tradizionale. La mitopeja orfica in ispecie
aveva trovato acco- glienza favorevole nel colto ambiente alessan-
drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti e notevoli saghe
metamorfiche, che presso i più antichi non erano se non una forma, fra
l'altre, dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po-
steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La storia per tanto del
mito siculo fuor di Sicilia è la storia della sua seconda immersione
nel flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia del
successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di innovazioni via via
più complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere
dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa- rebbe stato
trasparente: dei maggiori alessan- drini medesimi. Sola di quelle ci è
rimasta traccia (1) Sul culto di Demetra e Cora in
Alessandria cfr., p. es., Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I
133). IL MITO COìs^TAMINATO 137 e tal volta
quasi copia in autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio
tratto del quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui appunto si
rivela la contaminazione fra diverse correnti leggendarie.
Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio. Anzi vi si manifesta
con talun nuovo partico- lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto
una tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a una
variazion fantastica, quando nel luogo di Ecate fa dare a Demetra,
durante la ricerca affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio
del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios introduce la ninfa del
siracusano lago di Are- tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due
Porti. Se non che questi elementi siciliani, che al pari di Enna
pajono saldati con il concetto duplice di una Sicilia esperta del grano
prima del ratto e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi
Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema diverso. Quando Proserpina
è rapita, la terra, se non tutta per buona parte, già ha avuto il
dono del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col privare gli
uomini di aratri di bovi di spighe : dunque, come nel mito protoattico.
Ma, come nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di Giove,
sparge per segno di pace la semenza. E i due miti si conciliano nel
pensiero che uguale bi- sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai
colta come quella di cui per la vendetta divina fu pretermessa la
coltura. In tale contaminazione (1) Vv. 341-661. Cfr. §
IV. 138 III. - LA DEMETEA d'eNNA dei due miti
protoattico e neoattico la saga si- ciliana s'inquadra umiliandosi un poco,
col porre la propria terra fra più altre, prima nel godere le
biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer- tilità singolare e di
fedeltà a Demetra. D'altra parte il poeta asseconda, cosi per
l'at- titudine sua mentale come per la natura del suo tema, con
particolar compiacenza l'impulso letterario delle metamorfosi. Sembra
persino che ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in quanto si
risolve in uno di cotesti travestimenti di forme. Ciane, ad esempio, che
solo perché palude era sembrata luogo dicevole alla scom- parsa di
Ade come un lago alla comparsa, offre spunto a una d'esse, quale ninfa
tramutata in acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone che gusta
la melagrana è sfruttato per immet- tervi un Ascalafo ; il quale scorge
la Dea nel- l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra tutto
però, l'efficacia della tradizione letteraria si risente in Ovidio per il
tentativo di analisi psicologica nei personaggi: in Cora special-
mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali per esser
vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo smarrimento
dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l' antefatto del
mito : il ratto è voluto , non da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite
cui è sdegno che tante dee si sottraggano al suo po- tere e che
libero ne resti il medesimo Ade (la- tinamente Dite). Amore sostituisce
cosi, quando psicologico diviene il racconto, un particolare che,
allor che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la
fecondante pioggia. IL MITO CONTAMINATO 139
Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in- serito sullo sfondo
siciliano della fiaba : Afrodite difatti è l'Ericina, che i Siculi
facevan oggetto di culto singolare. Cosi perché pili appaja la
giustizia di Griove e ne risalti la umanità del mito, l'anno è pel doppio
soggiorno di Proser- pina con la madre e col marito diviso a mezzo
non più per terzi. Simile attenzione psicologica governa i discorsi di
Aretusa a Demetra, di De- metra a Giove, materiati di accortezza
feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde poi lo
studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a ciascun
momento del- l'animo competono, là dove tecniche mitologiche più
elementari non cercano se non il consueto e costante attributo del Nume :
cosi che Aretusa, — e basti per tutti l' esempio solo, — ritrae
prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per
lasciar nudi la bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato
epiteto omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con- viene alla
donna. Siamo allo stremo dell' alle- goria agreste. E su la soglia
dell'umanità (1). Non lungi a le mura di Enna son le profonde
aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non spande canti di cigno
Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque corona una selva, d'ogni lato le
cinge ; con le sue fronde è di schermo alla vampa solare. Frescura, i
rami; purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.
Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or (1)
Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914). 140 III. -
LA DEMETKA d'eNNA gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca
cura seno e canestri empie e nella raccolta studia superar le com-
pagne — ad un punto è veduta amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore!
Atterrita la Diva con mesta voce madre e compagne chiamava; la
madre più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste, da
r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco anche questa
sventura, cosi fur ingenui gli anni pue- rili, il virgineo dolore
commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno chiamando per nome
esorta i ca- valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di
fer- ruggine persa (1). È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un
golfo d'an- gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal
suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe notissima, Ciane.
Ella fino a sommo il ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea.
" Non più lungi andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere
il ge- nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se
m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare, me pure Anàpi amava; ma
pregata sposa mi addusse non, come questa, atterrita „. Disse, e con
aperte le braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio
frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo il vibrato
scettro regale con forte braccio affondò : la terra percossa una via pel
Tàrtaro aperse ed i preci- piti carri nel mezzo della voragine accolse.
Ma Ciane, la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua
fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse tutta di pianto.
Neil' acque di cui grande nume già era, or s'estenuava: molli le membra,
flettevansi (1) Omessi i vv. 405-8. IL
MITO CONTAMINATO 141 l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le
tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee
chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra in
acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e le terga ed i fianchi
vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle tramutate vene
alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che
prender si possa (1). Per quali terre la Dea, e per quali acque
errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne meno
la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga vagando , a
Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma lei che
voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva
parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di Persefone il
cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore
dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora
apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più
volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia
ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama né degne
del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del danno
aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez- zava gli aratri che fendono
duri le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi
aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò, ed
i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità del paese è fiaccata:
senza far césto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora
di piogge l'ec- (1) Omessi i w. 438-461: errore di Cerere;
metamor- fosi di Ascalabo. 142 III. - LA DEMETBA
d'eNNA cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi
ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del
grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'elèe onde
solleva Alfèjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae.
Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di
biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio- lenta ira contro la
teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ; la rapina tollerò contro sua
voglia. Né per la pati'ia sup- plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia
patria, l'Elide diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo
pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa
per sede : e tu clementissima la salva ! Perché mi sia mossa per tanto
spazio, e per tanto grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io
ti dica, op- portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo
volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam- mino e, traverso
profonde caverne scendendo, qui il capo sollevo e a le stelle di nuovo mi
avvezzo. Or mentre là sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai
nostri occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero, né
per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora,
ma dell'inferno tiranno Sposa potente „. La madre udendo le
voci stupisce ed impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave
dolore la grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio
ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca- pelli, d'odio
riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio (dice) supplice a te
venni o Giove e per il tuo sangue ! se nessuno gode favore la madre, la
figlia il padre com- muova; né meno cara — preghiamo — ti sia
perché da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco
rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to, IL
MITO CONTAMINATO 143 se rinvenire tu chiami il saper dove sia.
Rapita, sop- porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone
degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,. E Giove
obiettava : " Pegno comune e gravame a me con te è la figlia. Ma, se
i veri nomi alle cose noi vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore
! Né ci sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se
pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra- tello dirsi di Giove ! Né
mancano gli altri ; né fuor che per sorte mi cede. Ma se tanto di
separarli hai desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto
restando che con la bocca là giù cibo alcuno non abbia toccato: che delle
Parche tal fu la legge „. Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur
la figlia. Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di-
giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal ricurvo albero
dispiccato un pomo fenicio e fuor da la gialla corteccia sette chicchi
fra i denti premuti (1). Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,
il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea, di due regni nume
comune, altrettanti mesi è con la madre, altrettanti è con lo sposo.
D'animo si muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo
stesso Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che
da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi riappare (2).
A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag- gioga, e
costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per l'aria fra il cielo e la
terra coire e conduce il lieve (1) Omessi i vv. 538-563:
metamorfosi di Ascalafo e delle Sirene. (2j Omessi i vv.
572-641 : metamorfosi di Aretusa. 144 III. - LA DEMETRA
d'eNNA SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e
parte dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai colto,
parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato. Contaminato ma
diversamente, ci appare il racconto appresso Ovidio medesimo, nei
Fasti libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro- mani Ludi
Cereri. E alle cerimonie rituali tien difatti rocchio alquanto il poeta
(o il suo mo- dello). La mente che ricorda il racconto delle
Meta- morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo carme (2),
con la mano del medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del ratto, nota
tuttavia un ri- tegno, quasi una schiva attenzione per evitar
d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi- tate da Aretusa; non
quella è la lor sede: né nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al
meno non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta- cito fra Enna e
Siracusa è senza dubbio noto ; ma non usurpa da signore lo schema greco
più antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan- nosa della
Madre comincia (" dai tuoi campi, o Enna „), Ciane l'Anapo Oela
Ortigia Mègara Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri luoghi
ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li- libeo, offrono bensì materia
alla fantasia del poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono
per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio nella leggenda, onde
costituiscono un elenco di (1) Vv. 393-620. Edizione H.
Peter* (Leipzig 1907). Con- fronta § IV. (2) Vv.
419-50. IL MITO CONTAMINATO 145 nomi regionali,
non già altr'e tanti addentellati mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al
mito siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi sùbito dopo
in abbandono. Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo
del vecchio Cèleo fu il campo. Egli in casa porta le ghiande
e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel focolare che
l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ; e
nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „ la fanciulla
dice — e commossa è la Diva pel nome di madre — " che fai in
solitarii luoghi senza com- pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio,
quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come
che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una
vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali
parole risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu rapita
la figlia. Oh la tua sorte di quanto è migliore che la mia sorte!.
Disse, e come di lacrima — che non piangon gli Dei — cadde sul
tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la
fanciulla ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste
: " Se a te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati,
non disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea "
Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo ! „ .
E s'alza dal sasso ed al vecchio tien dietro. Alla compagna
la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non prenda ma vegli
pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il papavero
coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne
gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino,
Kalypso. 10 146 III. - LA DBMETKA d'eNNA la
lunga fame: — e perché della notte in principio ella finiva i digiuni,
gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir delle stelle.
Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni cosa : già speranza
alcuna non v'era di salvezza pel bimbo. Salutata la madre — Metanìra la
madre si chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue- rile.
Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo: tanto vigore viene da la
celeste bocca. Tutta la casa è lieta : la madre il padre — ciò sono — e
la figlia : tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli
stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele dorato. L'alma
Cerere non mangia, ma a te, o bimbo, a bere con tiepido latte dà i
papaveri causa del sonno. Della notte era il mezzo, era nel
placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con
la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon- giuri, che
non ripete parola mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la
calda cinigia nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote
dal sonno la madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?
, e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per non
esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni divengon pel
timore materno. Questi sarà bensì mor- tale; ma primo e con aratro e con
seme da le colti- vate terre coglierà premii „. " Disse
: uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti sali, e con l'alato cocchio
Cerere riparte „ (1). Qui non è più il racconto dell'Inno con
il (1) Vv. 507-562. IL MITO CONTAMINATO
147 mito protoattico ; non è né meno il racconto di Timeo con
il mito siracusano : però che a diffe- renza profonda dal primo la
umanità è presen- tata ignara di biade e cibata di ghiande prima
del ratto; e a differenza caratteristica dal se- condo la Sicilia non ha
privilegio alcuno rispetto all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»
di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del
fuoco, e ha tra- mutato il semplice istitutore di un rituale sacro
nel giovinetto onde per favore della Dea un inestimabile benefizio si
largiva agli umani. Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,
ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è tramutato in povera
capanna: sul desco stanno cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi
per- tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se- guita, è
soppiantata, senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano,
che un terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di
Cerere su la persona del rapitore sono due astri ; identico è il nome
dell'uno, il Sole (EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice, che è
però non la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore che mai
non tramonta nel mare, e per ciò tutto vede, di notte. D'altra parte,
dopo il colloquio fra Cerere e Griove, questi decide di dividere
l'anno in due parti perché Proserpina rimanga sei mesi col marito e sei
con la madre (1). Ora, Elice sostituisce Ecate perché preferita nella
con- sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso
(1) Vv. .575-614. 148 III. - LA DEMETRA d'eNNA
pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino delle Metamorfosi.
E sotto la medesima luce posson venire considerati anche l'idilliaca
scena in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de- licato
dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo- rilegio in Enna.
L'arte però converte la triplice mischianza in armonia. Onde la
vicenda si snoda men lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel
pasto- rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel termine ove
più personaggi agiscono e parlano con una stringata prontezza che culmina
forse nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di- giuno con
tre di quei grani che le melagrane ri- copron con molle corteccia „ (1).
Le varie correnti mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di
mosaico mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo
ricollega con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare
del culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del
benefìzio divino, scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella
capanna d'un misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bensì
in sacrifìzii suini e in vestimenta candide, ma non è di origine
religiosa, si più tosto muove da una intima commozione umana, di
simpatia per la sofferenza eterna, per la semplicità pri- meva, per
la faticosa Terra. Nei Fasti quindi minor parte è fatta al
mito siracusano; ma per compenso è conseguito più alto pregio
letterario che non nell'altro carme (1) Vv. 606-7.
IL MITO CONTAMINATO 149 ovidiano, ove il poeta con
l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or
ridu- cendola a magrezza or distraendola a rimoti oggetti.
Oltre che elementi siculi proto e neoattici, anche particolari
orfici compose insieme con abbondanza Claudiano nel poemetto che al
Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro condurlo a
termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del rapimento,
Ciane op- pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le fiaccole
notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser copiosi
nella parte del poemetto che non fu scritta e trattava del
soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira.
Gli spunti neoattici in fine si assommano nella figura di Trittolemo a
cui par probabile che venisse attribuito il dono delle biade (2).
Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che si dovevano
all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva
affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in
loro custodia Cora trascor- reva il tempo intenta a tessere un tessuto
ove fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto
accadde si per volontà del Fato {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il
favore di Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle
{pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi cotesta circostanza
fu alterata ; da chi, pare, non (1) III 246 sgg. (2) I 12
sgg., Ili 51. 150 III. - LA DEMETRA d'eNNA
s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due Dee al
ratto non era se non un asse- condar le leggi fatali e irremovibili ; ma
ritenne che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora, vergine
com'esse erano vergini, soggiaceva a violenza, fosse la lotta contro il
fosco Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap-
pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto il favore di Atena e
d'Artemide, a compenso vi fu introdotto quello, che pareva più
dicevole, d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an- tico
aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel suo contenuto e ampliato
nelle sue linee : rimase tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso.
Molte altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a Demetra e a
Persef one ; ma poi che vertono su quella parte la quale nel poemetto sul
Ratto non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti sono stati
raccolti tutti i materiali che da tri- plice fonte il poeta adunò per
l'opera sua e che gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar-
rare del ratto e i precedenti e le primissime conseguenze. Importa ora
vedere come lo spirito del poeta investisse quella sostanza
leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il suo racconto si
spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima ha termine
col ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo di moglie e
ignaro delle dolcezze che la pater- nità concede. Tanto l'assilla il suo
veemente (1) Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146
e cfr. § IV. IL MITO CONTAMINATO 151 desiderio,
ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus di sovvertirgli l'ordine
dell'universo e li- berare i Titani incatenati, ove non sia fatto
pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in dubbio intorno
alla scelta della sposa, già che nessuna volentieri accetterebbe marito
il tene- broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta scena però si
svolge l'altra in cui Demetra, per sottrarre l'unica sua figlia Cora allo
stuolo degli insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg- giano,
la reca in Sicilia ove l'affida alle cure della nutrice Elettra delle
Ninfe e di Ciane (ri- tornano, — come si vede, — sott' altra specie,
le orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da
ogni attentato sotto l'alta protezione celeste del padre Zeus : onde si
ritorna ella poi in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla
fine queste due linee narrative da quando il Signore degli Dei decide di
maritare Cora ap- punto, profittando della lontananza materna, a
Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro- dite, egli fa si che la
vergine esca con le com- pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea
del- l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti di Enna e che
su quelli, balzando improvviso dal suolo spalancato in voragine, la
rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge. Fuggono le
giovani amiche. Atena e Artemide tentano opporsi con l'armi che sono lor
proprie. Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E presto
Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso
nelle sedi buje, ove l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii
torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi. 152 III. -
LA DEMETRA D^ENNA La seconda parte possiede quell'unità di
strut- tura che manca a questa prima. Il centro natu- rale
dell'azione è offerto da Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve
comporre. La Madre non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un
presentimento vago ma assiduo la turba con sogni atri che mal si
dileguano nel risveglio. Alla fine, decide di abbandonar le terre di
Ci- bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani. Parte,
tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le appajono i luoghi ove
s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta
la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile della vergine, e
lacrimante in profondo dolore la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è
già di disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto le è però
quasi sùbito superato dallo sdegno contro gli Dei tutti, e Zeus in
ispecie, che per- misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-
rando se per tal modo si sovvertissero leggi di giustizia e principii di
morale. Giura che non cesserà di percorrere, intenta alla ricerca,
l'uni- verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia. E la
ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a sé, per la notte, fiaccole
di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.
Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco più
apprenderemmo nel sèguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi
guardi alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria, ove sempre
la materia poetica è molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai
fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a
rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano IL MITO
CONTAMINATO 153 vi mancò: non esito a dire che vi mancò per
intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della sua saga, e possiamo
farlo con pienezza di giu- dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam
appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa. Non
c'illude quindi, — e sarebbe facile errore, — quella, che prima colpisce,
bellezza formale di particolari, eleganza di scene, armonia di
verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion delle parti in un
tutto su cui si volge il nostro interesse e l'esame più vero. Né la
per- fezione stessa è anche da concedersi intera : guasta per certa
esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie
sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta se bene già
troppo a sé indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate
riuscite e oltre le mancate, com'è composto il grande affresco
? Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti psichici di
cui tutto il racconto è pregno: non diversamente operando, in ciò, da
Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi numi.
E suo grande compiacimento si fu narrare ora il cordoglio della madre,
ora lo spavento della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu-
tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che in Ovidio tal via era tenuta
con due pregi: la accorta profondità dell'investigazione intima; e,
(1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato essay
su Demeter and Persephone in " Greek Studies , (London 1901) pag.
130 sgg. 154 m. - LA DEMETRA d'eNNA inoltre, una
grazia di tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan sempre senza
stri- denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi
quello come questo pregio man- cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e
grosso- lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel- l'ordito
passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni
gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro
personalità per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel
vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla
tradi- zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma- rito
recente, un giudice un po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i
protagonisti: non im- portano nomi, non colori, non linee. Basta, che
per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni della retorica.
Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce la solennità jeratica
dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la Sicilia con un senso
di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee l'onorino di lor
presenza, invoca da Zefiro splen- dor di fiori ; ed ha nell'atto una
compostezza e un contenuto orgoglio matronali. La Frigia lontana
riceve da Cibele, quasi un recondito balsamo religioso. Persino il bosco
onde Demetra svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus
Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur varia, è tuttavia sempre
ampio alto e severo : non è in proporzione con la statura degli attori
; o meglio, non con la loro statura d'uomini, si con un'altra, fittizia,
di Dei. Onde si a\^erte il primo contrasto, che par creato a posta dal
poeta, IL MITO CONTAMINATO 155 fra la diminuita
materia divina della fiaba e l'accresciuta materia terrena: quasi fosse
stato trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe dovuto essere
dei Numi. Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota che
nessuno dei consueti attributi è stato tolto da Claudiano né a Demetra né
a Cora né a Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad alcun'altra
figura celeste del poemetto. Il re dei morti Ila tutta la sua
terrificante corte ; la ver- gine Figlia ha intero il suo sèguito di
bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice, quella lo
scudo gorgonèo, questa l'arco e le frecce; la Madre corre per l'aria su
cocchio trai- nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo oltreumano
resta inalterato, e il poeta v'insiste. Ond'è che la vita umana e
affettiva vi è poi spirata dentro senza che Fautore mostri di ac-
corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è, a volte, men grave. Ma
a volte attinge a dirit- tura il grottesco e tramuta il poema in
com- media. Quando, — gli esempii potrebber essere moltissimi,
desunti ogni cento versi ; basti l'uno più notevole, — quando Plutone ha
rapito Cora e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i lamenti
pietosi e le invocazioni alla Madre, si commuove : " Da tali detti
il feroce e dal pianto vezzoso è convinto, e sente i palpiti del
primo amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea tunica, e con
pacata voce consola il mesto do- lore (di lei) „ (1). E, questa, una
innovazione di (1) II 273-276. 156 III. -
LA DEMETBA d'eNNA Claudiano : già che le parole che seguono e
che vantano di Plutone i pregi qual marito e re son le medesime che
l' Inno attribuiva ad Elios e Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma
rin- novazione a punto svela a maraviglia a qual grado di risibile
pervenga il poeta nel colorire pateticamente quello spauracchio "
feroce „ di Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte
tremendo. Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere
artisticamente (non dico logicamente, che sa- rebbe inutile rilevarlo)
mal connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano
all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo
sorella di Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza
dell'angoscia ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e
meschina al pari d'una qualsiasi siracusana. Ciascun dio sembra
supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre-
mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi i Titani. Non
c'ispirano quindi reverenza né ti- more cotesti numi ambigui. E
l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per
nulla sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché è vuota
cosi di dolore materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse
spinta in là la ten- denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con
l'ap- parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra- cotante
pompa esteriore, marionette fìngenti per gioco di fili occulti e virtù di
orpelli gravità olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-
miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in fine culmina in
quel solenne decreto di Zeus IL MITO CONTAMINATO 157
con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo- strare come, col
decretar da Demetra il dono del seme, la suprema volontà sapesse
ritrarre un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora; ma non
prova nel fatto se non quanto Claudiano ha deformato il sommo
Iddio. Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al contrario
di quel che era compito dell'arte: ha dissimilato in luogo di ordinare in
armonia ; ha contrapposto, in vece di avvicinare senza con- trasto.
Ora, gli elementi del dissidio erano già tutti nella primitiva saga di
Cora, e avevan perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure
non gli avevamo avvertiti: non so che secreta forza li faceva coerire in
unità e bellezza. Se adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno
è che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga- nismo del mito è
moribondo, — e si dissolve. Cosi né pur la contaminazione di
motivi, desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon- dere
ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un più profondo guasto la uccide,
senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo
racconto siculo, che una prima volta aveva sen- tito, per opera di
Siracusa, vigoroso l'influsso greco, e trovò una seconda volta, traverso
gli AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica da iDrincipio,
gravame in sèguito di mal con- gesti elementi.
CAPITOLO IV. L'abigeato di Caco (i). I. — Presso
grindiani e i Greci. Indra e Vritra si combattono. Nel
profondo cielo dove il Sole si vela di ar- dore, Indra teneva le sue
smaglianti mucche al pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,
nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi- gura di serx^e dalle tre
teste, né tentarono in vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e
tras- sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete. I ben
colorati animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita
parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal- l'antro, ove
segregato si stava il bottino, gli (1) Per tutto questo
capitolo v. Vlndagine, in libro II cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle
note successive. 160 IV. - l'abigeato di caco
giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò e il furto e il
luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la grotta, di
frecce e di clava colpisce più e più volte il mostro nemico,
l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde lasciano esse
scorrere il latte fin sopra la terra. Cosi nel Rigveda
indiano (1) si adombra per noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri
sparsi per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che dopo tuoni e
lampi scatenano benefica la pioggia. L' odio , che un' anima
paganamente infusa nella natura nutre acre contro il velame dal
quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha sentito nelle nubi
gravide d'acqua e di fuoco la presenza di una forza attiva, e nemica
cosi della luce benefica come della fiamma benefica, però che si
compiaccia, in vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono
dalla caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le
annientano. Il bujo della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei,
ove occhio non si spinge, e che, quando spiragli appajono traverso
il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra tinta del fumo , che gì' incendii
sprigionano, pregno di odori corrotti, su dai possessi degli uomini
; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa
e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-
muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le pupille: —
questi colori queste (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.
PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie
si accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e
diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però con ritmo
unico il malefìcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro
il dono, in cui è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-
mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta dal Sole per gli uomini :
e, come il Sole, ha virtù di respingere l'oscurità intomo a sé. La
fiam- mata in vece che rade una selva è nemica del Sole perché
nemica dell'uomo: e, poi che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La
mente bam- bina non sa che la tenebra è un modo della luce, e che
il fuoco è un solo principio, distrugga o giovi. Contrappone le parvenze
; crea, dagli effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.
Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del pensiero. Che è comune,
come si sa, agli Arii ; e comuni, se bene traverso le differenze a
volte non piccole, sono le forme di cui si veste e le associazioni
psichiche di cui si vale : l'antropo- morfismo, ciò sono, ed i nessi fra
la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-
lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E questo d'ogni
singolo mito del fuoco, quale che sia per esserne il valore più
immediato, per- mane il riposto senso di allegoria naturalistica.
Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con- cetti, poco importa se
la fiaba si connetta più tosto con la freccia del fulmine che squarcia
il perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente infocato che
appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o
altrimenti con altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale A.
Ferrabino, Kalypso. 11 162 IV. - l'abigeato di caco
ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet- tacolosa vicenda
della natura, deve esser stata indotta dalle medesime sue associazioni
analo- giclie a ripetere, nelle aridità della concezione, un solo
racconto per fenomeni simili. Ciò spiega perché, fuor del E-igveda,
il mito ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso pochi
come là simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si è, pur
serbando pa- recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e
Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno- vato in altra forma, la
quale, per il nesso che nel pensiero già intercede fra tenebra e
male, luce e bene, trasporta il mito a significare il contrasto tra
Ormuzd il buono e il cattivo Ahriman. Che se, dopo averle
spiegate, non grande conto è da farsi di queste trasposizioni della
fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag- giore se ne deve attribuire
in vece all'alterarsi o al persistere di taluni particolari significanti.
In essi è il segno di qilanto si accosti o allon- tani dalla saga
originaria il nuovo racconto : simili a quei tratti caratteristici che
perman- gono a contraddistinguere il volto di una fa- miglia nei
secoli. E quando del mito si è poi perduto tutto il senso riposto, restano
testimoni veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di-
mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione innovatrice sul modello
più antico. Quando in vece un significato s'intrude sopra e contro
l'o- riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono insieme i
primitivi particolari episodici, come un muro coinvolge nella sua caduta
gli affreschi. PRESSO gl'indiani E I GBECI 163 o
solo tanti se ne serbano quanti non discon- vengono al nuovo dominante
pensiero. Giacclié l'energia conservatrice insita in quei partico-
lari è costituita, in somma, da una non più co- sciente memoria
dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo, avevano, quando
ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa pertanto,
allorclié al ricordo incosciente sot- tentra nel racconto la coscienza
d'un contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un contenuto
del tutto nuovi ha assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed
ecco difatti tramutarsi anche la foggia este- riore e l'intreccio dei
casi. Come il furto di buoi perpetrato a danno d'una divinità solare
venisse narrato insieme con la successiva vendetta nelle saghe
antichissime degli Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro
assunto la conget- tura. Certo che in secolo a bastanza antico la
metamorfosi del racconto si rivela profondis- sima. L'omerico i Inno a
Ermes è la nostra fonte in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso
tutto dalla minore anima greca: quella che baratta e commercia; che
ruba con astuzia, e nega con impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e
av- volge di parole artificiate, di periodi fluenti, di frasi
ambigue, d'esclamazioni infinte e do- li) Tralascio tutte le
quistioni su gli " strati ,, la cronologia, ecc. dell'/nno, come
estranee al tema. Con- fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig
1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns
(London 1904) 128 sgg. 164 IV. - l'abigeato di caco
mande coperte, l'infelice derubato ; che giura invocando i men
pericolosi dèi, nella speranza di averli meglio indulgenti ; che non
ignora al- cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno più le
crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma ne resta poco o molto gabbato.
L'uomo il quale discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per
l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte
al brocco, e tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,
fissi qua e là su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei
motti ironici: vive in- tiero, per una fresca vivacità di dipintura,
nel ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima greca, la virile,
cui la cupidigia di guadagno s'è congiunta con la brama di gloria, cui il
buono è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è anche il
bene. Ma fra questa maggiore e la mi- nore anima greca i tramiti non sono
affatto tronchi. Onde una celata coscienza della supe- riorità di
quello spirito che può, se voglia, rin- chiudere in un labii"into di
dubbii e di certezze, entrambi illusorii, l'intelligenza del suo
inter- locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso di
compiacimento interno lo illumina : il sorriso mal palese degli aruspici,
secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,
con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac- cogliere, pacati
d'indulgenza ironica, la dichia- razione frequente dei Peloponnesiaci :
" Grli Ate- niesi discorrono troppo bene perché si possa lor
credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma c'è una lode sobria del
ladro abile. E la com- media nasce. Comico, il racconto eh' era
stato PEBSSO gl'indiani E I GRECI 165 tragico
allorquando Vritra cadeva sotto la in- vitta clava di Indra.
Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I
protagonisti sono mutati. Ca- duti taluni particolari, altri
s'improvvisano dal largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-
verso, perchè alla furberia del mortale compete scena la terra, come alla
violenza del mostruoso iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra
di- vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ; e l'antro
ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo è il derubato, Ermes il ladro;
Ermes, nella sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di
inverosimile forza e di mente già dotta nelle oblique vie. Fra il neonato
dalla tenera pelle ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si
svolge la principal scena. Due altre la precedono. La prima narra
il furto. Non è opera di vio- lenza, ma di scaltrezza. I buoi, —
cinquanta, — pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro
e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes, per celare ogni
traccia dell' abigeato sul suolo sabbioso, condusse le bestie
all'indietro, intrec- ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin-
castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la refurtiva in una grotta
" da la volta elevata „. Poi, ritorna presso la madre, sul monte
Cillène. E ha luogo la seconda scena (1). E di Cillene,
tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in sul mattino ; né per la lunga via
alcuno scontrossi con (1) Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen
(Oxford 1912). 166 IV. - l'abigeato di caco lui
o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la- travano i cani.
Ermete, il benefico figlio di Zeus, obliquo per il serrarne della casa
scomparve, simile a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza
dix-itto nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo-
vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò nella zana
l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol- gendo, come d'un piccolo
bimbo che in braccio alla balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non
sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.
" E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di notte ne
giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te pi'eveggo, da indissolubili
vincoli intorno allo sterno legato, uscir da queste soglie fra le mani di
Apollo, o finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.
Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il Padre agli
uomini mortali e agl'immortali Dei „. Ed Ermete a lei scaltre
parole rendeva : " Madre, perché queste cose tu m'ammonisci, come ad
un piccolo bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti-
mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte apprendere voglio,
ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei immortali spogli di doni e
negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre
fre- quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi che
nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore, il convenevole
anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio padre non me lo
dona, io stesso per certo tenterò — che posso — dei rapinatori
dive- nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre
(1) Omesso il v. 153. (2) Omesso il v. 167 ch'è
corrotto. PRESSO gl'indiani E I GRECI 167
Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio e anche più
: mi reco in Pitóne al saccheggio della grande sua casa, molto da quella
rubando stupendi tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e
vesti di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „. n senso
d'umanità e la sostanza greca che sono divenuti il nucleo nuovo del mito
appa- iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione alla forma
indiana di cui fu veduto. Perché la difesa, che il poeta adorna cosi bene
su le labbra bambine, è un breve mal represso anelito di sim- patia
per il ladro perspicace ed ardimentoso, simile a profondo brivido onde
nelle fibre arcane della carne si ax)provi quel che la ragione con-
danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel Rigveda, il rapinatore
trascinava la sua mole serpentina nel dimenio orrendo delle tre
teste. Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e l'ombra
della sua caverna, dalla quale il mug- ghio bovino suscita un' eco di
sgomento negli animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in favor
del breve Ermes fasciato, che si crogiola di caldo nella zana, orgoglioso
senza pudore di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e la i)ropria
opera, certo di saperla proseguire nel futuro. E non v' è dubbio che a
Maja piac- ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno
rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi- sura sono molto piccola
cosa di fronte alle cin- quanta terga di tori: e nella grazia furbesca
del contrasto, che la onnipotenza divina giustifica e legittima,
sta il motivo della simpatia e nostra e del poeta. 168
IV. - l'abigeato di caco Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il
figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la
fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere molta brace di ceppi
nasconde all'intorno, tale celava sé stesso Ermes, il Lungisaettante
vedendo : in breve raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno
dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però. Il figlio di Leto
e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì, la montana bellissima ninfa con il
suo figlio, bimbo piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della
grande casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri-
postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am- brosia : molto oro
ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa purpuree vesti e smaglianti
: tutto che dei beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della
grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par- lava ad Ermes
illustre. " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi
: presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti
piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te- nebra triste
irreparabile ; né te la madre né il padre alla luce potrà ritrarre ; ma'
sotto terra errerai primeg- giando fra i bimbi „. Ed Ermete a
lui scaltre parole rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso
parlasti ? e perché ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi,
non so, né d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne
premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos- sente. Non questo è da
me, e prima altre cose mi piac- ciono : il sonno a me piace, ed il latte
della mia madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi
bagni. (1) Vv. 235 sgg. PEESSO gl'indiani
E I GRECI 169 Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale
contesa, che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che
un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh
male tu parli ! Ieri mi nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la
teri'a. Ma se vuoi, su la testa del padre un grande giuramento farò :
né io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun altro ladro
dei vostri buoi — checché i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne
odo „. Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre
ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar- dando (1). Ma a lui lene
ridendo l'arciero Apollo ri- spose : " amico, in dolo
scaltro e in inganni, io preveggo per vero che spesso per invader le ben
abitate case durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza
rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle valli dei monti
molesterai agresti pastori, allor che, bramoso di carne, t'imbatta in
mandre di bovi o in pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno
se non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della nera
notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor- tali avi'ai officio, di
esser per sempre chiamato capo dei ladri „. Cosi disse
adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline Febo. Allora, il forte
Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito
servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti tosto
: poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo l'illustre Ermes gittava.
Gli si mise dinanzi e, pur af- frettando il cammino, Ermes gabbava ed a
lui diceva (1) Omesso il v. 280. 170 IV.
- l'abigeato di oaco parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di
Majade e Zeus: con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi
ga- gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .
La contesa continua un po', fin che si deci- dono entrambi a
recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura
di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo Zeus
conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa. Sorride, il gran Dio, e
comanda ai due Dei di cercare insieme " con animo concorde „ i
buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio. Ubbidiscono. E la commedia
finisce come le com- medie sogliono terminare: con una buona pace.
Di essa rimangono cardini notevoli l'accor- tezza del trascinare le
mucche all'indietro per disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in-
sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi ad Apollo ed a Zeus :
particolari che, pur ap- partenendo forse ad antiche trame
novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato
probabilmente a bastanza tardi. II. — Presso i Latini.
Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e presso i Latini in
ispecie (1). Né della trasposizione, per cui il mito vien
riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né (1) Cfr., di
qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI. PRESSO I LATINI
171 dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi-
cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an- tico, e rinnova per
conseguenza i particolari del racconto : si deve tener parola a proposito
della saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su- bite allor
quando ci appare formata in età di storia. Non quelle. Segno certo, che
rimase da prima ben radicata nella memoria delle gene- razioni,
approfondita nel sangue della stirpe ; che vi si cristallizzò in una
foggia, la quale non aveva più il contenuto cosciente della an-
tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i più minuti, e
dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e intangibile.
E però al- lora che r elaborazione artistica sopravvenne con voce
più sicura e lievito più possente, non potè distruggere per ricreare ; —
dovette co- stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma
irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo tardi. Il rispetto,
per vero, di tutti i particolari, che furono proprii della saga
primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda,
contraddi- stingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende
che il racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto
nelle storie e nelle interpretazioni dei dotti. La
presentazione dei protagonisti. Però che forse la differenza più notevole
fra il racconto indiano e il probabile, — d'una probabilità ot-
timamente fondata, — i^rimitivo racconto latino, consista nei mutati nomi
delle iDersone. Né è da ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde
un qual siasi spettacolo naturale si presenta all'oc-
172 IV. - l'abigeato di caco chio ingenuo : e tanto più
quanto meno il pensiero scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria
per riportare ciascun parvente alla sola sostanza. Ogni aspetto poi
si presta a tramutarsi, da prima, assai più che in una personale
figura di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina.
Spiccatisi più tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione
linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici
appresso le differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni
di essi, e taluno fa prevalere, addensando di questo il contenuto e
concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon- damentale della fiamma
aveva certo moltissimi termini che le corrispondevano : ma uno ne
trion- fava là, ed un altro qui. Onde accade che un solo mito del
fuoco possa rinvenirsi in fogge bensì quasi identiche presso gl'Indiani e
i La- tini, — ma non mai con identici nomi. La presentazione,
adunque, dei protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e
sen- z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le loro
leggende ci appajono per barlumi, in fondo ne siamo all'oscuro, ed è
quindi prudenza non affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo
mito indoeuropeo senza ancora averne dimen- ticato il valore
naturalistico, s'indussero ad usare i nomi di Caco e di un non sappiamo
se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova in ben
diverse condizioni. Non solo il primo è (1) Cfr. G. De
Sanctis Storia dei Bomani I (Torino 1907) 88. PRESSO I
LATINI 173 ben certo, là dove il secondo non è né pur
for- malmente sicuro e varia nei due testi ove ap- pare sol tanto ;
ma quello è analizzabile con un etimo di cui riflessi si rinvengono pure
fra i Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori. Glie in
Caco ritorni la radice che anche in xaio) (" brucio, ardo „) e nel
prenestino Caeculus, è probabilissimo e consuona bene alla sua
natura ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio a tentativi
cosi fatti ; ed è preferibile compren- derlo fra gli dèi cui non è di
certa analisi il nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop-
piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile definire, quali sieno gli
attributi suoi proprii, e quali al personaggio sieno stati aggiunti
dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre- scelto a
significare la forza della natm-a la quale nel Rigveda esprime Indra, da
Indra non dif- ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce né
pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In- dubitata è la forma
mostruosa ; certo è l'atto del vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo
; congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un antro immane è
sua dimora, fra le tenebre cupe. AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né
forza gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo circonda.
L'odio invano lo minaccia. Tale sua effìgie ripugnante ed immonda però si
deve riferire ad un secondo stadio del suo evolversi mitico ,
perché son tracce palesi d'una sua più vasta comprensione. Egli dovette,
ciò è, nell'i- nizio, valere come non pur malefico si anche fuoco
benefico: e senza dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente,
più che in lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel
suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli ed amicali Cacu ritorna
presso gli Etruschi in certi specclii dipinti che ne pervennero
unica reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il culto d'una
Caca^ cui vergini avrebbero con as- sidua cura vigilato un sacro
focolare, non dissi- milmente da Vesta. Eorse il termine non signi-
ficava da principio se non il fuoco nell'atto dell'ardere e in quanto
arde ; e solo poi le due contrapposte concezioni della fiamma
conflui- rono in esso, e valsero a derivarne ben due figure divine.
Il terzo stadio in fine della sua evoluzione Caco toccava quando nei
posteriori tentativi di genealogie divine divenne figlio di
Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo posto fra i Numi della
fiamma. Dei due protagonisti, il furto e il duello si
svolgeva quasi certamente in modo simile al racconto del Rigveda. Vi
ritornavano il muggito bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e
la clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta della
caverna e l'abbattimento del mostro tra il fragore il fumo ed il fuoco. E
tutto il mito latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa-
pere, dentro questi termini : senza né originalità sua propria di
particolari e di figure né sma- glianza singolare di colorito
formale. Un primo arricchimento gli derivò dall'avere, in
proceder di tempi, localizzato con più esat- tezza la fiaba, —
topograficamente vaga nelle origini, come quasi ogni altra. Nello
spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il Palatino a
oriente, a sud l'Aventino, il Campi- doglio a nord, e dove erano nell'età
storica il Foro PEESSO I LATINI 175
Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la saga. E fu più vicina
alla terra, e più lontana come dal cielo cosi dal suo proprio senso
natura- listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto di
avventure terrene, il ricordo di tempi lonta- nissimi, di cui testimoni
unici restavano i monti ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda
che la pretende a storia accampando una verità fallace e diversa dalla
sua prima, ben j)ìu ef- fettiva. Un particolare locale s'insinua : la
ca- verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E, assai più di
quanto possiamo scorgere nelle te- stimonianze, i luoghi ove poi saranno
le scalae Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic- coli nuovi
tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma pertanto colà in uno
stadio, che è il suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven-
tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co- stituiscono i iDerni.
Acquistare una sede significa però per un mito, non pure
raggiungere una consistenza e saldezza maggiori, bensi allargarsi via via
per attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son
radicati. E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu
invero non presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco
Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di
Ercole venisse defini- tivamente adottato è e sarà del tutto incerto
(1). Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras- correre innanzi
ch'egli potesse fondersi con gli (1) Cfr. De Sanctis St. d.
R. I 193. 176 IV, - l'abigeato di caco dèi
latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo contigui : prima, dovette
divenire familiare, ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser
co- nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi- milarsi infine
air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima „ ove nel Foro
Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav- venne
ad assorbire in sé ed annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale
difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne serbino
tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come l'ebbe assorbita.
Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era di fronte al
dio solare notissimo, impresso di grecità? A en- trambi, — sembra,
— competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E
le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se
i riscontri analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove
l'uno apparteneva a una religione poco evoluta qual la latina,
l'altre recavano con sé grande matu- rità religiosa. Una poi di cotesto
imprese di Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „
Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva il pretesto per
rinsaldare quel nesso fra Ercole e Caco, che circostanze di luogo e
simiglianza di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia nell'occidente
spagnolo, ove quella fatica avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva
ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della
positura geografica approfittarono molti facitori di saghe per le loro
combinazioni (1); (1) Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide:
cfr. U. Man- PBESSO I LATINI 177 per
nessuna forse cosi felicemente come per la latina di Caco. Giacché la
vittoria conseguita in Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che
la presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso della mandra che
Caco rapisce. In progressione, quanto più Ercole prevaleva su
Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg- genda. Vi si aggiunsero i
particolari sul culto romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne
fece tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad- distinto per
profondi caratteri dal resto. Non più il mito della natura; ma l'impasto
non sempre coerente di etiologie, con le quali si tenta di spiegare
l'uno o l'altro aspetto del rituale, un costume, un gesto, projettando il
tutto, senza prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico. Del
paragrafo che cosi accresce la leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi
non erra, di unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni
più tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima
erano in età storica, prima che il servizio vi fosse assunto da pubblici
ufficiali (anno 312 a. C), le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non
che a questi ultimi sembra che non spettasse come a quei primi di
partecipare al banchetto in cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti
delle vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la decima, per
consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica
greca in Sicilia e nella Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della
R. Scuola Normale Sup. di Pisa , XXIV) pag. 216. A.
Ferrabino, Kalypso. 12 178 IV. - l'abigeato di caco
d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era lecita cosi a
generali come a privati cittadini. Il primo fra questi fatti e forse
anche il secondo costituiscono la trama originaria della leggenda
etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito, subito dopo la sua
vittoria su Caco, un altare, l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la
decima del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui sarebber
stati partecipi membri dei Potizii e dei Pinarii, con zelo e per tempo
quelli, con ritardo questi onde non poteron partecipare al ban-
chetto delle viscere. Ercole decretò allora che tale nei secoli restasse
il costume fra le due famiglie. Se non che dal culto erculeo
dell'Ara le donne erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,
non si pensò che in Roma Ercole è anche dio della generazione maschile ;
ma si disse che le donne avevano offeso il Nume, in qualche ma-
niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza
tarda, e discorda nei testi ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la
Porta Carmentalis che ne ha il nome è prossima al Foro Boario)
avrebbe respinto l'invito di assi- stere l'eroe presso l'ara ; o vi
sarebbe pervenuta in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una
reda- zione forse più antica in vece, donne rinchiuse presso il
Velabro pel culto della Bona Dea avreb- bero, per mezzo della loro
sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di concedergli un po'
d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un uomo : — onde la
vendetta di lui. E anche recente è, sembra, il nesso che si strinse fra
Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi
PRESSO I LATINI 179 al Foro Boario, dedicata
Jovi inventori. Certo è secondario, e per ciò non da tutti accolto,
il particolare che essa fosse eretta da Ercole per ringraziare, col
sacrifizio di un giovenco, il suo padre Giove. Ora, se tutti
cotesti accrescimenti leggendarii, i quali si commettono con la figura di
Ercole ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen- tano, pur
tenendo conto di talune interpola- zioni più tarde, nel complesso un
secondo stadio del racconto; un terzo venne di poi a sovrap- porsi.
Entrò nel mito la figura di Evandro. Le cause furono, come per Ercole,
due. L'una è identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;
poiché di Evandro era un altare presso la Porta Trigemina non lungi
all'Aventino e al Foro Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come
per Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga- rano-Recarano,
cosi per Evandro influì la forma del suo nome. La mente non matura che
cerca di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver
tutto spiegato allor che ha supposto l'e- timo d'un termine. Caco ad esempio
venne, — e forse da eruditi greci, — accostato per omo- fonia
all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale parve del resto convenir
bene al mostruoso la- drone. D'altra parte Euander che volto in
greco divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi fu
facile il riscontro tra il " malvagio ,, del- l'Aventino e il •'
buon uomo „ della Porta Tri- gemina. Evandro era, — in una
leggenda che qui non 180 IV. - l'abigeato di caco
accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi dalla Grecia
venuti a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno.
La sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per più
attinenze con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto
in età pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde
intorno a ciò. L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste.
Esistono rac- conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è ostile
ad Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma
evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con
Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e
a favore del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo
stadio venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con Evandro,
un'altra tarda invenzione. Quella Car- menta, di cui era un anticbissimo
sacrario presso la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu- fruita
per una etiologia del racconto, fu in altra guisa sfruttata per
accrescere di solennità la venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle
tra- dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe, cioè,
predetto in un suo vaticinio l'avvento del- l'eroe e la futura divinità
di lui. Il fato cosi rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser-
viva assai bene a vantare per antichissimo fra tutti il culto romano di
Ercole. Tarda trovata, che si foggia tal volta coi nomi, in vece che
di (1) L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. I 192.
PKESSO I LATINI 181 Carmenta, di Nicostrata, di
Temide o, presso Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che
si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro» questo facendo figlio
o amico della profetessa, e col ricordo del vaticinio giustificando
l'acco- glienza di lui al Tirinzio. Basti di coteste
invenzioni, cosi povere e re- centi che anche presso i poeti mal si
collegano col restante racconto. E impossibile dire chi per primo
abbia in un testo scritto accolto il nucleo leggendario più antico, dai
successivi stadi! delFetà volgenti deformato in parte, in parte
svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com- posto un organismo di
quel che era opera, non del tutto compaginata, d' una lenta e
libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi- zieni grame.
Sol tanto si può congetturare che Ennio commettesse nel suo poema la
materia come del primo (Caco), cosi anche del secondo stadio
(Ercole), al meno nella sua più vetusta parte. E di poi un annalista del
II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro-
paggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela-
mente ad un' altra che giustifica assai bene ta- luni aspetti del mito di
Caco ax)presso gli scrit- tori dell'età augustea. E probabile difatti,
la fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno omerico divulgava
in degna veste d'arte e con autorevole efficacia, non rimanesse senza
influsso su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con fedeltà
maggiore, lo stesso unico spunto alle- gorico indoeuropeo. E se
l'abigeato del figlio di 182 IV. - l'abigeato di caco
Maja fu nella mente di talun culto scrittore, — come Ennio, — non
privo di analogie con l'a- bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse
a ripetere qualche particolare attinente più tosto all'astuzia che
alla forza. Tale lo scaltro accor- gimento del condurre per la coda
all'indietro i buoi fino all'antro per disperderne le tracce ; tale
anche lo spergiuro del ladro che nega il furto : — questi difatti
ritrovammo nella G-recia tratti essenziali della saga rielaborata.
Certamente però, quanto al di là di coteste innovazioni e giunte
s'è conservato intatto il primo profilo del mito, cosi che i
particolari posteriori si sono aggregati ma non sostituiti ai
precedenti ; tanto se ne son venute alterando la luce e la prospettiva e
se n'è obliterata la coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la
vendetta narrino del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e
tenebroso cui la luce è nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano
: la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg- genda, non
dentro ; la colorano, non la costi- tuiscono. Ora, essa è duplice nella
sua parvenza. Narrata con un certo abbandono della fantasia, con
una cura precisa di non omettere le più vivide tinte, è una fiaba, da
ripetersi perché gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,
da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande : il tempo e la bellezza.
E i poeti la toccheranno con il loro tocco più lieve e più esperto.
Tra- mandata in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i
margini dell'umano e dell'e- roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e
il sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora; I
POETI 183 riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non elimina
ogni dubbio e non genera certezza di co- noscenza. E gli storici dotati
di senso d'arte la riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.
Una fiaba, — dunque, — presso e il poeta e lo storico. Ma una, cui quello
è pago di ammirare, questo è desideroso di credere. Noi non posse-
diamo però né i versi degli artisti più antichi né le prose dei più
antichi annalisti che in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo
ri- prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di
Augusto. ni. — I Poeti. Quando, dopo Ennio,
l'arte incastonò nel verso il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva
po- lito r esametro e , temprandolo per la forza» l'aveva reso
agile per la grazia delle movenze. La parola regnava : scelta, limata,
contesta, vi- geva nel tono quanto nel significato; aveva un senso
nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri- meva, e aggiungeva. E il
mito visse nella pa- rola, che gli divenne fine più che mezzo.
Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che
produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che l'infrena-
vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che esigeva e i
sostantivi ove si distil- lava. Ond' è che raro il poeta innovò,
sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel-
184 IV. - l'abigeato di caco l'adattamento, che non fosse
trito, della ribelle massa linguistica allo schema rigido e
inviola- bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me- rito
splendeva nel difficile. Il gesto della mano che elegge e soppesa la
parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di
Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si attennero là dove
altro procedere esigesse il general tema dell'opera loro, — il
quarto libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo dei Fasti (1).
Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare. La sua
dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi, è
anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra più tosto
parallelo. In tal caso, sia che egli at- tingesse a un modello diverso,
sia che con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in- fine si
ritenesse lecita una libertà maggiore, — il suo racconto non comprende
Evandro, il terzo stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco
ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della
forma che avrebbe po- tuto assumere la fiaba senza il mito
etimologico sul " cattivo „ ladro. Pel resto, il
racconto è in tutto personale. I vero tema dell'elegia è Ercole
Anfitrioniade, in qualità di Dio venerato nel Foro Boario con rito
greco e senso romano. La sua sola figura campeggia in due quadri, che
uniscono egli e il (1) Gir § III.
135 momento del tempo e la postura della scena.
Nel primo combatte Caco in una lotta breve- mente descritta, la quale
sembra importare al poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.
Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi- stico culto della Bona
Dea, l'acqua che gli ne- gano e ne trae vendetta. Sono dunque le
due sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a sé sul suolo
dell'Urbe, superate entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe
in prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino, e il riposto
limitare sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno riscontro; le tre
teste di Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an-
tichissimo mito della natura si dispone allo stesso piano e nella
medesima luce del recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza
di quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen- done una
fantasiosa scena cui rende grata e fresca il murmure d'un fonte.
Quando (1) l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia, aveva
stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe- corosi palatini monti,
ed i bovi stanchi stanco egli stesso posò, là dove il Velàbro con la sua
propria cor- rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele
il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non furono : quegli
di furto Giove macchiava. Indigeno Caco si era, ladrone da l'antro pauroso,
che suoni emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-
(1) Properzio Elegie IV 9; edizione J. S. Phillimore^
(Oxford s. a. [1907]). 186 IV. - l'abigeato di caco
sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al- l'indietro
trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio : i giovenchi muggirono
il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava
le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla : "
bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema della clava nostra, due
volte da me ricercati, due volte mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con
lungo mug- gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di
Eoma „. Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il
volto è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la terra.
Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om- brosa cerchia gli alberi
un bosco avevan formato, clau- sura di feminea dea, con venerandi fonti e
sacelli, a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie
purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco splendeva ;
il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti uccelli densa
ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere
su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di- nanzi
all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate,
aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi- tale il santuario ! Erro una
fonte cercando, e qui in- torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta
quanto nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo
con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al- cide la sostenuta terra mi
chiama. Chi dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le
immense fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar
le tenebre di Stige? (1). E s'anche celebraste (1) Omesso il
v. [42J. I POETI 187 sacrifizio all'avversa
Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se
qualcuno il mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal
libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii offici di
schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co- nocchia ; ed anche a me cinse
una fascia morbida l'ir- suto petto e fui con le dure mani garbata
fanciulla ,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo-
tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non riguardar, o
straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su, abbandona, sicuro
fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai maschi, si venera
un'ara che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno scorse
il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de- posta, le forti membra
lavava! Altre fonti gli Dei ti donino : quest'acqua scorre per le
fanciulle solo, ap- partata dentro limitare secreto „. Cosi
la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : né l'uscio
chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva
placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra
pronuncia. " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac-
coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La massima ara „ egli
dice " che dai ritrovati greggi è consacrata, l'ara da queste mani
Massima fatta, questa nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta
non resti la sete d'Ercole escluso „. Padre santo salve! di
cui si compiace oramai l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere
benigno al libro mio. Cosi il breve carme assempra il
magistero delle pause musicali, cui si affida più espressione tal volta
che al contesto delle note : giacché 188 IV. - l'abigeato di
caco quando il mito vive di forza verbale, la pausa lo
costituisce non meno della parola. Dal com- plesso della leggenda volgata
e nota, che rin- chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro
dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi e le luci, — le ombre
e gli sfondi lascia alla me- moria comune ; e nel silenzio di lui vibra
il ri- cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno ciò che tale
ricordo potesse supplire; ma in parte l'abbiamo supposto, in parte ci
verrà mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per tanto
quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca- rattere profondo: è eulta. Il
mito, nella sua squisitezza formale, è dottrina; e il compiaci-
mento del poeta è di una garbata esumazione dinanzi a lettori cui la
raffinatezza ha svigorito la forza delle sensazioni. Non il senso
religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se bene dell'uno
e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e un gusto
aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione
mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai
volgare, assai meno aristocratica, ma in com- penso atta a una più vasta
cerchia di lettori, è la narrazione di Vergilio: perché l'informano
quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santità
della fede. Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi
prin- cipi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla leggenda,
come a quella onde scaturisce l'or- goglio del nome romano e si
giustifica la glo- riosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla
I POETI 189 figura del pio eroe Enea, che opera per
volere di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-
gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti- tuzione del culto
erculeo, e celebra età anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non
può non essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato
in atteggiamento inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su
i due suoi estremi: comincia con le lotte cruente di Enea contro
Turno; finisce con l'inno alle mirabili vittorie romane e alla battaglia
d'Azio, signi- ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle prime
alle estreme gesta, balza il pensiero senza intervallo in un constante
sentimento ; e, nella compagine salda degli esametri, appajono le
divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La leggenda si affonda
nella realtà ; la religione le penetra entrambe ; e il canto muove dalle
ra- dici profonde dei profondi sentimenti del popolo che diede la
fantasia alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i
divoti. Per ciò, e il mito di Caco vien esposto (1) du- rante
un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon- dante di particolari. Qui è
detto quel che Pro- perzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma
si sostituisce. E la primordiale figura della saga, — Caco, — non è
svolta meno della seconda, — Ercole, — né della terza, — Evandro : — però
che rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa e la divinità
bella e un antichissimo assetto poli- tico presso il colle Palatino. E
tutt'e tre sono (1) Vv. 154-279 ; edizione R. Sabbadini'
(Torino 1908). 190 IV. - l'abigeato di caco cosi
collegate che Evandro, il quale dà il segno dell'epoca, è il narratore, e
nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il combatti-
mento assume, difatti, la parte più notevole perché il canto intiero
suona d'armi e perché nella lotta si rivelano a pieno tutti gli
aspetti dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema
generale, il mito adombra quei particolari di astuzia che supponemmo
dedotti dalla Grecia, e lumeggia bene ogni forma di violenza;
ricon- ducendoci per obliqua via alla sua probabile foggia
originaria : — breve in ispecie l'accenno allo spergiuro del ladro, che
più si accosta al furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi
insensibilmente, il gravitar dell'importanza su questo duello ne accresce
le conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo storico, le spinge
al di là dell'origine di un culto. Poiché il poeta vuol credere alla
leggenda, e la pareggia alla storia, in Caco con la belva muore la
vita selvaggia, e dalla sua fine principia non sol tanto il rito
d'Ercole, con i Potizii e i Pi- narii, ma la quiete per gli abitanti del
Palatino. E il suo cadavere trascinato per i piedi empie d'un'avida
curiosità le menti e non basta ad appagare i cuori, atterriti dal lor
terrore morto; e i fuochi spenti su le fauci somigliano un simbolo.
Le lotte saran poi di guerrieri con guerrieri. E su l'Aventino, ove Enea
contempla ancora le tracce del passato, i contemporanei d'Augusto
scorgono marmoree dimore. Parla Evandro ad Enea (1):
(1) Vv. 190 sgg, I POETI 191 Guarda da
prima questo masso tra le rupi sospeso: e come lungi son sparsi i
macigni, e deserta è la di- mora nel monte, e rovinarono le pietre in
frana. Qui fu la spelonca, remota in suo immenso
recesso, che il semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca
dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era calda la terra ed
affissi su la soglia violenta pende- vano volti foschi di lurida tabe. A
un tal mostro Vul- cano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca
re- cendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti il tempo
alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio. Infatti vendicator
supremo Alcide giunse, di Gerìone ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori
ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano i
buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò che nullo delitto ed
inganno inosato o intentato re- stasse — dal pascolo quattro di mirabile
corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.
Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li trascina
nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii, e li occulta nell'opaca
caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra
tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionìade,
e procacciava il partire, nella partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti
riempion la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci una
delle giovenche rispose per l'enorme antro mug- ghiando, onde deluse le
speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore
d'Alcide d'atra bile riarse : con la mano afferra l'armi e la quercia
gra- vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte.
Per la prima volta videro i nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge
senz'altro più veloce del- l'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore
presta le 192 IV. - l'abigeato di caco ali. A
pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno, che per ferro e per l'arte
patema stava sospeso, avea fatto cadere le catene spezzando, e di quello
munito le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incal- zava
il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua e là movendo, e
digrignando i denti. Tre volte, d'ira fremente, tutto perlustra il monte
Aventino : tre volte le pietrose soglie in vano tenta : tre volte,
stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno
macigni, acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima
allo sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa
che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra
all'incontro spingendo scrollava; da le profonde radici la strappa e la
svelle ; indi d'un sù- bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra
gran- dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il fiume.
E lo speco, e di Caco la reggia immane appar scoperta, e l'ombrosa
caverna si mostrò nel profondo, non diversa che se nel profondo
spalancandosi per forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e
di- schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto
l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore tremassero i Mani.
Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava rupe
rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi,
e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza e con enormi macigni.
Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)
da le fauci — mirabile a dirsi — moltissimo fumo vomita, ed avvolge la
casa in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e nell'antro una
fumosa notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide
'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco, I
POETI 193 là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel
grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto
nodo Caco, che vani incendii rece, compresso schiacciato gli esorbitan
occhi e la gola si ingorga di sangue. Si spalanca tosto,
abbattute le porte, la nera casa : i buoi rubati, la spergiurata rapina,
riappajono al cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.
Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre- mendi, il volto, ed
il petto della mezza fiera, villoso di séte, e su le fauci i fuochi
spenti. Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti
ricor- darono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con la
schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que- st'ara Ercole
eresse nel bosco, che massima sempre verrà detta da noi, e massima sempre
sarà. A Vergilio sembrerebbe di poter fare seguire senz'altro
Ovidio ; che lo imita su questo punto assai strettamente e ne finge anche
il senso religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né l'altro
in quei Fasti ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma (1).
In realtà sotto una superficiale simiglianza si cela ben profonda
differenza. La vita artistica del mito, pregnante in Properzio,
rigogliosa in Vergilio, vi agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola;
che s'è esaurita, che non osa violare il modello i^er rinnovarne le
linee e si sforza imj)otente di mutarne i suoni. Cosi che si perde nel
vanto piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che (1)
I 461-586; edizione H. Petee* (Lipsia 1907). A. Ferrabino, Kalypso.
IS 194 IV. - l'abigeato di caco " claviger
„ è detto con falsa audacia Ercole ; si sminuisce nel gioco artificioso
d'una frase, quando è eletta a costituire un verso cosi (1) :
Dira viro facies, vires prò corpore, corpus Grande ;
sorride bolsa nel bisticcio etimologico (2) " Cacus non
leve malum „. Non è più la finezza pro- perziana e la ricca
concisione : è il lezio ricer- cato a far un poco attonito chi
legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di tutto il
racconto. Di esso l'occasione son le Car- mentalia dell'll gennaio, e il
legame che alla cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato dal
nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco '. Car- menta difatti, e perché
madre di Evandro, e perché profetessa del culto erculeo, giustifica
tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame è sottile.
Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal verso 541 al 582
; e la sua lontananza nell'essenza e nella forma (e nell'essenza
persiste forse anche quando cessa nella forma) sottrae parte della forza
reKgiosa al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac- contato a
proposito der sacrifìcio ad Ercole nel 12 agosto. E parte
similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce (inconscio il poeta)
per il co- lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi non è
più, come in Vergilio, il re che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare
nell'atto di ce- li) V. 553. (2) V. 551-2.
195 lebrar un sacro rito romano : è lo straniero,
l'Ar- cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru- scito dalla sua
patria, il quale lia bisogno ad apprezzar il Lazio dell'incitamento e
dello sprone materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza al
tema, si addensa su la figura di Carmenta; ma il figlio di lei se ne
menoma. E menomato, stronca il vigore nazionale del mito. Non solo
: che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse, straniero egli
pure. Unico indigeno, Caco: ossia proprio il personaggio odioso del
racconto ; Caco " terrore ed infamia della selva aventina „.
Cosi una inezia apparente ha tramutato la situa- zione. Ma l'inezia
non sarebbe sfuggita all'ar- tista se il suo sentimento patrio fosse
stato, nei riguardi di questo mito, reale ed efficace. In vece egli
imitò Vergilio nella superfìcie; e al- l'artifizio di tale imitazione
sospese il suo rac- conto. Pur nella facile vena del verso,
nella sonorità scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'e-
leva ad arte (1). Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero
eroe che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui ospita
la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino
sorgeva, e desto dal sonno il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare
due tori. Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie
airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della
selva aventina, danno non lieve a (1) Vv. 543 sgg.
196 IV. - l'abigeato di caco stranieri e a vicini.
Spietato è del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo, il corpo ha
grande. Del mostro, Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi
recessi ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le
belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra squallida
d'umane ossa biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da
Giove, ne andavi : diedero un mugghio i nibati con rauco suono. "
Ac- colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor per la
selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con un masso strappato dal
monte aveva munito, che cinque a stento e cinque avrebbero smosso
pariglie. Delle spalle questi si serve — anche il cielo v'aveva
posato — e il peso immane smuove crollando. L'ab- batte, e il fragore lo
stesso etra spaventa ; da la pe- sante mole percossa cede la terra. Da
prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con
sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio, ricorre,
mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo- mita da la sonora bocca. Le
quali sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco
dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata
tri- nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte
percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo
col vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il
vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva
quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome
dal bue. Né tace la madre di Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la
terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. GLI
STORICI 197 IV. - Gli Storici. Il gesto più
significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici
dell'età di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco) è la
di- chiarazione con cui rifiutano di accettare respon- sabilità per
quanto raccontano (1). " Cosi si suol tramandare „ dice Livio ; e
richiama tacitamente le parole del suo prologo : " né di affermare
né di negare ho in animo „. E Dionisio : " vi sono intorno al
nume d'Eracle racconti più favolosi, e altri più credibili. Il più
favoloso è questo „ E vero che, nel gesto comune, Livio crede più
di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato l'opinione che il mito
abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi,
dovette prender radice col primo insediarsi laleggenda
sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol- vono male, il problema
della sua attendibilità. Anzi, per diminuire quasi l'importanza
stessa del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves- sero
riferito il racconto com'è in Vergilio, né pur Livio, con la scarsa
perspicacia critica che lo segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le
fa- vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i più antichi
annalisti: lo rinvengono sotto quella veste di fiaba si, ma umana, che
vedemmo con- venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco vale a
dire,^non vome fiamma né è un mostro. E (Ij Su Livio e
Dionisio cfr. § IV. 198 IV. - l'abigeato di caco
un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro : — uomo. La
possibilità terrena informa la fiaba e non ammette sopra sé che l'eroico,
Ercole ; onde le due forze divine avverse si spogliano del soprannaturale
e il valore del racconto pesa assai più sul furto che su la vendetta. In
questa difatti troppo palese appare la natura mostruosa di Caco,
troppo il padre mitico di lui si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno
breve dà, cosi in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria
d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe
valere l'ajuto dei vicini ; ma il malvagio lo invoca in vano.
Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi
di Gerione la palesano. Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono,
negl'incu- naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe di
erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta ombra sotto il peso del
cibo e del vino. Sorge l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la
vendetta ; poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie
intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante, il banchetto ; su tutto,
il carme profetico di Car- menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il
pre- ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi legge. Resta
la fiaba. E nella trama della storia si tinge d'una gravità un po'
paludata, d'una serietà riflessiva, le quali non la soffocano af-
fatto, si al contrario l'abbellano di un candore ingenuo. Ma
solo la stessa arte di Livio può dare quel senso secreto (1).
(1) I 7. 4 sgg. ; edizione Weissknbohn'^ (Lipsia 1910).
GLI STORICI 199 Che Ercole in quei luoghi
conducesse dopo l'ucci- sione di Gerione magnifici buoi e che presso il
fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a sé la
mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per
ristorar con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare.
Ivi, come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'op-
presse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza,
allettato dalla bellezza dei buoi e vo- lendo stornar quella preda,
perché, se avesse spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le
impronte medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,
trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni
per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno,
esaminò con gli occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal
numero, si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà con-
ducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte al di fuori né
altrove dirette, confuso e mal certo prese a condurre la mandra lungi
dall'inospite luogo. Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte
mug- gito, come accade, per desiderio delle restanti, il ri-
sponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole. Lui che
assaltava la spelonca Caco tentò di rattener con la forza, ma colpito
dalla clava in vano invocando l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora
reggeva quei luoghi (1). Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei
pa- stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta uc- sione,
dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i
modi dell'eroe alquanto mag- giori e più augusti degli umani, gli chiede
chi mai (1) Omesso in parte il § 8. 200
IV. - l'abigeato di caco si sia. Quando il nome e la paternità e la
patria ne apprese : " nato da Giove, Ercole , disse " salve
! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre- disse a me
la madre, veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe
stata dedicata, la quale un giorno il popolo più opulento della terra
chiamerà " massima „ e venererà secondo il tuo rito „. Dando
la destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adem- piere i
fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta
con una stupenda giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole,
attendendo al ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora
eran le famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.
Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero
imbandite le interiora, i Pinarii giun- gessero per i restanti cibi ma
già consumate le in- teriora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta
dei Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sa-
crifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di quella cerimonia
per molte età, fin quando trasferito a pubblici servi il ministero sacro
della famiglia, tutta la schiatta dei Potizii peri. Tale,
nell'insieme, è Dionisio (1): se se ne toglie che Caco è per lui non un
pastor ma un predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in Temide
(2); che il ladro, interrogato, nega la sua rapina ; che Ercole, prima
che a sé, alza un altare a Giove Inventore; e pochi altri parti-
colari minori su la cui natura e sul cui valore non è qui da dir nulla,
poi che fiu'on sopra (1) I 39-40. (2) Cfr. sopra pag.
181. I RAZIONALISTI 201 vagliati. Se non
che in Dionisio è, di più, una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga
per due capitoli sopra un racconto cui non crede affatto; scrive
ciascun particolare, ma reputa di vedervi adombrato un simbolo che
rivelerà poi, con si- cumera da erudito certo di sé e del proprio
sapere (povera certezza in vero!). Eppure non è nervoso; non sorvola né
condensa: insiste e stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si
afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se non alla fine : ^
Intorno ad Ercole questo è il racconto favoloso che si tramanda „.
Alla fiaba manca l'amore. V. — I Razionalisti.
Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può che singhiozzare i
suoi ultimi guizzi fra le stretto j e fatali del razionalismo. I don
Ferrante dell'erudizione romana trovarono il fatto loro» — come i
poeti in Ennio, gli storici negli an- tichi annalisti, — negli annalisti
dell'età dei Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo (1). Su la forma
precisa del racconto che si trovava presso l'uno e l'altro siam tanto
jdoco certi quanto non possiamo dubitare su la forma generale. En-
trambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica razionalista, concordano
nel ridurre il mito a un gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma
si (1) Cfr. § VI. 202 IV. - l'abigeato di
caco direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto alla
redazione poetica della favola siccome ap- parve poi in Vergilio ed era
apparsa prima in Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla
redazione storica che con riserve riprodurranno Livio e Dionisio.
Cassio Emina difatti narrava un preteso " rac- conto veritiero
„ ove Caco appariva in qualità di servo. Suo padrone sarebbe stato
Evandro, il buono Evandro signore del cattivo servo. Co- testa
concezione fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un po'
diversamente: presso il commentator di Vergilio Servio e il suo
inter- polatore ; e presso uno scritto L'origine del popolo romano^
opera probabile d'un erudito del IV secolo che compilava con grami intenti
storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra
contaminarlo con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per
Servio adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re
degli Arcadi, che per l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco
fu detto vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal
greco xanóg col ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole
lo abbatté ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac- conto di
Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a
simbolo, è tra- visato nella sua essenza. A tale effetto furono
bastevoli tre interventi del razionalismo : l'uno a spiegar e ridurre la
natura mostruosa del ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo
a giustificarne i rapporti con Evandro. — Più in là si spinge in
vece L'origine^ nell' attinger forse I RAZIONALISTI
203 più compiutamente, certo in modo più esclu- sivo,
a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo forte (il suo vero nome è
Recarano), e Caco uno schiavo ribelle; ma il furto è punito per
auto- rità di Evandro senza duello né lotta. I motivi razionali di
questa notevole soppressione son due : lo scrittore non aveva spiegato
allegorica- mente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvo- lare su
la circostanza in cui più il fuoco ha parte ; la qual necessità poi gli
servi anche per metter in rilievo la buona figura di Evandro e la
giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allon- tana dalla fiaba poetica
molto più che non appaja Servio, se bene come questo la tenga
presente. Come però questa di Cassio Emina doveva essere,
rispetto ad Ennio, una considerevole ri- duzione del mito fantastico nei
termini della realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli
annalisti più antichi, non era se non se un lieve i tocco; cosi su questo
racconto altri critici in- rtervennero assai più profondamente. Ridurre
il mostro a servo : ecco una trovata buona. Ma m.utare l'uomo
singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto ottimo per inquadrare
meglio nella storia dei popoli anche la breve favola.
Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo ; e da un contemporaneo di lui,
per qual si voglia via, la derivò a sé Dionisio per il suo " più
cre- dibile racconto „ (1), (1) 1 41 ; edizione C.
Jacoby (Lipsia 1885). 204 IV. - l'abigeato di caco
Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante
d'un numeroso esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa
dall'Oceano ; abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i
sudditi o le repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti
di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di stranieri;
instituendo in vece legittimi regni e savie repubbliche e costumanze
socievoli e umanitarie ; colle- gando inoltre gli Elleni con i barbari, i
popoli marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti
e diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando fiumi
che inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili ; e l'altre
opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune
pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né con-
ducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è sulla via di chi si
rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver traversato la contrada avi'ebbe
meritato tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere
e dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e
a colà permanere più a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta —
phe avvenne pel soprag- giunger dell'inverno — e dal non accettare tutti
i popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi
è narrata la sottomissione armata dei Liguri, non che d'altri ; per
continuare (1) : Fra costoro che furono superati in battaglia,
si dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani — un re affatto
barbaro e signore di sudditi selvaggi — avesse (1) I 42, 2
sgg. I RAZIONALISTI 205 con Eracle
contesa, perché occupando luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui,
tosto ch'ebbe appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con
ap- parecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser- cito
dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto- dito caricandosene
predò. Dopo però, stretto d'assedio dagli Elleni, vide i presidi!
conquistati a forza e fu ucciso egli stesso nelle fortificazioni.
Abbattuti i pre- sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i
se- guaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro....
Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà il razionalista si
arrogasse; fino a far giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro
si- gnore degli Arcadi che la volgata afferma in- sediato sul
Palatino al momento del duello. Libertà intesa al servizio del vero
" secondo i filosofi e gli storici „, — come s'esprime Servio,
— ossia di quella critica, che conduce a creare, accanto alla favola più
propria una fiaba fittizia e grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in
awen- tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render civili i
barbari, pacificar i nemici. Né del resto sarebbe cosi risibile un tale
sforzo verso il " vero „, né cosi miserandi apparirebber i
suoi risultati; se non gl'inquinasse una mal celata boria, un vanto
sicuro di superiorità intellettiva che è solamente sterile miseria.
Su queste rovine pochi poveri racconti si stre- mano ancora.
Evandro richiama con sé la figura di Fauno di cui era divenuto un
equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira il nome
di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca suggerisce la storiella che
la dea abbia otte- 206 IV. - l'abigeato di caco
nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello.
Poi, è il silenzio. Singolare sorte della saga, in verità.
Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle
geniture in una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente
tra il Pala- tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se- colo a.
C. non pur la sua forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie
soffri su quella e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti :
per modo, che sopra il quadruplice schema l'età più possente del
pensiero romano, l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di
ben va- gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe
preclusa nel sèguito ogni ulteriore vita : però che dovesse morire intero
con l'estin- guersi la potenza alla sua bellezza verbale.
CAPITOLO V. Cirene mitica <i). I. — Il
sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più
eletti stami poeti, tra quanti furono nell'anti- chità, grandissimi, il
mito greco di Cirene e di Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però
nella storia reale una sua trama di fatti concreti e in parte
sicuri , da cui deriva direttamente o indi- rettamente tutte le proprie
successive forme e in cui è da ricercare il motivo appunto di
questa evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso, con due suoi
luoghi in ispecie, Sparta e il Tè- naro; se Tera, l'isola che nell'Egeo
sta a set- (1) Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in
libro II cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispet-
tivi paragrafi. 208 V. - CIRENE MITICA tentrione
di Creta ; se la Libia, ferace di gregge e di frutti, costituiscono alla
leggenda lo sfondo geografico: certo fra questi perni essenziali si
svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano nella fiaba un riflesso
e una deformazione im- mediata, gli altri solo in modo mediato
danno impulso a talune vicende, determinano qualche figura, causano
pochi episodi! (1). Grià in tempo antichissimo, intorno al
secolo decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti fuor dal
Peloponneso in Tera, costituendo a quest 'isola un' incancellabile
fìsonomia dorica. Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI, sembra
Sparta abbia inviato colà uomini suoi, a suggellare della sua particolar
impronta il carattere e la storia di quella breve terra. Ma fin
dallo scorcio dell'età precedente una mano di cittadini Terei abbandonava
con ardire la spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre
Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei particolari procedesse,
quali che fossero le fa- tiche sostenute e gli ostacoli superati, i
coloni non posero in vano il piede su la terra straniera : la quale
divenne per essi fiorente di fiore civile, prospera di ricchezza, famosa
al mondo; da essi si ebbe i suoi Re (2). Largo era dunque il volo
con- cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti, perseguendo
il tramutar delle sedi dalla penisola (1) Cfr. § I.
(2) Cfr. Beloch Griechische Geschichte - I 1, 128. 264 ; Bo- soLT
Griechische Geschichte^ I 479 sgg. : Malten Kyrene C Philologische
Untersuchungen , XX 1911) 166 sgg. IL SOSTBATO STORICO
209 a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga vicenda
fu, come nella memoria, cosi nel mito; ma quale è la realtà in cristallo
iridato. Però che la memoria fosse alterata da quell'am- pio
patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il quale è pregio d'ogni
stirpe greca, in diversa misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta
re- cassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos- sesso di
Dei di Ninfe di Dee : Numi abita- tori del cielo della terra del mare. E
allargato, di li a non molto, già nel principio del secolo VI, fu
ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni. Regnando difatti Batto II
della stirpe che prima aveva ivi instaurato il soglio regale, un
notevole flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, per- vadendo e
mischiando l' antica massa. G-iun- gevano dal Peloponneso, e tra essi gli
Arcadi distinti per la lor propria dissimiglianza. Griunge- vano
dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui per la loro importante
sede (1). Rinnovarono la stirpe corrompendone l'uniformità;
apx)ortarono un soffio diverso e molteplice ad alimentare di parole
mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai venuti prima. E furono per
le vicende delle fiabe locali di efficacia non piccola ; grandissima.
Non soltanto perché apportatori di nuovi elementi al racconto; ma
anche perché, numerosi, costitui- rono a sé un centro secondario di
creazione e diffusione mitica, in antitesi al principale, cui la
casa regnante tribuiva più solenne sanzione e la priorità donava un più
schietto rilievo. Ond'era, (1) Ebodoto IV 159. 161.
A. Ferrabino, Kalypso. 14 210 V. - CIRENE MITICA
da questi due distinti gruppi del popolo greco in Libia formato,
quasi per intiero, il sostrato mitico delle leggende cirenaiche.
Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto, sostrato mitico, né
quella, che fu tratteggiata, realtà storica, sarebbero bastevoli a
chiarire, soli, le mature forme della favola di Cirene e Apollo ;
ove sfuggisse il centro vero, il proprio crogiuolo, nel quale divenne
creazione viva e vitale, possente d'un suo secreto alito di pura bellezza,
organata in una palese e pur varia armonia, la massa confusa e diffusa
che si spre- cava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine. Quel
centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san- tuario di Apollo in Delfi,
già noto all'epopea vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola
libica si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, di- venne d'un
popolo ; era d'una regione, se ne im- possessò l'arte, universale
(1). E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di quel
mondo fantastico, cui diede l'espressione con voci perenni. L'epica
esiodea , l'ode pitica di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto
di Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in- tonarono per
quell'armonia le note. n. — L' " Bea ., di Cirene e
d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che s'insediava primo
sulla proda del mare libico recava con sé, prin- (1) Cfr. §
V e VI 2. DI CIRENE E d'aBISTEO 211
cipalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe- ciale e insigne
culto, uno il cui doppio nome serbava ricordo di antica vicenda: Apollo
Carneo. Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, ve- nerato di
profondo e rispetto e amore fra i po- l}oli dori. Sol più tardi il nume
di Febo Apol- line era sorvenuto, in uno slancio di prepotente
predominio, a fondere con sé, come quella che gii era per qualche
carattere e attribuzione si- migliante ed afiine, la vetusta divinità
dorica. E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran nati il nome
nuovo di termine duplice, e la figura nuova in cui le linee primordiali
soprav- vivevano accanto alle ultimamente tracciate ; senza vero
dissidio, a causa della sostanziale contiguità dei concetti, il Febo dei
Delfi acco- standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo non fu,
nella terra libica, pretermesso il culto. Anzi, poiché dopo alcun tempo i
coloni trova- rono nella patria nuova un'abbondante fontana da cui
l'acqua scorreva copiosa a fecondare il suolo riarso, a quel Nume appunto
questa sor- gente ricchezza delle glebe fu piamente dedi- cata. A
torno il " fonte di Apollo „, nel luogo ove conosciamo la città di
Cirene, posò una schiera di cittadini terei (1). Fra tanto,
rapido era l'accostarsi de' coloni alla stirpe dei Libi la cui
compattezza venivan variegando in un disegno ellenico: e come alla
stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appre- sero, per ciò, che la
notevole polla chiamata dal (1) Cfr. § III.
212 V. - OIKENK MITICA Carneo aveva pure, nella parlata
indigena, un suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso a
quel più greco, questo ijiù libico nome rimase. E poiché alla fantasia
per abitudine secolare si popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe
le sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine fanciulla,
diva del luogo: " quella di Gira ^ suonò l'espressione; e grecamente
" Cirene „ (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo, e
certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo in- digeno e il sopraggiunto
venivan facendo ; e tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto
più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si succedevano. Era
destinata a compaginarsi per impulso crescente con essi ; cosi che
nessuno stu- pisce di vederla scelta a riprodurre, direi eter-
nare, in sé l'opera che quelli spesero per adat- tare il paese e renderlo
quetamente abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice
(nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare abbattere un leone:
sola, E nell'atto fu in breve ferma per sempre, irrigidendolo come
in uno schema, fissandolo in un gesto tipico. Rimase (1). La
Signora delle belve e la Ninfa di Gira era, e per l'uno e per l'altro de'
suoi attributi, insen- sibilmente e inevitabilmente condotta presso
Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella abitava, e antico Dio del
popolo che simboleg- giava ormai ella. Divennero amanti divini ;
amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo (1) Cfr. §
IL l' " EEA „ DI CIRENE E d'aEISTEO 213
primo del tessuto mitico s'era allacciato. In Libia si compievano
le nozze ; e Libia, l'eponima del paese, la divinità che dava al nome della
regione una grazia feminea, fu difatti la pro- nuba benigna e ospitale,
cortese di favori agli sposi. Il pensiero era in un felice
momento creativo : in uno di quei momenti in cui il volo non si
tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce, la spinta prima. In
quest'atmosfera innovatrice, ove pareva urgesse il bisogno di costituire
allo Stato nascente un diverso patrimonio anche di leggende, fu
sùbito còlta l'analogia fra Cirene, che reprimendo le belve e prodigando
l'acque procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza; Apollo
Carneo, la cui natura solare era, in guisa eminente, beneiica alle zolle
; e Aristeo, un gio- vinetto iddio, il quale in Libia era giunto
non sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico protettore dei
campi ove crescon le messi, dei pascoli ove erran le mandre e le gregge,
degli aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai regioni
greche, e fu presto diffuso sopra un'am- plissima area : fino in Italia,
fino in Sicilia, fino in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da
l'altro. Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar- cadia.
che dunque dall'isole si spingesse in Libia o che da l'Arcadia lo
recassero i venuti all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per
la natura sua propria assimilantesi, sia per la legge, onde la
fantasia greca è governata, di non lasciar nume alcuno isolato ; come
altrove s'era com- messo con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe
indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si 214 V. -
CIRENE MITICA congiunse, e presto, con la coppia amante;
av- vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa che gli Arcadi
lo dicevan non pur Aristeo ma "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene:
ad en- trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac- costato
l'uno, necessariamente. Portava egli con sé tutt'una serie di attributi e
di nessi, dei quali alcuni gli eran più intimi; altri più proprii
eran di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era con Agrèo,
nume cacciatore; con Opàone, cu- stode di gregge; con Nò mio, pastore;
x^ersino con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate poteva non
esser attinente, nel racconto, a Gea. la madre TeiTa; e alle Ore, le
fanciulle vario- pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,
e allieta o attrista i contadini a volta a volta : attinenze indubbie, e
antiche certo, ma costitui- tesi s'ignora in qual luogo prima.
Spiccatamente però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da
vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni modo gli venne la sua più
speciale sembianza: dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è
pro- babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-
stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede- simo che, secondo
l'epopea, ammaestrò nella salutare arte medica Pèleo, e di questo il
figlio Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di fe- rite (1).
Accanto dunque alla coppia d'Apollo e Cirene, la quale recava mischiati i
suoi caratteri delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a pre-
ferenza tessalico (2). (1) niade A 822 sgg. 832 A 219. (2)
Cfr. § IV. l' " EEA „ DI CIRENE E d'aRISTEO 215
Di questa situazione profittò accortamente chi ebbe a elaborare il
mito in Delfi o nel flusso letterario originatosi da Delfi. Colà la
leggenda in naturai guisa si riportava a cagione della figura di
Febo; sotto il supremo patronato del quale la favola ricevette un più
ampio svolgi- mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine e i
modi, è necessario badare a quella ch'è dei rifacimenti leggendarii delfici
la più profonda, se ben forse più riposta, caratteristica. Tendono
tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im- portanza del nume
Apolline venerato nel locale santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto
di lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno (e meglio se
sieno) attinenti a diverse e fin lon- tane regioni. Un esempio: per più
punti simili, Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa-
natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel racconto, e spontaneamente
Apollo aveva da soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae lo
spunto per trasportar nei piani di Larisa e di Tricca il dio di Pito.
Ardimento anche mag- giore permetteva la favola africana : il Carneo
di Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'ordi- tura
d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben separati; la quale filo
maestro contenesse Febo Latoide, identificato già col primo e padre
già del secondo ; e come su punti estremi si fissasse su la città
di Cirene e su le vette del Pelio. E tra Cirene e il Pelio Febo Latoide fu
mosso, tra la sede dell'amata e la sede del figlio (1).
(1) Cfr. § V. 216 V. - CIRENE MITICA Cosi
fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di Cirene e di Aristeo,
appartenente all'epica detta di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici:
" O quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti, presso
l'acque del Pèneo abitava la bella Ci- rene „. Il resto del carme si
ricostruisce per congettura. — Figlia del tessalo Ipsèo, re dei
Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene crebbe vigorosa e
animosa, strenua in combat- tere. Durante la lotta con un leone la
sorprese Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone la profezia
delle nozze. La rapi dunque e la recò sul cocchio aureo in Libia, ove
Libia la ninfa li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre recò
questo presso le Ore e Gea che l'allevarono e fecero di lui un immortale
simile a Zeus, ad Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone
custode di gregge, un Nomio pastore. — Tale lo schema breve della fiaba.
Ove si riconosce, senz'altro, il corteggio dei numi che nel
racconto penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo Aristeo; e
sùbito si avverte il colorito libico riflessovi da Cirene; e né meno
s'indugia a inten- der perché, volendo insieme serbar intatto il
carattere tessalico del giovinetto e non cancellare l'episodio della sua
nascita in Africa, venisse alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti
presso i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar popolosi
di leoni queti piani della Tessaglia ; ma qual poeta ha mai temuto
d'essere illogico '? E fuor di questo, la trama era pregevole per
molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg- gera grazia di tocco che
temperava con l'amore del dio la salvatichezza della fanciulla; per una
l' " BEA , DI CIRENE E d'aRISTEO 217 accorta
sapienza prospettica nel disegnare le scene su lo sfondo di due
feracissime terre, onde senza contrasto si rilevava, ben stagliato,
in gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo senso sacro
in fine diffuso nel carme, traverso le parole di Chirone dal molto senno
e assai venerando, sino a dargli temperatamente un tono
religioso. Che stupenda, del resto, fosse la concezione,
dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti poeti. Fascinati
questi, oltre che dall'aura di sogno emanante fuor della fiaba, anche
dalle lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla dei canti
greci, la Tessaglia, come la nuova fio- rentissima colonia dorica, la
Cirenaica. Per l'una il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste,
per l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato. Ma era
inevitabile che questi due poli, ben ar- monizzati (all'inf uori della
irrazionalità su i leoni) dall'Eea, attraessero poi in modo palese
cia- scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a divenire di qui
quasi totalmente tessala, a ridi- venire di là quasi esclusivamente
libica. Due filoni se ne originarono, non privi né l'uno né
l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea, unica fonte primitiva;
ma ben divergenti in processo di tempo : l'uno che con Aristeo
tras- porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro che con
Apollo rinforza e rincalza i tratti afri- cani di lei.
218 V. - CIRENE MITICA III. — Cirene in Tessaglia.
Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta- bilirsi in Tessaglia
la prima tappa è compiuta dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a
C, in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella '^ corsa in
armi „. La patria del vincitore cui il canto è indiriz- zato
dovrebbe far supporre che amplissimamente sul racconto pindarico si
esercitasse l'influenza libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben
deve ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu- ceva Libia
accogliente gli amanti, Pindaro che conosce tanto questo particolare e
tanto lo ricorda da valersene nel suo carme (1), non esita a dise-
gnar in vece, nel principio del carme medesimo, la figura di Afrodite dal
piede d'argento: riu- scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite
era dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren- deva culto con
qualche importanza ; onde fu che la notizia regionale s' insinuò non pur
a modi- ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli- carne un
tratto. Accanto a questa ben lieve al- terazione può esser posta un'altra,
meno visibile, e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes
strettamente congiunto nel mito (2); v'era tra essi quasi un vincolo che
ove Funo stava l'altro adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per
il (1) Vv. 55-68. (2) Cfr. in questo volume
(libro I) il capo III § L Hi CIRENE IN
TESSAGLIA 219 quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non
Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato Aristeo presso le Ore e
Crea: ufficio, a ogni modo, ben dicevole a lui. Delle quali
intrusioni però assai più notabile è la non compiuta au- dacia con
cui il poeta svolge la profezia di Ghi- rone. Contro di essa si ribellava
la sua coscienza religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio
eran assegnati attributi fissi e certi da non vio- larsi da non obliarsi,
ed erano al tutto scono- sciute, riprovevoli, le confusioni le
incertezze dei primi canti divini. Già che, i^er esempio, Apollo
era, nell'essenza, l'onnisciente e profe- tante Nume, troppo illogica e,
diciamo, troppo antropomorfica risultava la scena in cui al Vate da
un Centauro vengono vaticinate le nozze. Sùbito lo vede Pindaro ; si
ribella, ma a metà 5 protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-
stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sor- riso ed un sospiro (1).
Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno riproduce l'Eea.
Splendidamente per vero (2). Voglio, con le altocinte Cariti
Telesicrate procla- mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato
e prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli :
Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio il chiomato
Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo cocchio la Vergine selvaggia là,
dove d'una terra in gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad
abitar (1) Cfr. § V. (2) Edizione di 0.
Schrodee- (Lipsia 1914). 220 V. - CIRENE MITICA
la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse Afrodite dal
piede d'argento il Delio ospite, le divine redini toccando con mano
lieve: e per loro sul dolce letto gi'ato diffuse pudore, in comuni
nuziali vincoli l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio
possente: Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano
seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an- fratti del Pindo
generò, goduto il letto del Pèneo, la Nàjade Creusa, nata dalla Terra ;
egli la figlia di belle braccia crebbe, Cirene. La quale, né
de' telai amava l'alterna vicenda, né i gaudii delle danze (1) fra
casalinghe amiche ; ma, con bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide
belve uc- cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi
procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che, dolce compagno di
letto, su le ciglia si stende verso l'aurora. Sorprese lei un
giorno, — sola, — in lotta senz'armi con vigoroso leone, il
lungisaettante Apollo d'ampia faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con
grida Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,
lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu- pisci, quale lotta
con impavida fronte sostiene, giovi- netta dal cuore all'impi'esa più
alto: di paura non le treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò
? da quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita le caverne
? Forza illimitata manifesta in vero... È le- cito l'inclita mia mano
avvicinare a lei, e dal letto tondere il fiore dolcissimo ? .,
A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno chiaro ridendo,
tosto il suo divisamento rispose : " Se- (1) Nel V. 19
leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. CIRENE IX TESSAGLIA
221 crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri
amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini questo del pari è
pudore : palesemente il dolce letto la prima volta salire. Ma ora te, cui
non si conviene menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste
finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della fanciulla, o
Signore ? tu, che di tutte le cose conosci il fine e tutte le vie : e
quante di primavera germina foglie la terra ; e quante nel mare e nei
fiumi da l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel
che sarà e donde sarà, ben vedi! — Ma, se anche coi profeti bisogna
gareggiare, dirò : a costei sposo venisti su questa balza ; e oltre il
mare devi portarla, nell'in- signe giardino di Zeus. Donna di città ivi
la porrai raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di
piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco- glierà l'inclita
sposa benignamente nelle case d'oro ; parte della terra a lei tosto
donando, possesso comune, non spoglia di tutte fruttifere piante né
ignara di belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre
Ermes di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e alle
Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia al piccino di nettare
le labbra e d'ambrosia stil- leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus,
un pui-o Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu- stode
di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore: altri lui nominando Aristeo
„. Nella pausa che succede a quest'inno, se ne sente
inevitabilmente refficacia anticirenaica. La più bella e la maggior sua scena
si svolge fuor di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici
della fanciulla son rammentati; narrate le sue imprese virginali su le
vette ventose del Pelio ; 222 V, - CIRENE MITICA
né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri- cana. E tuttavia
non per questi motivi, di per sé valevoli, l'ode pindarica scema il
signifi- cato primordiale di Cirene; si perché, continuando
l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che l'eroina indigena
venerata e creata da un popolo in uno Stato, la comune divinità ellenica
sposa di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e Aristeo
tessalico ; e le dà per tanto, come plinto alla sua statua, l'Eliade;
come credenti al suo culto, gli EUeni. A testimoniar tuttavia,
effìcacenaente, su l'o- rigine vera della Ninfa restava la sua lotta
col leone: particolare di precipuo sapore africano. E questo pure
andò, in progresso di vicende, eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi
Argonauti nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in- coerenza
di quell'episodio che a due veri poeti era sfuggita ; e lo soppresse
senz'altro. Per lui. Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta
a custodire gregge e di li la rapisce, senza lo spe- ciale motivo
della forza ammiranda di lei, in Libia. In Libia le ninfe sotterranee
(x&óviai vv/i,g)ai) li accolgono : le quali son, come tutrici,
numi del paese e occupano presso il nuovo poeta sapiente, cui la sminuita
fantasia e l'accresciuta dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella
per- sonificazione d'una terra, il luogo dell'eponima ninfa Libia.
Apollo poi recherà il nato Aristeo alle Muse, sue allevatrici: ove delle
Muse il concetto è attratto dalla fama del Latoide qual Musagète.
Che più resta della Signora delle belve e Dea della fontana? L'esiguo
accenno alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno
CIRENE IN TESSAGLIA 223 duraturo della sposa colà. La maggior
luce è gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue vicende
ulteriori: l'africana, nel contesto, è un momento. Contro questa general
tendenza di Apollonio non starebbe che la soppressione della
profezia del Centauro. Pindaro, discutendola, l'aveva serbata; egli, più
razionale e men rispet- toso, l'elimina. Ma appunto perché a lui
tutta la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente poi il
bisogno di non perdere totalmente questa figura, cosi dicevole al suo
pensiero; e la ram- menta quindi, in altro luogo, come partecipe
all'educazione del Fanciullo pastore, insieme con le Muse. Non più grande
né più intenso poteva essere, sembra, l'influsso della patria
acquisita contro la patria e prima e vera (1). E fu più grande e fu
più intenso. Bastò che un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto,
im- perniandolo, ancor più che i suoi predecessori, su Aristeo.
L'inevitabile avvenne. Dinanzi la memore mente dell'artista (o della sua
fonte) è il noto e diffuso episodio omerico di Achille invocante
nella passion dell'ira e dello sconforto la madre Tetide su la riva del
mare. Quando dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse il
prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nel- l'atto dell'eroe
epico ; e lo conduce verso la madre Cirene. Di questa l'Eea diceva padre
Ipseo e nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola libertà il
j)oeta la dice figlia non di quello ma di questo ; e ottiene cosi di
farla abitare nel pro- (1) Cfr. § V. 224
V. - CIRENE MITICA fondo gorgo paterno e di addurre su la
sponda della corrente acqua il Giovinetto afflitto da eccessivo
dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa breve cenno; ma al fantasioso
innovatore del mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo è
il talamo recondito di Penco ove le Ninfe vivono (1). Aristeo
pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa, perdute — si narra — per morbo e
per fame le api. Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ;
molto lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci- rene,
madre, che il profondo abiti di questo gùrgite, perché da preclara stirpe
di Dei, se (come dici) Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti?
o il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori celesti
sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter- reni, che a me alacre con
pena procacciava solerte custodia di biada e bestiame, ho perduti, te
avendo per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le beate
selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! di- struggi le messi! i
seminati riardi! e la temprata bi- penne vibra neUe viti ! se tanto
fastidio ti px-ese della mia fama „. La madre il lamento senti
nel talamo del fiume profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe
fila- vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e
Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i bianchi colh (2); e
Cidippe e Lieorìade bionda : ver- gine l'una, esperta l'altra allora a
pena i dolori del (1) Georgiche IV 317 edizione F. A.
Hietzkl (Oxford 1900). (2) Omesso il v. 338.
CIRENE IN TESSAGLIA 225 parto; e Clio e la sorella Bèroe.
oceanine entrambe, entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate
(1) ; ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le
quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e l'astuzia di Marte e i
dolci furti, e i frequenti anno- verava dal Caos amori di Dei. Or mentre
nel racconto rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente
il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su i cristallini seggi
stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre sorelle Aretusa a guatare dalla
suprema onda il biondo capo levò. E da lungi: * di tanto
gemito non atterrita in vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua
massima cura, Aristeo ! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo
padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la mente di nuovo
terrore la madre : " Conducilo, or su, conducilo a noi; è lecito a
lui toccare le soglie di- vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda
di lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui l'onda
ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel vasto seno lo accoglie e
sotto il fiume l'invia. Già la sede della madre ammirando, ne andava egli,
e gli umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti
boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti osservava i fiumi
sotto la grande terra fiuenti (2). Dopo che fu sotto il redine
pomicoso tetto del ta- lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i
pianti del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida
l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan di cibi le mense ;
colmi calici dispongono. Odoran gli (1) Omesso il v. 343.
(2) Omessi i vv. .367-373. A. Ferrabino, Kalypso. 15
226 V. - OIBENE MITICA altari d'arabi incensi. E la
madre: " Prendi^ — dice, — la tazza di meònio bacco. Libiamo a
l'Ocèano „. E insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe
sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre volte del
liquido nettare cosparse il fuoco ardente ; tre volte la sottoposta
fiamma al sommo del tetto avvampò. Mentre duran le cure
ninfali, noi indugiamo a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una
stessa Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il nome. L'Eea
aveva posti accanto, creando una scena singolare, la Ninfa vincitrice del
leone, Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ; ed era
stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua. Pindaro piomba su la scena col suo
volo rapido di aquila: — con Chirone si corruccia e si tra- stulla
; par clie debba annientarlo con un colpo d'artiglio della sua fede
evoluta; ne cava in vece un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un
epi- sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor- tuno : — ma
Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra a fronte; e sopr'essi non l'amore,
non tanto la cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono unirsi,
onde il Nume s'è recato su quel poggio montano, e ha da portare la
selvaggia nella terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota-
gonista men palese e più reale del duetto, de- termina essa sola
l'episodio centaureo che segue, e gli dà, essa sola, quel contenuto da
cui è sce- mato e quasi annullato il comico inevitabile. Sicché la
Pitia addensa la materia vasta del- l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno
di quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei
CIRENE IN TESSAGLIA 227 secoli. Due Muse austere, di Storia e
di Reli- gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa •ttemplice.
Vergilio, — e tanto tempo era trascorso! — fu più indipendente nel
trasfonder sé entro il mito. Si rammentò dell'ombre fresche sotto
cupole silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui aveva assai
volte spinto il viso nei misteri li- quidi dei fiumi e del mare, fin
sotto là dove il Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine
che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta sopra uno sfondo
d'inconsistenza e di fuggevo- lezza, — l'uomo nel divino. E l'uomo fu il
Ver- :_ilio georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di grazia e
immerse in un pudico garbo di colori e di movenze; costumi domestici di
fusi e di conocchie, uso agreste di vivande parche e di sacrifizii
larghi ; tranquillità villereccia di rac- conti, e brio, salace forse,
non lubrico, di aneddoti e facezie. Sovra ogni cosa, poi, —
assemprato dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,
dall'umidore non nocivo di margini erbosi, — sovra ogni cosa, il pianto,
un po' futile, di Aristeo, e le bambinesche imprecazioni, e lo
spavento, non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo, flebile
ancor esso. Questo tono, appunto, flebile, questo sapor non ripugnevole
di lacrime, nel recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito
della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro alla belva, lo nega
nell'origine e nell'intimo, più che ogni variante di particolari o
differenza di luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man-
tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli conscio di ruggiti; non,
come presso Pindaro, k 228 V. - CIRENE
MITICA impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso. Molle e
prolisso nepote di un avo ferrigno e conciso. Ma è necessario
non dimenticare che di tanto trapasso, — se il terreno è lo spirito
vergiliano, — la radice è l'aver posto nell'acque, non più della
sorgente Gira, ma del paterno fiume tes- salo, colei clie i Dori avevan
veduta sterminare le belve, e procacciar pace agli aratori nel
franger glebe. Ed è, questa, — si rammenti anche, — l'estrema foce
della vena mitica clie, dall'Eea, trovò in Aristeo la sua origine prima e
il fti'inio motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi la
materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro, la Tessaglia.
IV. — Cirene in Libiu. Narra in vece Acesandro, — storico
cireneo vissuto nel III o II (ch'è incerto) secolo a. C, — "
come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo fosse in Libia trasportata
Cirene; e come, poiché un leone infestava il paese, Euripilo offrisse
in premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene l'abbatté, e
ottenne il trono „. E press'a poco identico è il racconto d'un altro
storico, Filarco. Entrambi adunque lumeggiano a preferenza
l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, — culminante, — della
lotta con il leone avviene dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa,
a difesa del paese e per iniziativa di un re indi- geno,
Euripilo. CIRENE IN LIBIA 229 Né cotesta
è accorta correzione di eruditi ra- zionalisti. Il contesto medesimo ci
appare difatti negli esametri martellati d'un poeta cireneo : di
Callimaco; segno che la fiaba possiede, come una non dubbia energia
vitale, cosi radici assai vaste e assai profonde nel territorio cirenaico
(1). Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno ad Apollo^
rapidamente un quadro che ha per sottinteso un racconto analogo a quel di
Ace- s andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i
succinti se- guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia
danzarono, il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor
potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la fitta di boscaglie
Azili abitavano. Essi riguardò il Signore, egli stesso, e alla sua sposa
additava : sul colle dei Mirti (2) dove la figlia di Ipseo uccise il
leone, infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza non
vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò quanto a Cirene, memore
dell'antico ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato
dal- l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco, come quello
di Acesandro, è da l'Eea molto lon- tano. Siam bene in Libia ; bene è
lungi la Tes- saglia; e il leone rugge da vero su le sabbie del
deserto. Per che modo e traverso che vicenda si giungesse a cotesta forma
della saga, che due (1) Cfr. § Vili. Il testo di Callimaco è
del Wilamo- wiTz^ (Berlino 1907). (2) Domina la fontana di
Gira. k 230 V. - CIRENE MITICA
storici e un poeta indigeno ripetono analoga- mente, è indicato,
nel medesimo carme calli- macheo, dal processo del pensiero
artistico. Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac-
colto in un recesso ove son palme e allori, — gli alberi di Febo
Apolline; e nelFaria sta, grave e dolce, il senso sacro del Dio
immi- nente. Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,
quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già a la porta col
bello piede Febo percuote. Non vedi? Stormi dolce lene la Delia palma
d'un sùbito ; il cigno nell'aere soavemente canta. Da soli or
disserratevi pa- letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il
Dio non è juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-
parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi, pure. Chi lui
scorge, è grande; chi non lo vede, pie- colo è quegli. Noi ti vedi'emo o
Lungisaettante ; e non mai saremo esigui. Nell'èmpito di
ardore sacro e, più, poetico che trascina Callimaco , alquanto si svolge
cosi da prima il fervoroso esordio ; il quale non è tuttavia vano,
ma serve a preparare, animan- dola della sua vita illuminandola del suo
lucore, la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume- razione
delle bellezze di lui e degli attributi. Egli è Nomio, nei pascoli. Egli
è l'Ecistère, fon- dator di città. Quadrienne pose le fondamenta in
Ortigia. E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto
indicò : — corvo, — fu guida al popolo che si recava CIRENE
IN LIBIA 231 iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento
di mura donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo-
La città di Callimaco è dunque fondata, egli dice, dal Latoide e
sotto la protezione di lui re- stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e
Cirene una attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino ad ora
conosciuta. Apollo non è lo sposo di una Vergine cacciatrice, ma il
fondatore della città che di quella lia il nome: si che accanto al
nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti, si dispone quest'altro
nesso, diverso. Ed è la prima novità che ci sorprende. Una
lunga parentesi segue poi in cui si rin- tracciano le sedi del culto di
Apollo Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti
Clario; ovunque a te sono assai nomi. — Io però Carneo te chiamo : mi è
patrio costume cosi. Sparta, Carneo, fu la tua prima sede : seconda Tera:
terza poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo (1)
condusse a la colonia Tera; da Tera te il sanato Ari- stotele recò in
terra d'Asbisti e splendido ti eresse un tempio , un'annua cerimonia in
città istituendo, in cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te
tori, o Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari fiori
in primavera recano, quanti variopinti le Ore adducono mentre lo Zefiro
spira rugiade: dolce croco, l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né
mai la ce- nere rode carbone di jeri. (1) Cfr. Erodoto
IV 147 e il sèguito del nostro testo. 232 V. - CIRENE
MITICA Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo la
realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta a Tera nel sec. VI e, nel
VII, da Tera in Libia : vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più,
quel " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che
avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi. Ed è la novità
seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta indotte, figure
prime su la scena, Apollo e Cirene sul colle dei Mirti in atto di
contemplar, — vedemmo dianzi, — i coloni Dori danzanti tra le
fanciulle libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui Cirene
è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio dove dal Peloponneso a Tera
e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei
Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi dell'imagini, che
l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe quotato il regno deve essere in
rapporto mitico appunto con quei due spunti favolosi poco prima,
più che svolti, accennati: con la fondazione di Cirene per opera di
Apollo; e con le migrazioni dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera,
in Libia. Comprendiamo che al racconto più pret- tamente libico su
la Signora delle belve è pre- fazione una saga su l'origine di essa
colonia cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di quello.
Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la coppia di Apollo e
Cirene s'aderge qui, su quel suo colle dei Mirti, con un'energia nuova,
che non è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di fatti genera
maraviglia che in un carme reli- gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si
rilevi assai meno che in un epinicio quel rispetto austero e
EFRIPILO ED EDFEMO 233 insieme divotamente inchinevole il
quale costi- tuisce Tanima della scena pindarica. Eppure tutto
l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo vento che, dal Nume, agita la
palma delia e la fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,
bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso chiunque, e sia dio,
protegge le mura della sua Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele
verso (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto. Quindi
il breve componimento si spezza in due parti diverse tenute insieme,
male, da un elenco dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima
di quelle parti è mossa da una contenuta esal- tazione patriottica che si
veste, — abito non suo, — del i^aramento religioso, si schematizza
nella scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che scarsa armonia
di struttura, e abusa di formule innovate sol con sapienza verbale. La parte
se- conda, in vece, lascia prorompere la stessa esal- tazione
patriottica, ma questa volta verso espres- sioni sue proprie ed adeguate
: ivi è la glorifìca- zion della patria nel suo bel passato.
L'artificio si discioglie in arte. Ma il bel passato della
patria Cirenaica è la leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,
— sospettatala, — rivivere tutta. Y. — Euripilo ed
Eufemo. Regnava in Cirene una famiglia, la quale, per
ricorrere in essa il nome Batto e per esser ritenuto un Batto primo re
del luogo, era detta I 234 T. - CIRENE
MITICA dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava
memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele.
Anzi era sorta in qualche maniera a questo proposito una leggenda
etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco verbo ^atTaQi^o)
(balbettare) si raccontava d'una sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto
il nomi- gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la genealogia
fittizia dei Battiadi ; a simiglianza difatti d'altre molte case
regnanti, sostenevano essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che
rite- nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua- lunque
valore tal j)retesa avesse e comunque si fosse originata, a ogni modo
raggiungeva lo scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si sa,
non infrequente in fra i Sovrani. E poiché tra la Libia e la Beozia un
nesso era tutt' altro che palese, fu facile lasciar in breve cadere
nell'ombra il particolare della patria di Eufemo o, per lo meno, non
accentuarlo con insistenza (2). Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo,
a fin di compiacere un desiderio che diremo non illegittimo per
regnanti. Bisognava, per rendere più sacrosanta più fatale la signoria
de' Battiadi in Libia, che qualche avvenimento degli anti- chissimi
tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee dai cantori di eroi, non pur la
giustificasse, si anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se
già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana, ben poteva quello essere
il punto in cui il Fato (1) F. Studniczka Kyrene (Leipzig
1890) 96. (2) Cfr. § VI 2. EURIl'ILO ED EUFEMO
235 ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo
primordiale delle vicende future. Cosi piacque loro di imaginar la
fiaba. Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite, l'Eufemo
in Libia) su cui deve aggirarsi tutta la tradizione della colonia
cirenaica. Ed entrambi seppe assai opportunamente disporre svolgere
e compiere quella fucina medesima che aveva fog- giato l'Eea di
Cirene. E fu con gli stessi modi e risultati analoghi. Come allora si
vide la grezza materia indigena imprimersi di uno stampo el- lenico
e assimilare in sua roventezza talun'altra fiaba estranea; cosi si scorge
ora il territorio leggendario dei Greci spigolato a favore e di Eufemo
e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo questa è l'Eea, la quale risponde,
abilmente, a due domande: — con chi e quando fu in Libia Eufemo, il
figlio di Posidone? — quali vicende traversarono e quali vie tennero i
discendenti di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e
compiere il fato? Alla prima dimanda fu sodisfatto con un
antico spunto mitico, assai propizio. Si raccon- tava che gli Argonauti
compagni di Griàsone ìran giunti, in certo punto del loro viaggio,
al [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero ■stati
impacciati nel proseguimento. Cotesto lago 'era quello ove venne detersa
Atena nascente da Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente
da luoghi concreti) nella palude ch'è presso la piccola Sirte,
nell'odierna Tunisia: all'estremo limite occidentale, verso l'occaso del
sole. Quivi sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,
placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae- i
236 V. - CIBENE MITICA strato gli eroi su la via da tenere
fuor dalle strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a favorir
qual si voglia racconto di anticM sog- giorni greci in Africa. Quando, ad
esempio, lo spartano Dorieo intorno al 515 tentò di coloniz- zare
quei luoghi, la novella fu rinverniciata a prò di lui cosi: dopo aver
ricevuto il dono e aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il
tripode rinvenuto da un discendente degli Argo- nauti avrebbe determinato
presso il lago la fon- dazione di cento città greche.
Malauguratamente Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri-
poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti (1): e il tripode non fu
rinvenuto perché le cento città non crebbero. Ora in modo analogo
procedette TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argo- nauti
sarebber pure giunti alla palude Tritònide ; ma a un'altra del medesimo
nome: a un lago chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen-
sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della Cirenaica. Inoltre
colà si presentò loro non Tri- tone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il
quale è, come la sua denominazione significa, il Dio della "
larga porta ,, infernale ; molto diffuso in vero tra i Q-reci e
localizzato di preferenza, qual divinità ctonia, presso grotte e antri
ove la volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi appunto
vicino ai laghi salati s'apre la bocca orrida del Gioh onde le acque
profluiscono fuor dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri
non può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che
(1) Erodoto V 42. IV 178-9. (2) Cfr. § VI 1. EURIPILO
ED EUFEMO 237 ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore,
e v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio, molto alle
fantasime deirimaginazione spaurita. I Dori scorsero i\'i la voragine
dell'Ade e sen- tirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque
addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar- rarono farsi incontro ai
compagni di Griasone in luogo di Tritone. Con una variazione poi
del motivo originario, egli fu fatto donare una zolla non ottenere
un tripode. Chi la ricevette? Eu- femo. L'avo dei Battiadi fu imaginato
per tanto Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare al
\'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei suoi favolosi discendenti.
Non vano dono in vero, né inutile a chi Tebbe tra mani I però che
fosse fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire. D'Eufemo i
nepoti toccheranno come lui quel lago, ritorneranno nelle terre di
Euripilo (1). Per quali cammini? Era la dimanda seconda. —
Alla risposta forniva argomento anzi tutto la realtà della storia: il
Peloponneso, l'isola di Tera, la Libia (le tre tappe storiche de'
coloni Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre punti
obbligati e le tre tappe della via compiuta dai discendenti di Eufemo. Ad
esse tre una quarta ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di-
venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co- nosceva, come sede
temporanea di Griasone e dei compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte
a la costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar- danelli).
Accettate e fissate queste come pietre (1) Cfr. § YII.
238 V. - CIRENE MITICA miliari su la strada, ancora
bisognava addurre i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una
all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo- tivi dovevano tutti
accogliersi e disporsi intorno alla prima causa e centrale, il dono della
zolla d'Euripilo. — Eufemo dunque dalla Libia, rice- \aita la piota
africana, si recò con i navigatori iVArgo in Lemno e con essi là procreò,
giusta il mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta
nuova. — Questa aveva ora da recarsi nel Pelo- ponneso e da toccar quella
Sparta che nel VI se- colo inviò pure una colonia a Tera; ma
perché? A giustificare si disse che nel Peloponneso era la patria
di Eufemo; e poiché Posidone gli era, nella leggenda, padre e poiché al
capo Tènaro Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con
valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto, ivi fu asserita la
propria sede di quello. Ciò non era senza incoerenze : al contrario,
Eufemo {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere alcuno di
nume sotterraneo, e gli fu tribuito ; era precipuamente beota, e diventò
tenario; non godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi venne
imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è noto, affatto l'eccezione non pur
nell'arte si anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di
fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il viaggio da Lemno al Tenaro
come un ritorno nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per
il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto le relazioni fra gli
Eufèmidi e Sparta, come con quella ch'era al Tenaro non lungi. — Inverati
or dunque questi primi due scopi, era d'uopo con pari arte
legittimar l'approdo in Tera. E qui lo EURIPILO EP EUFEMO
239 spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo
na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni vènti eran raccldusi,
fu tradito nel sonno dai compagni; dai quali sciolto l'otre contro il
di- vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca (1). Similmente
l'Eea narrò che su VArgo la gleba d'Euripilo, ben custodita dai servi,
era poi stata, in un istante di men vigile attenzione, travolta
dall'acqua del mare: sin che, su l'onde e le correnti, pervenne all'isola
di Tera. Per ciò, non essendo essa da Eufemo stata recata sul
Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola, da l'isola non dal
Tenaro partirono i coloni. — Ma se cosi fatta partenza era voluta dai
fati, il segno ne fu offerto e il momento scelto per opera di
Apollo nel suo santuario delfico. Colà essendosi Batto recato a cagion
della sua mal sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso
di colonizzar quel tratto della spiaggia africana : ove sarebbe guarito
dell'ingrato difetto. Lode dunque, ben meritata, al Dio. — Ultima
inven- zione questa che rivela il luogo ove la leggenda degli
Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su tutte le vicende camjjeggiare
Febo ; ma che si riconnette assai bene con la figura del Latoide in
qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome già rinvenimmo in Callimaco.
Il calcolo poi genealogico fissava nella quarta generazione dopo
l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella diciassettesima la
spedizione verso la Libia (2). Con la qual serie di invenzioni episodiche
l'Eea (1) Odissea v. 46. (2) Malte.n 192.
240 V. - CIBENE MITICA aveva alla fine assolto anche il
secondo tra i suoi due compiti fondamentali. Essa era dunque
intessuta sovi^a un canovaccio dall'apparenza assai più logica che
fantastica ; ciascuna delle sue trovate secondarie era indi- rizzata
a un ben preciso fine e sodisfaceva a un bisogno del ragionamento; al
ragionamento ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati i
particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e alle sedi loro. E
tuttavia quell'era opera di ec- cellenza poetica. Queste, che pajono a
noi am- bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi, che ci
sembrano fini pratici non artistici: eran nella realtà stimoli possenti
della fantasia ; la quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue
imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio regno da inconcussa
signora. E la bella favola, creata, ignorava il compenso del suo
mercenario creatore. L'accortezza medesima con cui vi si profìtta
di analogie nominali per accostare, ad esempio, Eufemo traverso Posidone
al Tenaro; la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi motivi
dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber essere mezzucci d'artifizio :
ma sono in vece fun- zioni spontanee della mente ricca di antiche e
recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel- l'ardenza del fuoco
inventivo, come le impurità si distruggono, cosi si avvicinano i diversi,
si mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello storico, intento
a ricercar la causa d'ogni linea nel disegno leggendario, incresce al
contempla- tore della bellezza. La quale riappare, con tutta
la sua unità sin- tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto
I EURIPILO ED EUFEMO 241 tra le
Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao vincente col cocchio. L'anno 462
a. C. Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo- roso
amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare col trionfante
Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai Latoidi e a Pitone. In
Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus, presente Apollo, la
sacerdotessa profetò Batto colo- nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe,
la sacra isola lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul
risplen- dente colle e di Medea compiuto, con la settima e decima
generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa figlia d'Eéta disse da la
bocca immortale un di, la re- gina dei Colehi '. Disse Medea
cosi ai semidivini navigatori del prode Giasone: " Udite, figli di
prodi e uomini e Dei! Af- fermo che da quest'isola (1) battuta dai
flutti, nelle sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra-
pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di brevi pinne
scambiate veloci cavalle ; le redini coi remi; guideranno vorticosi
cocchi. Il fatidico segno è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il
segno che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo simile,
donante in dono ospitale una zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso
— benigno su lui Cronio Zeus fé' rimbombar un tuono — quando gli
s'imbattè, mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce
Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la portavamo, trave
marina, dall'Oceano trattala per i miei (1) (Tera).
A. Ferrabi^to, Kalypso. 16 242 V. - CIRENE
MITICA consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora soli-
tario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di venerando uomo : con
amici detti fece principio, come ai sopravvenienti ospiti i generosi le
mense offron da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava
l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco immortale Enosigèo :
riconobbe la fretta : sùbito allora, con la destra divelta dal suolo una
piota, l' improvvi- sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò
l'eroe, ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,
ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor della nave,
galleggia sul mare coi flutti, di sera, l'umido pelago seguendo : che
certo spesso furon esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei
custodire ; ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola
l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade — prima del tempo.
Che se in vece gittato l'avesse in patria, a canto della sotterranea
bocca dell'Ade, sul sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre
Posidone che un di Europa nata da Tizio generò presso le sponde del
Cefiso, — nella quarta generazione allora il sangue di lui avrebbe
toccato l'ampio continente con i Danai, da la vasta Lacedemone partitisi
da l'Argivo golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen-
denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col favor degli Dei,
giunti a quest'isola genereranno un Eroe signore nei piani di cupa
nuvolaglia : a lui nella molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura
di- sceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur .
popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del figlio di Crono
„. Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono, immobili
silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti detti ascoltando.
EURIPILO ED EUFEMO 243 beato figlio di Polimnesto (1),
te giusta il discorso di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica — con
spon- taneo accento : la quale te, tre volte salutato, dichiarò
fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter- rogante qual
rimedio vi fosse appresso gli Dei! Il conchiuso ciclo dell'ode si
termina col san- tuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel
mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne- poti. Le quali sono in altro
brano anche più esplicitamente significate, ancor su la trama
dell'Eea: dico nei versi tra il 251 e il 260. " E su le distese
dell'Oceano e nel XJurpureo mare e tra le mariticide donne di Lemno
furono essi (2) Ivi un giorno o notti fatali il seme
accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat- tiadi); ivi
infatti la stirpe di Eufemo piantata, per l'avvenir sempre fiori. E
mescolatisi di poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'an- tica
isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi il Latoide concesse di far
prosperare con gli Dei le i^ianure di Libia e di abitare, con savio
con- siglio regnando, la divina città di Cirene dal- l'aureo trono
„. Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più minuto, è
anche assai inferiore rispetto al primo, n quale mostra quanto
profondamente l'animo severo e ascetico di Pindaro consentisse e
con- cordasse con il contenuto riposto della leggenda cirenaica. Le
due profezie (l'una, da cui comincia e che sul finire richiama, della
Pizia; Faltra, (1) (Batto-Aristotele). (2) (Gli
Argonauti). b 244 V. - CIRENE 3IITICA
svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto ripetuto
sur un soffitto nel ricorrere dei fregi : significano con insistenza
l'unico essenziale e fon- damentale concetto del mito, il Fato onde
il regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea con il veggente
occhio lo prevede. La Pizia con la bocca immortale lo attua. Gli uomini
si sce- mano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi eletti.
Se non che il Fato è non soltanto il nucleo del mito, ma l'intima fede di
Pindaro, — che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo- stanze
in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto incarico di indurre il re,
Arcesilao di Cirene, col vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il
f o- ruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non graziosi e vi
si vedeva sovente 'costretto. Di qui un'amara tristezza: non pure pel
rimorso secreto, e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com-
pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo umano, onde crollava
con uguale sfiducia il capo dinanzi al forte che aveva vinto la gara
come dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui ricchezza e
prodezza vengono all'uomo dal de- stino dagli Dei, e l'uomo non se ne
scordi, e per sé lasci levare in minor tono il vanto, si massimo
per i Numi che l'hanno in protezion benigna. Il fato dunque ancora. Tal
coincidenza fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta dal
poeta con un balzo magnifico di rapidità intuitiva: Arcesilao vince a
Pito ; da Pito muove Batto ; ecco il trapasso esterno : un destino
solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto; ecco il midollo
intimo a questo organismo lirico. Il resto, lo scopo pratico dell'ode è
cosi obliato che EUEIPILO ED EUFEMO 245 Pindaro
deve ritornarci su con uno sforzo alla fine, quand'è ormai arido e gli si
spingon a fior dell'animo i men nobili desiderii e una certa
compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto è divino. Ma quella
che comincia non è l'epopea d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio : è
l'elegia d'uno spirito d'uomo. La strada su cui Pindaro s'è
lanciato non è la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova ,
aperta con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe una scena
coreografica ; a quei tempi uno spet- tacolo dei misteri eleusinii ;
sempre , il basso- rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come
le anime, concreti di evanescenza. Nella notte dei tempi Medea, maga di
semplici e vate del futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la
sua profezia. Sono circa cento kola percorsi da un brivido unico,
che culmina alla fine nell'invoca- zione a Batto, vibrante di fede. Se
non che, su la strada nuova ed insueta non dura l'imagina- zione:
già l'episodio di Euripilo apparso agli Argonauti s'era innestato con
diversissima effi- cienza nel gran quadro di Medea vaticinante,
come quello che vi recava tempere più pesanti e meno diafane. Con esso
episodio si riconnette poi, non appena cessato l'anelito
dell'incom- bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle
vicende onde mosse e per che riusci la impresa degli Argonauti: ampio
racconto che ha tutto una nuova serenità omerica, una placidezza di
lunghi favellari, un indugio molle su i modi delle vesti e i sussurri
delle folle, un tono, in somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo
su la piazza di Fere con le due lance e il doppio 246
V. - CIKENB MITICA costume, l'abboccamento con Pelia, i
banchetti di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento obliquo
del Re contro il giovine, l'elenco degli eroi saliti su l'Argo: questa è
l'altra strada, la " carrozzabile „. Pindaro vi entra franco e
li- bero; lo illude la facilità con cui la fantasia gli crea nuove
scene: nelle quali egli dà segni dell'attitudine sua di statuario
creatore della vita neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision
vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto dramma; e una imperfetta
dramaticità trava- glia lo spirito del poeta per affermarsi , senza
riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si distrae troppo, una
parola lo devia spesso , gli manca la sicurezza del ritaglio e il
coraggio di sacrificare i trucioli. E continua cosi , a lungo,
faticandosi, irritandosi : l'opera gli riesce un in- sieme di momenti,
scelti senza acume di tra- gedo, e cuciti con lungaggini di epico.
Lascia un luogo e un gruppo per correre nell'altro luogo e presso
l'altro grupx30 a cercarvi quel che là non aveva trovato; non si sodisfa;
ri- prende; e cade senza lena alla fine. Allora grida con sdegno :
" è troppo lungo per me seguir la carrozzabile ! „. E sul suo
spirito esausto hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del
carme. Termina in pesce. Falliva adunque l'epopea il dramma
l'inno sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare un'ostia
armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre sbigottisce di fronte all'eroe
ed all'uomo, ma tal volta li costringe col suo verso in perfetti camagli.
Perché, quindi, gli mancò quell'arte nella quarta Pitica? La risposta è
nella natura EURIPILO ED EUFEMO 247 stessa del
suo errore. Tutta quella ricerca affan- nosa d'una base ove consistere
cli'è il racconto degli Argonauti è piena di maraviglie oltre umane
e di giustizie divine. Giasone viene a rivendicare appunto il sacrosanto
diritto di se- dere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e nel
paese dei Colclii, come già lungo il viaggio, le sue gesta sono insolite
non di coraggio ma di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,
né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che il poeta poteva credersi
avvolto sempre da quel- l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale
som- merge in sé il " tereo detto di Medea ,,. Ma s'ingannò, ed
è qui la sua elegia. Toccava il ro- manzesco della novella, il mirabile
della fiaba, dopo essersi abbandonato, supino il volto, nel-
l'estasi santa. La magia lo deludeva con una maschera di religione; il
cuore non pago pun- gendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non
propriamente gli mancò , ma più veramente venne provandosi in vano a
molti cimenti sotto cui è una continua insoddisfazione intima: la
insoddisfazione dello spirito che ha aderito in- tiero a un impeto di
profonda religione e, non accorgendosi a tempo del transito verso
minori sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora quella
adesione era stata possibile nel cuore di un mito: il mito dei Battiadi,
in cui pulsa, ori- gine e scopo della sua stessa vita, il senso so-
lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché poche volte una saga
ebbe più consono poeta; pochissime, un tal inno è rimasto documento
lirico della mischianza dell'uno con l'altra e dell'elegiaca nostalgia
che ne consegue. 248 V. - CIRENE MITICA VI.
— Gli Eufemidi e Batto. Una cosi compiuta intuizion del mito non
ha più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta anzi a
svolgere della saga proprio quella parte che Pindaro meno degnava di cure
: dove, di- fatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento verso
Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo- nauti , Euripilo ed Apollo, — eroi
e numi ; lo storico è pien di zelo per i discendenti di co- loro,
}3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito Batto, — non eroi né numi ma
uomini. Il primo era assorto nella premessa della leggenda; il
secondo corre alle conseguenze. Delle conse- guenze Pindaro stesso aveva
bensì fatto cenno, non più nella Pitia quarta, ma nella quinta (del
medesimo anno); gli accadde però per sbalzi e tratti non connessi, senza
organismo, e senza profondità di attenzione. Vide Batto porre in
fuga i leoni africani " perché recò loro una lingua d'oltre mare „ ;
vide i Terei guidati da Aristotele fondar templi e instituir
cerimonie: tutto in pochi kola (2) de' quali la lode di Apollo è lo
scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto : a lui la fiaba, che non è
proprio fiaba, comincia anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che
pre- cede è avvolto in un silenzio il quale può essere incredulità,
è forse sol tanto indifferenza. Cosi lo storico comincia a narrare. Egli
narra con (1) IV 145-156. Cfr. Malten 95 sgg. (2)
103-137. GLI EUFEMIDI E BATTO 249 una ingenuità
dagli ocelli un poco attoniti e forse un poco sorridenti ; molto si
compiace nei particolari minuti; molto più pensa di poter la
tradizione degli Eufemidi connettere con altre indipendenti.
Ecco, a suo dire, da Lemno partono non solo gli Eufemidi ma i più
fra i nepoti degli Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli
accade di giustificar doppiamente il loro sog- giorno nel Peloponneso:
sul Taigeto, non lon- tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende;
egli non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché i Tindaridi
lacedemoni navigavan su VA?-go : ritornan dunque " nelle sedi dei
padri „. A tutti X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son
difatti concetti affini (su la cui origine non è qui dicevole indagare)
ben presto uniti e tal volta identificati. — Per spiegar poi la loro
par- tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza tarda, dei
Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola : i quali avrebbero sloggiato i
Minii. Ma è com- binazione grama e non primitiva. — In fine, i
Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa, per quale si recarono in
Tera? Esisteva, come un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,
ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta nellisola intorno al
VI sec. ; e in esso si parlava di un " Tera „, palese eponimo
dell'isola, che vi avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe
dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo storico per far muovere
parte de' Minii insieme con quei Lacedemoni, il cui capo Tera
avrebbe fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque su tre
triacòntori verso l'isola. Ivi, — bisogna sup- k
250 V. - CIRENE MITIGA porre, — i Minii si serbaron
distinti dagli altri cittadini, al meno come schiatta; laddove il
trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di quel Tera (l).
[In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e discendente di
cotesto Tera, essendo re dell'isola di Tera, si recò a Delfi per condurre
dalla città un'eca- tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini,
Batto figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eu- femidi
dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie lo interrogava intorno ad
altre cose, la Pizia rispose di fondare in Libia una città. Quegli
obiettò dicendo : " Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante
nel moto : tu dunque comanda di far queste cose a qual- cuno di
questi giovini „. A un tempo disse queste cose e accennò a Batto. Allora
tali avvenimenti. Più tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non
sapendo in qual luogo della terra fosse la Libia né osando inviare
una colonia in un'impresa ignota. — Per sette anni dopo ciò non pioveva
in Tera, durante i quali le piante tutte dell'isola tranne una
s'inaridirono. Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia
rinfacciò la colonia in Libia. E poiché non avevano altro ri- medio
al male, mandarono in Creta messaggeri per ri- cercar se qualcuno dei
Cretesi o dei meteci fosse per- venuto in Libia. Vagando per l'isola,
costoro giunsero anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono
in un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichia- rava d'esser
arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di Libia, all'isola Platea.
Assoldato costui, lo condussero (1) Cfr. Erodoto IV
145-149. i GLI EUFEMin E BATTO 251
a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non numerosa.
Avendoli Corobio guidati a quest'isola di Platea, vi lasciarono Corobio
con cibi per alquanti mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i
Terei intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con-
venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito una nave Samia, di cui
era nocchiero Coleo, diretta in Egitto, fu portata dinanzi a questa
Platea. I Samii appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono
cibi per un anno... I Cirenei e i Terei strinsero a partir da quel
fatto grande amicizia coi Samii. — I Terei che avevan lasciato Corobio
nell'isola, giunti a Tera an- nunziarono d'aver occupata un'isola di
fronte alla Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello
sorteggiato in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che
erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto. Cosi inviano due
navi pentecòntori a Platea (1). Questo racconto riesce notevole
anche perché vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza che
al consulto dell'oracolo si sostituisca altro preciso motivo; e perché vi
appare la volontà di attribuire, oltre che ai Terei anche ai
Cretesi e ai Samii qualche parte nella colonizzazione della Libia.
Volontà, la quale risponde, eviden- temente, a una tendenza politica
tarda: a giu- stificar le relazioni e di commercio e d'altro fra lo
Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora a xDunto questo facile
rilievo addita il luogo (1) Cfr. Eeodoto IV 150-153. Il
brano che riguarda l'ul- teriore storia dei Samii è omesso perchè
estraneo al nostro mito. Edizione C. Hude (Oxford 1908).
252 V. - CIRENE MITICA onde Erodoto trasse tutta la sua
fiaba. Egli fu verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,
come si disse (1), due focolari mitici : l'uno dei primi coloni, l'altro
dei secondi venuti sotto il re Batto II. Tra quelli, che tenevano il
governo e avevan quindi desiderio di giustificar con il mito non
pure il regno dei Battiadi ma anche la loro politica, raccolse la
narrazione tradotta pur ora. Tra quegli altri in vece che
osteggiavano i Re e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La
quale non è se non questa medesima ove Ari- stotele sia divenuto e
balbuziente e bastardo, e i coloni Terei appajano pochi di numero e
cac- ciati dall'isola per opera dei lor proprii concit- tadini. E
poiché Creta, per la sua stessa posi- tm-a geografica fra Tera e la
Libia, non poteva facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu
tratto con accortezza profitto per far aiDparire anche di impura
discendenza il primo colono Batto. Cosi: Vi è a Creta una
città Gasso nella quale era re Etearco; che, avendo una figlia orfana, a
nome Frò- nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,
volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime, procacciandole danni
e macchinando ogni male contro di essa. Alla fine calunniatala d'insana
lascivia persuase il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto
dalla moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era
infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone. (1) V.
sopra § l II sostrato storico. GLI EUFEMIDI E BATTO
253 Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu-
rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse. Quando quegli ebbe
giurato, gli consegnò la figlia sua propria e gl'ingiunse di condurla via
e d'immergerla nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del
giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese la fanciulla e
salpò ; quando poi fu in alto mare, adempiendo il giuramento di Etearco,
la legò con funi e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò
a Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece Fronime sua
concubina. Trascorso del tempo, nacque ad essa un figlio balbo e di
sbilenca voce, cui fu posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia
interrogata d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la
Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un secondo comando
inviarono i Terei Batto con due navi pentecòntori]. Navigando verso la
Libia costoro non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.
Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che si avvicinassero
alla spiaggia ; ordinarono invece di na- vigare indietro. Essi,
costretti, navigarono indietro, e occuparono l'isola che giace sopra la
Libia, la quale, — come fu detto, — si chiama Platea (1). Ma
se tal versione della fiaba aveva il preciso scopo di sminuire i
Battiadi, anche l'altra non serbava più in Erodoto la intima e possente
vi- goria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina di comune e
piatta concretezza umana, su questa leggenda, oramai. Le figure hanno
scemato la (1) Erodoto IV 154-156. Sono omesse le
considerazioni personali di Erodoto sul nome Batto.
254 V. - CIRENE MITICA loro statura; le voci, abbassato il tono; i
gesti, ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha rimesso della
sua dignità religiosa, un poco a pena, e a stento riesce a dargli valore
di vene- rando il sèguito delle sventure che puniscono la
trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol esser storia con esagerata
pretesa : ne ingoffisce ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto
della sua evoluzione che permette la esegesi degli eruditi o la
prepara o quasi l'attende. VII. — Conchiusione.
Gruardando ora a distanza questa tradizione dei Battiadi, se ne
distinguono ben chiare e rilevate tre figure essenziali : Apollo
Latoide, di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto ripetono
l'opera importante nell'impingere i co- loni; Eufemo, capostipite della
casata e com- pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete
d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo e con valore divino,
della pili antica vita afri- cana anteriore ai Greci, strumento per ciò
eletto dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma Apollo era il
Dio medesimo che, nell'Eea di Aristeo, aveva condotto Cirene dalla
Tessaglia in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna in
Callimaco come d'un re da cui la Signora delle belve ha il trono. Si
profila dunque ora compiuta tutta l'ossatura di questa compagine
mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo,
COSCHIUSION'E 255 luna; l'altra di Eufemo. Diverso
hanno il con- tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa, la
prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni sono e il rilievo di Apollo e
il suolo libico e la origine delfica. Simili dunque e differenti. In
forza della lor dissimiglianza restano in più d'una evoluzione lontane:
cosi l'Eea d'Aristeo tocca, da un lato, il massimo del suo
adulterarsi tessalico ; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro, la
maggior sua umana pianezza; senza che si formino attinenze e stringano
nessi. Ma in forza della loro simiglianza giungono per diversa via,
in uno stadio della lor vicenda, a compene- trarsi : cosi TEuripilo
dell'una Eea s'intrude nel- l'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e
la Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme con Febo) i
coloni dori danzanti tra le fanciulle libiche, la lottatrice solitaria si
circonda d'un popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,
Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due Eee. Nel centro, punto del contatto,
il carme di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia nona e
Vergili© ; all'altro, Erodoto e la Pitia quarta. Lo schema di
cotesta evoluzione mitologica è dunque complesso come un quadro
genealo- gico. E per vero le singole forme della saga son congiunte
da intime attinenze di derivazion vicendevole ; alle quali tutte
predomina il nesso fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto
vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi capostipite, la origine
prima. CAPITOLO VI. Kalypso. I. —
L'ÌTituizìone mitica. Il mito è miracolo. L'occliio
vede il chicco di grano scender fra le zolle, il Sole sparire nel mare,
la luce vincer le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta- coli
che appena lo affaticano lo abbagliano lo trattengono, e che un nulla basta
a significare (1). Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza
nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato di verginità animatrice,
fuor dal mondo reale il fatto e la cosa escono trasfigurati,
esalano la lor concretezza in trasparenza, sfumano i
(1) In questo capitolo gli esempii addotti son desunti dai
precedenti capp. II-V. Ma ci dispenseremo dalle con- tinue citazioni.
Cfr. anche cap. I § IV e V. A. Ferrabino, Kalypso. 17
258 VI. - KALYPSO loro contorni in nuove linee : — si tramutano
in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel mare era il mondo
esteriore, vivo della sua vita secreta. Il vecchio re che il figlio
uccide è il mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il
miracolo si è già compiuto: restio ad analisi nella sua complessa essenza
ed inesauribile ric- chezza: figlio del mistero, perché nato da una
energia la quale tanto meglio si cela, quanto più si manifesta varia:
nato dall'uomo. Il filo- sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga
l'opera mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il fondo
vero, — il miracolo dello spirito transfi- gurante, — si perde fra le sue
dita incerte. Quindi, il mito solare è di origine oscura come le
vicende, che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste- rioso nel
suo principio come la fecondazione della gleba. Per ciò la
saga naturalistica vibra tutta d'un afflato lirico. E il canto dell'anima
umana nel- l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere con
suggello suo proprio quel che i sensi avver- tono. Contiene quasi un ebro
balzar ferigno dal- l' interno all' esterno ; e pur racchiude
insieme un' illuminata elaborazione intima, un assorbi- mento
dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco- prir la natura, e le dà un
nome e la umanizza. (1) Cfr. p. e. la teoria dell'illusione
presso Steinthal Einleitung in die Psychologie und Sprachtvissenschaft
(1871) §219 sgg. ; e quella dell' ap per ce z ione (impressione,
associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsycho- logie II 1
(Leipzig 1905) p. 577 sgg. l'intuizione mitica 259
per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha segnato diritto
il suo solco, obbedendo al secreto istinto geometrico della stirpe e
imponendo alla Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto con
atto analogo colui che armerà di clava, per assomigliarlo agli umani, il
Sole vittorioso contro il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso
il miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta la razza, le dà
la sua anima come una divina coppa cui tutti e attingano e
contribuiscano; è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il
prorompente grido della vittoria, conseguita sopra la sensibile natura
dallo spirito scosso fin nelle radici profonde ; è il mortale che,
calcando la terra, volge in breve giro il suo braccio, in più
ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo sguardo, ma dice in sé stesso di
fronte all'Uni- verso dei suoi sensi " ti capisco „. La
malinconia dello scienziato moderno che sa di non poter dare alla forza
ignota, o mal palese in talune forme, che un nome, e non crede d'aver
capito l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano il fenomeno,
è lungi di secoli. Quegli che ha scoperto tra la luce e l'uomo un nesso,
tra il cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion- fando di
felice ignoranza, che ha, allora solo, veduto la luce il cielo ed il
mare. Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di sé il
mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar- cobaleno e alla fiamma ed alla
spiga, e di scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto come
civile, non va però si oltre in questo suo bello errore, da non serbar,
della forza immane rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui
260 VI. - KALTPSO avvengono e sono ref rattarii
all'intervento nostro, traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo
più efficace che trasportare il tutto in una sfera più che la
consueta possente e a cui esso medesimo soggiace. Cosi il mito
naturalistico si svolge su la scena del divino. E il fenomeno mitologico
s'intreccia e si compone con il fenomeno reli- gioso, seguendo con questo
una simigliante evo- luzione dal naturismo all'animismo al perso-
nismo, per la quale si complica si allarga si condensa, e giunge ad
acquisire diversa bellezza perdendo l'originaria trasparenza. Si che
nel principio ogni mito della natura è un racconto intorno ad un
nume; e sia pur rozzo il racconto e rozzo il nume. La
creazione della saga, adunque, somiglia per tre aspetti a tre diversi
ordini di elaborazion spirituale : perché infonde la vita a individui
che la fantasia par animare di un soffio e la realtà foggiar a sua
sembianza, è analoga all'opera del- l'arte ; perché finge i motivi dei
fenomeni e quasi li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben
destro, è affine ai procedimenti scientifici che insegnano le cause dei
fatti ; perché, da ultimo, induce l'animo a reverenza d'un potere più
largo più alto, or solo più forte or anche più buono, rasenta
l'intuito di Dio e il senso religioso. — Non può, tuttavia, identificarsi
con alcuno fra quei tre ordini disparati. Anche quello con cui
sembra meglio coincidere è per vero disforme : l'opera dell'arte non è
accompagnata dalla co- scienza di certezza e di apprendimento che è
(vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se- guita, come la fiaba, da
una tradizione di rispetto, l'intuizione mitica 261
per cui venga riprodotta e amata traverso le succedentisi geniture.
La fede mistica per contro, quando sente la divinità vivere e spirare, e
la vede risplendere, non si menoma in individua- zioni
personificate e denominate, si più tosto in formule ove all'Essere è
congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi generali
su dai fatti specifici, che raggruppa in classi, rior- dina in
ischemi, è necessario dir lontanissima la saga? la quale dal singolo
fenomeno trae la sua materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole
farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme scender fra le zolle ; e
soltanto tardi scopre le ripetizioni delle apparenze e le identità
fonda- mentali; ed è già matura quando narra Cora ritornar ogni
anno, con sorte alterna, alla madre e al marito. — Anzi, lungo ciascuno
di quei tre ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente ;
^fin che da l'una delle tre mete sopravviene a deformare o
incrinare o addirittura distruggere il processo mitologico. Quanto
l'artista, e specie il letterario, violi con la sua indomabile
licenza la primordial purezza della favola è in queste pagine
segnato con studio. Né qui si tace come anche la religione scavi alacre
nella polpa stessa del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù
ri- posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca- turigini
prime. Ma, violento senza pietà, lo scienziato non erige ove non abbia
prima di- strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in pari
tempo la saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza,
che cos'è dunque il mito? Badiamo anzi tutto che in esso il
soddisfaci- 262 VI. - KALYPSO mento
pseudo-scientifico non è essenziale quanto il resto, ma un poco estraneo.
Forse, dopo aver pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la
specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo torvo e mostruoso, il
pensiero, poveramente cri- tico, si appaga della rappresentazione come
di causa; ed è quella medesima che stimola un senso rudimentale di
questa: o forse, è il con- trario ; e l'uomo crea la saga i^er
apprendere, e per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-
mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli inizii ogni fenomeno pare,
trasfigurato, causa di sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca
della causa preceda o segua la trasfigurazione, la de- termini o ne
scaturisca. Oggi nel bimbo si av- verano entrambi i casi, cbé la fragile
mente or si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare, "
perché? „; ora con spontaneo moto traveste in fogge fantastiche la veduta
dei sensi. Comunque, sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il
mito serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto, intatto
dalla pseudo-scienza. Accade un tempo- rale; e un altro; e un terzo;
molti: diversi sx)i- riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si
di- mandano il motivo dello scompiglio dei bagliori dei tuoni;
ognuno, per contro, crea una favola differente ; a tutti (supponiamo) la
favola creata è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità
dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi, dell'effetto ultimo
iDermane contradittoria alla varietà delle creature mitologiche. Queste^,
supe- rando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate da una
congenita forza eh' è propria, splendenti d'una bellezza intima ch'è
peculiare a loro. Più l'intuizione mitica 263
tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii temporali e si
adduce la falsa causa comune; ma allora la saga non deve nascere, si
trasforma in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo clie la
integra, raggiunge una taiDpa del suo evolversi: dall'esterno dunque si
muove questo ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora rapita
sotterra e riapparsa in terra si compie poi del giudizio di Zeus e del
ritorno periodico ; ma era. E si compie, fin che al meno
l'attitudine scientifica non si maturi cosi da non poter più
arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare e distruggere.
Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere senz'altro inclusa
nel fenomeno mitico. E quella, difatti, estremamente varia e vasta;
trascen- dendo la natura e le sue forze, si nutre anche d'ogni
altra esperienza attinta all'ambito che è più specialmente umano. I
primitivi avvertono Dio nella famiglia, — e onorano di culto la dea
Madre e il dio Padre ; lo sospettano o persin lo affermano nell'individuo
che più sa e più intende, onde inchinano il Vate. E pure ammesso
che primieramente la Divinità appaja traverso la luce del Sole e il
risucchio del mare, non si di- mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo
si pone in contatto con la sovrapotente forza della Natura, in cui
è Dio, ma non tutto Dio; che, ciò è, egli si trova in un primo stadio
della sua evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre- dire ed
entro il quale non intuisce, a dir vero, se non se la sola Natura; che,
quindi, il mito coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto un
momento, transitorii e insufficienti, di quel 264 VI. -
KALYPSO senso. E allora è più esatto affermare, la
saga contener l'intuito della possanza naturale rive- lata nel
fenomeno. Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana- lisi di
quelle che dicemmo trasformazioni e in- dividuazioni artistiche: il
vecchio re che cade dal suo trono e cui succede il figlio; la donna
che le rapiscono la figlia per nozze; il duello fra Perseo e Fineo. Qui
sono i tipi dell'espe- rienza consueta; qui accennano le figure che
jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani di nuovo; i casi, di cui
ha acquistato l'abito il suo pensiero. Le forme della consuetudine
so- ciale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla fantasia come
una veste indistruttibile. E somi- gliano ai mezzi espressivi della
tecnica che ogni artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi
le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha l'esercizio della
creta plasmanda; è sicuro del proprio pollice ; la mano gli vale una
certezza : si che traverso questo possesso egli vede la statua e
foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo scrigno celato la materia
ambrata del Verbo e la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e
mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva limiti non varcabili alla
sua ricchezza: le parole eran acconce a dire le vicende sociali e a
de- scriver le forme umane ; la vita arborea non possedeva moto se
non per braccia, e il suo prin- cipio non era da esprimersi se non con
l'imagine dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in- terno,
immersi in lei; la Natura si affrontava dall'esterno: a questa quella
unica poteva per tanto fornire linee e procacciar significazioni.
Il l'intuiziqne mitica 265 Sole è lontano ;
nuoce e giova a noi fuori di noi ; come narrarlo? E un re. Il seme cresce
nella spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è diverso dal
pugno, cade nel suolo ma è diverso dall'occliio che lo vede: come
narrarlo? E la creatura tolta alla madre. In progresso di tempo
l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso apparente del Sole e
il trapasso del chicco; non li ha trovati allora. Allora serve per la
Natura l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione
naturalistica. — E l'analogia (non identità, si badi) è i3rofonda; come
quella che si regge anche su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra
le diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec- niche, quanto
fra il fenomeno naturale e le forme umane. V'è, tra l'uno e l'altre,
vincolo di reci- procità, si che queste par violino bensi quello,
ma par insieme che il primo esiga senza scampo il sussidio di tal violazione.
Parvenze entrambe vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac-
cade quindi che si possa decidere dell'epoca in cui una saga fu da
principio narrata, per ciò solo, che gli elementi umani e i dati
dell'espe- rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi o
abondevoli. E accadde per converso che taluni fenomeni non determinassero
la loro leggenda, se non quando li potè assalire e trascolorare una
copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi : ^erseo contro la
belva ed Ercole contro Caco sono analoghe manifestazioni dell'urto fra
luce tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo, la selce
acuminata, la fiera; quest'altra in vece 3ontiene già l'uso della mandra,
la proprietà, e costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vi-
266 VI. - KALYPSO cende agresti del seme e
della spiga non diven- gono vicende, o siano trama narrativa, che a
patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente non esistono, clié
non sono intuibili. Come (con- tinua l'analogia) non esiste per me,
ignaro di plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono senza
il consenso dello spirito seguace. — Ana- logia, non identità. Che il
divario è tosto sen- sibile, non a pena si rifletta alla rispondenza
che è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla ineguaglianza
che è fra l'umano e il naturale. Le tecniche non esistono che per l'arti,
ne costi- tuiscono la preparazione voluta, né servono ad altro che
non sieno l'arti, né hanno radici altrove che nell'arti. Il loro
progredire è verso un affi- namento che permetta di sottoporre sempre
più e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso artistico. E il
loro affinamento esalta sempre più e sempre meglio le arti; non le nega
non le di- strugge già mai. La storia della mitologia per contro
attesta, nelle sue pagine severe, che, come sia salita a più grosso
valore la somma delle esperienze umane, di quelle esperienze (ciò
sono) traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-
sfigurandosi, incontanente questo legame s'in- frange, si che a due poli
estremi la vita sociale e gii spettacoli naturali si esprimono con
indi- pendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche le discrepanze
superando le affinità ; e la perizia esercitatasi martella, per le
discrepanze, fogge diverse da le dicevoli per le affinità. — Si di-
chiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è una visione manchevole del
mondo esteriore al- l'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze
co^ i jH LE
MANIFESTAZIONI MITICHE 267 mondo interiore all'uomo. Nel mito è,
per con- verso, una vision manclievole di questo ultimo mondo,
ignara del suo contrapposto con quel primo. Quindi fra l'uno e l'altro di
essi un rap- porto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla
doppia manchevolezza. Ma perché le due insuf- iicienti visioni sono le
uniche per ora acquisite, e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta
sul fondamento delle crasse analogie, il rapporto dev'essere ed è,
anche, necessario e indispensa- bile ; ed è, anche, bastevole ai
primitivi bisogni. Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è
un detei'minato avvenimento naturale intuito come forza
so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano in una mischianza che li
deforma entrambi: come forza sovrapotente e divina; — indi il
rispetto della tradizione letteraria, l'onore del culto, e il pregio di
motivazione scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi
; — indi la fine della mitopeja con l'eccesso della de- formazione
e l'imxDOssibilità della mischianza (1). Vita, per ciò, e morte.
Quale la vita, e onde la morte, sarà detto appresso.
I II. — Le manifestazioni mitiche.
Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor- memente e si altera
evolvendosi. Ma immutati (1) Questo nostro risultato storico
intorno al mito con- traddice B. Croce {G. Vico pag. 66) per cui il mito
è un " universale fantastico „. I
268 VI. - KALYPSO restano, fra tanto trasfigurarsi di
innovazioni e di creazioni, i modi e i mezzi della manifesta- zione
mitica. La quale quindi è necessario pre- cisare, innanzi che s'imprenda
l'indagine sul viver e sul morire mitopeico. Poi che il
fenomeno della Natura dovette, per affiorare su le coscienze, traversar
l'umano, pati d'esser contemplato come l'umano, in tutti i ri-
spetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto psichico e gesto
corporeo ; e fu scolpito nella ma- teria, dipinto su le tavole, narrato
con parole. Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura rimase
luminoso della magnificenza divina, ri- chiese di penetrare nei culti e
nei riti in cui ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro puri
e torbidi cuori. Sono dunque due grandi categorie espressive ; e su i
caratteri di ciascuna in generale non è qui da far cenno, che ne
trat- tano apposite discipline. Qui basta notare come sieno
entrambe primigenie, coeve tutt'e due agl'incunaboli della saga; la quale
quindi le trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità
impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la crosta terrestre e scorrendo
in lava, ebbe appa- recchiati i canali al suo corso ardente. Che
anzi non si sarebbe né meno levato in un respiro immane, ove non si
fossero rinvenute le vie atte al suo sfogo. Or è certo che dopo la
nascita fu dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento di quei
suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di svolgerli e di migliorarli, col
secondare l'affinarsi verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma
falli, se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga
quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del
■ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE 269 primo
suo crearsi, e attuali divennero solo più tardi. Il termine filosofico,
la jDarola scientifica (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda
come si respingono sostanze non consentanee. E in un dialogo di Platone
la fiaba fu '' racconto,,, anche se le si immettesse, come allegoria,
un'astrazione : l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inade-
guatamente, dalla fiaba; mai questa da quella, in alcun modo. Un poema
sacro o patriottico, i frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo,
il ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: — qui la saga si
foggia a rivelare or l'una or l'altra delle sue congenite potenze, senza
dis- sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima intuizione
della Natura esala uno dei suoi pro- fumi pili reconditi, e non tra i
meno intensi : il culto. Il mito può esser nel culto.
AUor quando su l'Ara massima si sacrificano tori ad Ercole, in
Roma, si narra la lotta del dio contro il ladrone Caco. Persino nelle
feste di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo della saga, se
non certo, è possibile ; è in parte sottinteso nelle menti dei fedeli. In
Enna non si venera Demetra senza ripetere il ratto di Cora e, molto
più, senza affigurarlo concreta- mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo
Carneo le danze trovan riscontro con i leggendarii balli dei Dori
in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di questa
interferenza fra culto e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un
tempo più semplice, il gesto del rito ripete la vicenda mitica. Il
cocchio trainato da cavalli 270 TI. - KALTPSO
bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati (1) a Siracusa, fìnge
l'azione onde Cora fu ri addotta alla Madre; e pretende di fingerla nel
luogo istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è del ratto. E ad
Eleusi si mostrava la " pietra del pianto „, che aveva parte non
piccola nel culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel cordoglio
prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di cotesti esempii è
tanto significa- tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto
mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione è cosi moderna e lo
spirito maturo cosi larga- mente innova, è andato perduto il carattere
pe- culiare della tragedia o s'è cancellato il segno delle
attinenze antiche fra il lavoro letterario e il culto sacro. Per le
quali, in fondo, il dramma appariva quasi la ripetizione gestita del
mito, il mito riprodotto attorno ad un altare, da per- sone che ne
affiguravano gli eroi, in vicende che ne rendevano la trama. Appariva, in
somma, una specie di culto in cui il rispetto religioso era ben
presente, ben si sentiva l'ambrosia dei numi; e tuttavia l'azione e il
gesto awiavansi a prendere il sopravvento. Appariva un culto
modellato sul mito. Questa però, se è la più tipica interferenza
tra i due fenomeni umani, perché in essa la saga offre al rituale i
modi i tempi e i luoghi, non è la sola né forse la più consueta. Un'altra
è frequentissima: per cui avviene appunto il con- trario. Nel culto,
molti fra gli atti obbligatorii (1) Pindaro Olimpica VI 95 e
lo scolio. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 271 e
tradizionali si riportano, idìiì che ad un deter- minato racconto
leggendario intorno al dio che si venera, agli attributi di quel dio alle
sue mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si invocano in
circostanze favorevoli, si supplicano benigne ; o vero si irrogano
lontane, si distornano con offerte e con formule ritenute idonee.
Vi hanno inoltre, pure estranei al mito, atti reli- giosi sorti in
momenti diversi, per caso, per coincidenze fortuite, per iniziative,
anche inten- zionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno
infine templi e altari elevati, fuori di un certo mito, per un nume cui il
mito fu collegato lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario
che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio nella saga di Caco. Ora,
tal complesso cultuale, che è solo parallelo o, peggio, solo per
incidenza contiguo al racconto leggendario, non ne dura a lungo
estraneo, ma finisce col penetrarvi e costituirvi un capitolo
interpolato. E questa la massa delle etiologie, che notammo neìVInìio
a Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi- geato del
ladrone latino. Sempre, in questi esempii, il contesto narrativo si
amplia a van- taggio e ad interesse della realtà religiosa : fe-
nomeno che attinse il suo vertice in quei casi, — ma non ne appajono in
questo scritto, — che tutta quanta la leggenda nasce dal rito.
Ebbene. Nella prima delle due interferenze notate, troviamo la
leggenda esprimersi per mezzo del culto. Nella seconda, il modo
opposto. Fra le due non difettano attinenze; né è diffi- cile
decidere intorno alla priorità. I miti etiolo- gici che scaturiscono
dall'esercizio religioso sono 272 VI. - KALYPSO
senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto più tardi degli
spontanei miti naturalistici e per solito, a differenza di questi,
tristanzuoli. Anche, la prima interferenza intacca e interessa
intiera la leggenda: onde il culto di Demetra investe tutto il mito
di Demetra, e il dramma tragico tutta la saga di Andromeda; laddove la
seconda interferenza presuppone la leggenda, l'adotta, non
l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi, la diversità non è tanto
profonda quanto par- rebbe. In entrambi i casi, difatti, dura
un'anti- tesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito sussiste
sempre qualcosa, che non affluisce al culto, ma lo prepara, lo motiva;
permane un che di non riducibile: fra una scena e l'altra del
rituale, fra un episodio e l'altro del dramma, qualcosa è sottinteso,
alcuni avvenimenti son accaduti, che si rivelano nelle loro
conseguenze, ma si riferiscono a un diverso contesto: nel-
l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore e quello su l'Ara
Massima, si pensa, o si deve narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii
e i Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo tra la Catagoge e
l'Anagoge sta il giudizio di Zeus insieme con l'altre vicende : prima
che Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe e agli spettatori
stupefatti, egli ha compiuto delle gesta e conquistato il capo della
Gorgone ; il che si deve dire, come in postilla, ma non appartiene
più al dramma sacro, bensi risale al mito. Del mito, adunque, il culto
illumina alcuni tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni
punti; ma si integra poi con interstizii d'ombra o con premesse a
pena accennate o con parentesi sup- LE MANIFESTAZIONI
MITICHE 273 pletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi
sulla impotenza espressiva del mito rispetto al culto ; la quale è però
fatta più tosto di abbon- danza, ijerché quello per solito trascende
questo ; consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura mitica di
Cirene, invero, traduce assai poco del culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie
eleusinie 0, in genere, greche in onore di Demetra non sono a
sufficienza chiarite dal solo ratto di Per- sef one, si debbono venir
comentate col sussidio e d'altri mezzi e degli attributi che alla
Dea spettano in testi estranei a quella saga. Qui, come altrove, il
culto traspare nella leggenda, ma per uno spiraglio solamente.
Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico non sono dunque
idonei a esprimersi l'un l'altro. Ciò può sembrare da prima strano, da
poi che si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano invece
cessa di essere, quando si ponga mente (che si disse pure poc'anzi) alla
distinta natura di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con
lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af- finarsi della
sensibilità mistica, cosi che molto si modifica, e si perfeziona di
disinteresse, col- l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per
contro nasce da un'intuizione della natura che deve permanere
durabile, e vive nel suo profondo di vita indipendente dalla religiosa.
Due rami, dunque, bensì dello stesso tronco; — ma rami diversi. I
quali s'incontrano come si vide ; e non accidentalmente, giacché non si
spiegherebbe la costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per
due motivi. 1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carat-
274 VI. - KALTPSO tere scientifico che assume
la saga o già prima del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo
qual spiegazione del fenomeno essa tradisce tosto un aspetto di utilità
pratica ch'è quanto mai confacente alle menti primitive (né solo a
quelle). Se il fulmine è la clava immane che un Dio a volto d'uomo
brandisce e agita con braccio più che d'uomo possente, se ne
stornerà la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al Nume dal
cuore d'uomo : venerandolo di offerte, in culto. E della spiga granita,
della messe co- j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori
l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune suona il tripudio, come
comune il lutto per il rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto
e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca, si appanna; o no, ch'è
meglio, si sgombra delle nebbie rosate e si converte nell'egoismo
quoti- diano, ch'è il pane, il benessere, — la vita. Ma
l'altro motivo per cui culto e mito in- terferiscono sta nella
concretezza plastica, che è di talune cerimonie del culto, e che le
assempra all'opera dello statuario, ossia le avvicina al- l'arte.
Quando di fatti la parola narra Demetra trasmigrante per le terre con due
fiaccole accese su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la
figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle ceri- monie di Eleusi. E
quando il ketos apparisse vorace e si apprestasse alla vettovaglia
umana, riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa del
racconto. Il paludamento ed il gesto corri- spondono all'elezione e alla
disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono
anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un LE
MANIFESTAZIONI MITICHE 275 volto contratto nell'angoscia
sottintende ma non significa il dolore medesimo che il poeta piange
nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea nella carne vivente la
divina maschera di Lao- coonte. Per tanto, non pure mito e
culto non si so- vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono
coincidere, il culto risulta una imperfetta espres- sione del mito.
Accanto alla quale perdura sempre, e per integrarla nella quantità e per
elevarla nella qualità, la forma primaria e più acconcia : —
l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano, quasi a compimento ed
abbellimento, le varie forme del culto, come i minerali alle fogge
cri- stalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme con la
]3oesia, emergono, fiori di alto stelo, su da quella gramigna ch'è il
racconto dei sacerdoti e il disadorno ricordo delle generazioni.
Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa efficienza di
espressione. Il vasajo, che nel VI se- colo affigura la saga di Andromeda
su la materia tornita e preparata alle vernici, si ripete, tra-
verso la serie dei suoi modelli, ad un'antica forma del racconto caduta
già in oblio nella let- teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci
a costruire quella forma, di cui altre tracce non sono rimaste. Ma
sarebbe anche in questo spe- cialissimo caso ardimento soverchio asserire
in- dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in tanto lo
comprendiamo, e in tanto ci serve a simboleggiare un intero strato
mitico, in quanto la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci
fa risalire a una narrazione ; non ce la narra,
i^ 276 VI. - KALYPSO per sé. E del pari un
bassorilievo ove Ades e Persefone seggano sul trono tenendo fra le
dita tre spighe (1), richiama le nostre cognizioni sul ratto della
fanciulla, le conferma; ma non ce le fornirebbe mai, per sé. Il motivo
n'è palese per le esigenze ineluttabili della scultura e pittura.
Non possono essere indipendenti dal racconto parlato quelle arti
che non debbono né fermare l'istante né descrivere il moto. Il momento è
la loro mi- sura, ai due estremi della quale sono invarcabili
colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per rendere una vicenda, per
fìngere il moto nella statica. E né meno costituendo in serie i lor
prodotti riescono a rendersi autonome dalla forma letteraria; che una Via
Crucis raffigu- rata da un genio non è se non mirabile chiosa agli
Evangeli (2). Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella
sua espressione, a preferenza artistico; ma anche è precipuamente
letterario. La letteratura sola ha il vantaggio di esprimerlo intiero, di
insegnarcelo se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com- pimenti
né di premesse. Cotesto privilegio però non s'intende tutto, che
prescindendo da alquante restrizioni. Bisogna, in primo luogo,
ricordare che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i
guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che, contro la conchiusione
recente, nasce dal ricordo (1) " Annali dell'Istituto „
XIX (1847) tav. P. (2) Su i rapporti fra arte e letteratura
mitopoetica scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (= "
Phi- lologische Untersuchungen , V) Berlin 1881. LE
MANIFESTAZIONI MITICHE 277 dell'esame condotto intorno a quattro
notevoli miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee
omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per- venute nella loro
opulenza, il sussidio dell'arte plastica alla Storia sarebbe ben diverso:
non cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia basterebbe.
Bisogna inoltre allargare i termini onde è concbiuso il concetto di
letteratura: non fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla
ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma comprendendo nel vocabolo
anche le manife- stazioni più povere e grame, il racconto d'un
antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la favola ciarlata fra i
fedeli. Perché, se si consi- dera nella sua ampiezza tutta questa
saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed espugna ben
erte rupi, pervasa da un assiduo moto di ascesa, insito nell'intimo o
sospeso su le forme come una legge fatale; se si scorge il fremito
creativo trascorrere in corsi e ricorsi da Pindaro all'atleta, da
l'atleta a Vergilio, da l'umile all'eccelso, toccare le donne di
Siracusa e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca di Diodoro
e la corte imperiale di Roma, per- vadere l'abitante dell'Aventino e
l'Annalista dell'età travagliose: — si appalesa a pieno il dominio,
indipendente e incomparabile, che sul Mito possiede la Parola.
Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime su l'intuizione, se non
in una sintesi, che è sempre originale, com'è sempre imprevedibile prima
del suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo. E un castone
che costringe il diamante ora a smussare una punta ora ad arrotondare uno
spi- I 278 f?olo. Ogni
racconto letterario di un mito, scritto e parlato, ne è una forma nuova
che non si può ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra. In
questo, l'arte figurata e il culto, — a parte la loro incompiutezza che
si vide, — somigliano alla letteratura; ma, anche in questo, le
restano addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e l'altro, non
appena possedutala, una certa forma e una certa versione d'una saga
incidendola per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la parola
ha una sua duttile mobilità, una sua invitta energia innovatrice, che si
tradiscono nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa-
j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si di- lunga intorno a Caco
dall'Eneide, della quale vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia
d'una cosi fatta attività di dominio, come distingue tra loro le
forme dell'arte, cosi gradua le specie letterarie medesime, ed è il
criterio del loro pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al
poppante innova bensì, che non s'evita; ma per vero minimamente, a confronto
dello storico e del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo, al
paragone, e la luce ne devia cosi poco che si trascura. La personalità
della parola è quella di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema
; o si invigorisce : e il mito ne riceve più o meno ] individuate
le sue forme. Onde è lecita per co- modo di ricerca, se non esattissima
in tutto, la distinzione in due grandi categorie, separate per; una
diversa potenza creativa, dei contesti ver- bali in cui la fiaba si
esprime: nell'una stanno gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i
vigorosi: fecondatori. LE MANIFESTAZIONI MITICHE
279 Senza traccia, come senza nome e senza gloria, rimangono,
e son massa, quelli: i ripetitori menni. Non dispregevoli né pur essi,
clie sono la gleba rude, disprezzata ma indispensabile, senza cui
non esiste nulla e da cui tutto si ri- pete. Sono del resto costoro,
nella lor supinità passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di
fantasia le fogge tradizionali, come utili a va- gliar le innovazioni,
che, diffidando, non accet- tano se non quando una forza geniale le
imponga, e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col
ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spetta- tori, dinanzi a cui i
tragedi vedevano agitarsi le sorti delle loro creature, e che si
serbavan fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la selezione
e si conserva la vita. Cosi che quando non uno pili ne sopravvive, com'è
oggi fra il popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben morta,
s'anche l'arte ne tenti con tocco divino la resurrezione. Le radici sono
inaridite. Ma non possono d'altra parte raccogliersi in un
solo tutto i fecondatori del mito: che la energia mitica non è semx)re la
bellezza. Tal volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un
creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che ordisce; esiste il
mitopoeta che contesse ad arazzo. Verità di non poca importanza,
come quella che serve a spiegare, perché il mito duri e s'evolva
anche durante periodi in cui l'arte si tace, o compia anteriormente
all'arte uno svi- luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei
carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la trasformazione profonda
subita dalla fiaba indo- europea j)i"esso i Grreci prima di vestirsi
nel- 280 Vlnno a Ermes di begli esametri
omerici: o pmi'e il comporsi della saga siracusana di De- metra
avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né senza traccia è rimasta, come
senza nome d'in- dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti
o, per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi. Ai nomi delle
persone, clie mancano e non var- rebbero, possiamo sostituire quelli dei
centri onde il moto di elaborazione mosse e si propagò: quali Delfi
per la saga cirenaica, lo spazzo del Foro Boario per il furto di Caco,
Argo per le imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa messe,
tra cui raro langue il ciano e il papa- vero, e su cui ci vien fatto di
gittare obliquo lo sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di
Ver- gilio il racconto di Ferecide. — In generale, per conseguenza,
la mitopoetica vigoreggia come un progresso rispetto alla mitologia (1).
E tale as- serzione è sempre vera, se intesa a dovere: pe- rocché
il progresso può essere istantaneo e com- piersi nell'attimo medesimo
della innovazione, ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se
l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il lavoro mitologico di un
predecessore o crei esso medesimo la saga che contamina le pretese
dei Battiadi con la spedizione degli Argonauti al lago Tritonio:
non sappiamo né sapremo, e la 1 (1) Per
chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela- borazione mitica
(letteraria, artistica, cultuale). Fra l'ela- borazioni mitopeiche della
letteratura distinguo la mi- tologica dalla mitopoetica che sola ha
pregio estetico. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 281
verità elude con volti ambigui i nostri occki incerti. Ma se, come
si ritiene meglio probabile, la contaminazione balza insieme con il
ritmo dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata sorte, il
gusto estetico coincidette con la vigoria generatrice. E il caso è, in
Grecia specialmente, non raro; ed è ben motivato dalle premesse
nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto
su Perseo il mito tessalo e il peloponnesiaco, e li fonda con gli
elementi jonici, che si dissero sopra, stringe membra prima
incoerenti in tale organismo d'intuizione unitaria, che è del tutto
normale, se egli stesso riveli una a pena minore vigoria
nell'esprimer quello col verso; se appaja egli stesso anche
mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio, che gli altri. Il nesso è
cosi ovvio, che sembre- rebbe quasi insolita la contingenza, in cui
al più dell'intuizione non rispondesse il meglio dell'espressione.
Insolita certo; ma assai meno che non sembri, a causa dell'indole propria
di ; talune stirpi e della natura speciale di certe in- [novazioni
mitiche. Nel fatto, tra i Romani è [facilissimo che una fiaba si innovi
appresso un [arido annalista e che quindi scada dal carme )opolare
allo schema di un rozzo diario: tale [fu, tra l'altro, la sorte della
leggenda di Caco [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con-
[•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur [senza avere alcun
intento, — si badi, — di ra- sionalismo. E, ancora tra i Romani, è
probabile 3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto [di
Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda in una forma regrediente,
che non attingeva 282 VI. - KALYPSO alcun
pregio artistico. Tuttavia lasciando un ne- cessario margine a simili
casi, per solito si varca d'un salto dalla medesima mente il varco
che intercede, — non ampio e non breve, — fra la innovazione mitica
e la procreazione d'un'opera d'arte. Superato tal varco, o
per felicità d'ingegno o per maturità conseguita nel tempo, e attinto
il vertice più bello, si apre una serie nuova d'in- novazioni
mitopoetiche, che son ben diverse dalle mitologiche. Ma un facile
criterio le distingue senza possibile equivoco. Le une hanno un fine
che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da esigenze che sono
estranee alle altre. Lo scrit- tore, che altera la leggenda nel comporre,
ob- bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con- sapevole che
l'obbedienza sia: un istinto, o il suo gusto culto e fine, lo avvertono
di dar quel ritocco, mutar questo colore, adombrare una figura,
correggere la prospettiva ; il pubblico spe- ciale cui si rivolge gli
suggerisce, rimanendogli dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di
conce- dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup- pare più
ampiamente una parte. Per contro il mi- tologo, che è tale prima d'essere
artista, tende a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen-
dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigo- rosi rami, e a quello
procura di recar contributo, adunando, intorno a un nome di eroe o di
nume, tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una mèta politica
o altrimenti pratica : per conciliare le pretese di due luoghi intorno a
una Dea, si chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per esaltare
una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per LE
MAXIFESTAZIOXI MITICHE 283 comprimere mia città avversaria, quale
Tera; per lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico. In
ogni caso, muove da esigenze che non sono quelle del suo tema letterario,
né consistono nel tono d'un poema su Enea o d'un canto su le
Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi- rizzo mitologico.
I due ordini d'innovazioni però, pur essendo tanto ben distinti nel
fine e nell'origine, eserci- tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E
l'ima- gine che rende la loro reciproca condizione, è quella della
pila voltaica ove il succedersi alter- nato dei dischi di rame e di zinco
permette lo scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito di- fatti
non potrebbe entrare in quel componimento letterario ove deve alterarsi,
se per effetto della sua intrinseca evoluzione mitologica non
avesse conseguito già un certo stadio; e per converso, poi. il
colore diversamente sfumato dall'arte la variata prospettiva sono a punto
cause che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun- gere o il
contaminare. Dopo che, nei carmi del popolo, la leggenda di Caco è andata
smarrendo il suo senso allegorico antichissimo, per assu- merne, a
gradi, uno storico ben diverso: allora solo, Ercole può sottentrare a
Garano-Recarano, e il gruppo delle etiologie incunearsi nel rac-
conto. E allora solo la fiaba di Perseo e An- dromeda è matura per una
interpretazione psi- cologica e sociale nella tragedia, quando il
mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la Grorgone, cui era
identica. Un ardimento giustifica l'altro; un passo prepara il
susseguente: non importa se i fini del primo non sieno per l'ap-
284 VI. - KALYI'SO punto quelli del secondo. Anzi,
perché, come si vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta in
una con la innovazione mitopoetica, lo storico resta esitante, in quei
casi, prima di decidere da quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale
tocchi la precedenza, non nel tempo, ma nella respon- sabilità del
nuovo stadio raggiunto dalla saga. Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che
in conget- tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia, per
esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo di chiarezza genealogica
e armonia anagrafica, identificato primo Persefone con Cora. I
confini sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri- trova
chiare le sue vere cause. Questi casi am- moniscono lo storico a
cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad esporre
l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico pagano.
IH. — L'evoluzione della mitopéja letteraria. Da due
radici trae vigore la mitopéja al suo arricchimento progressivo e al suo
lungo variarsi : dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta
negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa. Curiosità
scientifica, senso del divino, intuito dell'uomo e della natura,
immanendo nella saga costituiscono costantemente altr'e tanti
tentacoli, che attirano verso di essa i prodotti del più maturo
pensiero scientifico, spirito religioso, abito di contemplazione umana e
sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria
285 nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali son sorte
non da uno sviluppo delle primissime antiche, ma da un superamento deciso
di queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnova- mento
si comijie entro certi ampi limiti tem- porali. Da principio,
ogni fenomeno, ogni aspetto del medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni
sfumatura, sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:
nuovo, se pur non profondamente diverso dal complesso dei suoi analoghi.
E il fermentante rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici
che il suolo ferace esprime da sé, per l'esube- ranza della sua forza, in
unico impeto con le roveri e i pioppi. Si che le figure si
moltipKcano disponendosi l'una a canto dell'altra, affini so-
relle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si addensano e
s'intrecciano, uno appresso all'altro, simiglianti e differenti, e si dispongono
in rac- conti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome
personale, un peculiare suggello. La mitologia |indiana serba traccia di
questo pletorico groviglio li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali,
intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è
linore : perché già in essa sono sopravvissute [unicamente le forme, in
genere, geniali, cui la [singolarità medesima apprestasse vigoria e
resi- stenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò stesso meno
individuate, vennero assorbite da pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche
fra gli lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che man
tutti il medesimo sostrato naturalistico, di [Eracle nell'Ade, di Eracle
contro Gerione, di 286 VI. - KALYPSO
Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gor- gone, di
Perseo contro il ketos, attesta l'anti- ch-issima fecondità originaria in
favole dissociate per minime differenze, per esigui e mal certi
confini, e prova anche come la mente creatrice da sé e dalla propria
stirpe sapesse a ciascuna derivar notevole forza di vita e non scarsa
energia personale. Di questo periodo di creazione mitica e
di moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio additano gli
ultimi, e non miserevoli, bagliori tra il VI e V secolo avanti l'èra. In
tale età di- fatti, che l'occhio della storia può riguardar sicuro
traverso poche nebbie^ la letteratura mi- tica si accresce della fiaba
duplice di Cirene e della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi
vigorose e determinate che non possono in verun modo confondersi con le
lor sorelle. E tuttavia né Tuna né l'altra sono originali. Non originali
anzi tutto, perché non escono, — se bene adorne poi, dall'arte, di
stupenda efficacia poetica : Pindaro Ovidio Vergilio le ritrovano in
sottili ragne do- rate su la loro cetra, — non escono da un bisogno
lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un fine pratico, in grazia
del quale soltanto sussi- stono, ma a malgrado del quale splendono
di magnificenza. Per ciò non creano, ma compon- gono elementi noti,
sfruttando intrecci ante- riori. La saga degli Argonauti era ; conteneva
il lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero, e dissero di
Eufemo e della zolla e d'Euripilo e dei coloni giunti da Tera sul luogo
del dono. Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge presso la
palude Ciane, non sono se non le sosti- l'evoluzione della
mitopeja letteraria 287 tuzioni d'un patriottismo locale ai termini
ed alle forme d'un antichissimo racconto greco. Singo- lari
apparizioni mitiche queste, adunque : nelle quali si unisce un cotale
spirito di riflessione, un quasi gretto senso di praticità, con una
indu- bitabile freschezza creativa, un abbandono lan- guido di
sogno. Questo permise il loro travesti- mento poetico, e cosi grande
permise che i razionalisti antichi non s'accorsero punto dello
scopo politico e materiale onde le belle fiabe che gì' irritavano erano
mosse; né se ne accor- sero, prima che sorgesse il metodo critico
mo- derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono in vece ad
avvertirsene in più disadorni e meno ricchi racconti. Tuttavia, in quel
senso di rifles- sione pratica è il non dubbio indizio che il pe-
riodo in cui si moltiplicano i miti è per finire. Esso si estenua, per
vero, in bolse invenzioncelle, in genealogie stremate, in giuochi
etimologici trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi in
favolette che pochi eruditi ripetono; riven- dica (1) il passaggio di
Perseo per Micene ove egli avrebbe perduto il puntale della spada
(ó /ivxt]g) ; attribuisce a Trittolemo discendenza argiva (2) ; spiega il
nome dei Pinarii pel dover essi astenersi dal banchetto sacrificale
{neivciù), ho fame) (3). Poi muore. Entro i limiti di tempo
cosi largamente se- gnati, profondo e vasto è il rivolgimento.
(1) Pausania II 16, 3. (2) Padsania I 14, 2.
(3) Servio Comm. a Verg. Eneide Vili 269. 288 VI. -
KALYPSO In apparenza, tutti coloro che trattarono let-
terariamente le fiabe della nostra ricerca, le considerarono, non il
fine, ma un mezzo o, tal volta, un artificio pel loro tema. Fine era,
di caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin- nastica,
l'ammaestramento georgico, la meta- morfosi d'una ninfa o d'un uccello,
la ricorrenza d'una festa, il vanto della preistoria romana :
mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di Euripide lo scopo vero è
altro da quel che la leggenda, in se, richiederebbe: è scopo
comx)a- tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole il suo
contenuto. L'interesse per la saga non è quello primigenio della intuizion
naturalistica onde nacque: è, nei varii letterati, vario. —
Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si conferma con tutti i testi
del nostro studio, per non dover essere tenuta in somma considera-
zione. Ma ecco che la realtà la contrasta dura- mente. In tutti i carmi
letti , in tutte le prose, il mito entra non di straforo, si per le
spalan- cate porte: signore, certo del dominio che nel- l'interno
lo attende. Della Pitia IX come della IV è il perno ; la colonna
vertebrale della tragedia ; la sostanza dell'elegia properziana. Nel
libro d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato anche in certi
j)articolari minuti : ospite sacro che Giove protegge. Dove penetra,
penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve nel cenno
alla saga di Cirene : i pochi tòcchi bastano perché gli elementi
essenziali delle due leggende contaminate appajano totalmente. Fin in
Livio. Fin in Dionisio. — Si contraddicono, dunque, le cause e i
modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della
mitopeja letteraria 289 mito: controversia intima a Kalypso.
Contro- versia, da cui derivano e gli acquisti letterarii della
saga e le sue letterarie deformazioni; clié, violata da interessi nuovi,
cui già era estranea, per quanto con tutta la preponderanza della
sua congenita foga imponga le sue forme, è co- stretta ad
accettare, dalla sede che l'ospita, le luci. Su la soglia, le
si fanno incontro, e prime la intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la
novella il popolo par condensare, con la propria espe- rienza, la
x^ropria filosofìa della vita, perché vi fìssa gli esempii tipici delle
consuete vicende (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici
delle fìgure che muove la sorte comune. Per essa, traverso la fantasia
delle masse, come at- traverso un vaglio singolare, il complesso
(ad esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme delle vii'tù
e dei vizii che in genere presso quelli si riscontrano, affìnansi in una
selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi
di un personaggio tradizionale con tra- dizionali pregi e difetti: il
pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e onesto che come
suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. La
novella è dunque, per propria natura, pregna della medesima umanità che,
nel mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le creature difatti
dell'una e dell'altro si somigliano a volte come nate da unico ceppo. E
si accor- dano quindi, sovente e bene, in un medesimo testo : —
tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua affluisce cosi nella saga che del
pari riflette, da le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non,
A. Feekabiso, Kalypso. 19 290 VI, - KALTPSO
però, riverbera simileraente la vampa solare, né vi si
specchia azzurro di cieli e svettar di fronde durante la divina estate:
si che il volume flu- viale acquista potenza di voce che s'ode da
lungi, vigore di empito che infrange le sponde ; ma divino di stelle e di
selve men vi trova echi e consensi. E pertanto nella mischianza fra
mito e novella il principio dell'abbassarsi quello verso pianure
terrene e dell'adattarsi a stature umane : in cui si attenua, senza per
altro smarrirsi del tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti
che più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago velame d'
irrealtà favolosa soffonde pur la no- vella, di spiriti non consueti anzi
straordinarii ; accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura
mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe. E a questo si deve a
punto se di eroi sono i miti. Quando i lor personaggi non sono
stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara dell'alta e intiera
divinità, allora il nume pro- tagonista della saga, e il " vecchio
vecchio vec- chio „ che i novellatori esagerando desumono dalla
vita loro visibile, si allivellano sopra il piano istesso ; fin che anche
il piccolo rito locale, se mai fosse già iniziato da qualcuno,
finisce, non trovando altrove favori, con l'estinguersi o diventare
eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia, era il Sacrario di Acrisio, prisco
iddio ; ma, per ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe-
scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chia- mavasi, né si ricordava
nome diverso, tempio di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua
so- cietà il mito ; ed entrambi corteggiano il popolo illudendolo
nella speciosa finzione di maraviglie l'evoluzione della
mitopeja lbttbbaria 291 elle sono sol tanto le trite consuetudini
di lui, ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un meglio :
gocciole di piova che rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza
l'invenzione etiolo- gica, intenta a cercare la causa del fatto
umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in cui è, prima
o dopo, inerente il conato verso la causa del fatto naturale. Caco spiega
il fuoco distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il ritardo
dei Pinarii spiega un costume del rito erculeo nel Foro Boario. Che se i
tentativi scien- tifici appajono per tal guisa paralleli nei due
fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti gli adegua l'un l'altro.
Entrambi ripetono per causa del fatto il fatto medesimo,
correggendo solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom-
pagnano. La fiamma muta contorni divenendo Caco e serba immutata la sua
potenza deleteria. E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si
trasporta, identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La
giunta sta nell'episodio umano e abituale : il costume ladresco di Caco;
l'indugio pigro dei Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella
leg- genda integra per un lato quel suo volto che par compaginarsi
di nostri nervi muscoli sangue; secónda per l'altro quella sua tendenza
che si origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. — Questo
tributo però non è solo copia. Rappre- senta anche una riserva di potenze
e di sviluppi, che si determineranno in varia misura a seconda dei
contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un poeta, un romanzatore, uno
storico, e i diversi individui entro queste diverse categorie, ne trar-
ranno spunto alla lor compiacenza differente. E 292 VI. -
KALYP80 questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che si
disponga a fronte del più vero e antico nucleo mitico. Quegli ne prenderà
solo occasione per ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio-
logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio, il primo; l'altro,
Ovidio: li scorgemmo in atto di elaborare diversamente cosi il mito di
Caco. — L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura insieme
con il deformarsi della saga sotto l'in- flusso dei molteplici interessi
cui la fa sottostare il cuore infaticabile e travaglioso ch'è
nostro Cosi il patriottismo adultera il mito; e per vero
duplicemente. Prima, in forma subdola lo ritocca o accresce. Poi, gli dà
un contenuto sto- rico che gli era estraneo affatto. Caco è un
ladro mostruoso di tempi antichi ; Euripilo un re di età lontane :
il lor valore d'iddio del fuoco o della porta infernale è perduto, perché
una storia fal- lace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato
naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato storico; o fa
prevalere questo su quello, ove si trovino misti. Immutato resta
soltanto, insieme con il complesso dei particolari cristallizzati,
il rapporto tra i protagonisti, però che il favore patrio si
trasporti tutto per l'appunto su l'eroe che qual Dio aveva, nel primo
significato, com- battuto le tenebre ; e l'odio nazionale si
accumuli su la figura che era stata, nel primo significato, ostile
alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg- genda, ma solo il suo
presupposto. Anzi, sotto questo aspetto, poche luci di poesia sono
tanto favorevoli al serbarsi integro della saga. La psi- cologica o
la sensuale posson compiacersi del l'evoluzione della
MITOPEJA LETTERARIA 293 mostro come dell'eroe, a causa della
plasticità e della intelligenza clie li accomunano. La patriot-
tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida al mito un sentimento, lo
riscalda con un calore affettivo che, dopo la sua origine, gli eran
dive- nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi efficace :
Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e Cirene, assai meno di Callimaco
quello che n'è il nucleo effettivo : la simpatia dei coloni per il
Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano, e la protezione perenne
assicurata dalla coppia divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo
dello scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua che il
patriottismo di Callimaco crea indelebil- mente : la statua del giovine
Iddio che accenna, sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,
onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle libiche. Il mito palpita
invero nel gruppo con la vita della sua stessa radice. E quando un
brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta- tori ateniesi nell'atto
di scorgere sul capo di Perseo una sorte agitarsi non dissimile
dalla sorte che in allora il Fato volgeva su la città marmorea,
l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, — Dio, qual era da prima,
splendido al pari del Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito
di innamorata estasi simigliante a quello che fu verso l'Astro la Luce il
Calore, e onde il suo mito s'era originato in una mente ingenua e
profonda; — se mai si creò, fu l'anno 412 sopra una scena greca, auspice
l'amor della Polis. Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e
di vivezza. Il senso religioso è, — già si vide più volte,
294 VI. - KALYPSO — intrinseco al mito, che anzi se ne
informa. Esiste fra i due concordia come di gemelli. La quale si
svela però non molto jjrofonda. Le si oppone anzi tutto l'essere il sacro
uno bensì, ma uno solo, fra i caratteri della saga ; ch'è ben piti
ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è elle il carme inspirato
alla fede tende inevita- bilmente a sviluppare un membro della leggenda
a scapito degli altri, tende a farne vibrare una corda sola. E la
contemplazione del mito da un punto vicinissimo, ma cosi accosto da non
per- mettere più che una visione unilaterale. Tal incompiutezza è
grave; ma v'ha di peggio. Il mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza
; non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua crosta, ma
serba un'apparenza di rigidezza e di immutabilità. Somiglia la formula
d'un culto, che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo l'altro. Il
pensiero e il sentimento religioso in vece sono di lor natura non
statici, ma energici d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita
stessa in una delle sue sublimazioni migliori. Presto, raggiungono, — se
non presso tutti, presso talune menti alte al meno, presso l'inspi-
rato poeta della fede quasi sempre, — uno stadio superiore, e forse di
gran lunga, a quello onde il mito si generò. E allora v'è contrasto.
V'è bisogno di eliminar una figura, di scemar la crudeltà feroce
d'un dio, di togliere il carattere umano al cordoglio d'una dea : si deve
informar il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap- presso
Pindaro Chirone esita e sorride e si at- teggia a loico furbo, prima di
dir la sua pro- fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare
l'evoluzione della mitopeja letteraria 295 leggendario
rimane, non alterato ; ma il pensiero critico lo discute e ne dubita: che
è in appa- renza guasto minore, maggiore in realtà. Per quel modo,
difatti, lo spirito cessa di riviver la leggenda immergendovisi : la
projetta lungi e fuori di sé, se la contrappone: per qualche
istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo. Simile, Euripide
dinanzi l'oracolo Ammoneo che ha indotto Andromeda preda succulenta al
ketos. Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede alla saga:
il tradizionalismo mitico e il moder- nismo religioso scendono a un
compromesso: e possono, fin che sono entrambi avvolti da una
atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi avran dissipato
quell'atmosfera, i Padri della Chiesa si rideranno dei miti: e vi
rinverranno l'indizio d'una religione povera e bambina. Come
la religione, cosi erano inclusi, fin dalle origini, nel mito l'elemento
sensuale e il psico- logico. Poi che i fenomeni della natui-a si
ve- stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il mare
acquistavano volti membra ed atti nostri, essi divenivan senz'altro
passibili di figurazione sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione
nel campo della psiche. Analizzare e graduare i sen- timenti di un
Perseo non è se non completar l'opera di chi lui, uomo, ha veduto
nell'Astro. Perseguir con compiacenza, nelle particolari movenze di
grazia femminea, Cora mentre rac- coglie i fiori, o descrivere con tocchi
accorti le brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in- torno a Cirene
nelle case cristalline di Penco, non è che un rinvigorir di sangue,
spremuto dalla profonda voluttà umana, le creature cui
296 VI. - KALYPSO ha dato un sesso il mito. Se non che, anche
per questa via la fiaba si trasforma: essa diviene un modo di dire,
una frase efficace per signi- ficar un pensiero o una intuizione, una
forma vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade- guatamente,
a volta a volta. Perseo, — è l'esempio già scelto, — può vestire di sé e
delle proprie avventure esteriori un ideal personaggio di Eu-
ripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di molti individui. Cora, —
è l'esempio già usato, — si muove con la leggiadria un po'
stereotipa della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori ama
e fresche cascatelle e aromi salienti dalla eulta terra: è scema di sé
medesima, un'altra è penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è
fit- tizia, perché non è la prima, antica e vera. Per ciò Vergilio
sceglie, a caso o con arte, le com- pagne di Cirene da un repertorio di
nomi ; — e non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a un
colore, non svela una persona. Demetra che piange, e di cui si regola il
pianto con magistero di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era
anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce il bisogno di sminuire, se
non proprio soppri- mere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di
creare fra Andromeda e Perseo una scena novissima, di plasmar un
altro gesto a Cirene: nasce per- sino la spiacevole inopportunità
dell'intervento di un Nume, in sul finire del dramma, per scio-
gliere, con atto oltreumano, una situazione di- venuta umana.
Accanto a questa, che la psicologia e il sen- sualismo gittano sul
mito, è singolare la luce che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo,
in l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 297
alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura personificano e
di cui con la loro vicenda ren- dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più
agevol- mente. In pochi in vece si altera e deforma forse tanto la
saga. La Dea delle biade non domina su la vegetazione lussureggiante, non
vi regna, qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del quadro.
Vive la sua vita di donna, non sopra, ma in mezzo alle messi che
significa e possiede: parte d"un tutto che pur dovrebb'essere
rajDpre- sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che si duole
nella valle di Tempe, maravigliosa di rigoglio verzicante, tiene su i
pastorelli un privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni
antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è per altro uno di loro.
L'erba gli cede sotto il passo similemente. La cintura dei monti lo
com- prime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra- versare i
regni del nonno, le sedi di cristallo, gli antri muscosi, cune di fiumi,
roridi recessi ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre
ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro della natura acquatile e
pastorale che af figu- rano, ma una cosi fatta magnificenza è
concre- tata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo con
perpetui doni ; li circonda non li costituisce. La bellezza e il primato
sono altrove che nelle persone di entrambi : — nella Natura,
effettiva protagonista, cui convergono lo slancio del poeta
innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si direbbe che il mito ritoma
alla sua sorgente; ed è vero : ma colà la Natura riprende il posto
che i suoi impersonati rappresentanti le avevano oc- cupato. E una
restaurazione. 298 VI. - KALYPSO Dalla sorgente,
in vece, è lontanissima l'eru- dita sapienza di Properzio. La leggenda
diviene, nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi con
un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio, nel nostro studio, di
quanto essa possa, senza scemo di pregio letterario, stremarsi della sua
vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte si ritrova in una sala
dal lacunare eburneo. La qual cosa non toglie che ivi appunto il
rispetto al mito sia cànone più severo : per crescere al magistero
verbale pregio di finezza e di virtuosa agilità. In vano; che altra vi è
l'aria; e son tramutati i tempi. Più in là, si ritrova, fra
più ampio volume di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,
la Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.
Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce troppo da Livio, Livio da
Diodoro. La lor critica e il loro metodo sono diversamente
insufficienti. Ma un intuito comune li induce a sopprimere, nel
mito, talune scene e a servirsi a tempo di certi silenzii, pel fine di
non arrecare una sto- natura sensibilissima nell'insieme
dell'edifizio che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono alle
loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i Minii ; i Gracchi, Caco. Quando
le leggende non hanno ancora una storia per sé, si adattano in quel
letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual le raccorcia, esuberanti
come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro
incoer- cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono la lingua,
conoscono il passato, partecipan co- l'evoluzione della
mitopeja letteraria 299 scienti al presente del loro paese, pur
avveden- dosi del carattere favoloso di taluni racconti, pur
sentendosene costretti a scemarlo, ritengono impossibile dar a quelli
l'ostracismo totale con l'espungerli da gli scritti che compongono.
Livio giunge persino a dichiarare in anticipo che non vuol esser
chiamato responsabile di quanto narra per gli antichissimi tempi; — ma
narra tuttavia. Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),
il vero che si cela sotto il velame; — ma ripro- duce tuttavia il velame.
Del fenomeno una spie- gazione sola è possibile: il pubblico esige
la parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio patrio, ne
va della consuetudine. L'orgoglio : che non ammette si ignorino le
origini prime della propria stirpe, le vicende antiche della
propria città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti; che
si sente sodisfatto, — assai piti che dal contenuto stesso della fiaba, —
dalla sua forma di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi
meglio della realtà; che ritiene di non poter conoscere la vita dei padri
se non traverso la tradizione eredata da essi. E la consuetudine:
ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto la specie del
misoneismo, alla ricerca innovatrice del dotto; e ricalcitra, sotto la
specie dell'orto- dossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da
un nuovo pensiero religioso o filosofico. Tucidide do- veva saper
di spiacere quando negava un nesso fra Tereo, del mito di Filomela, e
Tere degli Odrisi signore di Tracia (1) ; ma era da lui l'af-
(1) Tucidide II 29, 3. 300 VI. - KALTPSO
frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di fatti la vigoria
d'una tale niente può bilanciare la resistenza che, per tradizione
patriottica, è insita nella leggenda. Che se parallelo a tal
risultato appare l'effetto dell'amor nazionale sul mito, i due
fenomeni però sono distinti. Il poeta, che canta la saga patria, o
nella saga introduce opportuni accenni alle patrie vicende, serra un
legame, tratto dal cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e
il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato : sospira il presente
nell'antico, e sotto le luci dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe
mae- stosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del re savio
regnante Evandro: imagina la spada del guerriero cadere, simile alla
clava d'Ercole, contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo sto-
rico in vece accade appunto l'opposto: per lui, il mito emana su su dalla
storia, come una causa su dagli effetti, una premessa su dalle
conse- guenze: j)er lui il mito è una preistoria, una motivazione.
Il nesso genetico di causa ed ef- fetto, ch'è insito nella storia ancor
quando si manifesta sol grossolanamente in un nesso di precedenza e
susseguenza cronologica, orienta nel suo indirizzo anche la concezione
della saga, e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede
tra il contemporaneo e l'antichissimo, è per lo storico in vece un
dipendere causalmente del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la
lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un rito di carattere greco,
e la leggenda dei Minii e di Tera e di Batto è una necessaria e
suffi- ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo
IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 301 valgono : perché
giustificano. E il loro valore di motivi è cosi grande, che si accettano
come ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la fede su la
veridicità del lor contenuto. Si fatta deformazione del mito, per
cui il ca- rattere etiologico di taluni suoi particolari e, qualche
volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il nucleo stesso, e lo tramuta in
causa storica, segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle
origini. La saga aveva avuto negli inizii impor- tanza per sé : stava
oltre gli scopi pratici, riflessi in parte nel culto, e i bisogni
scientifici; supe- ravali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi
un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta officio consono alla sua
natura; tanto che, pur connettendosi con etiologie cultuali, mantenne
su di esse il suo primato di bellezza e di forza, presso poeti quali
Vergilio ed Ovidio. Quando alla fine si trasforma nella pura e
semplice causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini, cessa
dalla sua indipendenza, acquista un che di cerebrale fra le idee, perde
molto d'imaginoso tra le fantasie. IV. — Il flusso e
riflusso delle saghe. In seno al possente spirito mitopeico
lette- rario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto della
nostra recente esperienza, talune tappe ed erigemmo le precipue pietre
miliari, s'opera un continuo nascere maturarsi ed estinguersi di
saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte e di vita cui
sottostanno gl'individui umani nel 302 VI. - KALYPSO
grembo deirUmanità , che s'è originata e deve a sua volta
perire. Tale assiduo flusso e riflusso è libero ; non perché non lo
determinino sempre forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio
è schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo disegno ; ma
perché nessun nodo della contessi- tm'a è prevedibile, prima del suo
stringersi, o analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi è del
pari degno d'istoria; v'accade regresso in rapporto al livello mediano
della mitopeja, e anche progresso: entrambi in diverso modo no-
tevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte, ch'è comune a quella
ricchezza divèrsa. Il mito, — ciò è, — ha due vite ; o forse
vita duplice. Una è la sua più propria: e consiste nella capacità
di evolversi, di assumer forme nuove luci nuove sensi nuo^à, di
concretarsi in individui diversi: spirito di molte sostanze.
L'altra è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in- dividuo:
della Pitia IV, del canto Vili nel- l'Eneide, della lirica properziana,
del racconto di Livio. Uno stadio dell'evoluzione non elimina i precedenti,
né li comprende solo in potenza, ma li lascia sussistere in tutta la loro
realtà concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste due vite
pare uniformarsi a leggi diverse. La vita seconda, delle singole
individuazioni mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale
s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com- ponimenti e il
sopravviver loro. Onde il carme d'un poeta non affiora alla superficie
che per la strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu più
povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche tra i superstiti l'arte
conferisce più a l'uno che IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE
303 all'altro il primato, con decreto che non si di- scute e
che finisce col condur, tal volta, a pre- valere una redazione e col
tramutarla in volgata. Fece cosi Pindaro per Cirene, Vergilio per
Caco, Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori d'ogni vero
rapporto cronologico, oltre ogni effettiva consistenza di strati e
importanza di varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-
riore si aggruppano intorno a quella cui più riser le Muse, come forme
incompiute d'uno stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra :
di bellezza. E da tutte in selva risplende il mito. Tra questa folla non
è morte, fin che sieno occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi
pe- renne la vita, perché ogni forma è capace d'im- pulsi, e nella
diversità degli spiriti sono impon- derabili gli effetti suoi. I\n. è
serbato il seme dei sopravviventi miti; e la virtù della razza, che
diede la passione onde nacquero ; e la virtù del suolo del cielo
dell'aria dell'acqua del fuoco, che diede la materia onde si fusero. Di
li ritor- nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta all'anime
come iddìi giovinetti e belli: fantasmi radiosi ai nexDoti nella veglia
nottui-na. La prima vita in vece non è né cosi varia né
altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa secondo una linea chiara.
Durante lo svolgersi della quale però, — ed è sua prima
peculiarità, — permangono al mito, quasi irrimediabili stim- mate,
i segni che furono del suo nascimento : resistenti oltre ogni deformarsi.
La saga di Ci- rene, che sorse imperniandosi su la Libia e la
Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lon- tane la sua sorte ; e
par che fino la più profonda 304 VI. - KALYPSO
violenza recata al suo schema confermi quel carattere regionale.
Similmente, per essersi for- mato sopra un compromesso e in una
contami- nazione, il racconto siracusano di Cora rapita si mischia,
negli anni, in una sempre più larga massa di favole. E allo sviluppo di
Caco deriva modo storico e religioso, quando prima s'insedia, col
suo nome, la sua memoria nei pressi del Palatino. Anzi, il vero inizio di
un mito, qual forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto
dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo per sempre
caratteristico. Onde la trama di An- dromeda non è da vero compiuta, non
pure nei particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro- pria, se
non allorché gli spunti novellistici si immettono nel contesto
naturalistico, — a prepa- rare per l'avvenire la triplice serie di
innova- zioni, psicologiche romanzesche e religiose. Quasi
entro gli argini cosi definiti si muove la corrente del tempo. E di mano
in mano che la storia della paganità procede, che il pensiero
pagano si trasforma, anche la saga è amata sotto aspetti differenti. Nel
V sec. a. C. De- metra e Cora son narrate con intenti di gran lunga
dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspi- rano Claudiano e l'età sua.
Ogni generazione distende sul mito una propria vernice : che è un
particolar modo di vederlo. A noi poco è j)er- venuto di questo
stratificarsi perché non ogni strato ha lasciato la sua traccia
letteraria (e artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando, in
sintesi rapida, il processo spirituale del mondo antico : a ogni tappa
corrisponderebbe, se la ri- costruzione fosse riuscibile nei particolari,
una IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 305 foggia
mitica, — e sia pure a pena diversamente .sfumata dell'anteriore, o a
pena diversamente disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di
esse, nesso causativo, porremmo la sintesi crea- tiva per cui
l'intelletto comune, innovandosi, si è superato. Il caso
opera poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in
mente di trattar l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto il suo
proposito si potesse tradurre in atto ; che non esistesse un grande poeta
quando il mito di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di caso,
perché a volta a volta risulta dall'interf erire di due linee causali la
cui interferenza non con- segue da nessuna delle due premesse. Dal
caso pertanto deriva, che non tutti gli strati della evoluzione
mitica hanno " lasciata traccia let- teraria (e artistica) „; e che
qualche strato ci ha tramandate tracce più profonde e più varie.
Del mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra due trame
sostanzialmente diverse, la pindarica e la erodotea; il quarto non ce ne
concede al- cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra- manda
ben cinque quadri con varianti colori e linee; l'età di Giovenale
nessuno. Vergilio ir- radia del suo patriottismo il racconto,
Properzio della sua raffinatezza, Ovidio della sua sonora
compiacenza verbale, Livio della sua ingenua critica, Dionisio del suo
impotente razionalismo; ma queste luci tutte scaturiscono
dall'opere complessive nelle quali esso viene inserito e
dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava che altre ne potesse
assumere e che ancor taluna di queste potesse non aver assunta.
A. Feeeabiko, Kalypso. 20 306 VI. - KALTPSO
Attinenze fra l'evoluzione spirituale comples- siva
stratificantesi sul mito, e le forme casuali della leggenda, esistono
visibilmente. Il modo con cui i posteri di Ferecide di Vergilio di
Ovidio di Callimaco amarono e ripeterono le saghe di Perseo di Caco di
Cora di Cirene deriva, come dalla trasformazione compiutasi nel
xDensiero collettivo, cosi anche dalle pecu- liarità dell'arte con cui
quei letterati, dopo che il caso gl'indusse a eleggere la fiaba
all'opera loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra quella che
dicemmo trasformazione del pensiero collettivo, e questa che potrem
definire energia plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali
d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela letteratura d'una
generazione compie su la ge- nerazione successiva, non sono se non
alcuni degli effetti che tutta la mentalità della prima compie su
lo spirito della seconda. Vale a dire : il fenomeno mitico-letterario
avvenuto per l'in- terferenza casuale di due linee causali
riprende, fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa.
Indi si spiegan anche, facilmente, le morti dei singoli miti :
quelle pause del loro evolversi per cui si sospende il ritmo vitale onde
parevano spinti alla trasformazione né si riprende che tardi,
quando oramai è chiusa a sua volta la mitopeja pagana. — Non è dubbio
difatti che una saga qua! siasi continua, più fioco più intenso, il
suo respiro fin che il genio mitopeico è una operosa realtà. Ma per
l'appunto quel che di- ciam caso fa si che le manifestazioni
letterarie di ciascun mito si arrestino a un certo punto, oltre il
quale bruiva forse ancora il susurro, non IL FLUSSO E
RIFLUSSO DELLE SAGHE 307 più sonò il canto. Prova tipica, che non
ve n'ha forse più palmare, è la storia del mito di Caco : languido
già in quel torno di tempo che segna il suo fine, si circonda poi di
silenzio se bene seguano ad Augusto epoche di culto intel- lettuale
di esumazione erudita di compiacenza artistica in cui l'abigeato violento
e fumoso avi'ebbe potuto, — possibilità vana, — trovar non
manchevoli espressioni. Persino i germi dissolutori insiti nel testo di
Vergilio e, più, di Ovidio e, peggio, di Dionisio, tolleravano svi-
luppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe mancato, di cui in vece
manca fin l'eco. — Op- posto ammaestramento porge la fiaba di Cora
e la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre sotto il cielo
d'Omero si levavano vie più fre- quenti i crociati segni di Cristo, tenta
di pos- sedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma il crollo
dell'edificio male eretto non travolge pure la perizia artistica di un
uomo, pare in vece che si ripercuota funereo fra peristilii e celle
dei templi cui men frequente stuolo di fedeli e men pio animo di
sacerdoti rende l'o- maggio: già che, allora, la mitopeja pagana
sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso
terminando, quindi, in questo se- condo esempio, la vita favolosa; ma,
rigida causa, l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge, del
pensiero collettivo e delle passioni. — In un rosajo si sfanno di molte
corolle senza che scemi il vigore delle radici e l'ascesa della
linfa pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il settembre, con
cieli più chiari e men caldi, gli ultimi calici si reclinano su foglie
vizze su cor- 308 VI. - KALYPSO tecce
aride su stecchi rigidi, e odore di dis- solvimento è nell'aria : il
cespo si addorme nel- l'imminenti brume. V. — La
fine. Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che non è
scomparsa, ma fine di produzione. Ces- sando d'immortalare afferma la sua
mortalità. L'agonia comincia con un periodo di rior-
dinamento, in cui i miti non si moltiplicano ma si assommano, e che è già
iniziato quando l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del
resto, le stesse qualità psichiche proprie dei Greci : di ordine di
armonia di chiarezza. Qua- lità che furono per fortuna, nel principio,
assi- stite da una levità di tocco e da un rispetto per quanto è
bello, i quali impedirono che le si tra- mutassero tosto in ruvida
villania distruggitrice di fiabe. L'esempio più notevole ci fu
offerto, in queste pagine, da chi raccolse in unico con- testo
tutto che si riferiva a Perseo: la novella della sua nascita, cui è
congiunto il fatale as- sassinio del nonno, la lotta contro la
tenebrosa G-orgone, il duello con la belva del mar etio- pico. E
un'attività solerte e diligente, cui poco sfugge, e che ogni occasione
cerca per compiere, compaginando rinsaldando, la sua galleria di
dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo della verginità
comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E
sovra tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.
309 Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta
né meno. Al contrario, tal volta crea: inven- tando, per unire due
leggende, un passaggio accorto ; dissimilando due fiabe troppo
visibil- mente sorelle, a fin di poterle narrare Funa ap- presso
l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi- nando una circostanza, per
colmare un vuoto ; innestando un particolare nuovo su altri più
antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma verbale perché a cotesti
ordinatori di miti non cada nel pensiero di trovarle un posto nel
rac- conto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella del ladrone,
e spia dell'abigeato. Andromeda è il troppo trasparente riscontro di
Atena a canto di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,
perché non abbia a essere (e con questa altre cause v'influiscono per
diversa via) trasformata, e mutata in amante. Affinché però
un cosi fatto procedere si man- tenga utile, è necessario, da un lato,
che le va- rianti da comporre in ordine intorno a un mito non sieno
strabocchevoli di numero o irriducibili di forma; è necessario,
dall'altro, che l'amoroso rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto.
Col cessar di queste due circostanze l'attività assom- matrice
prende a divenire impotente, perché il suo compito s'è di troppo accresciuto,
e deleteria, perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo motivo
essa si riduce a una compilazione che, come presso Apollodoro, deve
limitarsi a citar le varianti inconciliabili con la volgata, a ri-
cordar Demofonte per preferirgli Trittolemo, senza riuscire né ad
eliminar quel d'essi che sia soverchio né a superare il dissidio
contaminando 310 VI. - KALYPSO e creando. Non
anche creando : però che la forza creativa scompaja in una colla simpatia
con- corde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito diviene
oggetto di erudizione, opera di dotto lo scriverne, ufficio di memoria e
vanto di facoltà tenace il serbarne i modi e i nomi di persone e
luoghi. Ora, quando il mitologo ha esausta la forza
inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza delle fiabe, la sua
attenzione è tutta rivolta alla forma di esse, ai j)articolari, cioè, il
cui va- riare costituisce fogge nuove della saga, e per- sino alle
sfumature. Ma per ciò appunto la sua credenza si sposta : non può più, come
nel prin- cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha una
redazione di ciascun mito cui sola presti fede, ma di ciascuno ne scorge
parecchie : deve in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la so-
stanza, su quel che, in breve, è comune, oltre ogni variante. Le vesti si
mutano sotto i suoi occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto
somiglia quello che segue alla deformazione storica del mito. Quando
difatti l'artista non è più intento a perseguir, nei carmi, di
eleganze ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad eleggere un
suono per ciascun colore; quando della fiaba interessa il fatto ch'ella
contiene, per la storia, e il fatto poi vale come causa : allora le
vesti adorne e diverse cadono; im- porta il corpo. — Ed ecco il
razionalismo dare, in entrambi i casi, una veste nuova a quel
corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più seria e dignitosa. Il
mostruoso aspetto di Caco, la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al
pascolo, LA FINE 311 il furto e la sua astuzia,
la lotta risonante sotto il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto
im- mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due, e i due
nomi: Ercole e Caco. Su questi la com- piaciuta furberia del loico
intesse un'altra sua trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itine-
rarii con le norme d'età posteriori, concepisce le tempeste invernali
proibenti il tragitto alla flotta erculea: crea una fiaba nuova su
l'antico scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi,
cosi, dalle stanchezze della mi- topeja, come un sentiero costrutto su
scorie, il mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita non
fosse troppo tarda. La saga di un Ercole errante per monti e piagge, in
imprese di ca- valleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,
non minore forza di vita che la leggenda del- l'eroe solare. Quel che le
manca è l'aura d'intorno: per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda
non è ancor morta, quando essa saga si forma; e, rimanendole al
fianco, le è assidua pietra di paragone. Per superarla e sostituirla, la saga
deve difendersi discutendo, far valere palesi le sue origini logiche non
artistiche. Onde il suo vero e mortale scapito : però che la logica
chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa; l'arte, fra gli antichi
in ispecie, d'essere imitata. Quindi è che il razionalismo non genera
figli morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col soffocarle di
greve afa, le sue creature fin dalla cuna. A questa capacità
distruttiva, che il raziona- lismo rivela a suo proprio danno, non
corrisponde una eguale potenza deleteria per le belle favole:
312 VI. - KALTPSO che diviene esso della fiaba la
foggia estrema. Né pure allora si serba indipendente; vive anzi
come un parassita accanto ai testi dei poeti e degli storici. In tarde
età riflessive il lettor di Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro
fan- tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del suo sostrato.
Dice: '' due eserciti si son combat- tuti nel Lazio, condotti da Ercole
che vinse e da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace espri- mere
altrimenti il fatto, approfittando della sua libertà „. pure dice: "
Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo
significa il vate con frase adorna „. E, se ha sensi di gentilezza,
s'india nell'espressione libera e nella frase adorna. Il razionalismo gli
ha fatto da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito. Ciascuna
leggenda avrà molte di queste giu- stificazioni; qualcuna ne cercherà in
vano; tutte ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in cui la
saga vive, soccorre, pur nella sua esigua e stentata energia, le forme
più antiche, più belle e da più possente alito nate. Malefica è
appena quando in una mente rozza, distruggendo intorno a sé, predomina
sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i motivi del
morir la mitopeja pagana. La favo- letta pretensiosa del razionalista è
tutta conte- nuta nell'ambito di una esperienza soda della pratica
umana: prova, l'esercito eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito,
che non possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento umano; non
delle esteriori fogge sociali, ridotte per quello a poche linee sommarie
e a rapporti LA FINE 313 semplicissimi ; non
delle tortuosità e dei meandri intimi all'anima: giacché nelle prime
porta il razionalismo una imaginativa più nutrita e più competente,
consona ai tempi progrediti e agli instituti nuovi evoluti; nelle seconde
reca una certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile acume
del psicologo, è sopra, d'assai, all'in- genua intuizione primitiva. Ma
vanitoso di questa sua prestanza su la leggenda, il razionalista
non s'avvede d' una inferiorità che la compensa : smarrendosi in
lui pur ogni traccia del feno- meno naturale come potenza che
trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e di moti,
come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti aspetti ha,
quando il razio- nalismo regna nella mitopeja, trovato ad espri-
mersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può quindi, e deve, venir
separato dalla saga, in cui né anche l'uno dei tre vien più avvertito, —
se non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evi- dentemente,
dunque, è venuta meno la condizion prima ch'era stata già bastevole e
necessaria al nascer dell'attività mitopeica; la condizione per cui
lo spettacolo della Natura, nel punto che lo spirito umano lo assaliva
per esprimerlo in sé, non disponeva per cotale manifestazione se
non d'una imprecisa conoscenza degli avve- nimenti umani onde era, nel
suo grosso, assomi- gliato; la condizione senza cui la spontaneità
mitologica si allontana nelle tenebre d'un pre- tèrito memorando.
Se non che la fine della spontaneità mitolo- gica, che cosi si
spiega, non è la fine dell'inte- resse spirituale verso il mito,
interesse dal quale 314 VI. - KALTPSO
trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Nel secolo VI a. C. e
nel V vedemmo fioriture mi- nori di saghe in forza di questo interesse;
tanto forte ancora nelle masse da indurre regnanti e poeti a
foggiare e contaminare fiabe per accre- scimento di lor potenza e di
favore. Più tardi, se non induce a creazioni novelle con l'imitare
le prische e il ricomporle, spreme però nelle guise più varie, secondo i
gusti più diversi (se- guimmo nei particolari tal opera),
molteplici aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e ogni
aroma si esala in seguito a una alterazione, e una alterazione ognuno
prepara; e dalla vi- cenda vasta si conferma la forza vitale del
genio mitologico e del mitopoetico. -- Ma lo storico, che sa l'uomo e le
sue potenze nei limiti oltre che nei modi, da questo adoperarsi
dello spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega, deducendo,
dopo la fine della creazione spon- tanea, il termine della ripetizione
devota. Di- fatti, ogni volta che un nuovo compiacimento attrae
l'antico verso la saga, quando il patriot- tismo lo lega ad essa, e la
sensualità lo diverte di essa, e la fede se ne turba, e il senso
psico- logico la scava; ogni volta, una virtù di quella appare
splendendo, — e si esaurisce vanendo : perché, al pari d'ogni passione,
patriottismo fede sensualità, energie indipendenti e non fa-
ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma da ogni letizia si
sdanno per un'altra che sia nuova, e dopo aver succhiato il sangue
migliore degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci vuoti
di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli approcci si rinnovano su una
su vénti saghe ; LA FINE 315 le energie si
succedono, ad una due, a due dieci; il culmine si attinge in cui il
groppo pro- fondo dell'anima è uncinato dal mito : ma poi la patria
l'amore l'altare cercano ostie diverse, e canti di altro suono si
intonano in loro ser- vaggio. Nel suo complesso lo spirito dei
Gentili si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene a poco a
poco estraneo e si immerge in altre creazioni ; s'aprono nuovi stadii
spirituali in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a
foggiarsene e a riempirne un altro : — mag- giore. E il
disinteresse mitopeico: la seconda morte che la storia deve registrare
nelle sue pagine. Non è, né pur essa, senza compenso; però che una
resurrezion i)arziale pare la segua. Quando, e come, e perché, non è qui
luogo opportuno a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi fa
opera d'indagine letteraria nei secoli più re- centi e nel nostro
raccoglie le tracce e cumula le testimonianze della terza vita. Qui si
elegge la figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin, che
rivide con questi nostri occhi mor- tali il Centauro, avendolo i fragori
marini e l'albe di perla e le sere di ciano educato allo spettacolo
insueto. Egli potè dalla imagine fa- volosa esprimere nuove bellezze poi
che, con- cordando col mito nella sensibilità viva della natura, vi
seppe scernere làtèbre occulte, ove languiva la mestizia nata dalla
coscienza della propria debolezza in confronto con le cime sfio-
rate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di Kalypso,
ritrovata la spola d'oro. Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,
316 VI, - KALYPSO che sé con vigore asseriva pagano,
vide Ninfe e Driadi egli pure ; eran però fuggiasche, e l'a- nelito
del suo cuore si compose prima in sdegno violento contro la presunta
causa della fuga, — Cristo, — che in ammirazione amorosa verso le
bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo, Versilia ninfa
boschereccia deve dire, sbucando da l'albero, " Non temere o uomo „;
e il rim- pianto strappa biasimo fiero avverso chi " più non
vede gli antichi numi italici : vivon eglino pieni di possanza; hanno il
fiato dei boschi entro le nari „. Ma non è giusto il suo rim-
proccio; il cuore non si sfa nel petto " come frutto putre „. A lui
medesimo, che pure vi portava, nuova, la sua sensualità ferina e
tor- bida e tormentosa, il mito, creatura fraterna alle stelle ed
ai sogni, sembra vanire implaca- bile, senza che il vanto e le promesse
d'un'arte " magnifica „ e fin troppo cosciente della sua
maraviglia valgano a fermarlo un istante, — né meno presso le ruine del
tempio antico, e l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne
tronche. '' Si allontana melodiosamente „. Perché? — Eumene
di Cardia, nell'età dei Diadochi, l'anno avanti Cristo 321, sogna,
innanzi a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di Demetra,
avversa ad Atena, e l' imposizione di una corona spicea. Il di seguente i
soldati si ricingono tutti del segno augurale; e la pro- messa
divina incita i cuori, come il calcagno i cavalli. Sei secoli dopo,
Costantino annunzia (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione
fati- dica in hoc signo vinces ; e lo sprone è uguale. Eloquenza
del fatto minore ! Nei petti si muta la 317
fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le credenze adusate e
(è la forma di scetticismo lor propria il mutare credenza) altre ne
accol- gono al posto; scompare l'aura benigna in cui si
moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il terreno fecondante
ove ne penetravano le radici. E accade che il valore religioso della
fiaba, il valore che sembrava, ed era presso molti, scom- parso e
ottenebrato, si riafferma non per rav- vivarla ma iDer offrire appiglio
alla sua distru- zione. G-li eroi non avevano cessato di essere, —
nel profondo delle coscienze, al meno, — iddii scaduti; e con gli iddii
vengon ripudiati, di mano in mano che la Divinità si schiarisce e
si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con Demetra. Il resto opera la
scienza. Non la nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma tutte,
le rispettate durante i secoli come vere e come sole, sostituiscono nelle
menti la loro ve- rità e il loro equivoco alle interpretazioni fan-
tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo e mito pagano, che un
appagamento della cu- riosità pel fenomeno poteva ancor stringere.
L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcoba- leno di Noè condannano
Caco ed Iride, come Sansone soppianta Perseo. — Si che l'elemento
scientifico, insito nella saga (se non intrinseco a lei) fin dal suo
nascer, contribuisce con il religioso al suo perire, quando l'una e
l'altra sete umana, di sapere e di credere, abbian tro- vato
altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa della
mitopeja, stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, in-
dottesi le masse per diversi cammini; non restan 818 VI. -
KALYPSO più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simi-
glianti per sostanza o per forme ai pagani, e l'ammirazione nostra nata
da l'erudito ricordo. Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo
di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi. E noi siam piccola
schiera ; bramosa in vano di quella fresca e ingenua maraviglia, onde
s'ori- ginò la saga ; volonterosa in vano del passionato amore, fra
cui si svolse ; pallida, dinanzi l'ombre crepuscolari ove si rifugian
labili le figure fa- volose evocate un istante, pallida di accorata
nostalgia. Restano anche le storie dei miti e la storia della
mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte di nostalgia.
LIBRO II INDAGINE i
Avvertenza. Ho procurato che la bibliografia speciale
dei suc- cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo
Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del pregevole o
dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve in vece di tenere per la
bibliografia generale su gl'in- dirizzi varii che intorno al mito si
combattono per opera degli studiosi, su i problemi di metodo e di
ermeneu- tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi
etno- logi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier difatti
quest'altra bibliografia un grosso volume mal ba- sterebbe; e persino una
scelta, oltre ad essere in parte arbitraria, usurperebbe grandissimo
spazio (1). La omisi dunque presso che intera, salvo pochi accenni
sporadici; né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo
Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto- rica; tale, ciò è,
che la posizione da me assunta di fronte alle varie correnti e agli
opposti principii degli studii mitologici deve risultare, non da
discussioni teoriche e generali, bensì dal giudizio particolare recato
nella in- dagine e nella storia dei singoli miti. (1)
Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il recentissimo lavoro di
Luigi Salvatorelli Introduzione bibliografica alla scienza delie
religioni (Roma 1914): lavoro che, per il nesso intercedente fra religione
e mito, riesce utile anche per chi studia in particolare
quest'ultimo. A. Ferrabino, Kalypso. 21
CAPITOLO I. Andromeda. I. Il racconto di
Ferecide. — Il problema che si pre- senta primo intorno al mito di Perseo
e Andromeda con- siste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide,
del quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste la
narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno in Serifo e
dell'impresa contro Medusa ; ci è pervenuta anche, nella medesima fonte,
la parte estrema delle vi- cende cui Polidette ed Acrisio andarono
incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso ; ma difetta del tutto
l'av- ventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. IV 1091. 1515 =
Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'. I 75-77). Ma la parte mancante del mito in
Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza bastevole, con l'uso del
testo di Apollodoro (II 43-45, Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare
che per tutto il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e
quel che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima
simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Bi- blioteca possa
supplire senza errore né equivoco la lacuna ferecidea.
324 I. - ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener
presente che il mito di Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio
di Fe- recide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste, ci
resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che
in quest'ultima debba essere qualche particolare pili che in quell'altro.
Ma ciò può anche pro- varsi ne' singoli casi. — In due punti ApoUodoro dà
a lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire la
paternità di Perseo a Giove, riferisce — senza espli- cita preferenza —
che altri l'attribuivano a Prete fll 34); 2. dopo aver raccontato
l'uccisione di Medusa per opera di Perseo, testimonia d'un'altra
versione, per cui la Gor- gone è uccisa da Atena (II 46). Ciò mostra
ch'egli aveva presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un
tempo che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione che
forse non si sarebbe notevolmente scostato da una fonte importante
qual'era Ferecide senza avvertircene in modo aperto. — Di ben lieve
natura difatti son le varianti che, senza l'avvertenza dello stesso
Apollod., separano il suo racconto da quello degli scolii citati.
Nella Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa del
capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa- f^eìag T^g Oivofidov
ydfiovg (IT 36) ; nello scolio (IV 1.515) si parla bensì àQWMQavog non
delle nozze : ma par chiaro che l'omissione è qui dovuta solo al
riassumere , tanto più che in entrambe le fonti Perseo fa
spontaneamente la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi
in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce che non gli dà nello
scolio (IV 1515) : evidentemente chi riassunse omise questo particolare ;
e difatti la falce è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è
per recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando la
Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, — Steno, Euriale e
Medusa, — là dove lo scolio (IV 1515) IL KACCONTO DI
FEEECIDE 325 dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. (Il
41) narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna a guardar
Medusa nello scudo per non esserne impie- trato, mentre lo scoliaste
riferisce solo che gli dèi Er- mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ]
zìjv KecpaÀìjv àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov ; quando in Apollod. (Il
42) dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso, di cui
tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più estesa fa rifugiare
Danae e Ditti in Serifo su l'altare (II 45), mentre la pili concisa
omette a dirittura ogni accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la
gara in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teu- tamida
(II 47) re di Larisa in onore del padre defunto, e nello scolio in vece
si fa cenno solo a un àyoyv vétov iv Tfl Aagioar] (IV 1091). Unica più
profonda discre- panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò
nel pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio) ^v. Ma
qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco diverse : contro la
tradizione che ricordava un pentatlo polemizza lo scoliaste e la sua recisa
negazione fa a suf- ficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la
quale dev'essere a punto o la ferecidea accolta da ApoUodoro altra
analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno scoliaste introduca
tacitamente una correzione nel testo che riassume e di cui cita
l'autore. Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra
Fere- cide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse identico
(salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli particolari) alla
versione apollodorea anche l'episodio di Andromeda, del quale gli scolii
di Apollonio Rodio tac- ciono. Ed è adunque legittimo valersi di
ApoUodoro per colmare la lacuna nel racconto ferecideo. Col
possesso in tal modo conseguito di una redazione comparativamente antica
del mito di Perseo e, in par- 326 I. - ANDROMEDA
ticolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie
per cui la critica deve procedere nel suo esame : però che la natura
stessa del racconto orienta l'analisi intorno a Perseo, prima ; ad
Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ; ad Atena e alla Gorgone Medusa, in
séguito ; a Cefeo Fineo Cassiepea, da ultimo. IL Perseo. — Le
imprese di questo eroe sono nu- merose e varie nell'apparenza, ma un
occhio esperto non esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide
l'avo; decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la
madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma
parecchi fra i consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia
considerato l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi :
che al sole com- peta la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi
del Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tene- brosi che
ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può esser per criteri soggettivi
negato, ma non deve più esser ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech.
Gesch? I 1, Absch. VI Mythos und Religion e G. De Sanctis Storia
dei Romani I cap. Vili Religione primitiva dei Romani e cap. III
Gl'Indoeuropei in Italia. Un eroe solare ri- tiene difatti Perseo, a. e.,
0. Gruppe nella sua Griech. Mythologie{\). Né sono
sufficienti, anzi non sono valevoli , le argo- mentazioni in contrario di
E. Kuhneet, in Roscher Lex. III 2, 2025: giacché egli dimentica la
differenza profonda (1) A parte (e, secondo noi,
insostenibile) sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d.
relig. „ LXI (1910) 219 : * Perseus ' le destructeur ' n'est sans doute
qu'un vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée comme
Vakinekés l'était chez les Scythes „. PERSEO 327
e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli spunti
novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto. A questo
proposito sarà anzi bene osservare che, per reagire agli eccessi di
quegli studiosi che in ogni eroe videro un dio solare e un fenomeno
meteorologico in ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero
nel- l'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na-
turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo significativo
di questo secondo eccesso è l'articolo di R. Sciava in " Atene e
Roma „ XVI (1913) 226 sgg. Assai equilibrato era in vece il saggio del
Comparetti Edipo e la mitologia comparata Pisa 1867. Ma è notevole
che quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato e l'origine
della Sfinge (pag. 71); e quel primo, trattando di Bellerofonte, non
spiega la Chimera: entrambi quindi appajono per ciò stesso attenti a un
aspetto del feno- meno mitologico non a tutti. È quindi
metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al naturalismo come
alla novellistica (1). Il pro- blema poi intorno alla priorità dell'uno o
dell'altra entro le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso;
in parte è d'indole generale e vien trattato in questo vo- lume nel
libro I cap. VI. Qui diremo solo, in breve, che l'intuizione
naturalistica suppone una grossolana cono- scenza della natura e
dell'uomo, mentre la novella è già densa di più larga e più ricca
esperienza umana. Co- munque, procureremo, dopo queste premesse, di sceve-
rare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei varii nuclei in
cui abbiam veduto per sé stesso spez- zarsi il racconto di Perseo.
(1) È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré-
viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. , XllI (1886) 169 sgg.
328 I. - ANDROMEDA III. Acrisie, Prete, Polidette e
Ditti. — Nel rac- conto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e
ricostrutto dalla critica, attira fortemente l'attenzione il
particolare della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal
Pelopon- neso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa
la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov in onore di
Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R. IV 1091). Si son sempre in ciò vedute
tracce d'un'influenza tessa- lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert o. c.
2023). Ma ben più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,
dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grand- fragen der
Homerkritik^ 223, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo
tessalica ["Aqyos JleÀaa- yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si
danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare
con l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono a
questa attribuiti, — è molto probabile che l'Argo di cui è re quell'Acrisio
che la stessa leggenda peloponne- siaca fa pertinacemente morire in
Larisa sia, in origine al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi
e cri- tici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con pro-
babilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un
equivoco di cui altri casi furono già constatati e che si ripresenta con
i caratteri consueti. Da questa constatazione fondamentale traggono
rilievo alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito , il cui
valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali
son pure, a un tempo, riprova della verità di essa ipotesi. Cosi fatti
sono: 1. la discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà
notizia Apoll. I 88, in un luogo che non è, come il II 34 sgg., sotto
l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la nascita di
Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra- tello di Acrisie : sulla
quale informano Apoll. II 34, ACKISIO, PRETO; POLIDETTE E
DITTI 329 che riferisce questa come una tradizione parallela
alla ferecidea, e lo Scoi. A II. S 319, che fa risalir la notizia a
Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiara- mente iutravvedere
una forma della fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae sono personaggi
tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pe-
lasgico, quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e
assicurato al nucleo originario del mito l'intervento di quelle due
figure. 11 secondo particolare poi è d'importanza anche maggiore. Per
esso noi dob- biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice
Zeus padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non
possiamo non propendere a riconoscere carattere argo- lieo nella prima,
ricordando quanto nei miti e nella vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus
abbia parte, cosi che fin " Argo „, l'eponimo del luogo, è figlio di
lui (Esiodo fr. 137 RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr. 22,
MùLLER FHG. I 74). La tradizione pertanto che dice di Preto sarebbe da
ritenersi, in contrapposto, tessalica, e quindi anteriore a quella su cui
gl'influssi peloponne- siaci son già palesissimi. E poiché col delitto di
Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie
irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche que- st'altro
spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora
da Ovidio Metani. V 236-41 ; i quali riproducono una tradizione già
alterata da elementi estranei introdotti dalle genealogie
peloponnesiache, per cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad
Acrisie addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto
appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli il rilievo
ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che potrebbe essere, come
riteniamo, posteriore al suo tras- porto nell'Argolide insieme con Perseo
e Acrisie. Anzi la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega
forse 330 ANDROMEDA
anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo ana- logo a
Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era poco noto in sul
principio e ove potè localizzarsi solo obliterando il proprio valore. Che
però, velatamente, ap- pare anche nella connessione con i Liei C Luminosi
,) in cui egli è posto dtiìVIliade Z. Tuttavia gli elementi
cosi sceverati, che appartengono potrebbero appartenere a uno strato
tessalico della leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a
provare di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro
non dessero modo di trarne un racconto organico e coerente, che potesse
reggere al paragone di altri svolgimenti mi- tici e novellistici
analoghi. Ora è notevole in vece che, tenendo conto dei materiali
tessalici, espungendo le in- serzioni argoliche, si giunge a ricostruire
la trama com- piuta d'un mito: — serbate le due figure di Acrisio e
di Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è an-
teriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; — serbato l'oracolo
delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R. IV 1091) che diviene anche più dicevole
per la vicinanza e le at- tinenze fra Delfi e la Tessaglia; — serbati
Ditti e Po- lidette figli di Magnete, onde si acquista anche
sufficiente notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;
— serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei:
— ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e si raccomanda
quindi tanto per la sua localizzazione geo- grafica uniforme quanto per
la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se
allo strato tes- salico a quello peloponnesiaco abbia a farsi
risalire il nome e la figura di Danae : giacché se il secondo caso
fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse un nome e una
figura più antichi. Ora se è certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e
le Danaidi, cui Danae si riconnette senza dubbio, costituiscono un
vigoroso e ACRISIO, PRETO, POLIDETTE E DITTI 33l
caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la presenza di
Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R. I 1212 e Antonino
Liberale 32. Va pertanto conchiuso che Danae può appartenere assai bene
allo strato tes- salico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai
fini della ricerca presente il vagliare il problema mitico di
Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi in- torno alla
primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra ottimamente.
Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratifica- zioni
distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch'è intorno ad
Acrisio e alla sua morte. Né è dif- ficile stabilire l'epoca approssimativa
in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è,
come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete
tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne
deve dedurre che come l'età tarda del passo lascia buon margine alla
leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa antichità, — giacché
anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abba-
stanza vetuste, — fa risalire non poco nei tempi l'inter- vento del
Peloponneso. Non rimane adunque che studiare partitamente l'uno e l'altro
strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato pelopon-
nesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico consiste non
tanto nel cercar le cause singole dei sin- goli nessi instituiti fra il
mito di Perseo e il Pelopon- neso, quanto nel graduarli cronologicamente
per seguire passo passo, fin che è possibile, il processo di
penetra- zione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze
si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex. Ili 2, 2018 sgg. ; cui mi
richiamerò volta a volta). Ora non v'ha dubbio che al complesso di
piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella
stessa Argo 332 I. - ANDROMEDA non che in
Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la diffusione del culto a
Perseo e alle figure che a lui si attengono miticamente. Ed è del pari
certo che cotesta germinazione di miti secondari sul ceppo del
principale dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e
propria della leggenda le peculiarità locali non han po- tuto trovar
posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo a Serifo : per cui è a
priori possibile cosi che il culto abbia preceduto la leggenda onde ivi
son localizzati Ditti e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel
primo caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo abbia
toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel secondo
caso in vece rimarrebbe senza risposta la domanda che chiedesse il motivo
onde Serifo fu dai mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine
all'Ar- golide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame della
genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun che (Febeo, fr. 13 -=
Scoi. Apoll. R. IV 1091), come di quella la quale contiene bensì
riferimenti a Danao e all'Argo- lide, non a Serifo. Nel mito primitivo il
luogo donde Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza
dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più tardi la
localizzazione dev'esser divenuta più esplicita, e sappiamo che nella
Magnesia s'era trovato il punto dicevole, — di cui per altro ignoriamo il
nome. E non e improbabile che questo fosse tale da determinar per
ana- logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole che
sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne- siaca. Pure accettabile
sembra l'ipotesi che la scelta avesse un motivo unicamente geografico —
l'est — ; ma è ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si
guarda all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo-
tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale supponesse un
intervento di casualità. Il problema rimane ACBISIO, PBETO,
POLIDETTE E DITTI 333 dunque senza soluzione recisa. A ogni modo
Serifo deve essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco
perchè vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché lo
stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto, bisogna ritenere
che questi due punti fossero ben fissati già quando il culto di Perseo
prese a difiondersi per tutto il Peloponneso. Un momento
successivo è occupato dalla saga di Ti- rinto (Apoll. II 48). Questa saga
non si sarebbe dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto
assunto importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, co-
stringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra parte se era
plausibile che, — come si disse da quelli, — dopo aver ucciso il nonno i
e d'Argo, Perseo si ver- gognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era
facile legittimare la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio,
se a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor- tato
forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore nell'Argo
peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di Perseo
e Megapente mostrano en- trambi che i personaggi della saga tessala
attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte
l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Mi- cene p. e. : Pads.
II 16, 3), che sfuggono al racconto di Apollodoro, testimoniando per tal
modo la loro recen- ziorità. La sanzione definitiva però
dell'insediarsi nel Pelopon- neso, specialmente nell'Argolide, il mito di
Perseo, i; data dai genealogisti. Combinando Apollodoro (Il 21. 47
sgg. con Ferec. fr. 13 e 26 -= Scoi. Ap. R. IV 1091) risulta il
seguente schema che può valere come volgata su questo punto :
334 I. - ANDROMEDA DANA.0
Linceo ^ Ipermestra Lacedemone Abante 1
1 1 Euridice 1 ~ ACRISIO
1 Prkto Zeus ~ Danae
Megapente PERSEO ' ^ Andromeda
Posidone ^- Amimone Nauplio I
Damaatore I . I I Pericastore
1 I Peristene -^ Androtoe I Alceo
Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette I III
Anfitrione -^ Alcmene Euristeo Ippotoe I ! ERACLE
Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i
punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert o. c. 2023 vi ve- deva
la riprova che Acrisio e Preto sono originarie di- vinità argive
(predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe dorico più recente Eracle,
non senza che nel contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della
diversità dei ceppi. Ma se al Kuhnert si può concedere che tardo
sia l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può
consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi
occupano nello schema genealogico è ben motivato, ma da tutt'altre
ragioni che la lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva
riportar sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto
era possibile; ma due generazioni dovevano necessaria- mente intercedere:
una, quella di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Più oscura
resta la presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano
elementi per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe in
Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti
di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. ACRISIO,
PEETO, POLIDETTE E DITTI 335 B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di
lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog
tò IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v
7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia
''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito evidente,
un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma è del pari evidente che un
motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli
l'introdu- zione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può
esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella Pelasgiotide
tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi concorda bene
con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide
: — territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò è
probabile, ne deriva che Abante potè essere impor- . tato in Argolide in
una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la
presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. — Per Ditti e Polidette non si
trat- tava in vece che di porli nella medesima generazione di
Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne
l'accoglienza: e a ciò valsero nomi come quello di Nauplio, — eponimo di
Nauplia, — di Damastore, — padre dell'argivo Tlepolemo in U. 21416,
— di Peristene, — sposo d'una danaide Elettra in Apoll. II
19. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra
Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente peloponnesiaco) ed
Eracle (meno anticamente pelopon- nesiaco.', cosi i matrimonii fra i
figli di Perseo e le Sglie di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert o.
c. 2033) rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto
eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che la leggenda fa
superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone; Cirillo c. lui. X
342; Agost. de Civ. XVIII 13; 336 I. - ANDROMEDA
Scoi. Totr. IL 5" 319. Questa dev'essere la leggenda più
an- tica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert o. c.
2016-17) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo penetrato in
Argolide]. Che se però lo strato argohco può esser suddiviso
in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre
occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a gittar, di
fatti, molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero nel mito e
che sono tutt'afFatto no- vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo
di sostanza naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso,
deve valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G? I 2, 63) della
nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene forse sia eccessivo precisare
di più, in ciascuno di questi casi è chiarissima la ragione per che
Perseo, l'eroe so- lare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo
inne- gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca
di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o, più latamente,
della vergine che contro un esplicito di- vieto divien madre e paga il
fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola creatura è svolto in
larga dif- fusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo
spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca in- tuizione del
succedersi dei soli, intorno al delitto di Perseo contro il nonno. —
Ugual carattere novellistico si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è
se non il generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi
vana postilla quella di Ferec. fr. 26 òiy.Tvi>) àÀievmv) e la
cui natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa- store
agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo abbandonati alla
violenza delle forze naturali. Potrebbe bensì pensarsi anche a una
divinità pescatrice (cfr. la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass
presso Wide Lahonische Kulte 126 e il Gruppe Gr. Myth. 254). Ma il
con- ACRISIO, PRETO, POLIDETTB E DITTI 337 testo
della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre che il caso sia per
Ditti analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile carattere
novellistico offuschi un an- tico sostrato naturalistico. Certo in ogni
modo che per quel primo carattere non per questo sostrato Ditti
entrò e rimase nel mito di Perseo. — Altro è di Polidette : questa
stessa forma verbale si rintraccia difatti in un attributo di
Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios " Jbb. Phil. , CXXIII
(1881) 302 ha creduto di identitìcar con Ade appunto anche l'ospite di
Danae e Perseo. L'ipo- tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano
due re- strizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che
Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da
epiteto si trasformasse in fratello; ma tenendo conto del folk-lore e
delle sue forme consuete, è da pensare invece che originario fosse
Polidette, il cui significato trasparente fa intra vvedere un fondo
natura- listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della
saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione da darsi, io
credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo con Danae. Il Crusius
difatti, col far gravitar tutta l'im- portanza del mito su questa, la
riteneva simbolo del- l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (=
Ermes) libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del mare
o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie- gazione di entrambi
esiste rispetto a Perseo in un con- cetto unico. Nel fatto l'eroe solore
Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi,
soprav- venuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un
doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere Acrisio non
pur dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra, dalla regione
sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattività di Danae
presso Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità A.
Ferrabino, Kalypso. 22 338 I. - ANDROMEDA
sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo la diversità
di Ditti e di Polidette, la tradizione fere- cidea che li fa fratelli e
figli di Magnete par che si debba spiegare come un atto unico di
elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per la sua positura
astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del
padre, e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno.
Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui vedemmo i
successivi momenti, e il tessalico, di cui ten- tammo scernere gli
elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un lato una
fiaba di schema consueto e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato
appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando,
ce ne darà conferma. IV. Atena e la Gorgone Medusa. — Gli
elementi che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quel-
l'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata da Argo e il suo
ritorno, sono tutti a un tempo elementi jonici. La Dea che lo protegge è
Atena, la quale ci ri- porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è
Ermes, di cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher
nel suo Lex. I 2, 2347 sgg.); il mostro che combatte e vince è quel
medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade {Iliade E 740); il luogo
onde si muove è Serifo, colonia di Joni. A questi dati fanno buon
riscontro le notizie che per altra via si posseggono intorno al culto di
Perseo in Serifo (Paus. II 15, 1, per le monete cfr. Head H. N'^
490), in Atene (Kchnert o. c. 2019-20), in Mileto (Strab. XVII 801 cfr.
Erod. II 15, Edrip. Elena 769, Kuhnert 0. e. 2021): — in Mileto,
specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché
anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi
all'infuori di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre
che ATENA E LA GORGONE MEDUSA 339 quell'episodio
dev'essersi formato in territorio jonico; e che per conseguenza la sua
formazione è posteriore ai principii dello strato peloponnesiaco, del
quale appare un effetto. Quanto è probabile questo risultato
tanto par certo il contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni
abitano (presso [Esiodo] Teog. 274 sgg.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo
èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per- tanto
evidenti mostri delle tenebre e della notte (1) che dicevolmente si
contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. Là presso si devono
ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole
{Odissea a 22-24) (2). A Nord, ma con egual significato tenebroso,
stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr.
Tzetze Chil. VII 695) (3). Non è dunque dubbio, anzi tutto che
l'avventura contro le Gorgoni si riconnette pel sostrato naturalistico e
con l'uccisione di Acrisie e con quella del kìjtos (v. sotto) ; in
secondo luogo che quando in territorio jonico il mito di Perseo venne
im- portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza noto e
chiaro. E da origine rintracciabile con probabilità derivano
anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che Atena avesse sul
suo scudo il capo di Medusa non è spunto vano: il suo valore di Dea nata
dal cielo e in (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u.
Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo
stesso tema non merita d'esser citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom.
TJnters. {= " Phil. Unt. „ VII) 17. (3) Cfr. Knaack
" Hermes , XXV (1890) 457. — Su gl'Iperborei v. 0. Schròder "
Archiv f. Religionswiss. „ VIII (1905) 65 sgg., A. KoETE ibid. X (1907)
152 sgg.; Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. ' CXXXVII (1908) 520..
340 I. - ANDROMEDA particolar modo di Dea del
temporale (Beloch Griech. Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto,
cosi che vi fa trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le
tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto al
mito di Perseo, se Eurip. Jone 991 la ricorda e Apoll. II 46 è costretto
a farne menzione. E, — ultima riprova di un fatto già a bastanza palese,
— anche quando alla Dea si sottrae il merito della vittoria contro
Medusa, a lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo
(Ferec. fr. 26 e Apoll. II 41). — Se non che il capo di Medusa è pure su
lo scudo di Agamennone in //. A 36. Pensando alla natura prima di lui
(Beloch Griech. Gesch? I 1, 162) si potrebbe supporre per lui un'antitesi
con Me- dusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me- dusa.
Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo della Gorgone diventò ben
presto un costante e diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica
e di tradi- zione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è
coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men- zionata per
lei in //. E 845 ("■^'■^os KvvérJ. — Di natura diversa, e
novellistica, sembrano in vece e i calzari alati e la Kifiiacg e
l'episodio delle Graje. Queste non sono mostri analoghi alle Gorgoni
bensì tipi esagerati della vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi;
ma perché un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene
[Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet. 795; Apoll. II 37; TzETZE a
Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre. Accadde però che la
parentela con le Gorgoni e la pa- ternità di Forco traviasse i critici;
che vollero in gran numero ritener le Graje personaggi naturalistici
(Rapp in RoscHER Lex. 1 2, 1729 sgg.). Ma bisognava prima pro- vare
(e la prova manca) che la parentela e la paternità sono originarie nel
mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje e le tre
Gorgoni (di diversa origine) CEFEO FINEO E CASSIEPEA 341
trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò per
farne i personaggi di una pre-avventura, la quale trova moltissime
analogie, e le depositarie di alcuni ta- lismani, che ritornano sotto
mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. — Ufficio analogo (e analoga
origine per con- seguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e
la falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi a
Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes do- veva essergli
propizio, come quello che quando si scontrò con Perseo aveva caratteri di
dio della luce esso pure (Beloch Griech. Gesch}l I, 160) (1). Mentre
inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi
novel- listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera
della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo. Riassumendo,
dunque : l'episodio di Medusa nel mito di Perseo pare concepito in
territorio jonico; è, nel suo fondamento, senza dubbio naturalistico; ma
coi perso- naggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si
mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i
talari); e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche
quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella.
V. Cefeo Fineo e Cassiepea. — Gli elementi onde è costituita la
impresa di Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai più
incerta che quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a
prescindere dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur
ai (1) In quanto al valore originario di Ermes lascio
qui intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A. II pag.
97. — Ricordo anche Roscher Heìines der Wind- gott (Leipzig 1878) (cfr.
l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott (Leipzig 1908) che
determinò una polemica appunto col Roscher. 342 I. -
ANDROMEDA dati tardi delle genealogie e delle saghe
secondarie, la diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto),
la constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in-
ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri- torio forse di
formazione e probabilmente di diffusione di quell'episodio mitico. Molto
più deve dire un esame delle figure singole. La lotta di
Perseo contro il v,f}zog è, — bisogna a pena osservarlo, — parallela per significato
all'impresa av- verso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da
attender notizia intomo a un Nume che in quell'avventura com-
piesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi fatto nume
sarebbe anche, per pura indagine etimolo- gica, da ravvisar in Andromeda
, nel cui nome è non dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma
validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst. „ X 52
; KuNHERT 0. e. 2047) in cui Andromeda appare non legata, vittima
prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso
l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che
sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir "
aju- tatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né la
comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve stupire: è ovvio che
la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni
posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma
che esso aveva pia anticamente assunta. — Questa ipotesi però
intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto evidente da indur
meraviglia che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato
(Kuhnert o, c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio
da quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è chiaro che
l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non potevano, nella veste più
arcaica, venir raccontati l'uno CBFBO FINEO E
CASSIEl'KA 343 appresso all'altro senza
che se ne dovesse notare, sùbito, la simiglianza strettissima: quindi il
bisogno di dissi- milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il
facile innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no-
vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode che la salva
(si ricordino le epopee cavalleresche). — Se non che alla medesima forma
vetusta e primordiale del- l'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu
veduto dianzi (v. sopra pag. 339) come le sedi loro nella con-
cezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E tanto più qui il
loro ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni richiamavano,
sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe
stato in- dizio locale bastevole. È cosi preparato il terreno
a giudicar di Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo)
sono tali da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più a
fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll. II 144, di Paus. Vili 4,
8. 23, 3. 47, 5, di Apoll. R. Argoti. I 161 sgg., che tutti lo fanno
figlio di Aleo, eponimo di Alea in Arcadia, e re di Tegea; le monete di
Tegea appunto, in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in
Roschee Lex. II 1, 1114): fissano in modo esplicito per l'età
storica la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Ar-
cadi (1). In particolare poi Paus. Vili 23, 3 asserisce che da Cafeo
avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il problema, — che non in
questo caso solo si presenta alla critica, — fra le attinenze reciproche
de' due nomi non può esser risolto fin che manchino notizie sul
culto di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri-
(1) Cfr. W. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens I (1891)
60. 65 sgg.; che mi sembra però superficiale. 344 I. -
ANDROMEDA vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo
quelle attinenze non sono da negare. — E queste notizie sono non
infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. 586 sgg. ove Cefeo è àn:'
^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v OTQazov : perché nell'Acuja
dobbiamo ravvisare uno dei punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor
dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor
del- l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,
cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte- nendone in premio
la perenne salvezza del suo dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza
antica, se già Alcmane fr. 72 Bgk.* {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs
Nelmann] àvda- où)v) ne aveva sentore : cfr. inoltre Apoll. II 144,
Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda
irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja, fra Cefeo e
Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto, sembra, il trasporto di lui
in Beozia: scoi. B a lliad. B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^
^aav v' . 11 TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113
esclude, — senza peraltro addur motivi, — che queste parole de-
rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una combinazione tra
le 50 figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi
alle sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima
di Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su
Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è difficile chiarire
la genesi, — posto che equivoco di nome non siavi, — della notizia
serbata in quello scolio. Le genealogie (1) che esamineremo più tardi (v.
sotto) uni- scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per
(1) Queste genealogie sono studiate ampiamente, se non
acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „ XXXIII (1913) 53
sgg. CBFKO FINEO B CASSIEPEA 345 eccellenza: con
Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia.
— Tra queste no- tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a
Sparta alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri-
terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo arcade è secondo
Ellanico (fr. 59 = scoi. Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero =
scoi. MTA a Eurip. Fenice 150; contro l'opinione del Tumpel a. e. 1109)
figlio di Posidone; e secondo Apoll. Ili 102 fratello di Licurgo
(per contro di Licurgo è figlio presso Apoll. I 67). Questi dati
genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia,
cosi concordano del tutto e con il suo ca- rattere di re degli Etiopi (v.
sopra) e con la probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si
voglia riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici
lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la
natura d'una divinità ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata
o abitante nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge
il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di
Cefeo in Arcadia dev'essere la più an- tica, come quella con cui va
tuttavia connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che
mito e nome ri- velano del pari. — Mentre però il nesso fra Cefeo e
gli Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an- tichissimo,
non si può dire altrettanto del nesso con An- dromeda. In vero se questa
è sul principio 1' " ajutatrice , di Perseo, solo quando, — e fu,
come si vide, assai per tempo (v. sopra), — l'avventura dell'eroe contro
il xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa
lo- calizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo,
Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a
costituire, per sé soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza
di Fineo e Gas- 346 I. - ANDROMEDA siepea
, per non sembrare un' intrusione superflua deve venir giustificata con
l'indagare partitamente il valore di quelle due figure.
Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si tratta
del tipo novellistico della " millantatrìce „ (cfr. TùMPEL in
Roschek Lex. II 1, 993) che compete in bellezza con le dee e ne è punita
in sé o nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla
non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi è
indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta
(miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene
sostituita a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e,
altrove (Esiodo fr. 23 Rz. ^), fatta discendere da Thronie, l'eponima
d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B 533. Si
sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice
e Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi
cultuali e geogra- fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son
con- seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel
quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser beota [o. e.
988 sgg.). — Ma se la " Millantatrice , è originariamente estranea a
ogni luogo, essa anche con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non
per con- tiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli-
stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che la sua presenza
accanto Andromeda risalga a quel mo- mento in cui la figura di questa
viene appunto novelli- sticamente atteggiata nel tipo della vergine che
un prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti
diven- tava necessario giustificare in qualche modo la cattività
della fanciulla; alla quale il vanto della " Millantatrice , potè
divenire argomento sufficiente (contro Tumpel o. c. 989-90). E solo a
traverso Andromeda si strinse il legame CBFEO FINEO E
CASSIEPEA 347 di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa
ipo- tesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e in
quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio d'un'antica e
diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa
R.-Encr VII 2417 sgg. ha messo a sufficenza in luce il sostrato
naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle Arpie di Elios
e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi venti del Sud, che il Sole
suscita apportatori di nuvole e di danno, contro i venti del Nord , che
insorgono a respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo
settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento alcuno onde
possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel mito di Andromeda,
all'infuori del contrasto che è fra la sua figura e l'eroe solare Perseo
: contrasto che rendeva anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. —
Ma se le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-
traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a l'estremo
occidente, la sede geografica di lui fu rintrac- ciata sul Ponto quando
divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto settentrionale conosciuto
(cfr. le testimo- nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex. Ili 2, 2354
sgg.). Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po-
poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch
Griech. Gesch} I 2, 71) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile
anche l'ipotesi, — contraddicente quella cui si pervenne pur ora, — che
il nesso fra Fineo e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato
naturalistico ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante
degli Etiopi in senso geografico. — Senza dubbio però le tracce che
si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso Apoll. Ili 97 ove Fineo
è figlio dell'arcade Licaone e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è
rex Ar- cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo
348 I. - ANDROMEDA e determinate da questo. Né
giova a sostegno del con- trario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e
le Arpie ; perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo
de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi erano unificati in
un solo aspetto leggendario ; ma dob- biamo, giusta i pili savi e moderni
concetti critici, rite- nere che in luoghi diversi esistessero divinità
analoghe parte simili parte dissimili, senza che la località del-
l'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre. Restano ancóra
da indagare le attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema
critico si presenti in tutta la sua complessità. A tale scopo è
necessario rico- struire lo schema genealogico la cui esistenza sia
presu- mibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli
citi (1) del RoscHER Lex. II 1, 986 sgg. e 1107 sgg.) ha con- siderati divisi
e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach^) 31 e 23. E ha pertanto
ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo questi due
schemi : I (fr. 23) : Tronie ~ Ermes
I Arabo I Cassiepea II (fr.
31) : Agenore I Cassiepea ~ Fenice I
Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab, I 41-2: — che per
vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed Arabi
sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì (1) Che han
per fondamento, insieme con l'altro art. del Lex. II 1, 293, il voluminoso
saggio dello stesso TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. XVI (188?)
129 sgg. II concetto essenziale di questo saggio (che nella più
antica forma del mito la sede dell'episodio di Andro- meda fosse Rodi) è
stato, mi sembra a ragione, confu- tato dal KuHNERT 0- e. 1021-2.
CEFEO FINEO E CASSIEPEA 349 TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà
fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv ol voui^ovreg zovg
"A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg
'&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene
dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te : perché, — dice, — non
v'è corruttela di testo; v'è bensì mutazione di nome dalla più antica
all'età posteriore. Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in
vece év KaiaXóyqj conosce Arabo: Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio
...KTé [fr. 23]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi
di Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an- cora ai
tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). — Di questo passo l'interpretazione
non può essere, pare, che una : Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di
Arabo, figlio a sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si
lascia fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,
degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il nome esiodeo
d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu- fioio sia la regina degli Etiopi
moglie di Cefeo ; onde integra il fr. cosi: Tronie ^
Ermes 1 Arabo I Cassiepea ~-
Cefeo 1 Andromeda. Se non che nel luogo di Strabene gli
Etiopi non costi- li) Il nome si supplisce da Scoi. Apoll.
R. II 178 e Anton. Lib. 40. 350 I. - ANDROÌWEDA
tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. — \Ì7tò yàQ
xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo- yovat, oUvcùg
ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl TÒ aacpéateQOv
TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol 'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv
olèTcl&dzegov fié- Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò
TiQÒg AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, — continua, — per tal
motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero: in causa, ciò è,
della lor vicinanza con gli Etiopi, citati nel verso medesimo : to-ùtoìv
(twv 'E^efifi&v) eluòg fie- fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg
vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal
TtQÒg zovg Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E
pa- rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj-
filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. — Come si vede, gli Etiopi servono a dare
un'idea della positura geografica degli Erembi {^QÒg) e a fornire un
motivo dell'averli Omero ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual
si voglia identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato
posi- tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la
discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia spiega un'altra,
poco appresso (I 43), da cui è a sua volta integrata. " Vi sono
alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv
fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~ ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai
' oi> ór'jnov xar' ay- voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv
^v&ov fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq)
aul zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano
adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli
(1) Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust. Cotnm.
in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono
occupato, che ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto
a parte. OEFEO FINEO E CASSIBPBA 351 Etiopi fra
i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi questo fatto è che in
Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31 Rz.^) quella Cassiopea che nel mito
di Andromeda è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo
lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse ad essere moglie
di Cefeo : né si vede a che condurrebbe, COSI fatta interpretazione, se
non a confonder il testo altrimenti chiaro. — Concludendo, da Strabene,
ben letto; può risultar soltanto: 1) che Cassiopea era figlia di
Arabo in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per- messo
unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente schema esiodeo
: I-f II (fr. 23 + 31): Tronie -^ Ermes I
Agenore Arabo j I I Cassiepea -^
Fenice I Fineo. Nel quale schema, analizzando si
ravvisano svibito ele- menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed
elementi principali raccolti nei due nessi " Cassiepea-Fineo „
e "Fenice-Fineo „. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da
spiegarsi al modo medesimo del nesso " Arabo-Fenice , "Fenice-Egitto,
; come, ciò è, un avvicinamento di numi eroi creduti eponimi o
rappresentanti di popoli stra- nieri. — Ma il primo di quei nessi non può
legittimarsi se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo
e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non servirebbe che ove
tutte le altre non fosser riuscibili). E difatti un'affinità si vede
sùbito tra le due figure invise agli dèi e dagli dèi punite : l'una come
" millantatrice „; l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più
poi per- mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione
352 I. - ANDROMEDA addotti a spiegar la pena di
Fineo. Tre sono : Fineo avrebbe preferito una lunga vita alla vista ,
offendendo Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via
a Frisso (ibid.); Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le Simplégadi gli
Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il 305 sgg.). Ora è ovvio che il
terzo motivo è ricalcato sul se- condo, e molto tardo ; che il secondo è
posteriore alla localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ;
che il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di questo
motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando il sostrato
naturalistico delle Arpie e di Fineo andò inavvertito ; giacché prima era
sufBciente a tutto legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non
è pertanto improbabile che in quell'età comparativamente non antica
in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli- stici a fin di motivare
l'antitesi tra Fineo e la luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al
prezioso dono del ve- dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga
ma di- versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio (1
), Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia
esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si connettessero
primamente per i motivi or ora supposti, sia che si connettessero poi,
traverso Fenice, al par del quale Fineo era considerato eponimo di popoli
stranieri. Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in-
dagini, veniamo a importanti ipotesi : a) Cassiepea (1) offre al
mito di " Perseo (ll)-Cefeo (III)- Andromeda (Etiopi) , uno spunto,
ed entra in quella trama (pag. 346sgg.); b) Fineo si unisce a
Cassiepea (I) per lo spunto no- (1) L'ipotesi è del mio
maestro G. De Sanctis; la re- sponsabilità dell'argomentazione è
mia. CEFEO FINEO E CASSIEPEA 353 vellistico che
trova in questa la causa della pena di quello ; o, in linea secondaria,
col marito di Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere
(pag. 352); e) Fineo si unisce a Perseo (II) come nume del
bujo ad eroe solare ; o, in linea secondaria, a Cefeo (III) come
rappresentante di genti straniere. Di questo triplice rapporto
rimangono le tracce sen- sibili : a) nel racconto ferecideo del mito di
Perseo ; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e
specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è una
matassa confusa di cui bi- sogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo
a sé, e d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a
sostrato etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la
loro natura evidentemente tarda è tale, che ove ac- canto a una di esse
se ne possa ravvisare un'altra a so- strato naturalistico o novellistico,
a questa è da dar la preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo
gruppo è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso :
Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio Fineo (h);
questi è condannato a venir superato in duello da Perseo (e). Un terzo
gruppo infine è costituito da quest'altro racconto, esso pure coerente e
conchiuso ; Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5
Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo è testimoniato
in Ferecide (■= Apollodoro) ; il pili ipote- tico è il secondo : esso
suppone in vero e una variante su la causa della pena di Fineo (v.
sopra), e una va- riante su questa pena medesima : vale a dire tutto
un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di coteste
varianti non è affatto improbabile nella ricchezza di produzione mitica
originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e insieme, tanto la
discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e
Fineo; A. Ferrabino, Kalypso. 23 354 I. -
ANDBOMEDA discendenza e duello che si potrebber bensì
giustificare pensando per l'una a un errore di genealogia, per
l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però che
non ci saprebbero render ragione né della singolarità per cui l'errore
sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico può ottimamente
congiungere, né della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne
il protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece l'equivoco
si può ammettere solo ove sieno confusi ele- menti tra sé inconciliabili
e discrepanti; e la preferenza casuale si può concedere solo quando la
preferenza lo- gica sia impossibile; dobbiam conchiudere che
l'ipotesi nostra, — pur non pretendendo di rispondere con esat-
tezza alla verità né di essere perentoria, — spiega al- meno nel modo che
pare pili semplice tutte le testimo- nianze che sono a noi conosciute. E,
— ultimo vantaggio, non piccolo, — ci fa intendere come il secondo gruppo
e il terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si
fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un
racconto unico, in cui Cassiepea si vanta (a-b), la figlia di Andromeda
ne è punita e Perseo la libera (b) col tradimento di Fineo che è ucciso
da Perseo (e). Dopo le quali conclusioni, non resta che da
determinar conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi
secon- dari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo e
Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica : 11. / 381 Od.
d 85 i 295; e sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i
personaggi delle genealogie. Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr.
Stoll in RoscHEK Lex I 1, 102-4). Se si prescinde da II. A 467 A 59
M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con
una non dubbia consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son
tarde cosi CEFEO FINEO E CASSIEPEA 355 ci dan
una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze chiare con miti,
con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi insignificanti e
punto caratte- ristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv. 9, 4)
singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-
nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo (Pads.
II 16, I 14,2; Apoll. II 1, 2; Igino Fav. 145; Ellan. app. scoi. A II. F
75) o un Agenore avo di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads. VII 18,
5) un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Ar- cadia
(Apollod. Ili 92) un Agenore etolico figlio di Pleurone, genero di
Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav. 244), se
rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia
sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a
prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere l'Agenore etolico,
il problema consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi
introdotto nella genealogia di Cefeo e Fenice per motivi di contiguità
geografica con il primo d'essi e con Danao ; oppure se la presenza
sporadica del nome di lui negli schemi del Peloponneso sia
posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del-
l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento
naturalistico-novellistico o sopra base etnico- geografica, sembra da
preferirsi la congettura che in quest'ultimo caso rientri anche Agenore,
in qualità di rappresentante dei popoli che abitavano la Troade ,
grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo simboleggia :
congettura che è confortata dal nesso di Agenore con le genealogie ove
appajono Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.^ I
774). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo
a noi pare, quel che affermammo nell'inizio (pag. 342). 356
I. - ANDROMEDA 11 personaggio fondamentale di questo
episodio mitico, Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che
come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si
diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa il mito, se pure
non è quella ove si crea. Fuori da quel- l'area, come fuori da ogni altra
stanno, o possono stare. Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda,
"maschia „ prima, in seguito vittima del n^rog : personaggi
novellistici della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi
poi la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle
quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il risultato
rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale, credemmo tuttavia di
manifestarlo e sostenerlo : sia perché ci parve tesi rispondente, meglio
dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo
validi; sia perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto
possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana. VI. I
miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed Ellanico (frr. 159. 160). —
Che il nome di Perseo sia stato a bastanza presto collegato con i
Persiani, non può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare
i particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti anzi
tutto Erodoto VII 61, 2 : — 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1) ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv
Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^
AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa
xòv Bì^àov, nal è'aj^e aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^
nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei '
èvóy- ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni
zovvov oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: —
'Aliala, (1) Sogg. : " i Persiani I
MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO 357 Ile^aixìj %(JiQO;
tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av- ÓQOf*édag [= Stef. Biz.
'AQTala). Le due notizie concor- dano nel rieonnettere il nome Persiani a
un Perse {Usq-' aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di
quel popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che
ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo, Artaferne, ecc.
(cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924. 929) : quindi non v'ha alcuna
difficoltà critica a spiegar la presenza di questo nome nel mito. Ma
Erodoto ci dà di pili un nome di " Cefeni , : con cui gli Artei (=
Per- siani) sarebbero stati noti presso i Greci : — in cui però non
è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év ax^fiavi
fiv&ov. Popolo di Cefeo eran, — come si vide, — da principio gli
Etiopi ; quando però Perseo e Per- siani furono avvicinati dalla
leggenda, si era già troppo localizzata geograficamente 1' " Etiopia
„ a sud dell'Egitto perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e
Persiani. Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare
un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „. Questi, secondo
logica, avrebber dovuto equivalere agli Etiopi „ : e tale concetto
ritroviam difatti presso Stef. Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e
'/otti; (cfr. inoltre FHG. m 25, 4 e GGM. II 375); in realtà però
furon concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca-
lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda non parla di
Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca- lizza fra i Persiani non
parla di Etiopi. Solo più tardi (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza
del vario con- tenuto de' due termini, entrambi si usano
indifferente- mente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex. II 1, 1104,
ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accetta- bile). Va
pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per- siani dai mitografi, dopo
che Perseo s'era fra essi per mito etimologico insediato; e che quel nome
non ha 358 I. - ANDROMEDA quindi alcuna
analogia con l'altro , di ben diverso va- lore, Artei (1).
Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz. XaÀóaìoi)
XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi- nért ^òìVTog,
(Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v
sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit] TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol
èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà XaÀSaloi. — Il soggetto di àvéoTrjaav
qual è? Dev'essere XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul
Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.^ Ili 2061-62).
L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi
antichi a connetter, senza alcun altro fondamento che verbale, i due
popoli lontanissimi. E, come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti,
da questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che
tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide
occupavano le rive di quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio
di Fineo (cfr. Jessen in RoscHER Lex. Ili 2, 2370-1); e da Fineo
rappresentati. Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud
(Babilonia) e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono
conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce- gliere dal mito
di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed
ecco che Cefenia e Ce- feni vennero assunti a nomi pristini della regione
e del popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babi-
lonia, i Caldei. VII. I frammenti dell' " Andromeda „ di Euri-
pide. — Su i framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e
che si trovan raccolti presso Nauck (1) Su questo punto sono
insufficienti cosi il cemento dello Stein come quello del Macan a
Erodoto. I FRAMMENTI DEtL'" ANDROMEDA , DI ECUll'IDE
359 FTG} 392 sgg. furon tentate piti di una volta ricostru-
zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm. (1829), Wklckek Die
Griechische Tragedie II (1839) 644 sgg., Hartcng Eurip. restitutus II
(1844) 344 sgg., Wagner fragni. Eurip. (1846) 646 sgg., Fr. Fedde De
Perseo et Andromeda (diss. 1860) 11 sgg., P. Johne Die Andromeda
des Euripidea in * Elfter Jahresbericht des K. K. Staats- Obergymnasiums
zu Landskron in Bòhmen , (1882-1883), Wernicke Andromeda in Fault-
Wissowa R-E.^ I 2156 sgg., E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex. Ili 2, 1996
sgg., Wecklein in * Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil.
Kl. „ 4 febbr. 1888 I 87 sgg., Edwin Mùller Die Andromeda des Euripides
in '' Philologus , LXVI (N. F. XX) 1907 pag. 48 sgg. (1). Di
tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra- gedia
frammentaria per modo che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro
succedersi, la struttura comples- siva nel suo organamento tecnico e
scenico, le parti dei varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro
fine, né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice
inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico oramai che
Euripide si deve essere pili o men libera- mente allontanato dallo schema
mitico tradizionale qual è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o
men pro- fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche le
diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin- cidere quanto
più e meglio è possibile i frammenti con il racconto ferecideo, ripugnandosi
ad ammettere nei par- ticolari quella libertà che in generale si concede
al poeta (1) Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. J. H.
Hcddilston Greek Trag. in the tight of vases painting (London 1898)
23. 35; con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud. zu den Trag.
(Berlin 1900J 63 sgg. 360 I. - ANDROMEDA
tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile dar ai
ditferenti attori del dramma un contenuto il qual non derivi dallo studio
dei frammenti, i frammenti ap- punto si distribuiscono poi tra gli attori
in armonia a quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi
medesimi. Uscire da questi circoli viziosi, — che sono i
fonda- mentali e in cui altri minori si assommano, — non si può, io
credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il raggruppare i
frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli spunti di sentimento e di
pensiero onde la tra- gedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai
pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scer-
nere. I framm. 150-152-153 debbono venir lasciati in disparte
per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b innegabile che
in essi è asserita la instabilità delle umane vicende e l'incostanza
della fortuna, non è men vero che tale asserzione può colorire assai bene
, cosi l'angoscia di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia
di Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda
insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151 si conviene
tanto a un discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo per
distoglierli dall'ó^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui
vanto deve scontar la figlia. I framm. 119-122 in vece lasciano
trasparire una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non
tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del dramma: —
debbono pertanto essi pure venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo
stesso è da ripetersi per i fram- menti 145-148, che tanto svelano in
parte l'azione quanto 8on vuoti di contrasto passionale. n
primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello 124-132. Perseo
giunge volando traverso l'aria a una I FRAMMENTI DELl'
" ANDROMEDA , DI EURIPIDE 361 terra di barbari (124); scorge
sùbito, su la riva del mare, TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una
vergine, nag^évov eixo) riva, Andromeda (125). I versi che seguono
(126-132) non possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a
un colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la
situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es- sere troppo stretta
attinenza perché sia possibile pen- sare tra l'una e l'altro un
abboccamento tra Perseo e Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima
del col- loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,
attirano lo sguardo due frammenti specialmente: 129, 132. Nel primo
Perseo chiede ad Andromeda qual com- penso egli potrà avere dopo la sua
vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel
secondo An- dromeda si offre, — ed è questo da ritener il compenso,
— ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da entrambi
risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio, l'intuizione
artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo, in garbato
modo, l'amore di An- dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa
concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di
rite- nersi libera nel disporre della propria persona. Onde,
confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide,
V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea- aduevog ó HeQaevg Kal
égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei
aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv yvvatxa) appare, in tutta la sua
profondità, la discre- panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in
cui il patto si stringe tra i due giovini ; la Ferecidea, per la
quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo grava l'importanza della
deliberazione. Per conseguenza bisogna conchiudere che : o come non prima
cosi non dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboc-
camento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse 3G2 I.
- ANDROMEDA esso tutt'altra importanza che presso Ferecide
ed Apol- lodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti
che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quel- l'abboccamento e
nel serbarlo com'è presso Ferecide ; poiché tal fatto deve, di fronte
alla logica argomenta- zione svolta or ora, indurre pili tosto ad
affermare la genialità innovatrice di Euripide non esser stata
imitata che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.
Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo in- sieme è costituito
dai framm. 134. 135. 137. 138. 142. 143. 149. Essi si dividono sùbito in
due serie, contrappo- nendosi l'una all'altra. La prima (134. 137. 138.
143. 149) è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà
spirituale, di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-
l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico- lare
esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav eXa^ov oèn avev noXXòiv
nóvcav) e con rigoglio di gio- vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e
138 contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ...
éa&ÀòJv èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente
alla felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara- zione
di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po- vero non solo soffre
ma teme di continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del
presente (135"); il ricco anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v
yÙQ tC/Mog tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso
otòhv ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il
verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex' eìtvxeIv. Fra
queste due serie può trovar posto anche il fr. 154 : ove però venga letto
non nella forma in cui lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma
nell'emen- dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae
Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav yàQ ^fl tig
sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as- I FBAMME^TI
DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 363 3omma bene in sé il
contrasto delle due serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo
che non trascura la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere
; e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi- mento e
aborre dal morire e non scorge più oltre. — Ora, se si può questionare,
ove si voglia, su l'attribu- zione di tutti cotesti framm. ai singoli
personaggi, non può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto
passio- nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve
dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama del dramma ;
tralasciando del tutto il litigio su quei punti troppo mal sicuri e
fors'anche inutili. Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :
èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv' Tù)V yvrjaiitìv yÙQ
oiòèv òvieg èvòeelg vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.
Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos- sibili: 1.
* non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi) de' figli illegittimi „ ;
2. " non voglio che tu Andromeda prenda (= generi) de' figli
illegittimi ,. Il Wecklein 92 sembra preferire questa seconda; il Kdhnert
1999 dom- maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene alla
prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo avvicinare al fr.
141 il verso 11 del V delle Metam. di Ovidio : " Nec
mihi te pennae, nec falsum versus in aurum Juppiter eripiet „.
Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità divina di
Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un biasimo [vód'og), biasimo
che nel fr. è, comunque inteso e a chi che sia riferito, indubbio ed
esplicito: v' è più 364 I. - ANDROMEDA
tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo sfida ; v'è,
in somma, un riconoscimento a bastanza lusin- ghiero dell'origine
nobilissima onde si vanta l'eroe. Se il ravvicinamento fatto non vale,
per decidere tra le due possibili interpretazioni non restano che due
vie: il porre il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo
nelle condizioni sociali di Atene sul finir del V sec. — Ora il fr. 141
insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del quale i vó&oi hanno a
soffrire : non una consuetudine simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge
san- cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg
yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio di Zeus
che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per regnarvi, senza
fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo la cacciata di Preto ? Certo
che no. È applicabile in vece ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si
ricorda che una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^ 470
e n. 1 cfr. 215 n. 1) pone i figli di una straniera (Andro- meda è
etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram- menta che tal legge
periclea ne amplia una soloniana, ch'era il riconoscimento giuridico
d'una consuetudine di cui già in I 202 è traccia e che valse anche e
sovra tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati a
Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese potuto trovarsi e
come uomini e come principi in con- dizioni inferiori a petto di altri
eventuali nalòeg yvfjatoi,. Né si dubiti che la legge di Pericle non
avesse più tutto il suo vigore nel 412. Tutt'altro : nel 414 Aristofane
fa- ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama il
decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye ^évrjg yvvaiKÓs
(1651): HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig ; IIEI. ah fiévroi vrj
Ala, &v ye iévrjg ywamóg I FKAMMENTI DELL' "
ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 365 HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh
yqii^axa, vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk
éà , odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv, àvd-é^eiaC
aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai
yviqaiog. èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ. Non
è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza esser frainteso dagli
uditori alludere alla legge ateniese sui figli di straniera. — D'altra
parte non mancano ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva
alludere più tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo.
Questa di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché po-
tesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi sociali;
quella per contro era e singolare e nociva agli interessi di molti e
alquanto recente. Qui era il ndd'og; là no. Riassumendo, gli
unici contrasti di passione che dai framm. risaltano con certezza sono:
1. l'amore di An- dromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica
libertà; 2. l'urto fra l'idealismo e la grettezza materia- listica ; 3.
il rincalzo che la quistione giuridica e sociale dà a quell'urto in
favore della grettezza pratica e contro lo slancio spirituale. — I
problemi minori : se Fineo sia parte, e qual parte, del dramma; come
differiscano fra loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con
con- getture esti-emamente mal certe. Una quarta, e ultima^
linea del quadro ci dà [Erato- stene] nei suoi Catasterismi : il contrasto
fra l'affetto figliale e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 17
'Av- dQOfiéSa). Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi
delineati, non potrà cader dubbio sul momento cui compete il fr.
136, che solo, io credo, merita di venir assegnato al- l'uno più tosto
che all'altro punto della tragedia: 366 I. - ANDROMEDA
ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog, ^
fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ■^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg
avvenTtóvei f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et. Kal
vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj, [lì] Sqwv ò' vk aizov tov
óiSdaxea&ai (piÀelv àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.
In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com- battimento
col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein 97, Moller 61 e n. 61. I
quali intendono i iA,ó%d-oi di cui Eros è causa in senso del tutto
materiale. In vece, a chi tenga conto della concezione che Euripide ha
dell'amore (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto
più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli ai
contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo l'uccisione del nfjiog.
— Se non che i critici citati sogliono addurre per loro argomento Luciano
de conscr. kist. 1 e FiLosTRATo im. I 29. Il primo : tììv tov Uegaétùg
^ijatv èv fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv
àTidvTWv aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d'
(L d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj
Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta frequenza la
^iiaig invocante Eros in una età ch'era sotto l'influsso alessandrino non
dice nulla quanto al posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se
mai dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le parole
di Luciano, lasciano intravvedere una interpreta- zione, da parte degli
Abderiti, tutta intimamente passio- nale della preghiera all'Amore.
Quanto poi a Filostrato (1) Il testo ha d'eolg; la corr. è
proposta dal Dobbeb. (2) Sogg. " gli Abderiti ,.
I FRAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 367 l. c, la
sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ sdx'iv àvE^dÀeio rtp
"Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve essere rettamente intesa.
Sul cratere di Andro- meda del Beri. Mus. Inv. 2337 (Bethe in "
Jahrb. d. Arch. Inst. , XI 1896), ch'è della fine del V sec. e di
poco posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nel- l'atto
d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che il pittore ha voluto a
quel modo esprimere con la figura il sentimento ch'era il sostrato della
tragedia e la com- mozione più forte per gli spettatori. Di poi, il
rappre- sentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda
divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E Filostrato, ch'e
sotto l'influsso di quelli, fa difatti scio- glier la fanciulla dai
legami ond'è avvinta, appunto da Eros. A questa medesima corrente
tradizionale è dovuta anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso
valore: ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tra-
gedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava Amore o, che fa lo
stesso, Afrodite benignamente guar- data da Perseo : Filostrato ne ripete
il motivo e ne dà la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che
prega la Dea prima del duello. — Mentre dunque il testo di
Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il silenzio di
Ovidio. Questi segue {Metani. IV 672 sgg.) assai da vicino Euripide; si
trova in oltre sotto l'influsso dell'a- lessandrinismo che delle scene e
situazioni erotiche molto si compiace; aveva quindi forti impulsi a
ripeter l'in- vocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega,
s'essa apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al
patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha soppresso, cosi che
gli venne anche soppressa la ^'^ais- Non si spiega, se si fa precedere il
fr. 136 al duello, perché in Ovidio il duello è rimasto ed è
ampiamente svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a
quella ■ Bvolt i 368 I. -
ANDROMEDA attribuzione di esso framm. che fin dal principio
par la più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della
tragedia. La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti
che dagli stessi frammenti vengono imposti. Vili. Euripide
nel 412. — Abbiamo tentato (sopra p. 60 sgg.) di ricostruire le tendenze
più spiccate dello spirito euripideo nel 412 a. C. valendoci deìVEIettra
(413) e àeWElena (412). Naturalmente talune delle affermazioni
intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere, per la complessiva
persona di Euripide. Ma non credo opportuno né di riferire una
bibliografia compiuta né di impegnar minuta discussione su i singoli
punti. Rinvio soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son
théàtre (Paris 1893); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge
1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif- klàrung
(Stuttgart 1901) ; Masqueray Euripide et ses idées (Paris 1905). Questi
libri (1) però, notevoli per ampiezza di trattazione e larga conoscenza
del materiale, hanno il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano
citati, di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di
Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo spirito sotto
varie rubriche. Cosi va perduta la vita di esso spirito, ch'è la sola
realtà. Fini osservazioni sono in Croiset " Journal des Savants ,
VII (1909) 197-205 e 246 ; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz
Einlei- tung usw. ed Hera1cles~. Per le allusioni storiche di Eu-
ripide v. E. Bruhn * Jahrbb. f. class. Phil. „ Supplb. XV (1887) 314 sgg.
e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI (1898) (1) Per
ragione di tempo, non ho potuto vedere i! recentissimo voi. di G. Murray
Eur. and his age. BUBIPIDB NEL 412 369 508. Il
recente libro di H. Steiger Euripides, seine Dich- tung und seine
Personlichkeit (= " das Erbe der Alten , Heft. V, Leipzig 1912)
rappresenta senza dubbio un buon tentativo per delineare l'ardua figura
euripidea; ma è, a mio credere, viziato per un lato da poca
profondità, per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed
Ibsen; parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con cer-
tezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo- gamente); e di
nessuna utilità è dove l'autore vuol at- tribuire a Euripide
caratteristiche testimoniate solo per Ibsen (che in ciò è arbitrio).
Pregevolissime sono le poche pagine di E. Schwartz Charakterkopfe a. d.
antiken Lite- ratuì'^ I (1910) 36-46; le sue intuizioni colpiscono,
se- condo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero solo
bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche appro- fondimento,
maggiore. A. Fkrkabiko, Kalypso. 24
CAPITOLO IL Il culto di Demetra in Erma. I. —
Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per- sefone in Enua si
combattono due teorie. L'una è soste- nuta dal HoLM Storia della Sicilia
nell'antichità (traduz. ital.) I 172 sgg. che ritiene preesistente
all'influsso greco il culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of
Si- cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche Persefone.
L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da E. CiACERi Culti e miti nella
Storia dell'antica Sicilia (Catania 1911) 3 sgg. 187 sgg. : questi
difatti, pur non negando la verisimiglianza di un culto siculo alla
Dea alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera- mente
probante, di esser invece costretto a riconoscere il carattere del tutto
ellenico di esso culto nell'età sto- rica e nelle nostre testimonianze.
L'argomento fondamen- tale addotto dall'una parte, e combattuto
dall'altra, è la non possibile derivazione del culto ennense da
Siracusa da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire
della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via per esso a
penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola. 372 II. - IL
CULTO DI DEMETEA IN ENNA Per lui di fatti da Gela ed Agrigento il
mito e il culto delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna nel VI
sec, in Siracusa nel V. Se non che pare che in tal modo il
problema sia posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto
esser entrato in Enna per opera di Greci già nei principi! del V
sec, pretende assai più che non sia necessario alla tesi di un
sottostrato cultuale siculo. Chi per contro traccia possibili vie di
penetrazione in epoca compara- tivamente tarda, dimostra assai meno che non
sia ne- cessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'e-
same merita di esser ripreso. E poiché le nostre testi- monianze vertono
sopra il culto ennense quand'esso ha già assunto foggia greca, non resta
da prima che esa- minarne gli elementi e i caratteri interni, per
scoprire s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del
pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipo- tesi si avveri,
sarà da determinare, dentro limiti ap- prossimativi, quel vetustissimo
sostrato mitico e cultuale. II. I caratteri del culto ennense
nell'età storica. — Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i
carat- teri con cui il culto e il mito ennense si presentano a noi,
traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si trova raccolto da L.
Bloch in Roscher Lex. II 1, 1284 sgg. e a lui facciamo rinvio.
Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel mezzo anziché
per terzi come nell'/nno omerico a De- metra (v.446). Questo particolare,
che il Bloch (col. 1319) dice * siciliano-alessandrino ,, non può
riferirsi alle con- dizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme
(Cora) men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-
drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la tradizione
fa rapire Persefone presso I CARATTEEI DEL CULTO ENNENSE
NELl'eTÀ STORICA 373 Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte
Ciane, la fa scender sotterra (Timeo in Diodobo V 3-4 = Geffcken
Timaios' Geogr. des Westens " Philolog. Unters. , XIII pag. 104-106;
cfr. Ovidio Metamorf. V 409 sgg.). è necessario intender tutto il valore
di questo particolare essenziale. Si sa che Siracusa fu potente centro di
diffusione del culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio
della città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor- tasse
il mito secondo le esigenze politiche di essa diffu- sione. A Ipponio era
venerata la Dea; in CIL. X 39 8on ricordate statue e arac di lei. D'altra
parte Siracusa vantava antichissimo culto di Demetra. Per
conciliare l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio
Pro- serpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori (Steab.
vi 256): conservò tuttavia — quel che importa — il primato a Siracusa. —
Per Enna avviene il contrario: è (cioè) evidente che il mito siracusano,
perché deve ri- spettare una tradizione autorevole che il ratto pone
in Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma deve
accontentarsi di farla presso Siracusa discendere all'inferno.
Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo (DioD. V 4 =
Geffcken 105) su Atena ed Artemide che avrebber accompagnata Cora nel
raccoglier fiori e con- seguita rispettivamente la signoria di Imera e
dell'isola Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La presenza
di Artemide e Atena nell'antologia è motivo orfico (v. sotto pag. 389).
La testimonianza di Diodoro fa dunque legittimamente supporre che in
Siracusa si adat- tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un
parti- colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca
assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef- fettivamente
ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch
Gr. Gesch} Il 1, 322). Checché 374 li. - IL CULTO DI DEMETRA
IN ENNA ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio
dell'anto- logia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena
predo- minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di
Artemide (sui quali v. Ciaceri o. c. 156. 165); ma si ac- concia a
sanzionare la supremazia del culto di Demetra in Enna. E ciò proprio a un
dipresso nell'epoca in cui, secondo p. e. Ciaceri 193, il culto
siracusano doveva su- perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per
ef- fetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse
grande importanza , (Ciacebi 191). Il valore di questi forzati
riconoscimenti del culto en- nense da parte di Siracusa (fin dal V sec,
come sembra) appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. V 462
sgg. Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse del ratto :
prima la rende accorta la Persephones zona abbandonata su l'acque della
palude siracusana Ciane; poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta
d'aver veduto Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono
presso Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate ed
Elios. L. Bloch o. c. 1317, 65 sgg. ritiene "priva di significato „
questa forma del mito ; L. Malten "Hermes, XLV (1910) 513 sgg. la
spiega come un arbitrio del poeta pel desiderio di narrare le due
metamorfosi di Ciane e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa,
se si ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, — i quali
non sono evidentemente che il Sole, l'occhio che tutto vede nel giorno, e
la Luna, che vede nella notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex. I 2 spec.
1888), — la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i Fasti
ovidiani IV 575 sgg. (v. sotto), sostituiscono nell'uf- ficio
d'informatori presso Demetra figure più concrete e sopra tutto più
attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke- leos in scoi. Aristid. Panai. 1816
(Frommel), scoi. Aristof. Cavai. 698, Mit. Vat. 2, 96; Trittolemo
in I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE NELL'eTÀ STORICA 375
Paus. I 14, 3, Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk Patr. gr. 36 pag.
1019, Tzetze ad Es. Opp. 33; — cittadini di Ermione, secondo Apoll. I 29,
scoi. Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov. 17; — Kabarnos, della
famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch. s. v.) presso Stef. Brz. s.v.
IldQog, nell'isola di Paro; — Chry- santhis figlia di Pelasgo in Argo,
giusta Paus. I 14, 2 ; — cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. 15
app. Fozio Bibl. cod. 186. Di fronte a cosi numerose analogie è
difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'infor- matrice sia
un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più tosto appartenga alla saga
siracusana : a quella medesima che presso la non lontana Ciane fa
avvenire la di- scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed
Alfeo (su cui V. anche Ciackei o. c. 246). Né fa ostacolo il fatto
che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò significa
solamente ch'esso è di pretta natura locale e che, in parte per tal
motivo, in parte pel predominio del- l'Inno omerico, non fu accolto con
favore in altre tradi- zioni mitiche (1) e nelle elaborazioni letterarie.
Se dunque si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane
e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara l'insistenza con
la quale, accettato per forza il ratto in Enna, si colorisce poi tutto il
resto del racconto in senso siracusano. Anzi per capire ancor
meglio il valore di questa con- siderazione va rilevato che un tentativo
mitico in anti- tesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti
narrano il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di Enna
ma presso l'Etna: cfr. VEpitafio di Pione 33 (1) Nella
stessa Sicilia vigeva un'altra forma del rac- conto, per cui Vayys^og era
Ecate, se è valida l'ipotesi del CiACEEi 0. e. 166 sg.
376 li. - IL CULTO DI DÉMETKA IN ENNA e G. Knaack
"Hermes, XL (1905) 338-3 il quale senna- tamente dimostra che non
può né ivi né in altri testi simili (Igino fav. 146, scoi. Pind. Nem. I
20, Giovanni Lido de mens. IV 85, Oppiano Hai. Ili 486 sgg., Val.
Flacco Argon. V 343 sgg., Ausonio Epist. IV 49 sgg.) trattarsi di
uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario che menziona
Etna e sopprime Enna è certo posteriore a quello che ad Enna dà la
precipua importanza perché su quello è foggiato e perché si vale di una
imperfetta omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E
n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna- riconoscere una
incontestabile priorità initica. Dopo questo esame dei particolari
vien fatto di giungere a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in
Enna, nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi ele- menti
essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il centro dell'elaborazione
di esso; — elaborazione che in Enna presuppone però un culto di Dee
agresti cosi ra- dicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere
né taciuto né artificiato favorevolmente. A cotesta
conclusione è propizia la testimonianza più antica che ci sia pervenuta
del culto ennense: una litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head
H. N.^ 137). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga del
ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico mito ennense, ciò
dovette avvenire dopo la vittoria di Imera, nel sec. V. Dopo quella
vittoria invero Gelone (Diod. XI 26, 7) innalzò in Siracusa i templi di
Demetra e di Cora, iniziando il formarsi di quella piattaforma
leggendaria donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia
area. Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira-
Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ; e in verità la
litra, che è la testimonianza più antica, è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n.
116 riferita, per criterii I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE
KELL'eTÀ STORICA 377 numismatici, al periodo fra il 461 e il 430 a.
C. e dal Hill Coins 91 al 480-413. Al sec. V pertanto può farsi di-
cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mi- tica e
cultuale che allaccia Enna e Siracusa; — e che ha per indispensabile
antecedente una credenza a divi- nità agresti in Enna, ignota nella
forma, ma salda nella sostanza. Le nostre testimonianze tutte
rendono quindi inutile l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco
della greca Demetra penetrasse in Enna per opera di Agri- gento e
Gela durante la tirannide di Falaride e Terone. Se ogni ipotesi vale in
quanto tenta spiegare dei fatti, questa del Ciaceri non par che spieghi
nessun fatto. Né anticipando rispetto a noi, come fa, di un
cinquant'anni l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare
l'auten- tenticità del culto ennense dì cui e menzione presso
Cicerone in Veri: IV 106-110 cfr. V 187. Noi difatti di quella vantata
antichità rendiam piena ragione avendo dimostrato l'esistenza d'un
vetustissimo culto e mito siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo
l'in- tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri-
spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa antichità né
meno facendola risalire alla fine del VI sec. con l'influsso di
Agrigento; giacché, come si sarebbe di- menticato che Enna aveva accolto
le due Dee dopo Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla
Pindaro Pit. XII 1 sgg. (anno 490 a. C. Schhodek^) e che quindi nella
tradizione letteraria non poteva essersene perduta la traccia. E si badi,
anche, che lo lo stesso Cicerone {in Verr. IV 99 V 187 : cfr. Lattanz.
div. inst. II 4) sa di un signum vetusto di Cerere esi- stente in
Catania. Quindi il vanto di antichità con- forta la nostra tesi e rivela
impotente quella del Ciaceri. Ancor meno poi questa è sufficiente a
spiegar il rispetto 378 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN
ENNA che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di
fatti, — come si afferma, — da Gela si fosse partito, a non molta
distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense, è chiaro che molto
probabilmente quello non avrebbe esitato, se bene di poco più tardo, a
soppiantar questo, assai meno favorito da ogni sorta di circostanze
geogra- fiche e politiche. E tutto ciò scriviamo prescindendo
affatto, come si vede, dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui
si ap- prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano
Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco di data e
forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza con Siracusa nella guerra
di questa contro Camarina da un frammento di Filisto (fr. 8 = FHG. I pag.
186) che è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna
Grecia I 560 sgg.). Sembra in somma che nulla si sappia di positivo su la
città onde Enna fu grecizzata e sul tempo : certo è arrischiato il
Ciaceri (o. c. 159) nel dire Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero il
Freeman {H. of S. I 542) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per
ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en- nense movendo da
altre basi e usando dati diversi. Con i quali, concludendo, possiamo
supporre nella metà del V sec. un forte influsso siracusano in Enna, che
mantiene però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non
possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna né concedere
che il supporli giovi a risolvere la que- stione. III. Il
primitivo probabile nucleo siculo. — Dal- l'indagine del precedente § è
risultato, ci sembra, in modo esplicito che quando nel V sec. il mito
siracusano si formò dovette tener conto di un precedente e forse
molto più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma
IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 379 ci è ignota.
È risultato inoltre che molto difficilmente quel nucleo potrebbe esser
greco, perché in tal caso la sua scarsa priorità (di men che
cinquant'anni) mal spie- gherebbe il forzato rispetto di Siracusa.
Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini
archeologiche e storiche (cfr. G. De Sanctis Storia dei Romani I 98 sgg.
312 .sgg.) ci danno un quadro delle condizioni più vetuste dell'isola
assai bene consono a quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero
la tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe
italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi- stesse una
saga simigliante alla greca di Kora e che questa saga costituisse il
sostrato di quella che Siracusa foggiò nel sec. V. Resta solo
da determinarne, s'è possibile, la forma veri- simile. Il
primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracu- sana. Poiché essa
si permette ogni sorta d'invenzioni a suo favore in tutta la seconda parte
del mito, ma ri- spetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in
Enna; conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo es-
senziale del culto preesistente. D'altra parte (è il secondo
criterio) l'affinità tra Siculi (Italici) e Greci deve permettere
all'indagatore di cercar fra questi il piti antico embrione della
leggenda e di at- tribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli.
Analogia che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel di
Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (su i quali V. in questo volume
libro I cap. IV e libro II capo III; cfr. inoltre G. De Sanctis o- c. I
281). Il più antico testo che racconti in Grecia il ratto di Kora è
l'Inno omerico a Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma
bisogna naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti-
colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere,
380 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA inoltre, da tutte le
altre divinità messe in relazione con le due dee : Hermes ed Iris, nelle
loro funzioni di mes- saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo;
le Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra le pili
notevoli figure divine delle campagne feconde, al par di Gea. — Rimangono
dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); 2° Ar]/iii^Ti]Q
; B° IIeQaeq>óv£ia; 4° KÓQu. Siibito, questa necessaria
eliminazione di taluni ele- menti deìVInno induce una conseguenza : se
nel VII sec. (età probabile della composizione di esso) il mito era
già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi in un
determinato centro di culto ; se inoltre non è probabile che a favor di
questo centro appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo
riposto senso è troppo intimamente connesso con i primordiali riti
delia madre terra; si può senz'altro affermare che doveva, prima di
quell'epoca, aver vissuta oramai una, certo non molto breve, vita
mitologica. E poco quindi importa che neìV Iliade non appaja (v. le
opinioni con- trastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d.
Persephone 5 sgg. ; Welcker Griech. Gotterl. I 395 II 474 ; Preller
Griech. Mith} 757 ; L. Bloch o. c 1311, 55 sgg. ; L. Malten "
Archiv. ftìr Religionswiss. , XII (1909) 309): soltanto significa che
mancò l'occasione o non fu colta per intro- durvelo. — Ora, nell'epopea
omerica Persefone non ha alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini,
anche di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia
"Per- sefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:
ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al re delle tenebre.
Demetra per contro vi appare già col suo aspetto di Dea campestre {E 500
JV 322 = <P 76 e 125) delle biade. Aidoneo in fine si richiama
alla terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A 445 IL
PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 381 n 625 cfr. Stengel "
Archiv. fùr Religionswiss. „ Vili (1905) 203 sgg. ; Maass Orpheus 219 n.
23 e Wilamowitz Reden und Vortrage^ pag. 71). Dal quale s'è voluto
dedurre che l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione
ad asserire che la conseguenza troppo supera la premessa (Prkller
Dem. u. Pers. 4 sgg.). Tuttavia non si può né si deve negare che
quell'epiteto si addice assai bene alla saga di Demetra e Kora. —
Riassumendo dunque è le- cito affermare che nell'epopea (a prescinder
d'ogni pos- sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife-
rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli; 2° Demetra dea
delle biade ; 3° Persefone regina del- l'inferno. Manca sol
Kora. Ma Kora non è né può essere se non la " Figlia , e il suo
valore e significato è tutto conte- nuto nella * Madre „ vale a dire in
Demetra. Quindi anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo
a dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è
confermato da quello che il mito narra di lei nella sua forma più
compiuta, ossia la vicenda annuale di par- tenza e di ritomo dalla terra
a sotterra. È quindi da escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA.^ I
1, 160 che vede in Kora una divinità lunare (1); la cui vicenda do-
vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha badato (seguendo gli
antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg. Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut.
de facie in orbe lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono
tardi (v. sotto) e che pertanto il carattere della seconda non può
essere quel della prima. Mi pare in vece che ben distingua la natura di
Kora in confronto con Demetra il (1) La stessa opinione
difese il Costanzi " Riv. di St. ant. „ I (1895) 35 sgg.
382 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN EKNA Fkazek The
golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and of the wild voi. I 42; se
bene egli sia stato un po' schematico nella separazione delle due figure
e lo tem- perino opportunamente le osservazioni della J. E.
Harrison Prolegotnena to the study of greek Religione 271 sgg. In
breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in confronto con la biada
matura da cui si stacca e a cui ritorna. Un riferimento
diverso che ci riconduce pure alle fonti del mito è quel di Esiodo Op. e
Gior. 465, ove Zebs Xd'óvios e Demetra son pregati insieme
dall'agricoltore al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop.
Aufs} 298 lo ScHERER (in Roscher Lex. I 2, 1780) sostiene a ragione
che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo Zevg naxa%&óviog àoìVlliade
(I 457. 569). Ed è certo evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio
con Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità
agri- cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede solo
perché divinità della terra feconda, (De Sanctis St. d. R. I 305):
analogamente ai latini Tellure Conso Saturno (ibi). Ed è quindi del pari
evidente che quel nesso ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora
' ma gli è parallelo e simigliante. — Non bisogna però con- fondere
quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse tracce di una At]fti]Ti]Q
■aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5 raccoglie: queste son posteriori,
a quel che pare, alla tra- dizione del ratto e da essa determinate : dopo
cioè che Persefone regina dei morti è divenuta figlia della dea
delle biade , allora questa assume un carattere nuovo consono all'officio
di quella. Al racconto pure del ratto si deve e agli attinenti misteri
Eleusini se in in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando
il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a tras- formarlo in
Plutone (v. i testi in Scherer o. c. 1786). Ili PKIMITIVO
PROBABILE NUCLEO SICULO 383 L'esame adunque delle testimonianze che
si avvicinano di pili ai primordii del mito conduce a costituire
due gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto l'altro
daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nel- l'arte più arcaica
(Esiodo) un nesso soltanto, quello tra Ade e Demetra. La relazione tra
Kora e Persefone non appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò
sta contro l'ipotesi di R. L. Farnell Theeults ofthe greek States
III (Oxford 1907) 120 che suppone un'antica divinità Persefone-Kora
analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De- metra. Né più felice mi sembra
l'altra ipotesi di lui (pag. 121-2) che Demetra-Kora costituisse una
divinità unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De-
metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem- plice è la
teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si fondesse con la moglie di
Ade, Persefone (cfr. anche Carter in Roscher Lex. Ili 2, 3143). A ogni
modo, si tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è quindi
metodico supporre per la saga sicula : giacché questa non deve mai aver
superato i primissimi stadii, tenuto conto dell'indole dei Siculi e
dell'assenza d'una elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può
aver fatto della " rapita „ la regina dei morti. A
completar le caratteristiche di essa saga sicula, al- cune altre
indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj,
'EÀevffivìa) son certamente figura- zioni molto antiche in Grecia :
anzitutto perché il concetto della terra ferace richiama sùbito presso
gli Arii quel della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich
Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto tesmoforio ed
eleusinio, che non si può spiegar tutta da un unico centro (L. Bloch o.
c. 1337), trova la sua ra- gione nell'estrema antichità del rito. La
quale del resto era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto II 171. —
Sotto 384 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA
pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe la "
Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi su la etimologia del.
nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch. 281 sgg. e Frazer The golden bough^ V
part., voi. I pag. 42). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore
più significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe
si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana- loghe alle
" Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll. Fil. class..
Vili 1900-1 p. 136) (1) e a Libero e Libera dei Latini; e rappresentano
probabilmente tutt'insieme quella deificazione dei membri delle famiglie
che par consueta fra gli Indoeuropei (De Sanctis St. d. R. I 278). Cosi
si spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come dea
delle biade è assai languida accanto alla madre, ma come dea filiale
riacquista una maggiore consistenza. E vale in tutto il parallelo con i
culti latini, tra i quali non pur si verifica l'indipendenza di
Proserpina e Libera, unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom} 310); ma
anche oltre a Libera si venera la Madre Matuta. — In tal caso si
lega strettamente al nucleo primordiale del mito il particolare del
ratto. Si sa difatti che questa è, accanto alla compera, una delle forme
di matrimonio presso gli Arii, e quindi l'avventura di Kora
significherebbe a un tempo il mistero della vegetazione nel grembo
della terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la forma
espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu- rando alla leggenda
sicula il rapimento, concorda con quel che nel principio di questo §
notavamo a proposito del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga
sira- cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda.
(1) Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. , Vili (1906)
53 sgg. IL PBIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 385
Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva- zione. Nel
mito greco tutta la seconda parte (la mela- grana e il patto tra Ade e
Demetra e Zeus) è intesa a giustificar la periodicità con cui in ogni
inverno il seme si cela nella terra per lasciar solo nella primavera
riap- parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse né
meno probabile che anche nella leggenda sicula esi- stesse una parte a
questa simile. Giacché la sua forma- zione dovrebbe esser non solo molto
antica ma assai pili rudimentale che presso i Greci (a cagione, come
dicemmo dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e
dell'as- senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per
tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello stadio
religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di- verso dal tramontato e
non si afferra ancora né continuità né periodicità di fenomeni
(DESA^'CTIs St. d. Rom. I 260-1). Il superamento è possibile; ma la
possibilità non fa storia. Concludendo. Per ricostruire la
probabile forma dei primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci
siamo valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-
statazione degli elementi che quel nucleo portò con in- sistenza nella
saga siracusana del V sec, e la ricerca del primitivo nucleo nella
leggenda analoga di un popolo affine, il greco. I risultati sono scarsi,
ma non insuffi- cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che
una Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia rapita da
un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei morti. E nel loro racconto si
fondeva il fenomeno del seme che sparisce fra le zolle con il rito
consueto del matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,
ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as- serire su
l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi, A. Ferrabino, Kalypso.
25 386 II. - IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA IV. Le
versioni greche del ratto di Kora. — Ofifri- rebbe materia a larghissimo
studio l'indagare tutte le forme che il ratto di Kora assunse ovunque si
sparsero abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi. Qui a
noi importa soltanto di fissare quelle versioni del mito che sulla saga
siracusana influirono, cosi contri- buendo al suo formarsi, come
confluendo ad allargarla per contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo,
per non uscire dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato,
alla constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno
omerico a Demetra è, come si disse, il testo più antico in cui il mito di
Kora rapita appaja; e come tale ne costituisce, non già il primo stadio,^
ma la prima forma capace di influssi e passibile di riferimenti:
noi la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono state
distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio- logica; entrambe
furono oggetto di esami attenti: ci basti il rinvio al cemento di T. W.
Allen and E. E. Sikes The homeric hymns 7 sgg. e al Jevons An
introduction to the history of religion ^ cap. XXIV e Appendice (pp.
358, 377). Solo un punto richiama qui il nostro esame ed è di
facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini cono- scevano già le biade
prima del ratto di Cora, tanto che Demetra del ratto si vendica col
privare gli uomini del seme fecondo. Il rapimento dunque è solo
l'occasione in cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e
Me- tanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi riti ai
principi eleusini fra cui è Trittolemo. La concezione che predomina
nel V secolo è in vece, com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più
principe fra altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna
l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch in RoscHER Lex. II
1 col. 1317; Malten "Archiv ftìr Re- ligionswiss. , XII (1909) 441 ;
Pringsheim Archdol. Bei- i LE VERSIONI
GRECHE DEL RATTO DI KORA 387 trdge zur Geschichte cles eleus. Kults
97 n. 3). Ora è anzi tutto da vedere come questa concezione nuova, —
che contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup- pone
che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade, e si può quindi
chiamare neoattica, — si comporti con Demofonte Celeo e Metanira. Una
prima risposta ci dà Apollodoro I 31-32 che conserva Demofonte per
la magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e tutt'e due
pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so- vrani in Eleusi, come figlio
minore l'uno, primogenito l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti
(IV 394-620) Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce
la magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e Metanira
gli son genitori, ma non re, si poveri in me- schina capanna. Di qui due
problemi : 1° È anteriore la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ?
Notiamo che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo-
fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone con varii
materiali un " testo unico , della leggenda; so- spetteremo che la
sua sia una combinazione di mitologia erudita fra Vlnno e la saga
neoattica di Trittolemo, col proposito di guastare il meno possibile
l'uno e l'altra. In Ovidio in vece la combinazione appare di mitologia
poe- tica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo soprav-
viene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto negli antichi:
l'ignoranza del grano e la povertà soprav- viene, conforme al nuovo
concetto, in luogo della cono- scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora
poiché nel V se- colo e nel santuario eleusinio una innovazione
erudita è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare la
precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma ovidiana. Ci pare
allora che il nome e il concetto di Trittolemo abbiano acquistato
predominio attirando nel- l'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e
Meta- 388 II. - IL CULTO DI DEMETBA. IN E»NA
nira, che digradarono a poveri vecchi. — 2° Questa in- novazione
fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si il Malten loc. cit. 441
sgg. e "Hermes, XLV (1910) 532 : perché orfico è il personaggio di
Dysauìes ch'egli inter- preta (pag. 431) óvaavÀog " der eine arme
Hiirte hat (1) „. Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto,
se dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi- natore,
Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici quali genitori,
avrebbero scalzato Celeo e Metanira al pari di Demofonte ; in vece non si
capisce come gli Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe,
fra gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con nome e
personaggi di loro creazione; né come esso solo acquistasse tanto
predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e parecchi motivi orfici, restarono
senza eco fuor della setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e
estraneo all'influenza orfica : che il particolare dei majali (v.
464), non è orfico esclusivamente, come pare al Malten (pag. 532 n.
2) e già al Forster {R. u. R. pag. 78 sgg.), ma si riconnette col culto e
coi sacrifizii suini, accennati al V. 414. Dunque in un carme ove dagli
Orfici nemmeno si accetta quella presenza di Atena e Artemide che
fin la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale deve
essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ; altrimenti altra
spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi par chiaro che lo stesso moto
onde Trittolemo = primo se- minatore fu portato a soppiantare Demofonte e
impove- rire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e
determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci sembra evidente che la
scena eleusinia dei Fasti sia di (1) Contro l'opinione
comune che è in Gruppe Gr. Mi/th. pag. 57. LE VEBSIONI
GRECHE DEL RATTO DI KORA 389 origine neoattica e di quel gusto alessandrino
che ai ri- vela neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la
creazione di Trittolemo = semi- natore, dobbiamo, nei limiti del nostro
tema, rettificare un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici
Ar- gonauti V. 1193 si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot
"ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal Forster o. c.
42 Atena Artemide e Afrodite. Il confronto con EuKiPiDE Elena 1301 sgg.
(cfr. il testo del Wilamowitz in Comm. gramm. IV 27 e " Sitzb. Beri.
Akad., 1902, 871) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar-
temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten " Archi V,
cit. pag. 422; ma le presenta nell'aspetto eu- ripideo (ripetuto in
Claudiano) di difenditrici, non in quello orfico di ingannatrici.
Correggendo da un lato il Forster dall'altro il Malten (1), mi sembra che
l'ipotesi migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e
VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova in Igino fav. 147
(non che in Claudiano), sia l'ammet- tere che Afrodite abbia in un secondo
strato orfico so- stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta,
Atena e Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di dee
armate, sieno passate alla difesa della rapita. L'aver precisato
cosi le varie forme leggendarie, pro- toattica neoattica (e orfica), ci
ajuta a intendere in primo luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro V 3 e
Geffcken pag. 103 sgg.). Notammo già (sopra pag. 373) l'uso che ivi
è fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a guisa
di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre- mamente sommario.
Ma il puoto essenziale vi appare in (1) Impreciso è anche A.
Olivieri ' Arch. st. per la Sicilia or. , I (1904) 76. 165.
390 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA modo non dubbio: vale a
dire, secondo Timeo la Sicilia conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni
altra regione (pag. 103, 23 6.) ; in Sicilia le due Dee facevano
spesso soggiorno (pag. 104, 17 sgg.); avvenuto poi il ratto,
Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante la ricerca la
accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi, agli Ateniesi
(pag. 106, 10 sgg.); gli Ateniesi quindi eb- bero e diffusero la
conoscenza del grano primi dopo i Siciliani (pag. 106, 23), i quali se
l'erano avuto dalle Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg
aèzovg ol- KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo
e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per intero la versione
neoattica secondo cui l'ateniese (eleu- sinio) Trittolemo avrebbe appreso
primo l'arte del se- minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo
del- l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa
premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la famigliarità
delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi e l'intero mondo. Ne balza la
concezione duplice di una Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre
tutti gli altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante
umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar bene la Madre
dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i Siracusani non ebbero bisogno di
sostituire Trittolemo con una figura indigena, — come quei di Sidone
con un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus. II 11, 2); né
di farlo entrare in genealogie locali, — come gli Argivi che gli diedero
padre un argivo Trochilos (Paus. I 14, 2); né di identificarlo con un
antico loro iddio, — come suppone, ma senza convinzione, 0.
Rossbach Castrogiovanni (Leipzig 1912) 23. Essi poterono venerare
Trittolemo (Cicerone in Verr. IV 109. 110) come colui che per benevolenza
della lor Demetra diffuse al mondo il già loro secreto del seme.
LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 391 La conoìcenza
del racconto di Timeo deve ajutarci a comprendere il doppio testo di
Ovidio in Fasti IV 394- 620 e in Metamorfosi V 341-661. Si è discusso se
si tratti di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente
ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia di- stinta per ciascun
racconto. Tennero la prima opinione alquanti critici citati dall'ultimo
di questa teoria L. Malten 'Hermes, XLV (1910) 506 sgg. cfr. 511 n. 1.
Tennero la seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R.
d, Pers. 72 sgg. poi Ehwald-Korn Metani, vs. 385. Noi cre- diamo
che il Malten, il quale pure ebbe autorevole assenso dal Wilamowitz
(" Sitzungsber. d. Beri. Akad. „ 1912, 1 pag. 535 n. 1), sia in
errore. Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti
: 1° Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il lago
Pergo durante l'antologia (vv. 385 sgg.) ; 2° Cerere ne fa ricerca per
tutte le terre con due pini accesi su l'Etna (vv. 438 sgg.); 3° veduta
presso la fonte Ciane la zona di Proserpina, se ne sdegna :
...terras tamen increpat omnes Ingratasqiie vocat nec friigum
munere dignas, Trinacriam ante alias... (vv. 474 sgg.) e
distrugge gli aratri e impedisce la vege- tazione del grano ; 4"
Demetra, dopo le indicazioni di Aretusa, il colloquio con Giove, il
giudizio di questo, ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque
per aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim
iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa recultae (vv. 487
sgg. 646 sgg.). Ora, noi vedemmo sopra (pag. 374) che la sostituzione di
Ciane e Aretusa ad Ecate ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi
della saga siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in
392 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA Euna. Ma la
concezione espressa nei versi 474 e 646 (già citati) non si copre con la
siciliana: è più larga. Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra
esse è si la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile (v. 476). E
Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora longa recalta,
quindi anche su la Sicilia dopo il danno subito per vendetta della Dea.
Ora, donde viene questa concezione che accoglie e umilia in sé la saga di
Ti- meo ? Ognun vede che essa contiene : 1° del mito pro- toattico,
la conoscenza del grano anteriore al ratto e la vendetta divina ; 2° del
neoattico, Trittolemo = semina- tore. Ne rappresenta quindi un tentativo
di concilia- zione (1) in cui s'innesta la leggenda siracusana con
qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta, della zona e
la supplica di Aretusa che il Malten (pag. 514) calcola a un anno, è
chiaro che non è pre- ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase
post tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten, che
trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten (p. 516) diremo
adesso che la metamorfosi di Lineo tra- scinò con sé in fine del racconto
anche Trittolemo ; dacché vedemmo come questo personaggio stia bene
in quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contami- nazione
proto-neoattica. In fine contatti con la poesia orfica non vi sono :
perché è taciuta la presenza di Atena e Artemide ; perché Trittolemo
spargitore del seme non è orfico (sopra pag. 388); e perché ha ragione il
Malten (pag. 533-4) di riconnettere con la volgata poetica degli
Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da (1)
Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis. Resto incerto se questa
conciliazione si trovasse già in Carcino junior (cfr. Timeo presso
Geffcken pag. 107 = DiOD. V 5). LE VEKSIONI GRECHE DEL
RATTO DI KORA 393 amore per volere di Afrodite (1). E di modello
alessan- drino essendo tutte le metamorfosi (2), la nostra conclu-
sione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino ove nella trama
proto-neoattica con innesto siciliano fu- rono interpolate favolose
trasformazioni di Ciane Ascalafo Ascalabo Aretusa e l'altre.
Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto av- viene
in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di fatti Aretusa ve le
aveva invitate (v. 423 sgg.) e Cerere vi era giunta da poco (modo venerai
Hennam v. 455) allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta
dice della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet tirbes
ecc. (v. 421), la frase, come vuole il verbo al pre- sente, si deve
riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten p. 507). E quando
Prosei'pina è introdotta vagante per sua prata (v. 426), si deve
intendere " i prati di cui è dea„, che tutta la vegetazione è in lei
compresa nel tardo concetto poetico (contro il Malten p. 508 n. 1).
— 2° Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga per
tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della quale una prima
tappa è il soggiorno in Eleusi presso Celeo e Metanira, al cui figlio
Trittolemo essa predice pi'imus arabit — et seret et eulta praernia
tollet humo (559-60), togliendo cosi la famigliola e gli uomini
tutti dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi di
bacche duravano (cfr. il proemio vv. 401-2 Ceres, homine ad meliora
alimenta vocato, — mutavit glandes uti- (1) Nel verso 533
Dixerat, at Cereri certum est educere natam il Malten fp. 573) vuol
vedere un riferimento al- l'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi
par che basti. (2) Non ho potuto prender conoscenza di G.
Bubbe De metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss.
Phil. Hai. , XXIV 1 (1912). 394 II. - IL CULTO DI
DEMETRA IN ENNA Uore cibo). — 3° Seconda tappa della ricerca è
costituita dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla
Dea, Helice ed il Sole (w. 575 sgg.)- — 4» Da ultimo accade il
colloquio con Giove e il verdetto finale (vv. 585 sgg.). Ermes è il
messaggero fra Giove e Proserpina (vv. 605 sgg.). Cerere si cinge d'una
corona di spighe, segno di pace che ricorda la promessa fatta a
Trittolemo ; e larga messe proventi (non rediit) cessatis in arvis (v.
617), ossia nei campi " incoltivati „ {cesso = non exerceo).
L'interpreta- zione comune ("nei campi trascurati ,) non può
reggersi confrontando i vv. 559-60 già citati (1). — Ora, dallo
schema cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile
trarre le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità che
prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo il ratto apprende
da Trittolemo la cultura del grano e si fa prospera, è neoattico ; il
luogo del ratto (con cui si connette l'elenco dei luoghi ove prima
avvenne la ricerca) è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole
è una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del- Vlnno
omerico (cfr. Malten p. 520); l'ordine cronologico degli episodii non è
quello dell'Inno, che la tappa in Eleusi e le informazioni degli astri
sono invertite rispetto ad esso. Di più: quest'ultima inversione
obbedisce all'in- tento artistico di non rappresentar Cerere
nell'indugio di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,
può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di Helice ad Ecate
ha per fine una maggiore perspicuità in rapporto con la più volgata
nozion mitologica; e di gusto alessandrino è la divisione dell'anno per
metà (1) può reggersi ammettendo un' incongruenza
irra- zionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana nel
poeta. LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 395
(sopra pag. 372); e col gusto medesimo concorda l'accet- tazione
del concetto neoattico. Adunque possiamo dire che il racconto dei Fasti è
un'alessandrina combinazione sagace del fondamentale mito neoattico con
pochissimi tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.
Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta nelle Metamorfosi e
definita sopra (pag. 393): là si ri- cercava di salvare il concetto
dell'/nno contaminandolo con la saga neoattica; qui deWInno e corretto
fin l'unico particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno
contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai due componimenti
unica fonte. Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha
scopi di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue
metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale constatazione può
giovare alla ricerca dei due modelli alessandrini seguiti da Ovidio; ma
noi non ci permette- remo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo
di spettanza degli storici della letteratura (1), e del tutto
secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver determinato
quelle forme fondamentali del mito di Cora che, costituitesi in Grecia,
intervennero poi sul mito si- racusano, variamente intrecciandosi in
complessi disegni. (1) Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la
Sicilia or. , IX (1911) 87 sgg. CAPITOLO III.
L'abigeato di Caco. I, Il problema. — Intorno al mito che
narra il furto di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili
che singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima fra
esse, — della quale basti citare rappresentanti il Peter in Roscher
Lexicon I 2, 2270 sgg. e il Binder Die Plebs 108 sgg. fra i Tedeschi, e
fra gl'Italiani il De Sanctis Storia d. Rom. I 193, — il nucleo
primordiale del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e
di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le sembianze di '
Eracle-Ercole ' ; il contenuto di esso è na- turalistico e consiste nella
lotta fra il dio solare e il dio sotterraneo del fuoco; vive nelle
tradizioni mitico-poe- tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli
artisti lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto-
rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per l'altra teoria in
vece, — che sostengono fra noi il Pais Storia critica di Roma I 199 sgg.
e all'estero il v. Wi- LAMowiTZ Euripidea Herakles^ I 25, 1, il Wissowa
in PAtTLy-WissowA Real-Encykl.^ III 1165 sgg. ^non che, ora, Rei.
u. Kult. d. Romer- 282) e J. G. Winter The myth 398 lu -
l'abigeato di caco of Hercules at Rome in " University of
Michigan Studies, Umanistic Series „ voi. IV Roman History and My-
thology edit. by H. A. Sanders (New York 1910), — il mito è opera
dell'influsso letterario greco, pur conceden- dosi in esso una parte
all'elemento indigeno (latino o italico): sia col riconoscere in Caco un
" figlio di Vul- cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del
fuoco (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di lui è
ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. — Il problema era in questi
termini quando fu ripreso recen- temente da Friedrich Mììnzee Cacus der
Rinderdieb (Basel 1911) (1). Questi facendo suoi i risultati del
Wilamo- witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Ge-
winnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es sollen nur die
alterprobten Mittel philologischer Methode — Interpretation, Analyse,
Vergleichung — mit moglich- ster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht
angewendet werden , (p. 6). Difatti, dopo una indagine la quale
" vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er- schienen
sein solite , (p. 68), giunge a sostener questa tesi : Il racconto è
forse da far risalire fino ai principii della letteratura latina (p.
108). I più antichi annalisti lo concretarono nella forma che ci appare
in Livio I 7, 3 sgg.; due generazioni appresso, gli annalisti
dell'età graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già raziona-
lizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo di reale
istoria; solo la * Romantik „ dell'età augustea (1) Nello
stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella " Beri. Phil. Woch. „
(XXXI 1911, p. 998 sgg.) una sua ingegnosissima ma, a nostro avviso, non
convincente teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di
Festo, Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto (p. 409. 418) interpre-
tiamo con tutt'altro valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO
399 riprese la forma originaria : " Livius, indem er die
Sage einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen
allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt, Vergi], indem er
die schlichte Sage in das glanzende Kleid der Poesie hullte „ (p.
111-112). Il nome Caco era diffuso in antiche tradizioni italiche (p.
113); egli era da prima concepito come semplice uomo, pastore o la-
drone, e da Vergilio solo fu mutato in un mostro tra di- vino e bestiale
(p. 75, 79, 81). 'Eracle-Ercole' era già nella primitiva forma della
narrazione e il nome di Ga- rano (Recarano) è il prodotto di una
rielaborazione eve- meristica della versione volgata del racconto (p.
95). A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di Caco
corre obbligo di tener conto in particolar modo di questa che, per esser
l'ultima ricerca e per presentarsi con speciali pretese di saldezza
logica e precisione me- todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e
distrutto la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-
bianza sia falsa è per apparire. IL II valore del mito indiano. —
Nella mitologia indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda I 6, 5 p,
xxi) ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza
esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta di Indra con
Vritra. I particolari più minuti coincidono dall'una all'altra fiaba:
cosi la clava di Ercole e di Indra, il muggir dei buoi di entrambi, la
caverna rocciosa, ecc. (cfr. Peter o. c. 2279, 25 sgg.). — E ne furono
tratte da più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Her-
cule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris 1863), da Fé. Spiegel
in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. , XIII (1864) 386 sgg. — n MuNZER in
vece ha creduto di poter tra- scurare al tutto questa significativa
coincidenza tra il racconto indiano e il latino, appellandosi ai *
nvich- 400 III. - l'abigeato di caco ternen „
giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e n. 8). Commise cosi,
secondo a noi pare, (simile in questo al WiNTER 0. e.) l'errore
fondamentale di tutta la sua ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che
la suddetta coincidenza può e deve avere non solo come argomento,
ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche. Di fatti,
accertato che, in forma quanto più è possi- bile simigliante, presso i
Latini ritorna un mito indiano, ne consegue da prima che il valore
allegorico di questo, il quale non è dubbio (Bréal o. c. 93 sgg.),
dev'essere a un di presso identico al significato di quello romano
: la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica del
sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. — Inoltre, se la forma
latina è, fra le molte che il mito assunse presso i popoli indo-germani,
la piii simigliante al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f.
deutsch. Al- terth. , VI (1848) 117 sgg. 128 spec), par metodico
con- chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico dalle
radici arie, — e non è in vece l'imitazione delle fiabe vigenti presso i
popoli affini, quali p. e. i Greci. Giacche è ozioso e assurdo supporre
che imitando un modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse
a riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,
prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman; Tistrya e
Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.), — su cui si veggano
Bréal o. c. 124 sgg. e 139, Spiegel 0. e. 387 sgg., — i miti greci di
Apollo in lotta col Pi- tone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e
anche il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo, pur
ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto naturalistico e le
sue sfumature e analogie, sono ben lungi dal riprodurre tanto quanto il
mito latino la forma del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per
Ge- rione Apollod. II 108, per Ermes l'omerico Inno a Ermes
VEBGILIO E OVIDIO; PROPERZIO 401 68-404, per Tifeo [Esiodo]
Teog. 820 e romenco Inno ad Apollo. Da ultimo la constatata
simiglianza iatima tra l'epi- sodio di Caco e quel di Vritra serve,
nell'indagine, a de- cidere quale fra le discrepanti redazioni del
racconto latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali
elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evo- lutisi
corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag- giormente esser antico
un particolare e vetusta una fi- gura quanto meglio collimi con le forme
e le linee del racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer
(e né il Winter), e si precluse la via a giudicar con metodica *
Nùchternheit „ i testi cosi dei poeti come degli storici e degli
eruditi latini. III. Vergilio e Ovidio; Properzio (1). — Il
risultato della ricerca che il Munzer conduce nel suo I cap. (se si
omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali non sempre tengono
il dovuto conto delle esigenze poe- tiche e delle poetiche irrazionalità)
è che fra il racconto del furto e la vendetta di Ercole corre nel
material nu- mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,
1:2 presso Ovidio, 2:1 presso Properzio. "Die Folge- rung scheint
unabweisbar , che appunto nella vendetta di Ercole Vergilio dev' essersi
allontanato dalla tra- dizione precedente per concedere alla propria
fantasia volo pili libero e più ampia indipendenza (p. 25).
Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di contar i
versi d'un carme per determinarne gli strati mitici, i dati sembran da
disporre in ben altro modo, ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in
Ovidio (il quale (1) Cfr. Eneide Vili 185; Fasti I 543 sgg.;
Elegie IV 9. A. Feebabino, Kalypso. 26 402 111. -
l'abigeato di caco da quello dipende, come risulta evidente dalla
semplice lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)
è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco olle al furto dei
buoi, due possibilità logiche son da tener in pari conto. che lo spirito
inventivo di Vergilio ivi si esercitasse piti liberamente e più
profondamente in- novasse. che invece quello fosse anche nella sua
fonte leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del
racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il poeta
assecondasse il modello. Tra queste due possibili ipotesi è d'uopo
scegliere; ma scegliere con argomenti. E non si vede per contro qual
motivo induca il Munzer a preferir senz'altro la prima e a proclamarla
" unab- vreisbar ,. — Ecco in vece che il mito del Rigveda in-
terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di Indra contro
Vritra è ampiamente narrata con presso che tutti i particolari noti da
Vergilio ed Ovidio e co- stituisce, non meno che in questi poeti,
un'essenzial parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi
è da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac- conto
della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te- nebroso costituisse
non pur una rilevante porzione della leggenda preesistente a Vergilio, ma
a dirittura il nucleo della vetustissima saga italica. Nella
descrizione della grotta di Caco Vergilio è pe- dissequamente imitato da
Ovidio : cfr. En. Vili 190-197, Fasti I 555-58. Ma perchè V. usa per la
spelonca la frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce
" vix ipsis invenienda feris „ a esprimere un concetto affine, il
Munzer insiste a lungo (p. 30-36) su la difi'e- renza. Non ci fermeremo,
rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia
le due parole " semihomo , e " semifer „ che V. usa a
designar Caco accanto a l'altra di " monstrum „. Perché il
sem- TERGILIO E OVIDIO ; PKOPEBZIO 403 biante
degli Dei è identico a quello degli ucraini, per questo " semihomo ,
equivale ad " halb Gott , (p. 46). Ma se cotesta è solo una minuzia,
grave diviene l'errore metodico allorquando da essa si traggono le più
rigorose deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di " vir
, da 0. tribuito a Caco (vv. 553 e 576) non si conviene alla
concezione vergiliana del " semihomo „, sebbene 0. imiti pel resto
l'Eneide e ripeta (y. 554) la parola " monstrum „ e la paternità del
ladrone. Per vero il " vir , ovidiano disdice bensì, ma non al
concetto di Ver- gilio, SI a quello del Mùnzer (p. 52). — Ugual
giudizio deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare
delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava, presso V. ed 0.
(p. 67). Nel mito indiano Indra usa il fulmine o la clava. Ed è da
ricordar pure che cosi le saette come la clava sono i simboli primordiali
dei raggi solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del
rac- conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre
fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im- possibile
dire. Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco
e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una de- duzione che gli
è fondamentale. A quel modo che nel- l'Odissea Polifemo invoca contro
Odisseo il proprio padre, cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio,
Vergili© lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo è
accanto a una serie di altri " monstra , vergiliani riportati ad
analogia (pp. 43-48), l'unico argomento per asserire che Caco è
nell'Eneide " eine freie Schopfung der dichterischen Phantasie „ (p.
50). Per qual motivo Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse
fuoco e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla "
ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als eines halb
gottlichen, halb tierischen Wesens „ (ibid.). 404 III. -
l'abigeato di caco — Una confutazione ormai non è più necessaria. —
Più ragionevole è la tesi del Winteb o. c. p. 251 sgg.: che
Vergilio risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco Caco sul
modello di Tifeo ([Esiodo] Teog. 820; Inno ad Apollo 340-70). Ma in tal caso
è ipotesi molto più logica e semplice che Vergilio si valga dei caratteri
i quali la tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, —
si può aggiungere, — per altri consimili mostri), a fine di
colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non già di
ricrearlo. Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale
pru- dentissimo diviene il • Mùnzer (p. 65-70) ; e non a torto, in
massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel dell'Eneide (M. 21.
32) che il PtOTHSTEm (nota a IV 9, 9) dichiara come riferimenti culti a
Vergilio, potrebbero in vece esser soltanto riferimenti al modello di
questo, per certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione
poetica della saga: riferimenti p. e. ad Ennio. — E parimenti
antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre teste, la quale è
nel Rigveda. Si è anche pensato, in vero, che essa sia dovuta
all'influsso greco traverso Ge- rione : e può essere. Ma forse si
preferirebbe pensare che il particolare venisse soppresso da Vergilio
appunto per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di
Ercole. — Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori- ginario mancava
e che fu indotta dall'equazione erudita Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St.
rf. i2. I 194 e n. 2; cfr. sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di
Properzio o a una sua brachilogica omissione, non è possibile dire.
A ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra avere
un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio di quel che il mito potesse
essere prima dell'intrusione di Evandro. LIVIO E
DIONISIO 405 IV. Livio e Dionisio. — Cfr. Liv. I 7, 4-9;
Dion. I 39-40. 11 Caco di Livio è " pastor ... ferox viribus , (5)
e prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum
nequiquam , invoca. E in somma un uomo: — ben di- verso dal "
monstrum , di Vergilio. Di qui due possibi- lità si presentano al critico
: o la concezione liviana è prodotto d'un erudito razionalista che ha
abbassato la statura del personaggio; o la concezione vergiliana è
l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Il Mùnzer che s'è, —
come si vide, — chiusa la via a sceglier con metodo, si attiene a questa
seconda ipotesi senza visibili ragioni (p. 75). E nello stesso errore
cade, per motivi analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per
contrario decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce
ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi fatte ricerche,
che Livio riflette una forma razionalizzata e umanata della saga. La
quale serba tuttavia anche cosi un indubbio color favoloso ma è più
lontana assai dall'origine naturalistica. — E poiché a ragione il
Miinzer afferma (p. 72) Livio indipendente da Vergilio e atti-
nente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere che l'età
augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo ed Ercole almen due
versioni, l'una più dell'altra co- lorita. A punto perché
anche il racconto della fonte di Livio è coperto di una patina da fiaba,
Dionisio (39) scrive : UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv
tà fièv fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il
rac- conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di poeti,
ma non di uno storico erudito, quello della fonte liviana doveva apparire
a bastanza verisimile per esser riportato, troppo poco prammatico per non
preferirgliene uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli
eser- citi interi. Col che si confuta il Mùnzer (p. 76) quando,
406 III. - l'abigeato di caco prendendo rigorosamente
alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af- ferma che Dionisio intese narrare
"die Fassung, der Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt
war „; e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo alla
seconda versione, * più vera „ della prima e men favolosa.
Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta fra Ercole e
Caco, — quella su cui si dilunga Vergilio e il mito del Rigveda. Il
motivo è chiaro: quivi appunto era il perno del mito e il fondo della sua
allegoria; quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M. p.
77). — Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dio- nisio
lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios (39, 2). Tal diffe- renza
acquista valore se la si contrappone alla concordia con cui due poeti
indipendenti, Vergilio e Properzio, raf- figurano Caco sotto la specie
del mostro. Gli è che in questi ritorna l'immutato concetto primordiale;
negli storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non
identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif- . fìcile
raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del- l'unico mito, perchè
nel " ferox viribus , come nel yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il
' monstrum „. (Contro MùNZER 78-79). In Dionisio Caco ad
Ercole che lo interroga risponde di non aver visto i buoi (39, 3). Ciò, —
fu notato, — corrisponde a Vergilio (263 " abiuratae rapinae „).
In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non
che cosi della presenza come dell'omissione è diffi- cile far giudizio.
Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare all'altra di condurre "
aversos „ i buoi : ed entrambe ri- tornano nell'omer. Inno a Ermes
(75-78, 211, 220 sgg.; 235-386). Nel quale, ove si narrano le astute
imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono
burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba I
PABTICOLABI ETIOLOGICI DEL CULTO 407 di Caco, che è contesta su la
lotta violenta della luce contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con
scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e
due i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso
letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi spiegherebbe
anche la brevità degli accenni in Vergilio e Dionisio. Mentre ben altra è
la natura del muggire i buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo
del tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer 77). — E anche
sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può essersi introdotta
l'invocazione di Caco ai pastori vi- cini a quelli che solevano adz^
avvayQavÀslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non è
intrinseca- mente connessa con la forma prima del mito. — Né si
erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti
greche che si ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi,
cioè, nel mito come nei suoi travestimenti razionali. Risulta
adunque che la fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un
racconto umanato rispetto a quello poetico che è fonte di Vergilio, di
Ovidio e di Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la
forma pri- mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune
agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito: la etiologica,
che attende ora il nostro esame. V. I particolari etiologici del
culto.— Quella parte del racconto, in Vergilio Ovidio Properzio Livio
Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco
fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di particolari
etiologicamente desunti dal culto di Er- cole. Ma se non è più possibile
questionare su ciò, bi- sogna ancor discutere su i singoli particolari. A
tal pro- posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: " dassin der Tat
Cacus 408 III. - l'abigeato di caco und Euander
nichts miteinander zu tun haben; dass zwei ganz rerschiedene Erzàhlungen,
die nur die Persoti des Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam
haben, rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind... ,. E
anche : " Der Einfluss der Verbindung mit Euander àus- serte sich am
frubesten und am bedeutssamsten da- durch, dass der Scbauplatz des
Cacusabenteuers naher bestimmt wurde „ (p. 89). A questa concezione si
contrap- pongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154) : "
hanno contribuito a suggerirne [del mito] i particolari l'Ara Massima
di Ercole vincitore nel Foro Boario e le vicine scale di Caco sul pendio
del Palatino (Solino I 18; Diod. IV 21). Tardo poi e dovuto soprattutto a
un giuoco eti- mologico è il contrapposto fra l'uomo buono e
benefico del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del-
l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente A. Bormann ... Kritik
der Sage vom Konige Evandros) ,. La tesi del De Sanctis si può dimostrare
più verisimile. Due son le figure principali del mito: Caco ed
Ercole ; e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in
quella forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-
tiene il nome di Caco (" scalae Caci „) e uno ove si rende culto ad
Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi due servissero a
localizzar il mito e il primo in- nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero,
pensare anche che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione
di Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma
l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone, prima della
comparativamente tarda intrusione di Ercole, (1) Euander,
che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^, e che era la mitica
personificazione della eéavÒQÌa, fu, — com'è noto, — interpretato "
buon uomo „. I PARTICOLARI ETIOLOGICI DEL CULTO 409 per
un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la saga. Là dove l' essersi
anche topograficamente Ga- rano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a
spiegarne la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso
il Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità dei
luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simi- glianti figure.
Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) 6, 6 sgg. a
proposito del Kdxiog diodoreo è osservato : " hic per- peram idem
esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor gentis Caciae ,.
E il Mùnzer accetta, pur ammettendo (p. 116) che il nome alle scale possa
derivar anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben
Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war ,.
— Ora il testo di Diod. IV 21, 2 (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv
ò'vreg àv6Qù>v Kamog xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig
àicoÀóyoig Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov
tòìv àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv
óiafiévet Korà xìiv 'PiLfiTjv. TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv
UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco- ftaloig, à)^
vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv
ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav,
oiaav nÀrjaiov zfjg zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo
chiara l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono
: 1) l'esistenza di scalae Caciae; 2) l'antichità dei Pinarii; 3)
le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii ed Ercole. Da
questi dati sono desunti : 1) (per falsa eti- mologia) il nome KaKtog; 2)
il nome Ilivd^tog; 3) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e
Cacio, le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan-
HuLSEN Topogr. I 8, 41) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano.
Tale costruzione da erudito costringe ad 410 III. -
l'abigeato di caco ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della
lotta fra Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che
anche il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché i
Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa " R. E. ^ , VITI 1, 563),
avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non è arrischiato
pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e si tace del
mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi
ap- punto (cfr. Pais Storia critica di Roma I, 1 200 n.: contro
WiNTER 222 sgg. e 260 sgg.). A ogni modo le scalae Caci del Palatino
derivano, se la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu
tolto Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della
lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto il dato
tradizionale su la caverna dell'Aventino (Verg. En. Vili, 231, Ovidio
Fasti I 551), se ne deve concludere: che la localizzazione di Caco è
mossa dall'area piana ch'è fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi
in un senso verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto),
nel- l'altro verso l'Aventino (caverna). La seconda sede, non
lontana, fu l'Ara maxima la quale servi a fornire assai più tratti al
disegno: ciò sono, tutti i particolari connessi con il culto romano
d'Ercole. (Cfr. Peter o. c. 2281 sgg.). — Che se il mito di Caco è,
come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è un,
comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle greco, si deve ritenere
che tutto quanto si attiene solo alla figura di questo costituisca un
secondo strato leg- gendario. Del quale le diverse derivazioni appajono
in genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sa-
crifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc. In vece
maggior discrepanza si presenta intorno all'esclu- sione delle donne dal
culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio IV 9, 21
sgg. ; dallo scritto I PAKTICOLAEI ETIOLOGICI DEL CULTO
411 OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte
dififerenti, in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi-
fica come un unico fatto venisse travestito in almeno due forme diverse.
Lo stesso si può dire dell'ara lovi in- ventori che è ricordata in Dion.
I 39, 4, Solino I 7, Origo geni. rom. 6. Ovid. l. e. .579-81, e taciuta
dagli altri. Il qual silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra
quell'al- tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen-
ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è improbabile che
il motivo ne vada cercato nella topo- grafia: giacché secondo Dion. l. e.
l'altare lovi inventori è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio
d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). — Ma
ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda in- venzione il voto di
Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe erige l'ara a Giove (o. e. 2286,
32 sgg). Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi
che il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente
per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma l'asserzione del
De Sanctis (nonché del Bormaim) in- torno ad Evandro. Di fatti la
presenza di lui, — che è essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg.
l. e, Lrvio 1. e, Dion. l. e, Ovid. l. e, Solino I 10, Serv. En.
VIII 268-9 (= Myth. Vat. I 69 [II 153] III 13, 7) e nello scritto
Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si sa bene perché
(v. sopra § III), — è però narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e
Dionisio attribuiscono a lui la instituzione dell'Ara Massima, in
Vergilio in Ovidio in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il
principale, fra gli spettatori del primo sacrifizio : e secondo
Servio egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu-
zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora di Nicostrato
(Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e Ovid.) ora di Temide (Dion.)
ora dell'oracolo Delfico 412 III. - l'abigeato di caco
(Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché la Porta
Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a nord del Foro Boario ov'è
l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide son sue variazioni di sapore greco.
E pari- menti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio
della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però con una base
topografica non pseudo-etimologica. En- trambi poi vennero fusi col far
Carmenta madre di Evandro. — Se non che tutto cotesto processo
semieru- dito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età
Augustea, — in quelle medesime ove non è più incerta la localizzazione
della saga nel Foro boario ed è soli- damente fissata la figura greca di
Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a
questo di gran lunga più tardo. — Rappresenta dunque il terzo
strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui un'aggiunta è
introdotta col far da lui annimziare la ve- nuta di Ercole a Fauno (Cfr.
De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom. 7).
Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria la quale
combattente contro Ercole o introduce Fauno in luogo di Caco (se non parallelamente
a questo) (Der- CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee IV 387); o di Fauno
il figlio, Latino (Conone Narr. 3 appr. Fozio Bibl. cod. 186; cfr.
anche Schweglee Rom. Gesch. I 374). In breve, il complesso
etiologico inseritosi nel mito è, a prescinder da tarde superfetazioni,
sceverabile in tre strati: Caco, con le scalae e la caverna
(Palatino-Aven- tino) ; Ercole, con l'Ara Massima ; Evandro, con
taluni episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste
etiologie, come sul mito vero e proprio, si esercitò il razionalismo
degli eruditi. VI. Gli eruditi. — Il riscontro degli errori in
cui GLI ERUDITI 413 cade la dimostrazione
del Munzer su Caco è offerto dal suo cap. VI " die antike Forschung
,. Egli si trova di fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la
nostra tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi
incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Vili 203 (" Sane
de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam Romani consentiunt : solus
Verrius Flaccus dicit Garanum fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum
adflixit, omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules dictos
,) e nello scritto (1) Or. gen. rom. 6, 1 (e 2. 3. 5. 7; 8, l=sei volte)
(" Recaranus quidam, Graecae ori- ginis, ingentis corporis et
magnarum virium pastor, qui erat fortuna et virtute ceteris antecellens,
Hercules appel- latus ,) ritoma sotto due forme diverse un nome
diffe- rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus e
Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è incerto (con Mukzee
104 contro Peter o. c. 2272, 60 sgg., Pais 0. e. 200 n., Winter 205, Bohm
in Pault-Wissowa " R. E.^ „ VII 752). Ma non è incerta, a noi pare,
la in- terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è
antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più tardi, che per
tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver preceduto.
Troviamo ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente italico ;
troviamo che gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e
non potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole per
mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Her- cules dictos ,.
Riteniamo per conseguenza legittimo at- tribuire tale nome appunto al
personaggio italico il cui (1) Cfr. H. Peter Die Schrift *
Origo gentis romanae „ in " Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d.
Wiss. zu Leipzig , Phil.-hist. Kl. LXIV (1912) 71 sgg.
414 III. - l'abigeato di caco preesistere ad Eracle era a
priori pensato. Quando in vece il Mùnzer (p. 95) deve asserire, giusta la
sua tesi, che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi (i
quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario
un semplice pastore non un eroe fa- moso) contraddice in parte sé stesso
perché, se Caco è originariamente un pastore, un uomo anzi che un
dio, sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario di
Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Ga- rano (Recarano) né a
dire donde Verrio l'abbia ricavato. Là dove per noi l'oscuro nome è
conferma della natura del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo
rispetto, l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200
n. e il WiNTER 205 accettano), Garano e Recarano esser " due
forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide, fondatore della stirpe
dei re Macedoni „. Nulla di fatti può esser addotto a conferma di tale
ipotesi, che non ha per sé se non un'approssimativa simiglianza
formale dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,
giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi latini. Il
supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia un obliterato epiteto
di Ercole è pericoloso per la tesi di lui : giacché in quel caso diventa
di nuovo probabile che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome
stesso della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta-
colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia preso le mosse dal
mito indiano e creda all'antichissimo mito latino. Altra
testimonianza che il M. non spiega è quella su Caca (p. 98-102). Servio
En. Vili 190 (= Myth. Vai. [II 153] III 13, 1) parla d'una sorella di
Caco, — Caca, — la quale lo avrebbe denunziato : ed ivi pure è data
notizia di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei
— per virgines sacrificabatur {cod. Reginensis); — per vir-
GLI ERUDITI 415 gines Vestae sacrificabatur {codd.
rei.); — pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis)
„. L'ultima lettura è la preferita; la prima sceglie il M. (p. 101).
Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa
oscurità e nella confusione che contiene, è pili tosto il risultato
d'un'amputazione dell'ultima che un ampliamento della prima. Comunque, lo
stesso M. deve ridursi ad ammettere (pag. 102) l'esistenza del sacellum
a una dea Caca (1). Col che ha già ammesso troppo contro la sua tesi :
perché una dea di quel nome è il riscontro pili magnifico che si potesse
sperare a un supposto dio Caco. Se poi si aggiunge che all'una si
sacrificava " sicut Vestae , e l'altro emetteva fiamme dalla bocca,
la dedu- zione non può esser che una. — Verissimo tuttavia che lo
spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da imputare, come quello
ch'è una erudita invenzione poco felice in contrasto con tutto il mito.
Che Caca sia poi il travestimento di queir " una boum , che appresso
Ver- gilio rivela il furto né meno il M. osa sostenere (p. 100). —
E se il " sacellum Cacae „ sia per il M. (p. 102) oscuro al pari
dell' " atrium Caci , e se entrambi oscuri non sono per la nostra
tesi, par che non vi sia più molto a discuter su gli argomenti dell'una e
dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di esser qui
ravvi- cinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. Vili 190
si esprime : * Cacus secundum fabulam Vulcani filius fuit, ore ignem ac
fumum vomens, qui vicina omnia populabatur. veritas tamen secundum
philologos et hi- storicos hoc habet, hunc fuisse Euandri
nequissimum servum ac furem; — ignem autem dictus est vomere,
(1) Cfr. su Caca, G. Giannelli II sacerdozio delle vestali
romane (Firenze 1913) pag. 23. 33. 416 III. - l'abigeato di
caco quod agros igne populabatur; — novimus autem malum a
Graecis kuhóv dici : quem ita ilio tempore Arcades ap- pellabant. postea
translato accentu Cacus dictua est ut 'EÀévi] Helena „. (Cfr. Myth. Vat.
I 66 [li 153] III 13, 1). Poi a En. Vili 269 si danno le notizie sull'Ara
Massima i Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che
qui non c'interessa più (v. sopra § V). Il razionalismo si è qui dunque
limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar il fuoco che il poeta gli fa
emettere, a interpretar il nome. Molto più si permette il
racconto che si trova in Origo gen. rom. (6, 1): " Recaranus quidam,
Graecae originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui
erat forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus „;
— (6, 2) " Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et praeter
caetera furacissimus „ : — tali i due avversarii. Caco ruba a Recarano i
buoi e questi dopo vana ricerca è per partirsi quando (6, 4) "
Enander, excellentissimae iustitiae vir, postquam rem uti acta erat
comperit, servum noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora
Recarano dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara
Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi. Carmenta,
invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son perciò per sempre
escluse dai sacrifizii in quel luogo. — Cotesto racconto è di gran
lunga più finito e parti- colareggiato di quel ch'è in Servio.
L'interpretazione ra- zionale qui si estende fin là, dove il primo non si
dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore
con- cilia col più noto di Ercole, Ercole mutando in soprannome.
Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro come p. e.
Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché d'altra parte il giuoco
etimologico ha fatto %aKÓs servo di EijavÒQos: omette il duello tra
Recarano e Caco, ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo
clava ecc.), GLI ERUDITI 417 e attribuisce
ad Evandro la scoperta del furto, — senza dircene il modo, nel testo
pervenuto almeno, che non si esclude in un testo piii ampio il muggito
indiziale po- tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la
pro- fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo stesso
modo, non potendo l'Ara massima venir instituita da Ercole ch'è qui
soppresso, viene a ragion veduta con- fusa con l'ara lovi inventori, e la
gratitudine basta a spiegarla. Tra Servio e il racconto della
Origo v'è simiglianza pro- fonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco;
dissimi- glianza in altri. Di questa si comprende il valore com-
parando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che Ercole non è se
non il soprannome di Recarano, alla prudenza con cui l'Interp. di Servio
{En. Vili 203) oltre i concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio
Fiacco su l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha pre-
sente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne vale solo saltuariamente
rispettando molto pili il rac- conto di Vergilio che commenta. Qual fosse
poi la fonte di cui, in vario modo, approfittano e Servio e
l'autore àeWOrigo, è detto quivi al cap. 7, 1 : " haec Cassius
libro primo „. Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Il Mùnzer (p. 107)
a tal proposito suppone che a Cassio venisse attribuito tutto il racconto
per esagerazione, — in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo
(Peter fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve-
risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco. Non v'è dunque
ragione per negare che nella tradizione erudita si serbassero (anche e
specie mediatamente) di lui estratti a bastanza ampii intorno a quel
mito. Del resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al rac-
conto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena assai simile
la razionalizzazione del duello fra Ercole e A. Ferrabino, Kalypso.
27 418 III. - l'abigeato di caco Caco. Ma poiché
questa appare neWOrigo organica e ar- monica in tutti i particolari, è
difficile negare che, cosi definita, non si trovasse già anche in Cassio.
(Contro M. p. 111). Di natura opposta alle due testimonianze
erudite che furon or ora discusse sono i racconti di Dion. I 41-2 e
di Cn. Gellio appr. Solino 18 = Peter fr. 7*. Difatti là dove in quelle
la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli personaggi; in queste
in vece si allarga ad eser- citi. Ma se Dion. non ofi"re grandi
difficoltà, quando si conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli
Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d. Bom.
I 173); per contro Gellio è oscurissimo, " hic [= Cacus], ut Gellius
tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae
regis, socio Me- gale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula
et unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa
Vulturnum et Campaniam regno... oppressus est. Megalen Sabini receperunt,
disciplinam augurandi ab eo docti „. — Il carattere che sùbito appare più
evidente in tal rac- conto è il travestimento erudito razionalista; cosi
che, se esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito, le
conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son tracce palesi di
contaminazione : gli Etruschi difatti, i Marsi, i Sabini, i Campani sono
compresi in queste poche righe, ed è difficile che una schietta e unica
leggenda originaria accosti per tal modo tanti popoli. — Ora fin
che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato sul Volturno più
tosto che contro uno sul Palatino, pos- siamo intendere ch'egli
preferisse foggiarsi il mito a ima- gine della reale storia e si valesse
a ciò p. e. della prima Sannitica inventandone un precedente; che non si
scoste- rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio la
quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. «LI
ERUDITI 419 E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi
fosse da un mito cumano o campano (il passo di Festo p. 266 b 26
sgg. s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e nulla se ne trae). Cosi
quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla "
disciplina augurandi , trattarsi d'una secondaria e piccola leggenda
etiologica o etimo- logica che qui viene inserita per ignoti motivi.
Quando in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone) che
avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per qual modo, sembra
tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda
istessa la quale è ri- tratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi
etruschi [KòETE Etruskische Spiegel V tav. 127, Rilievi delle tirne
etnische II 2.54 sgg. ; Petersen * Jahr. D. Instituts „ XIV (1899) 43
sgg.; De Sanctis " Elio , lì (1902) 104; MuNZER 0. e. 113 e "
Rhein. Mus. , LUI (1898) 598 sgg.] e il cui nucleo dovrebbe consistere
nell'assalto proditorio contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che
difficilis- simo resta, nell'attuali condizioni della scienza,
decidere se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre-
senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della storia, come ci
parve probabile per i Campani; o alla contaminazione d'una terza leggenda
con la latina e l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina
e Cn. Gelilo rap- presentano bensì un unico atteggiamento di fronte
alla leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne esprime
una forma diversa. Il primo si serba vicino alla poesia molto piii che il
secondo. Quello par travestire la fiaba che sarà poi seguita da Vergilio.
Questo, il rac- conto che narrerà Livio. Per ciò Dionisio dopo aver
esposto il mito assai similmente a Livio, dà il suo àAri- ^éazeQos Myog
come un'interpretazione del fiv&ty.óg = liviano: dà, in somma, il
racconto razionale dell'anna- 420 m. - l'abigeato di
caco lista pili tardo come ermeneutica del racconto "
favo- loso „ dell'annalista più antico. Allo stesso modo che Servio
appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo vergiliano,
desunto da Ennio. VII. Conchiusione. — Tra le due teorie che
(cóme vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è da preferire
quella che crede ad un antico mito latino» in quanto tien maggior conto
di tutte le testimonianze ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme
e coe- rentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, con-
tradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del De Sanctis, va
tratteggiata cosi: dopo che in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad
Ercole, poi ad Evandro) si è contesta la leggenda, la parte sostanziale
di essa è elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da
un annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succes-
cessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età augustea
riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio- nisio e Verrio Fiacco
dall'altro) tutt'e quattro queste ma- nifestazioni.
CAPITOLO IV. Cirene mitica (1). I. Bibliografìa
e metodo. — Il complesso dei miti raccolti attorno alla figura di Cirene
fu studiato già da J. P. Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae 1828) che
rac- colse i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe va-
gliarli. Ha trovato poi trattazione minuta ed accurata per opera di Fbanz
Studniczka Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig 1890), che la
stessa materia rielaborò in RoscHER Lexicon III, 1717 sgg. ; e di Lddolp
Malten Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen
in " Philologische Untersuchungen , del Kiessling e Wi- lamowitz XX
(1911) ove è tenuto conto anche delle ipo- tesi brevemente enunciate da
A. Geecke in " Hermes . (1) Nella sostanza identico e
sol nella forma diverso si vegga questo capitolo negli " Atti della
R. Accademia delle Scienze di Torino , XLVII 17 marzo 1912. Qui ap-
pare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora consente.
422 IV. - CIRENE MITICA XLI (1906) 447-459. Dopo i
quali non si vuol citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni
Cirenaiche in " Ausonia , VII (1911) 27-38 (1). Indipendentemente
il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una stessa
attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si contrappone in modo
reciso a quella dei nostri prede- cessori. A prescindere di fatti dalle
particolari discre- panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non
" voler cercare un significato recondito nei miti , (Costanzi
32) 0, com'io mi espressi (* Atti „ p. 505 n. 1), nel non volervi
cercare * la chiave delle più antiche vicende greche „ in Tara e in
Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene 45 sgg.) negava di poter
spiegare la leggenda di Cirene senz'ammettere una vetustissima colonizzazione
tessalo- beota in Tera; e il Malten (cfr. spec. p. 209-10) pure
stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia fosse stata
abitata da un popolo misto tessalico e pelo- pico direttamente venuto dal
Tenaro recando e figure divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di
pro- vare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra cui
sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del
mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi. Determinato
cosi il mio antitetico punto di veduta, passo ai particolari.
II. La ninfa Cirene. — Dopo che il Malten (spec. 62 sgg.) ebbe
dimostrato contro lo Studniczka la natura libica di Cirene e la vera
origine del nome e del suo essere mitico non avrei che da richiamarmi a
lui su questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a me
mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe (2). (1)
Cfr. inoltre sotto a p. 448. (2) Egli, nel permettermi di
pubblicare questa sua let- LA NINFA CIRENE 423
■* Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen
Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst nachtràglich mit
Aristaios in Verbindung gesetzt ist... " Die Kyrene von Abdera
und Maroneia ist zwar, wie " dies bei der Aehnlichkeit der
Namen natùrlich ist, friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt
worden, " war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden,
und es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter des
Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es " kommt hinzu,
dass eben hier, auf dem benachbarten Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike
und Aristaios die Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im
Schiffs- katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn
" des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der ky- renaischen
Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Dio- medes, kehren auf ganz engem
Raum an der thraki- schen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort
eine " ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier
mit einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden
Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten 63-65. 65 n. 1;
Studniczka 134 sgg.). " Aber nicht genug damit. " Auch in
Kroton ist ein^ Kyrene (als Mutter des Laki- " n[i]os)
bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte ist aus demPersonennamen
des krotoniaten Aristaios (1) " mit Wahrscheinlichkeit zu
schliessen. Diomedes ist " fùr Kroton bisher, so viel mir
bekannt, nicht bezeugt, tera, esprimeva il dubbio che le sue
argomentazioni non potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità
con cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli- gente
gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio
che l'illustre e dotto studioso sostenga presto in pubblico con tutta
i'ampiezza la propria (1) Jambl. vii. Pijth. 36 S. 265 (N. d.
Gr.). 424 IV, - CIRENE MITICA " aber doch
fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem " glaube ich entnehmen zu
durfen: 1) dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen, nicht
libyschen, Ur- " spruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin
heisst oder " der Quellnamen selbst — aus dem dann, aber wohl
" schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder * Heroine
geschopft sein mùsete — von Griechen tìber- * tragen wurde ; 2) dass
die vier Namen Euphemos, Ari- " staios, Kyrene und Diomedes in einer
ausserordent- " lich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden.
Aus " Grùnden, die ich nicht in der Kurze ent- " wickeln
kann(l), bin ich ùberzeugt, dass die Verknùp- " fung dieser vier
Namen in Troizen erfolgte, das im " VlII.Jahrh.
einbedeutendesKolonialreichbesessenhaben " muss. Troizenische
Kolonisten werden Diomedes Kyrene " und Aristaios nach Sybaris
mitgenommen haben, von " wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton
ubernommen " wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene
sassen, " will ich nicht behaupten obwohl ich es "glaube;
aber dass diese Bruchstiicke troizenischer " Sagen den àltesten
Bestand der Ueberlieferung von " Kyrene bilden, balte ich fiif
gesichert. , Ora, per dimostrare in modo esauriente che da
Tre- zene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed Eufemo
s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia; bisogna provare: 1°
l'esistenza di questo quadrinomio a Trezene; 2" il ritorno costante
di esso nei luoghi ras- segnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro
da pos- sibili equivoci; 3° l'insistente ripetersi, nelle forme e
nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo
alterarsi non sia ben motivato. (1) Il carattere spaziato è
introdotto solo nella trascri- zione. LA NINFA CIRENE
425 1° Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insi-
stere " in der Kiirze „ : sorvoleremo noi pure. 2" A
Crotone si sarebbero potute raccogliere tracce di due al meno fra le
quattro figure la cui presenza è riscontrata in Cirenaica; Ariste© e
Cirene. Tuttavia farò sùbito notare quanto sia debole il fondamento su
cui si * basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:
il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova
assolutamente nulla intorno al culto locale del nume. Inoltre è ben
dubbio se sia veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di
La- cinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes 66; cfr. Serv.
a Verg. Eneid. Ili 552j. Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a
narrare le lotte di Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De
Sanctis Storia dei Romani I 192-3), non è improbabile che a Crotone
si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo
al nome d'uno fra questi sostituendo l'epo- nimo del Lacinium
promontorium li presso. — Ma se mal sicure son le tracce di Aristeo e di
Cirene in Crotone, altr' e tanto incerte son quelle che il Gruppe ne
riscontra in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten 65
corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in IIvQr^vrj. Per il
Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nel- l'essersi permutato Cirene in
Pirene. E poiché pare molto improbabile che in paesi limitrofi
sussistessero due tra- dizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse
moglie di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in
Abdera e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;
credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la sup- posizione che,
corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e
con Licaone. Ma né questa ipotesi è semplice, perché presuppone un
originario nesso " Cirene-Diomede ,, una corruzione * Pirene-Diomede
,, un 426 IV. - CIRENE MITICA ampliamento *
Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone „; né è in alcun modo giustificata,
perché, all'infuori di Apol- lodoro nessuna fonte accennando a Cirene in
Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricor-
rendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti- ficata la supposizione
del Malten : in territorio predomi- nato da Pirene un'unica traccia di
Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo
in Ma- ronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per opera
de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi è congiunto con
Dioniso; perché non si debba rite- nere ch'egli non fu importato insieme
con Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto
indi- pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde
difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni (B 486-7), e il beota
Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio del Fai^oxog. — Or come né
in Crotone né in Tracia Ci- rene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi
si può fon- datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici
profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a si- miglianza di
Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a simiglianza degli Argonauti (v.
sotto § VII); ma sol tanto perché quelle coste sono, nella tradizione
poetica dei vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo
quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leg- genda, è
probabile fosse foggiato anche quel particolare. — In breve, Aristeo e
Cirene son dubbii in Crotone, dubbii in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è
con certezza iden- tico all'avo dei Battiadi ; in Libia Diomede non
esiste. 3" Per di più, oltre ad essere incerta la presenza di
tutt'e quattro i numi in Crotone in Tracia in Libia, non si capisce, —
se, come vuole il Grappe, tra quelli lin nesso s'era stabilito prima in
Trezene e diffuso poi altrove, — perché a Crotone il perno del mito sia
il APOLLO CARNEO 427 nesso dell'ipotetica
Cirene con Lacinio, in Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la
discendenza di Dio- mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è
costituito dalla commessione * Cirene-Aristeo „. E né pure si ca-
pisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone, Aristeo
che in Cirenaica è figura essenziale; e per converso qui si scemi quasi
al tutto la persona di Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia
della leggenda si distrugge e si trasforma: — senza causa
evidente. Non posso dunque finora accettare la teoria del Gruppe
; e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten.
Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamen- tale del
mito. III. Apollo Carneo. — Non cade dubbio che Apollo e
Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di Wide e Hofeb
in Roscheb Lex. II 1, 961 sgg.). Ma per il mito di Cirene è di somma
importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in
Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse
soltanto in Cirenaica (cfr. Malten 61 sgg.). Ora tenendo
conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv Kdgvecog diffusissimo non pure fra
i Dori ma anche fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v
éoQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig
...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due
ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove il culto appare
di sufficiente antichità la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse
ad assimilare a sé Carneo; o pure che l'assimilazione fosse vetustissima
e si propa- gasse dal centro originario nelle altre sedi del culto.
E questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi ritengo
preferibile all'altra. 428 IV. - CIRENE MITICA
Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene, giacché
l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen Thera III 69) accertando
pel VI sec. a. C. il culto teraico di * Apollo-Carneo „, non è imprudente
o arbitrario il supporlo già sussistente nella seconda metà del sec.
an- teriore. Né a tale ipotesi è contrario il Malten 60; il il
quale scrive : * Gewiss ist die Verbindung ' Apollon- Kameios ' nicht zum
erstenmal um Kyrenes willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie
ist alter und hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet „. Se
non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è lo- gicamente
possibile. Poiché — difatti — tutta Vlliade (prescindendo dai
pili meno antichi strati) dimostra il carattere premi- nentemente delfico
di Apollo; e poiché l'antichità del santuario delfico e della sua preponderanza
famosa è ben riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.^ 1 1, 319 (cfr.
II. 1 405) ; se si ammette che già in Tera Apollo preponde- rasse
su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si ammette a un tempo che i
coloni dori pervenuti in Ci- renaica avevano ormai alla loro principale
divinità ricono- sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene
pertanto del tutto superflua la opinione che un tal carattere a
quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene. La quale appar
quindi non la causa del fondersi in- sieme i caratteri di Apollo e quei
di Carneo, ma un ef- fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di
tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,
Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove appaja la originalità della
Eea ci verrà mostrato, crediamo, dalla terza figura su cui è costituita
la saga: Aristeo. IV. Aristeo. — Non è qui opportuno
studiarne la dif- AP.ISTKU 429 fusione:
basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto dal Malten 77 sgg. e
negli * Atti dell'Accad. di Torino „ citt., a p. 510 n. 1).
Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi. Aristof.
Cavalieri 894, Ititi. Anton. 72, 2, scoi. Pit. IV 4 (ràv 'A^iaraìov, 8v
Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste
testimonianze tra due possi- bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto
in Libia dopo il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)
e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di quella connessione e
la determina. Tra le due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti
Aristeo ha una vasta area di diffusione, nella quale sono comprese
isole dell'Egeo, — quali Ceo (1) Chic l'Eubea, — e l'Arcadia: onde
non è per nulla strano che o già in Tera qualche strato della popolazione
e qualche famiglia gli rendesse culto, vero in Libia pervenisse con quei
coloni che nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole
e dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo manipolo
di Dori. Contro la prima supposizione non si può obiettare l'assenza di
testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo
poco cono- sciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei
più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro la seconda
non fa ostacolo la cronologia; già che tra il principio del VI sec. e il
principio del V, cui risale la Pitia IX di Pindaro resta spazio
sufficiente per VEea di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo
si com- mettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Ci- rene
(vincitrice del leone); a quel modo che nessuno (1) Cfr. K.
C. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos Diss. Giessen 1912, pag. 7
sgg. 430 IV. - CIBENE MITICA stupore v'è, se in
Tracia si connette con Dioniso e con Zeus in Arcadia: cfr. Malten 77 sgg.
(1). L'analogia è sufficiente motivo. Stimo in fine inutile
discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia. Basti che nel
mito nostro egli è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva
avere un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito
venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo ove potesse
connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di minore rilievo
a confronto con quelli che riteniamo di aver assodati su la libica
Cirene, il delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a
ricostruire nelle sue linee principali il componimento da cui
quelle tre figure vennero collegate in racconto: — l'Eea. V.
La ricostruzione dell'Eea di Cirene. — Con- vengo col Malten 1 sgg. che
le fonti cui dobbiamo at- tingere più direttamente per la ricostruzione
dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro Pit. IX, Esiodo t'r. 128 Rzach^,
Ferecide in scoi. Pit. IX 27, Seiivio a Veeg. Georg. I 14 = Esiodo fr.
129 Rz.', Apoll. Rodio II 500 sgg. : — cui vengono aggiunti se bene per
la loro sommarietà non sieno di grande valore, Timeo appr. Diod. IV 81.
82, Nonno Pan. Dionis. V 215 sgg. 292 XIII 300 XIX 225 XXIV 83 sgg.
XXV 180 sgg. XXVII 263 XXIX 179 sgg. XXXVII 198 sgg. XLV 21 XLVI 238
(Malten 35 sgg.). Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi
sono attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti
(1) Il Malten a p. 82 lascia in dubbio * ob der Gott...
schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der Kjrene v/urde „; ma a
pag. 212, per amor della sua tesi, asserisce quasi il contrario : "
Hier [in Thessalien] erregte sie [Kyrene] das Gefallen des Gottes... Ihr
Sohn ward Aristaios... ,. LA RICOSTRUZIONE DKLl'eEA DI
CIRENE 431 elementare : ritenni originario tutto che ritornasse
co- stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflet-
tenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più com- plesso. Fu
dimostrato poc'anzi (§ III) che non può venir attribuita all'Eea la
mischianza de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli del Carneo.
Altra è, chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è
noto, Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tes-
saglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non
Apollo, dev'essere stato il motivo del tra- sferimento da l'una all'altra
regione, l'impulso a trasfor- mare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea,
con lo spunto del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito
cire- naico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è pure
ovvio, che essa contenga più propriamente tutti quei particolari i quali
più propriamente sono con Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio
che della madre, è il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è
pro- babile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il rac- conto
sul figlio di lui Atteone (1). D'altra parte la figura di Apollo troppo
era di per sé notevole e preponderante perché traverso essa e per sua
causa non dovessero pene- trare nella favola personaggi ed episodii a lei
aderenti : i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al
canne esiodeo alle sue più tarde propaggini. Nei particolari
i criterii esposti conducono a questi ri- sultati; — 1. Cirene è figlia
di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume
Peneo: cfr. Malten 8. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit.
(1) Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del nostro
lavoro qui si omette, Malten 16 sgg. — Si vegga inoltre, Castiglioni
Atteone e Artemis nella miscellanea di • Studi critici offerti a C.
Pascal , (Catania 1913). 432 IV. - CIRENE MITICA
IX 27) fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone. Se non che
questa variante è sospetta, come quella che tende a giustificare con la
parentela l'intervento di Chi- rone nelle nozze tra Apollo e Cirene:
intervento che spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il
cen- tauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con Aristeo
prima che questo con Cirene. — 2. Apollo scorge la ninfa nell'atto di
lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone è ricordata da Pino.
Pit. IX 26, da Nonno loc. cit.; non da Apoll. R. II 500 sgg.: questi
l'introduce nell'officio di pastorella. Il Malten 62 resta per ciò
in- certo su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si.
L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra (v. p. 222),
mostra come esso si allontani assai dall'ori- ginaria forma del mito a
causa dell'influsso del raziona- lismo: al quale adunque si deve anche
attribuire la sop- pressione della belva e della lotta che troppo
male consentivano al paese tessalo. — 3. Chirone profèta le nozze
del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka 41. Col quale ove si ammetta
che Pindaro tenti invano di ribel- larsi all'Eea su questo punto, ne
consegue che Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il
Cen- tauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la
prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal doppione che ne
risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol- lonio allevato e da Chirone e
dalle Muse: originarii es- sendo, se non nel nome nell'essenza, questi
dèmoni; in- serto quello. — 4. Apollo trasporta la fanciulla in
Libia sul suo carro (Malten 8-9). — 5. Cirene è accolta da Libia.
Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai vifA,q>ai e la
eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten 11. Mi parrebbe quindi
sofisticheria l'insistere su la lieve dissimiglianza. A ogni modo, se una
forma fosse da pre- ferire per antichità sceglierei Libia: giacché le
xd-óviai. LA KICOSTBUZIOXE PELL'eeA DI CIRFNE 433
vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in cui dal nome
di Libia il concetto di persona, sostituito pili fermamente da quel di
regione, si è al tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega
meglio come mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite
(v. 9). La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu in- trodotta a causa
di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo- óczag, che era al nostro poeta ben
conosciuto {Pit. V 24) e a cui si può riportare un passo di Erodoto II
181 (cfr. Malten 207); giacché non trascurabile culto a essa dea si
doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne presso il lago
Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone XVII 836). — 6. Aristeo è riportato
in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R. II 509. Pindaro Pit. IX 59
attribuisce quel- l'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a
scopo esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.
l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. 153 Rz.^ = Anton. LiBEB. XXIII. E se
un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione 10 sgg. Ermes per
ordine di Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. — 7. Aristeo è
allevato dalle Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio
si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon. II 507 sgg.: però che tre
sieno, principalmente, le varianti poetiche dell'unico fondamentale
concetto; l'una Cea che narra di Bglaai (Aristot. fr. 511 Rose); l'altra
pindarica che in- troduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda
le Muse ; varianti delle quali la prima troppo strettamente Cea
disdirebbe alla general intonazione tessalica del carme esiodeo, l'ultima
traspare sùbito come un'altera- zione dovuta alla figura di Apollo
Musagete (basti ricor- dare B. A 603); la mediana è pertanto preferibile.
(Ciò contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che le Ninfe di
Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra- scorso impreciso dell'autore
che una vera e propria va- A. Fersabi>-o, Kalypso. 28
484 IV. - CIBENE MITICA riante. — 8. Aristeo ha i nomi di
Nomio Agreo Opaone ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad
Apollo (cfr. Malten 10 sgg.)- Nel complesso adunque Pindaro
pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili
vicino all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello. Un
confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Ari- steo) ci offre l'Eea
di Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. a p. 440) : cfr. Malten
25. 61 che qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di
Coronide) è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le
origini tessaliche del culto di Asklepios in " Rassegna di
Antichità classica „ I (1897) 237 sgg. contro Kjellberg Asklepios,
mythologisch-archdologische Studien in " Sàrtr. u. Sprakv. Sàllsk.
forhandl. 1894-97 i Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia
nell'aspetto di divinità salutare e sa- natrice: cfr. Beloch Griech.
Gesch} I 1, 156 e Wilamowitz Isylìoi 93. E bene: prima si congiunge Apollo
ad Asclepio; poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo
che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo e poi
la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i
risultati di queste ricerche (§ II- V), abbiamo: che Cirene è nome
libio-greco della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad
Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante il diffondersi del
suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che questa è la causa per cui
Cirene passa in Tessaglia ; che su questi elementi si può ricostruire
l'Eea di Cirene ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di
Co- ronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro di
elaborazione mitopoetica. VI. Euripilo ed Eufemo. — Le due
principali figure del racconto di Pindaro Pit. IV han dato occasione
alle EURIPILO ED EUFEMO 435 più diverse ipotesi:
cfr. Studniczka 111 sgg, e Malten 95 sgg. Il farne oggetto di minuto
esame gioverà a pre- parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel
mito cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della ninfa
Cirene. 1. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Eve-
mone B 736; in Cos, figlio di Posidone, B 677; in Misia, figlio di Telefo
e condottiero dei Cetei À 519; in Acaja, Pads. vii 19. — Ora è probabile
che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr.
Wilamo- wiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma
tutti gli altri sono indipendenti. — L'Acaico viene bensì da
Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che altri già
allora combattevano questa teoria: iy^aipav de i]Srj Tivég od tip
OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri- jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov
Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì
aiQatevaavxa ég "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ.
Eviden- temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine
dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era ipotesi di
taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu- ripilo di Tessaglia. — Il
re dei Cetei è dal Malten 118 ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig
possa ricon- dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario
dedurne senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe
esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in Misia; il che
par dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in Arcadia al contrario
di Telefo (1) e Ceteo. Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza
indipen- dente di un Euripilo in Misia. — Alla schiera adunque
(1) Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens I 257.
259. 436 IV. - CIKENB MITICA di questi tre
Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia) viene ad aggiungersi l'Euripilo
della Cirenaica. Contro i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro
omo- nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manife-
stazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima unica tendenza
mitica; la quale ci è dall'etimologia fa- cilmente chiarita, Euripilo
essendo il dio dell' " ampia porta „ infernale. Era ovvio che questo
comune concetto, questo, meglio, fantasma venisse volta a volta
applicato presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli
appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che impulso alla
sua localizzazione libica desse la grotta del Gioh [su cui MiNUTiLLi La
Tripolitania (Torino 1912) 308 sgg.] che era ritenuta appunto apertura di
Dite (cfr. Strab, XIV 647 XVII 886; Tolemeo Geog. IV 4, 4, 8;
Plinio V 31). In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi
da uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi.
Pind. Pit. IV 57) cfr. Malten 116 sgg.: Atlante I
PosiDONE ->- Celeno £lios I I ^^^ Tritone Euripilo
—- Sterope Pasifae LicAONE Lbdcippo Se non che questo schema
ci appare sùbito una com- binazione accorta di eruditi locali. Pasifae
(Wide Lak. Kul. 249), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. XVII 836 e
Pind. Pit. IV 20), L i e e o = Zeus Liceo (Eeod. IV 203, 2 eSTUDNiczKA 14
Sgg.) souo accertati in Libia da altre fonti: elementi arcadici e cretesi
la cui presenza non stupisce (cfr. Maass " Hermes „ XXV 401-2 e
Studniczka 126 sgg.). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo.
Di Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi. II. 2 486, Apoll.
EUBIPILO ED EUFEMO 437 Bibl. Ili 111) è padre Posidone e
madre Celano, Atlan- tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia,
inse- rendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una genera- zione :
Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e
l'altra vicina. Sorella di Celeno è Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e
questa offre all'erudito lo spunto per introdurre Pasifae e con lei
Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dal-
l'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla più che già non
sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici,
influenza che le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra
ipotesi : a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non
la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in
luoghi diversi col favor delle condi- zioni geografiche. 2.
Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit. IV) con- nesso con la Beozia con
Lemno con il Tenaro con Tera con la Libia. La connessione con Lemno è una
conse- guenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con
questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito vi fa giungere
solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo {scoi Pit. V 99, scoi. Apoll.
R. IV 1750). Resta adunque ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro
avrebbe per patria (Pind. l. e. 430 : ol'aoi), i Battiadi di Cirene
per vantati discendenti. — Ora in Beozia v'è traccia della sua
supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad. II 43) : e non v'è, ch'io
vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella regione,
egli sia tuttavia caratteri- sticamente beota. Col che si connette la sua
presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia
: a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti beotici e
tessalici. — Ma perché i Battiadi ne avrebbero fatto il loro capostipite?
Lo Studniczka pensa che i co- 438 IV. - CIRENE MITICA
Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten 151 che in Libia
lo trovassero e che per legittimarsi ne fa- cessero il proprio avo. Il Costanzi
33 mi par ben più vicino a una probabile ipotesi: * I Battiadi stanno
ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli Euripontidi
a Prode „; come, soggiungo, i dinasti Mo- lossi ad Achille, i
Pisistratidi a Nestore. E queste ana- logie ultime, a punto, possono
lumeggiare il fenomeno cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di
Nestore; Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille
nell'epopea: — e similmente ArcesLlao, appellativo di quattro re di
Cirene, è un eroe beota nelVIliade {B 495 329 cfr. Pads. IX 39, 3). E se
è errato sostenere col Mììller Orchomenos ~ 350 che di Beozia fu tratto
il nome, non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il
nome beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quan-
d'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genea- logia, non
sarebbero meno da respingere, com'è ovvio, le due ipotesi dello
Studniczka e del Malten: sproporzio- nate al fatto che vogliono spiegare.
— Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di
Eufemo che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,
importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide Lak. Kulte 33
sgg.). Non solo, ma i caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e il
suo significato religioso) son più vicini a quelli di Apollo (Stodniczka
1 14 sgg.) e, in ge- nere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich.
s. v.) che a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo riten-
nero Eufemo p. es. lo Studniczka (p. 155) e il Maass (Gòtt. Gel. Anz.
1890, 354; Orpheus 157) (1) solo sulfonda- (1) Ben
altrimenti il Gruppe Gr. Myth. 1149. I rapporti di un nume o eroe con
Posidone non implicano senz'altro un carattere ctonio di quello: con
Posidone difatti ha EUKIPILO ED EUFEMO 439 mento
della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade : fondamento per cui
s'indussero anche a forzare il signi- ficato di eiiq>r,iA,og,
spiegandolo come un epiteto, appunto, eufemistico in luogo del nome
pauroso della divinità ctonia. Tutto ciò cade, se la localizzazione al
Tenaro risulta ar- tificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità
fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osser-
vazioni, si legge la IV Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente
modo. Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente
far toccare, tre for- niti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il
Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene : a Lemno abbiam già veduto
Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spie- gare il soggiorno
nel Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'inventò lo smarrimento della
zolla; per il Pelo- ponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome
Eufemo era figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto
di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal
modo tutto si spiega: ed è questa ipotesi molto più semplice che non
quella del Malten 95 sgg. (1). Localizzato per tal guisa al Tenaro
Eufemo, e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di in-
trodurlo nelle genealogie laconiche ; difatti lo troviamo nipote
dell'Eurota (Tzetze Chil. II 43); o figlio di una Doride [scoi. Pind.
Pit. IV 15); o sposo di una Laonome sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit.
IV 76). Ma ha torto il Malten (p. 134) di dar peso a tali genealogie, e
in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle
indi- pendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre è
arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo
attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd ' Abh. Beri. Akad. Wiss. '
1850, 174 sgg.). (1) Su Eufemo re dei Ciconi v. sopra pag. 426.
440 IV. - CIRENE MITICA e Eufemo nello schema che ci
dà il cit. scoi. Pind. Pif. IV 76. Ora, al Tenaro Eufemo è
localizzato, a quel che pare, già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se
lo si deve dedurre dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è
quello con cui al Tenaro si venerava Posidone: fi oirj 'TQitj
TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri •^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi
^Evvoacyaiq) fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov
'Aq)QodÌTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R. I
179-84, IV 1568. 1575; Igino fav. 14; Acesandro e Teoceesto in
scoi. Apoll. B. IV 1750. Se dunque è vero che la localiz- zazione .al
Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat- tiadi), cotesta Eea non può
esser che sotto l'influsso cire- naico. La qual cosa spiega o può
spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più
propriamente) di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E
poiché l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singo- lare
(in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo come
ecistère), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero
gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per
trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli
Argonauti, per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Te-
naro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten 160. 3. Crediamo adunque di
aver mostrato e che Euri- pilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione
ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo beota
si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi, certo è estraneo al
Tenaro. Al Malten 139 pertanto che afferma Euripilo ed Eufemo costituire
" eine Reihe, die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen
Thes- salien hat , e con l'uno d'essi collegarsi intimamente
EUBIPILO ED EUFEMO 441 Atlante e Posidone, "
urpeloponnesisch „ (124), possiamo rispondere di aver troncato a quella
" Reihe „, per Eu- ripilo r " Endpunkt , che sta in Tessaglia,
per Eufemo l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si
posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i
nervi a quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la
rincalza. In LicoFEONE 901 sgg. naufragano su la costa libica Euri pilo
(ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde
il Malten 132 sgg. sostiene che il nau- fragio in Libia di Guneo e di
Proteo è leggenda cire- naica (LicoFB. 597-99, Apollod. VI 15 e 15 a
Wagner) : e rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi
però abbiamo già osservato a proposito di Diomede (cfr. sopra pag. 426)
che nei vóaroi la spiaggia libica appare il luogo tipico dei naufragi e
che quindi tali leg- gende son da ritenere indipendenti affatto da
Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per conte-
nuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un Euripilo senza
avvertire l'esistenza in quei luoghi di un omonimo, rilevante figura
locale, ci conferma nella nostra opinione, e prova contro il Malten che
Guneo e Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al
pili, per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio
la " feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und " Kreta
einerseits und Nordthessalien andererseits, die " in Arkadien ihren
Knotenpunkt hat , (Malten 138). Se non che, secondo il mito
cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto
quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una
zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente le due figure,
non resta che studiare la trama narrativa in cui si accostano e agiscono:
ossia il mito degli Argo- nauti in Libia. 442 IV. -
CIRENE MITICA VII. Gli Argonauti in Libia. — Poiché su questo
punto io profondamente mi allontano dal Malten 126 sgg. terrò più minuto
discorso. A quattro redazioni leggen- darie dobbiamo por mente: Pindaro
Pit. IV 1-63, 251-262; Erodoto IV 178-9; Licofronk 877 sgg.; Apoll. Rodio
IV 1231 segg.; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta
che gli Argonauti, ritornando con Medea dall' Oceano sopra VArgo ,
debbono per dodici giorni trasportare la loro nave su la terra deserta
fino al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro
Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone, una zolla:
fatidico dono (1). In questo racconto non v'è nulla che non si convenga
ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja inventato per il
loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale
è l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il lago, di
cui Strab. XVII 836, presso Berenice (Bengasi) che esiste tuttora ("
i laghi salati „). E non si vede bene, svibito, perché per l'appunto quel
lago venisse scelto per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della
prefe- renza; però che paja invece piti probabile il contrario:
Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra parte
difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato
fatto Argonauta, ove con tal mezzo a punto non lo si fosse potuto far
giungere in Libia: il che lascia supporre che in Libia una leggenda
più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possi- bilità
adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude
Tritonide debba risalire a un nucleo mitico più antico : parvenza
bisognosa d'altri suffragi. (1) Sul valore che tal dono ha
nelle leggende cfr. una interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli
esempi si potrebbero moltiplicare. GLI ARGONAUTI IN
LIBIA 443 Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte
esi- steva una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da
(Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava cir- cumnavigare il
Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve
lo avrebbe improv- visamente trasportato senza possibile uscita fuor
dalle strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la
nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode. Dopo le quali
cose, profetò agli Argonauti che un giomo presso quel lago i Greci
avrebbero fondato cento città: Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv
Ai^voìv KQV'kpat, TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti :
il dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.
Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non ebbe colonie
greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli altri CosTANzi 0. e. 29-30)
un riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo
spartano Dorieo nel 515 circa. Ma il dono del tripode non è che
fittisiia- mente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo
: suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone la via. Il
resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è notevole che ritorna ancor
qui il lago Tritonio, localiz- zato però non pili presso Berenice ma
nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due
strati. L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione
infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e il
valore fatidico dato al tripode. L'altro è assai più antico, e preesiste
a Dorieo : gli appartengono i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e
il dono di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia,
gros- solanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro.
Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi simili. Identico
è il nome della palude ; ma diversi sono i luoghi: tuttavia più vetusta
appare la identificazione 444 IV. - C'IBENE MITICA
con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte (cfr. RoscHER
nel Lex. I 1, 676 e Costanzi o. c. 29). Iden- tico l'apparire di un nume;
ma i nomi differiscono: e non è dubbio che Tritone, aderente com'è al
lago stesso, risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente
dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma la vicenda è
mutata: ed è chiaro come al mito primo degli Argonauti si convenga il
dono che serve a favorire il viaggio, più tosto che quello il quale
prepara, a tutto vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo
strato adunque più antico di Erodoto appare alla nostra ana- lisi
come la forma su cui vennero foggiate : da un lato la leggenda cirenaica
a prò dei Battiadi, — con alcune alterazioni dicevoli ; dall'altro la
leggenda spartana in favor di Dorico, — con altri mutamenti
opportuni. Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone
e Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo ed
Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non lungi a l'odierna
Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già gli Argonauti, che ad Ausigda
seppellirono Mopso (Ausigda giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste)
scorre ò Ki- vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten 129, che fluisce,
in vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argo- nauti
appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per compenso del quale
egli insegna loro la via, e pro- fèta che i Greci colonizzeranno quella
regione, allorché riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii)
impau- riti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il
cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli
medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il
Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia:
questa irrazio- nalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto
il mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di
GLI ARGONAUTI IN LIBIA 445 Dorieo sbarcato presso quel fiume
: ricordo cosi vivo che in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa
naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr. 902) (contro
Malten 130). In breve, Licofrone contamina; mischia in- sieme, di qui due
località cirenaiche, di là il contesto sirtico-spartano del mito.
Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Ar- gonauti naufragano
alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le
navi verso oriente. Giun- gono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro
impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una
zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati : il tripode
erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in lieve
vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi
conscio della contamina- zione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi)
congiunge con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a
oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella, di cui Pindaro,
fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano
puro effetto dell'ar- bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che
ne sia la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano
d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la
leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo
l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse trovato terreno propizio,
anche nella realtà, presso l'altro lago Tritonio, a Bengasi.
Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse furono
spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e Apollonio, insieme col
loro sostrato reale, par buona con- ferma delle premesse medesime.
Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che, nella
complessiva spedizione, occupa l'episodio degli Ar- gonauti . Pindaro e
Licofrone lo collocano dopo la 446 IV. - CIRENE MITICA
conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Ero- doto,
prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a
Licofrone, in cui un equivoco è ben possibile e facile, da poi che non
tratta egli esplicita- mente, ma solo parenteticamente, degli Argonauti.
Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del
mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva
tribuirgliene uno, secondo l'esi- genze poetiche o l'estro
dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i
risultati delle ricerche (§§ VI-VII) sul mito dei Battiadi. A
favore di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico mo-
tivo favoloso su gli Argonauti in Libia : conducendo quivi e a Lemno, e
localizzando al Tenaro, il capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualità di
Argonauta; trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del
nume di Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come al-
trove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento di miti con
scopo dinastico e religioso; ma tal rifaci- mento riflette sol tanto le
condizioni storiche a noi note, non già altre, anteriori e ignote.
Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre- diamo si possano
mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili.
Callimaco e il mito di Cirene. — Il Malten 41 sgg. 58-9, vede nel nesso '
Cirene-Euripilo ' la forma più antica della leggenda, quella che l'Eea
avrebbe adul- terata. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come
Ace- SANDRO {scoi. Apoll. R. II 498) e Filakco (ibid.), storici,
cirenaico l'uno, egizio forse l'altro (III-II sec. a. C), sente una più
viva eco e più genuina della primitiva forma mitica allorquando fa
combattere in Libia, non in Tes- saglia, Cirene col leone. Ma è altr'e
tanto' vero, e intui- CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE
447 tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea
avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con quel di Cirene, non
avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia
era invero signore di Ormenio un Euripilo (B 736) figlio di
Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro, è
pur posteriore alla leggenda dinastica degli Eufemidi, già riflessa in
quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi
legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua
figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degli Argo-
nauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore
forma indigena della leggenda che fu og- getto del nostro studio; a quel
modo che Vergilio (v. so- pra pag. 223 sgg.) rispecchia una posteriore
forma stra- niera. A parte bisogna considerare Filarco l. e.
per la frase di lui fievà jiÀeióvùìv : Cirene di fatti sarebbe
pervenuta in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'
diverso, è Giustino XIII 7, 8: mandati dal padre di Ci- rene, Ipseo re di
Tessaglia, i Tessali si sarebbero fer- mati in Libia con la fanciulla,
loci amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un mito ove la
favola di Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano
in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso indirizzo,
non più solo col connettere Cirene ed Euripilo, bensì anche col porre
intorno a Cirene coloni tessali, che vengono imaginati ad analogia dei
coloni dori. I gradi di questo processo mitopeico sono : 1) Euripilo è in
Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque
molto prima di Batto; 2) Cirene è in Libia ra- pita da Apollo, essa pure
prima che vi pervenga Batto; 3) Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in
Libia in quegli antichi tempi; 4) con Cirene, che ha il trono da
Euri- 448 IV. - OIBENE MITICA pilo, eran Tessali
suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non
si debbon confon- dere con le primitive quali ci appajono nelle due
Eee. IX. Esegesi novissima. — Storia e indagine su Ci- vette
mitica erano in questo volume già per intero com- poste quando apparvero
di G. Pasquali le Quaestiones Callimacheae (Gottingae MCMXIII) ove (pag.
93-147) il mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo
altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle Scienze di
Torino „ 1914, 17 Maggio). Torino, Giugno 1914.
FRATELLI BOCCA, EDITORI — TORIXO Piccola Biblioteca di
Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical education – he was
obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient!” Grice:
“Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann
suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio”. Aldo
Ferrabino. Ferrabino. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one
and only. Mussolini’s dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus
‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715356447/in/photolist-2mPKHfm-2mMUHJF-2mMYNu3/
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