Grice e Capitini – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or
‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza
conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics
in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber
– what more conversationally implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country
puritan patois!”). Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il
pensiero nonviolento gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi
italiano. Nato in una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima
agli studi tecnici, per necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari,
come autodidatta. La madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale,
custode del campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio
militare per ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo
gli studi della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove
ai ventuno anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando
da autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo
ininterrotto lavoro di approfondimento interiore e filosofico. In questi
anni legge autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria
cultura letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper,
Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant,
Kierkegaard (profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi,
Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento
del politico indiano. Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola
Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e
Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa
cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per ottenere da
Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei
confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se
c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre
che la religione è una cosa diversa dall'istituzione». Nel 1930 viene
nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa,
Capitini matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di
non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio
efficace e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla
violenza del regime fascista. Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno
di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove
diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché
Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in
Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo
scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione,
chiede a Capitini l'iscrizione al partito fascista. Capitini rifiuta e Gentile
ne decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà: «Gentile e Capitini
si separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei
Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli
facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso";
e Capitini rispose che non poteva fare altro che "contraccambiare
l'augurio". Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista
uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva
assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a
mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo".» Benedetto
Croce; in riferimento a lui Capitini scriverà: «dal Croce può venire il
servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta
al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto Capitini torna a
Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Nel periodo di tempo
tra il 1933 e il 1934 compie frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino
e Milano per incontrare numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo
una fitta rete di contatti. Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di
Luigi Russo, ha modo di conoscere Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di
dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno
seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di
un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i
principali riferimenti letterari della gioventù antifascista.
Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del direttorato alla Normale
In seguito alla larga diffusione del suo libro, Capitini promuove assieme a
Guido Calogero un movimento culturale che negli anni successivi cercherà di
trasformare in un progetto politico atto a realizzare le idee di libertà
individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi".
Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio
dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio Gramsci e da una forte ondata di
violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del
movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Norberto
Bobbio e Pietro Ingrao. Nel febbraio 1942 la polizia fascista effettua
una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in
seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono rinchiusi
nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi Capitini viene
rilasciato, grazie alla sua fama di "religioso". «Quale tremenda
accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei
religiosi», commenterà più tardi. Nel giugno 1942 nasce il Partito
d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del
liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a
suo giudizio «... il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è
anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia». Per il suo
rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, Capitini rimane
escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur
avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo
lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al
fascismo. Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente arrestato e
rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato
col 25 luglio. Capitini tra gli anni '30 e '40 Il Centro di
Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di realizzare un primo
esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando
a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e
uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno
«...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo la definizione
data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione
delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli
amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere
conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con
l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti
controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città
d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio,
Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo Capitini
nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio
nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con
l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su
scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere
sperimentati con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo dopoguerra
Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come
Commissario, dal 1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a
causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce
a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso
l'università degli Studi. Parallelamente all'attività didattica, politica
e pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e
religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando
Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che
però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il
Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale,
che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma
13/15 ottobre 1948). Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver ascoltato
Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione, matura
la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del dopoguerra.
Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30 agosto 1949 e a nulla
serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna subisce una serie
di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una
presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi degli anni 60 si dimetterà
dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno
si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di
Capitini. Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove una serie di
attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma
nel 1950 il primo convegno italiano sul tema. Il Centro di Orientamento
Religioso (COR) Un primo piano di Aldo Capitini (ca. 1960) Nel 1952, in
occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, Capitini promuove
un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. Sempre
nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di
Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera
inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione
la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non
trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di
favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare
i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni
religiose. La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di
Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini pubblica Religione Aperta il
libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante
l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, Capitini stabilisce ugualmente
degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Don Lorenzo
Milani e Don Primo Mazzolari. Capitini organizza a Perugia un convegno su
La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo
Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto
al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento
delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana
italiana". La polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica continua
anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità
religiosa per il Concilio. A partire dal 1956 Capitini insegna all'Cagliari
come docente ordinario di Pedagogia e nel 1965 ottiene un definitivo
trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra i fondatori dell'ADESSPI,
l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. Capitini
arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa,
lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le
idee. La prima Bandiera della pace Bandiera della pace
portata da Capitini nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso
la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. Domenica 24
settembre 1961 Capitini organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei
popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano
verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle
associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la
prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione
nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive l'esperienza della marcia nel
libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la
nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono
attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle
solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle
denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte
personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di Capitini per la
pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo
atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Norberto Bobbio, il
quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie
della pace. Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un
periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che
lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del
potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni Capitini promuove
anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione
nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene
pubblicato a Verona. Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore
della nonviolenza, Capitini non si sposò mai, per scelta, in modo da poter
dedicare tutte le proprie energie alla sua attività. Il 19 ottobre 1968
Aldo Capitini muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un
intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il 21 ottobre il
leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto il
prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della
nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (...) Mi
dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C'è
sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era
andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca
post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a
Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma Thomas. Il
pensiero Religione e laicità Il Mahatma Gandhi Aldo Capitini aveva
l'abitudine di definirsi un "religioso laico". Egli accomunava la
religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al
cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al
fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti di
difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la morte.
L'idea di laicità nasceva dal distacco di Capitini dalla Chiesa cattolica,
complice del regime: egli sosteneva che col Concordato del 1929 la Chiesa
avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste
e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior
parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa.
Capitini è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente,
non esiste per Capitini: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della
sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferirà parlare di
compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita
religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il
termine persuasione. Capitini si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo
"sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose.
Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un
"religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo:
convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj,
tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la
Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un
agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza
religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere
con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la
qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un
mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo Capitini
non è altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe
ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d'Assisi, di
Gandhi, di Tolstoj e molti altri. Persuasione, apertura, compresenza,
omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter
e da Gandhi, Capitini indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la
profonda credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità
di persuadere gli altri della bontà del proprio ideale. Il
professor Aldo Capitini negli anni '60 L'apertura è l'opposto della
chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima
verso l'alto e verso Dio. Un concetto chiave nella filosofia capitiniana
era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra
loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di
valori. Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in
omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende
parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica. La
nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza,
un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in
grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di
essere violento e autoritario. Il liberalsocialismo di Capitini e di
Guido Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo
Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista
è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed
insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede
temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia
e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella
tradizione socialista. Capitini per liberalismo intende il libero sviluppo
personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il
socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro,
l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia.
Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del
socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (M. Delle
Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai
totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e
l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta
dalla guerra. L'educazione e la civiltà L'educazione
"profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è
capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di
sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà
pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede
nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo
aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione,
alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo
Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze,
Roma, Pisa, Milano, ecc Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi intitolati
un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi
a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi
umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa,
Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul
soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del
soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani,
Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta,
Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa,
Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione
aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la
religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione,
Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria);
“Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani,
Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore,
Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano
(rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma);
“Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti,
introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti
sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e
religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2 ed. riveduta
e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita
nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le
ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario Martini, ETS, Pisa
scheda; Lettere; "Epistolario di
Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma
(intr.di M. Martini). Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con
Danilo Dolci, G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione:
scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere
1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 3"con Guido Calogero, Th.
Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma.
L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma. Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini,
4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma. Religione Aperta, M.Martini, Laterza,
Roma-Bari. Lettere 1937-1968,
"Epistolario di Aldo Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci,
Roma. Lettere familiari,
"Epistolario di Aldo Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma. Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici 1935-1968L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia:
il potere di tuttiL. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. La mia nascita è quando dico un tu, quaderno
per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione
Centro studi Aldo Capitini, Firenze.
Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini»,
Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi
Aldo Capitini, Firenze. La compresenza
dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore,
coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini,
Firenze. Educazione aperta collana
«Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo
Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note Incontro con il "Gandhi" italiano,
La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è
condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente
che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo
vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli
animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor
di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io,
mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo
con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano,
Terre di mezzo) Sergio Romano, Aldo
Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio
2006. l'8 febbraio 18 giugno ).
Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore,
Milano, 1966131. Da Le lettere di
religione Archiviato il 26 novembre in.
su aldocapitini Edmondo Marcucci, Che
cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953. Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna,
Cagliari, Edes, 1990, 3049 Dal sito del
COS fondato da Capitini[collegamento interrotto] Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del
cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini Antonio
Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini. Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità
religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2,, Firenze (FI): Le
Monnier,. Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi nella
sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una
grande sintonia. Per un approfondimento,
vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati,
Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo,
La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A. Capitini, Liberalsocialismo, e/o,
Roma, 1996 (che raccoglie una serie di scritti apparsi fra il '37 e il
'49). Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci. 9 agosto. Piero Craveri, CAPITINI, Aldo, in Dizionario
biografico degli italiani, 18, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio. Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo
Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze,
Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il
Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst
Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988, 4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La
sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna,
Speranze, Rizzoli, Mario Martini,
L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte",
Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del
Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17,
1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in
Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, Aldo
Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro
Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos,
2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini:
considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze,
University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini,
Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. Mario Martini,
Mazzini, Capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in
"Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta.
Biografia intellettuale di Aldo Capitini, 1ª ed. BFS edizioni, 2 ed., Pisa, BFS
edizioni, 2003. Mario Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio,
Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. Mario
Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore,
L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo
Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini, Assisi, Cittadella, 2004. Alberto de Sanctis, Il socialismo morale di
Aldo Capitini (1918-1948), Firenze, CET, 2005. Caterina Foppa Pedretti, Spirito
profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e
pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e Pensiero,
2005. Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo
Capitini, Firenze, La Nuova Italia, 2005. Andrea Tortoreto, La filosofia di
Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen, 2005.
Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari,
Piero Lacaita, 2005. Mario Martini, La nonviolenza e il pensiero di Aldo
Capitini, in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella editrice,
2006. Laura Zazzerini, di Scritti su
Aldo Capitini, Perugia, Volumnia, 2007. Caterina Foppa Pedretti, primaria e secondaria di Aldo Capitini
(1926-2007), Milano, Vita e Pensiero, 2007. Marco Catarci, Il pensiero
disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, 2007.
Amedeo Vigorelli, La nostra inquietudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni,
Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, Bruno
Mondadori, 2007. Mario Martini, Lo stato attuale degli studi capitiniani, in
"Rivista di storia della filosofia", n. 4, 2008. Silvio Paolini Merlo,
La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una
categoria religiosa, in "Itinerari" (seconda serie), XLVIII, 3, 2009.
Nunzio Dell'Erba, Aldo Capitini, in Id., in "Intellettuali laici nel 900
italiano", Padova, 169–188 Mario
Martini, Capitini oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in
"Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2,. Mario Martini, Capitini,
maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte", nn. 7-8,.
Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, in
"Nuova Antologia", aprile-giugno. Gian Biagio Furiozzi, Aldo Capitini
e Giacomo Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU., 2009. Gabriele Rigano,
Religione aperta e pensiero nonviolento: Aldo Capitini tra Francesco d'Assisi e
Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2, (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro,
editor; Impagliazzo, Pina, editor, Norberto Bobbio: testimonianze e ricordi su
Aldo Capitini, Nuova antologia: 607, 2260,
(Firenze (FI): Le Monnier). Mario Martini, Aldo Capitini e le
possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2, (Firenze (FI): Le Monnier). Aldo Capitini
(Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4,
luglio-agosto. Danilo Dolci Pietro Pinna
Guido Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza Alberto L'Abate Altri progetti
Collabora a Wikiquote Citazionio su Aldo Capitini Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Aldo Capitini Aldo Capitini, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Aldo Capitini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Aldo Capitini, su sapere, De
Agostini. Opere di Aldo Capitini,.
Associazione "Amici di Aldo Capitini", su citinv. Puntata de
"La grande storia", su rai. 3 ottobre
7 marzo ). Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto
BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink.
PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre
Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo del XX secoloPolitici
italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre
Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori italianiNonviolenzaPacifistiPersone
legate alla Resistenza italianaPoeti italiani del XX secoloPolitici del Partito
d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali. con
Capitini Questo disegno di mani intrecciate in una
stret¬ ta che cancella ogni differenza di razza. Renato Guttuso
l'ha inviato al prof. Capitini con l'au¬ gurio che la marcia della pace
sia un gesto che faccia profondamente riflettere gli uomini e dia
loro quel senso di responsabilità che non hanno. :he la "Normale"
a Pisa. Do- .. ». po la laurea/ fu assistente ri... dei prof.
Momigliano, quin- co- di segretario del collegio te, uni versitario
: « Ma Giovan- al- ni Gentile mi ordinò di pa- iscrivermi al
partito fascista :cia e io rifiutai ». Venne caccia¬ rle to. Tornò
a Perugia e visse on- dando lezioni private. Il suo ìon studio era
uno sgabuzzino me della torre: i fascisti (co¬ in- me poi faranno
anche i ele¬ vo- ricali ) cominciarono a chia¬ marlo « il gufo ».
Ma era un gufo che dava fastidio, che teneva contatti con an¬
tifascisti come Jaime Pin- tor, Banfi, Francesco Flora, Alicata,
Ingrao, Corona, Bu- f alini,. Ragghianti, Dessi, Natta, Spinella,
Casagrande, Agnoletti, Ramat, Calogero (« Allora eravamo
entrambi radicai-socialisti — dice di quest'ultimo —: ma lui
in senso laburista, io rivolu¬ zionario » ). Nel 1937
venne arrestato e portato a Firenze : « C’era una trama in tutta
Italia — ricorda —, ma non riu¬ scirono a scoprirla ». Dopo
tre mesi di carcere, fu ri¬ messo in libertà. In quello stesso
anno, con Taiuto di Benedetto Croce, pubblicò il libro « Elementi
di un'espe¬ rienza religiosa » che, come scrìsse un giornale « fu
al¬ lora letto e meditato da non pochi giovani che poi si ri¬
trovarono nella guerra par- tigiana contro la repubblica di Salò e
i tedeschi ». Nel 1943, fu di nuovo arrestato. Dopo la
liberazione, pensò di iscriversi ai Partito d'a¬ zione. poi non ne
fece nul¬ la : « Aveva un programma troppo limitato, di tipo
ra- dical-repubblicano, che non della non-violenza. « In
In¬ ghilterra ne fanno una ogni anno, a Pasqua — ricorda —-,
da Aldermaston a Londra. Nel 1959, il corteo era lun¬ go 5
chilometri: cammina¬ vano in silenzio assoluto,, soltanto uh
tamburo batte¬ va le lettere d e n (disar¬ mo nucleare) in
alfabeto Morse. Quest'anno, addirit¬ tura, le marce sono
state due : una è partita da Al¬ dermaston, Tal tra da We~
therfields, dove si trova una base della Nato. I due cortei si sono
fusi a Lon¬ dra: c'è stata un'imponen¬ te manifestazione
davanti al ministero della Difesa. I dimostranti erano
migliaia, rappresentavano ben 39 na¬ zioni: negri e bianchi,
asia¬ tici, africani, europei e ame¬ ricani tutti uniti contro
la guerra del nostro inviato FRANCO MAGAGNINI
rale alTuniversità di Caglia¬ ri : « Parlate il meno pos¬ sibile di
me — dice —. Non è che io sia modesto, ma ho paura delle
contraddi¬ zioni. Sono su con gli anni, non posso camminare
per tanti chilometri. E’ seccan¬ te, ma è così : organizzo la
marcia è non vi partecipe¬ rò. Quand’ero giovane, in¬ vece... Cera
un pretore ad Assisi, un amico mio, un antifascista: ogni giorno,
si può dire, lo andavo a tro¬ vare a piedi...». Parla svelto:
a prendere appunti, quasi si fatica a stargli die¬ tro. Ha 62 anni.
Piccolo, grassoccio, nasconde gli oc¬ chi vivi sotto uno
spesso paio di lenti: tutto in lui è passione, energia,
vitali¬ tà. A Perugia abita in un attico, con un grande ter¬
razzo, che superando la parte nuova della città guarda verso
Perugia, settembre P ARTIRÀ’ da Perugia, il 24
settembre, la pri¬ ma « marcia della pa¬ ce » italiana. Sarà
una marcia breve, 23 chilometri in tutto, fino ad Assisi : ma
non per questo avrà minor significato, un minor valore. Vi parteci¬
peranno migliaia di perso¬ ne: verranno da tutta TUm- bria, dal
Lazio, dalla Tosca¬ na, dalla Liguria, dalle al¬ tre regioni
d'Italia. Cam¬ mineranno quasi in fila in¬ diana, sul lato sinistro
del¬ ia strada, per non turbare il traffico, perché da noi
solo per le processioni la polizia si mostra larga di maniche e di
vedute. Cam¬ mineranno in silenzio. Per loro, parleranno i cartelli
: « Tutto per la pace, nien¬ te per la guerra », « Più scuole
niente bombe », « Vi¬ va la coesistenza pacifica », « Libertà per i
popoli colo¬ niali, no alTimperialismo », « Liquidiamo il razzismo
», « Per la pace e la sicurezza disarmare la Germania », «
Scuòle, case, ospedali : non armamenti ». Fianco a fianco,
inarceranno comuni¬ sti, democristiani, socialisti, repubblicani,
socia 1 democra¬ tici, radicali, uomini e don¬ ne di ogni partito e
di ogni condizione. Da Genova, per¬ sino Un terziarie france¬
scano ha inviato la sua commossa adesione : verrò anch'io, non si
può soltanto pregare... Padre delTiniziativa è il prof.
Aldo Capitini, docente di pedagogia e filosofia tuo- A LTRI
nomi? Ernesto Ros¬ si, Donini, Ragghianti, Pe- retti Griva,
Gavazzani, Spini, Jemolo, Segre, Lombarde Ra¬ dice, Borghi, Bucchi,
Caroc¬ ci, Benedetti, Arpino, Guaita, Butitta, Zavattini. « Sono
uo¬ mini politici, giornalisti, mu¬ sicisti. scrittori, pittori,
giuri¬ sti, docenti universitari : sano tanti, non posso
ricordarli tutti... Non credevo che la iniziativa venisse subito
co¬ si compresa : persino dalla India mi hanno scritto, per¬
sino protestanti, quacqueri, obiettori di coscienza... ».
Aldo Capitini non ha avu¬ to una vita facile. « Perugi¬ no
della generazione di Go¬ betti », come ama definirsi, nacque da una
povera fami¬ glia : suo padre era il cu¬ stode delia torre del
cam¬ panile. « Ero tanto povero dice -rry che studiai in
ritardo il greco e il latino». Dal 1924 ài 1929, frequentò
Anche in Olanda, nella Germania occidentale, negli Stati Uniti, nel
Cana¬ da, nella Nuova Zelanda fanno marce della pace. Da noi,
in Italia, niente ». Co¬ sì alcuni mesi or sono, du¬ rante un
incontro fra ami¬ ci, l'idea divenne decisione: ora, per raggravata
situa¬ zione internazionale, essa sta per essere finalmente
realizzata. Quando parla delle ade¬ sioni, il prof. Capitini
si commuove: « Sono tante, tante: ho ricevuto centi¬ naia di
lettere. Un ragaz¬ zo mi ha chiesto se può portare un cartello con
una frase eli Anna Frank. Be¬ ni ssi mo, ben issimo, gli ho
risposto. E' lo spirito giu¬ sto. Mi scrive gente del po¬ polo
operai contadini. Que¬ sta invece è di Renato Gut¬ tuso (e mostra
una lette- campa¬ gna incredibilmente verde. Vive con
la vedova del fra¬ tello. Il suo studio è una stanza nuda, quasi un
so¬ laio, con una stufa a le¬ gna e enormi finestre: al¬ le
pareti, grezzi scaffali ca¬ richi di libri. Si dice socia¬ lista,
ma non è iscritto ad alcun partito. E' uno stu¬ dioso di questioni
religiose, ha pubblicato numerose o- pere, una delle quali («
Re¬ ligióne aperta ») è stata messa all'indice: anticatto¬
lico, ha fatto di Gandhi e San Francesco i suoi mae¬ stri.
L'idea delia marcia gli venne molti anni fa, quan¬ do
fondcPil Centro italiano Il prof. Aldo Capitini, docente di
pedagogia e filosofìa mo- rale all'UniVersità di Cagliari, è
Torganiziatore delia marcia della paèe, Che partirà da Perugia, 11 24,
alla volta di Assisi. à 15 Aldo Capitini. Keywords:
il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi
conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis –
praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu –
Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi
noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51718135029/in/photolist-2mRCLwu-2mQtVUe-2mQwYd8-2mN9XHg-2mMT6JV-2mLP3hz-2mJPC2N-hcb6qP/
Grice e Carbonara Carbonara Avant, do lutter pour la libertà
de penser et pour l'indépendance de sa patrie, il avaiti pour s'assurer
le pain du jour, endnré toutes les rigueurs matórielles et sociales; et de tant
d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigoureux, plus courageux, plus
convaiucu de ce que peut et vaut la noblesse d’àme. Ausai ne saurait-ou
contempler, sans ètre à la foia touchó et fortifié, le tableau de ses souffrauces
et de ses victoires, na'ivemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et
correspondance, qu’a publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son
illustre nom. con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,
la sua oscurità — un vero sistema. In esso trovi subito un’idea che
l’ha generato tutto quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità:
idea ovunque presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le
divisioni, gli svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni
direzione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e
pratici.
Grice e Capizzi – la topografia di Velia
-- b ns z filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical
intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi
knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his
philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’
‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature
which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.”
Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio
storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma).
Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale
del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni
di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo
collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i
sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il
committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione
orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese.
Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi
Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per
l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento. Coltiva due
interessi paralleli. Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica,
che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele.
Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero
nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente
accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici
alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una
sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels,
Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha
avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla
sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del
suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne
sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli
sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la
conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi
di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle
singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai
modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in
vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è
quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e
che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di
alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del
dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto,
non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato
sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre
opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un
attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del
dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di
Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione
delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la
polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate
demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’?
L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla
scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche
del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci, III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi
Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide,
un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e
Parmenide", "Sono/fui;
sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente
profonda" in Il Sublime: contributi
per la storia di un'idea (Napoli); "Trasposizione del lessico omerico in
Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This...
I Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di
trascrizione: influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24,
modificarono in tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des
44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI
ELEATICHE 1. Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e
di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da
Cicerone ), Eléa da quelli.. Antonio Capizzi, La porta di Parmenide. Due saggi
per una nuova lettura del poema (= Filologia e Critica 14 ). Edizioni dell '
Ateneo, Rom 1975. 125 S. Diese Arbeit hat zwei Kapitel, die mit „ Il proemio di
P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia,
Alcmeone fu... 132; V. Catalano, ' L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli
Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara »,
Napoli 1965-66, pagg. 289-301, a pag la homoiòtes e l'atrékeia, proponendosi di
trasformare Velia (prima aggregato di corn, di villaggi autonomi ) in una polis
compatta e stabile. L'uomo... IL CARTESIO DI GIANNONE *Un grande storico della
filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi, La porta di Parmenide.... une
interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménide, en
particulier des fragments 1 et 6, à la lumière des fouilles de Velia - ' Eléa
commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico Antonio
Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in città, e il... 183 E - 184 A.
5 E. Pozzi PAOLINI, Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a. C., «
La parola del passato » 25,1970, pp.... e ritiene l'argomento c irrilevante in
quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche in una metafora
(p.... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una costituzione
aristocratica, omogenea e 402 ANTONIO CAPIZZI. proposta di una diversa lettura
dei frammenti Antonio Capizzi... del corpo sociale, doveva conoscere bene anche
quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche
scientifiche, come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra le vie e le
porte di Velia, recentemente dissepolte; e i " mortali ignoranti ” del fr.
6 tra i nemici non metafisici, ma politici, che insidiavano la libertà della
polis velina. Antonio Capizzi, incaricato di filosofia teoretica presso
l'Università di... un superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è
già il proemio: di recente Antonio Capizzi (La porta di... (RODOLFO MACCHIONI
Velia, e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza 1978 ) una
allegorica e... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura
di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela
cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su
Elea/Velia si accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la
strada e la porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante
pubblicò sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade»,
che attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi
condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva
riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi
visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al
1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi non
ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere
meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la
cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del
sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una
rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7] del proemio
Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura). Antonio
Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello stesso autore, Introduzione
a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE
SULLA NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario
Zucchello PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto
con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con
l’amico Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e
alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono
debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le
origini di questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni
universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi
della Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo
impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di
Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una
paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia
fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è
concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei
contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a
dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non
ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando
piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei
versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità
ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin
dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di
strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura.
Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro
della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla
composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero
greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di
filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F.
Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in
Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012.
Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale
un’ampia difesa della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo,
attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo
tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove
suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso
ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai
mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì
per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario
Zucchello Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo
quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di
un'unica opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας
altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28
A13), un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione
di Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π....
καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς
συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν
Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura.... E certo
in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche
delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli
Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti
tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1,
sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος
ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che
doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto,
preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a
quanto registriamo nel caso di Erodoto)2. Il trattato ippocratico Sull'antica
medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della
metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle
e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione
ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa
direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia
contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali,
tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως,
il termine generico φυσιόλογος3. Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi
"dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele)
intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli
enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of
Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M.
Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente
Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per
coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5. In ogni caso, al di là
della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V
secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile
un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla
natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che
chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una
specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei
propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei
di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di
ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con
Socrate6. L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si intendeva riferire
con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da attribuire a tale
espressione? Secondo Naddaf7, che al problema ha dedicato un'ampia indagine,
con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle
origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo
sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti,
origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma
attiva-transitiva φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere,
produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece,
«crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φύσις, nel
libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte
di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5
Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic
Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective
View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico
nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν)
contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo
racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta
medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε).
Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος,
μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro
evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente
l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive
qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes
si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto,
bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma
fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire
l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel
che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine
φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura,
secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene
nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più
resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8. In questa
accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato,
invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso
"tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe:
la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la
ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la
dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così
come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10. Il
modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico
sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno
alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come
περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello:
Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις
μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς
θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς
ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur
les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007
(Présocratiques), pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek
Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale
1960), pp. 201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς
ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων
μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ
τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν
εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno
possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò
debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso
verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri
che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato
dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da
medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la
medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di
chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20).
L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine
medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto
all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) –
cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della
medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del
tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione
alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato
ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse
da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι
λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο,
καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare,
rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e
sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa
sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela
quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui
polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo
schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione
di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria,
terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν
τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ
διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων
γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται
τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere
correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere
la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal
principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti
quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa
generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di
prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la
natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento
medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto costituisce
originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e
riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che
lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura comporta,
insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo.
Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a
due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα
πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν,
πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono
composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento
che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra
formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia)
e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato
anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre
che nei precedenti mitici 12: l'antropologia non poteva prescindere dalla
antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del
modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica
risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea
circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui
i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura
filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente
nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un
celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op. cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ,
ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι
περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου,
διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da
giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano
indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni
cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il
filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se
effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di
sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la
formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli
interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione
dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della
Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata
sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la
svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς):
il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion
d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause
fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della
disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte
dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale
in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva
filosofica peculiare13. Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione
dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di
Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: 13 M.
Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344. 13
οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε
λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι,
διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις
ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire
alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura
di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come
è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si
produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non
solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale
equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν
πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως
[...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di
fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων).
Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del
naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di
Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν
ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur
la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks
et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14 Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua
vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti
malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia,
ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non
saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il
privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν)
dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου
φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli
aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) –
evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei
fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε
συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine
(speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία
la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che
ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro
che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la
convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli
nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ
ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον,
τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ
ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται
οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti,
tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e
verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro
invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo
principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga
alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3
983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei
«primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα)
soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo
stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν,
οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il
tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o
qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2), all'unità di una sostanza
materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν
ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto
propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε
τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς
ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ
δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1],
ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν
τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως.
[...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che
sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti,
che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma
che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i
mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose
che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti,
pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del
tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che,
avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla
alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio
dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente
alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i)
l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte
a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel
linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία),
costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro
generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι)
la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le
osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ
φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger,
accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla
ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica
medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi
in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus
cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης
γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου,
τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς
θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν
κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura,
indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale
fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il
movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad
esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra
pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti
degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).
La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι
φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet,
Early Greek Philosophy, Black, London 19203, pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18
(i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii)
individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità
di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo»
(τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del
Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a
trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo
molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) –
sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto
le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης
[...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive
in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali
schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella
tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli
inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla
collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per
primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che
costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica
aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto
alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è
fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti:
quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti
e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono
«tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere
(οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema.
L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il
riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα
e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν
ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα
γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος
εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi
sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta]
che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta
reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e
procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri]
sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le
Sophiste, traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p.
240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999,
p. 190. 20 e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in
matrimonio (242 c8-d4). È appunto all'interno di questo ampio disegno di
ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della
«stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel
contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se
esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà
fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ
παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς
ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe
eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie
storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è
che un solo essere (Sofista 242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre
l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro
un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in
particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di
Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In
termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e
Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια
παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα
καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che
la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον)
fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità"
(l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo
il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta,
BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21
πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν
τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto
[l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi
[Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove
molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro
che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non
sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose,
mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα
ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν
τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre
[dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione,
opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso
universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se
stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi passi confermano è –
almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la riduzione della
dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita
valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista
(244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20 Sulle fasi della ricezione platonica
di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides,
cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη
μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le
parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di
più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò
che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà
parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del
cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ
δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς
ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς
τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν
περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς
ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ
οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ
φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης
γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale
al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op.
cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23
tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le
figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in
ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta
di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più
bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno
per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era
rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da
sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno
di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22. Indizi
lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide
una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo
il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato
Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa,
Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma
2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson,
Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson,
Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà
sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da
componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno
schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il
sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono
più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo)
le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici:
τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι
θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο,
τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste
cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che
sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che
parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo
stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12).
Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς
μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ
ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός,
ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές
γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν
γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula
dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei
naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose]
dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli,
in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo],
questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto
[segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18).
Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con
le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è
marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι
τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse
un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον)
e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27. In De
Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e
Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν
λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον
γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ
μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα
λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων
ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν
εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ
φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe
sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e
3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati
in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente.
Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione:
sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma
semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i
quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si
deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere
alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di
un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un
lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro
per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche
forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti
[sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1
298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne
disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione
dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli
enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio
«di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela
come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno
incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica
doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo
aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei
pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in
ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea
come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero
incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso.
Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative
posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel
contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento
(τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς
τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν
ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην
συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν
ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio
aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è
il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che
affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che
l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo
rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica,
su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di
mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che
affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale
tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui
pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È
significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio
commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto:
τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν
ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς
τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς
ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane),
Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara
infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli
enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo,
secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo
invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione
dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e
terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata
dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del
contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ
φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν
φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della
«ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del
«principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione
dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso
Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da
Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς
ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche
«sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo
grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i
cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere
(ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria
(ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e
non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ
μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così,
secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς
31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose
che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative
perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di
Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa
postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην):
è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce
anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile»
(τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo
sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità
con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ
σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς
εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται·
καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας
διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e
mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da
questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul
cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla
ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello
studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di
un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa testimonianza rafforza la
convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la
posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema
parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito),
seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e quindi la
problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca
περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo l’indagine
«sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che appartiene «a
tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a
ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia
propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla
περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale
speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità
con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν,
δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα
τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος
εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας
ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente
come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale.
Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi
principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per
accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause
prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli
elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella
misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di
questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero
della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in
onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano,
Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano in effetti «elementi dell'essere in
quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In
questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto
essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei φυσικοί è data, in
definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi
e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più
avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici»
(τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare
sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης
φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo
quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere),
cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali.
Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse
«tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli
«assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali di tutti, quelli che
«appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui discussione
non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto
della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è
indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi
riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul
logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico
dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la
riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà
che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di
verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la
tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ
παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ
φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che prima
di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato
intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che
dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες
περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità
intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5
1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come
indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò
che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella
sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato secondo
filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su
una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono
che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore
a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del
tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος,
nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi-
36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy,
cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello
scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C.
Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti
dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione
completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I
secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente
elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è
supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner
in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la
collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to
sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono
le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e
di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità»
intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia,
spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De
generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν
καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί
φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως
καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν
λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ
δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la
sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento,
alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite,
infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per
queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti
sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare
così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325
a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il
riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel
riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo
all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così
Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione
e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un
caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero
e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν).
Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la
determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine
gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν
πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le
letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero
«l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον)
«senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές),
«saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ
πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le
incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del
mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto,
omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale
ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una
trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude
con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto
dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita
riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua
accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54.
Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine
260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare
comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and
Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op.
cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di
Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo
squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione
dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα,
B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al
«percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος,
a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio
programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con
il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν
αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ
καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄
ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della
pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e
le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I,
4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e
comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza
antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα
τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ
ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’
ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più
inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra
camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin
quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli
dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII,
129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve
pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε
τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti
è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce
nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος)
l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema,
appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto
alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42
a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile
delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima
istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti
B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi
del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος
καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste,
secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a
quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla
pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile
e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in
modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43
In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di
salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino:
(i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime
in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina
dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non
essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές
τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,
ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme,
saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto
insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani,
molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è
esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda
sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo,
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto
cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità
di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato
completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν),
sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo
complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea
dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47
(prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide
nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che
Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ
μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ
Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a
Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica;
per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti
risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK
28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ
οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui
chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte
ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna:
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per
una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero
Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione,
testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in
particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition
of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford
2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello
cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una
prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una
«antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The
Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è
uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto
tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ
πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι
κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e
non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro
(B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che
siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle
cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν·
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione,
infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la
sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle
forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti
dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte
forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata
dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος
(intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica
con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il
complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una
conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti
attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica",
dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra
esperienza49. In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente
condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella
che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che
costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone
immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi.
Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un
semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità,
ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di
continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50.
Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C.
(che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande
interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del
suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta,
nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op.
cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova
edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe
et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito
dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare
l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che
l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una
sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli
enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo
secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza
degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire
- scandito da passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ
τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in
questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due
momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea
della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione
temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le
cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e
quella peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che
sono sempre», Iliade I, 290)51. La distinzione ben delineata nei frammenti
tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che
scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·
ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario:
essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la
verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola
divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo,
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge
all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e
della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine,
e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici
(in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ
οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7).
La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος)
associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla
necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e
stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette,
d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle
denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso
di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta
dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel
proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato -
Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto –
apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico,
sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo
ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una
considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come
uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni:
nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati
fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di
dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi
esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può
sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei
principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune
caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ
πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero
invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni
dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν
δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta,
autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla
seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche
dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello
esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente
influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle
e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo
diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides.
Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press,
Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical
Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53
– come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59
B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in
The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più
meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W.
Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si
ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene
Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi,
160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte
di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del
poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni
altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo
concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti
di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire
definitivamente54. Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima
diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che
forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli
allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che
nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da
collegare forse ad ambienti pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del
testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia
Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta
solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase
pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste
tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale
a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito
della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous
la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris
1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica
IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma"
del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione
diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8
nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da
Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non
propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo»
- il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei
frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI
secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare
la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di
analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di
prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca
(clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o
indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio,
Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη
τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58 Ivi, p.
5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht
1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε
τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου
συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi
miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito
delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21).
Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels –
l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due
differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI secolo d.C.) cita
sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al
Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio,
Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di
accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le fonti e i loro problemi
Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le
fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo
(tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni
filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a
centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.),
Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III
sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite
culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico
(III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è
loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63
Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che le
fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo
Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a
memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del
materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e
Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V
secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione
e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua
volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici
che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli
insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato
tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e
Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur
avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite
ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici
nella loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche
- Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso
a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non
siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3
volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco
accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di
differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può
essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione
"accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema
disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver
attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si
sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni
da compilazioni70. 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione
dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo
più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata
in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei,
Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo),
dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò
questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la
cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo
tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà
pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De
historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e
soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da
pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti
ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il
primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del
Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come
fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di
ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che
egli citi da fonti attendibili71. È probabile attingesse a una tradizione
vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano
coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle
alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione
plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della
validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da
Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico
testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento,
con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle
fonti)73. Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel
complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò
che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia
l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per
sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον
- fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in
parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun
affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da
ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli
Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli
dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio
(III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p.
27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui
gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo
fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe
escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del
Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di
Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il
solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale
alternativa a quella attica77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la
citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte
intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso
italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il
testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente
da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo
lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti
isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31.
79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume
invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3,
B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia
fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di
citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26,
B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera
parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo
completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei
suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene
che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di
Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di
Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene
ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria
edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per
la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare
di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich),
forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86,
di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di
Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e
Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni.
Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i
due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87, esemplari
di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione
accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente
discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon,
op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84
Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag,
Sankt Augustin 20012, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35
ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529
dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e
l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe
(531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo
il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam,
(iii) in categorias, (iv) de anima89. Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli
attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in
effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori
successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a
rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero
di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare
che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due
redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e
Proclo)91, a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono
l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti
fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema
sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato,
nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza
citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità
dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio
l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un
indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi,
p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi,
pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς
αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ
τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ
ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη
ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso
Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e
morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come
oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia
utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che
non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in
prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare
il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo
stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i)
l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of
unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del
commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al
testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere
sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando
l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di
scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del
commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa
nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro
proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two
Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971, p.
21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes'
περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος
ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο,
πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν,
εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo
discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non
potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi
che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo
ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà
forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana
il pensiero». Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si
intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema,
l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di
temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile
che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito
eleatico97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa
"testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda,
X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al
Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς
γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου.
[...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται
Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri
sia Passa, che richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto,
filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al
contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in
versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non
sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse
frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore.
Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia
nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica
fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità
di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale,
sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo
possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema
parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano
interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica,
perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio
potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99.
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori
presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei
pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere
gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come
anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le
citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la
possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema,
che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri
settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza
della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente
processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico;
(ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii)
una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia
e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista
e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene).
Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che
riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102
Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105
Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa,
ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo
greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H.
Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche
Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz
ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente
tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani,
Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza,
Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come
Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica.
Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica,
introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958
[indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti,
Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia,
Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven,
The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts,
C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A
Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro
discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides,
Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben,
Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique,
traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67
integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By
Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un
grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al
confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del
2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris
19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van
Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione
testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo
come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le
Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin,
Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali,
ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte
conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text
and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press,
Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla
Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e
note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di
L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento
filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo
la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente,
herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo
l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de
l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris
1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte
grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di
Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di
G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione
tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la
chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come
Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen
und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione
dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels]
Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano
2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura
di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II
(Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano]
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura
di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli]
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected
Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham,
Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per
specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The
Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso
Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come
Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi
interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld]
e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo
l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo
fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento
l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia
dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova
Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli
Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G.
Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è
davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in
Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P.
Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato
del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide
cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa].
Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
account of the interaction between the two schools during the fifth and early
fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J.
Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen,
Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van
Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova
Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides.
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von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934)
M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic
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Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (edizione originale 1932)
G. Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori,
Napoli 1978 E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und
Logik, Auer, Donauwörth 1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung:
Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt
a.M. 1982 K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte die griechischen
Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19854 (edizione originale
1916) S. Austin, Parmenides. Being, Bounds, and Logic, Yale University Press,
New Haven and London 1986 L. Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez
Parménide, Ousia, Bruxelles 1986 La scuola eleatica, «La Parola del Passato»,
volume XLIII, Macchiaroli, Napoli 1988 G. Colli, La natura ama nascondersi.
FYSIS KRUPTESQAI FILEI, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988 (edizione
originale 1948) P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation
on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997 P.
Thanassas, Die erste "zweite Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen
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Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit),
Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M.
Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2007
[indicheremo questa edizione come Gemelli Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús
(coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid
2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W.
Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die
Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente
und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano,
Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier:
Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker,
Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura
Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto
secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S.
Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique.
Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la
direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla
LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and
augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA
NATURA Frammenti testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si
riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla
traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76
DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν
βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1, ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ
φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν
ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς
γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες
κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ
καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς
ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ
Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι
λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema
parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος
nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si
tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH,
trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη
(E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ >
τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann).
Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel
contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce
κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota
relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι
del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare
Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il
genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων
da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην.
77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ
θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν
εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι
κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo
πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e
esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto
(Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di
uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto
Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è
attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon
(ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi
totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa,
su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo
- ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica
e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che
dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella
poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε.
χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I
codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come
osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford
2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di
ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1,
che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la
stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come
il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί
della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare
che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di
N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza
di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente
composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di
κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico
(NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile,
dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana
fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare
Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della
maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and
Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert,
Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo,
in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη
incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica
conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante
segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz),
il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando
Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che,
seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» -
riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa
scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19 Degli ultimi versi del
proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse
citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico;
Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e
ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος
(«ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte)
del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito
(tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero,
Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di
Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος
(che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld,
Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa)
preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile.
Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità
della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore
acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra
l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema
che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio,
che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di
Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe
invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei.
Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer
(op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math.
7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la
liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione,
riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico
dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la
lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato
come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti
illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato
vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la
forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione
del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione
autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι
come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i
pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80
[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio,
In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30
Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II,
366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta
ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23
La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre
il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più
preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281
ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei
presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω)
non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8),
incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba
comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα:
in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno
del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa
forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin
dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι
ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e
Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo
Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il
verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio
all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo
(impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del
presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse
effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui
nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione
(passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria
attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»).
G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464)
osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»:
Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza».
A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe
in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad
averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5, dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici
platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta
dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387):
simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
†... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto,
essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni
giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare
l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta
del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona
di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso
bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre,
sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων
(maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v.
22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla
divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso»
suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita
l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la
divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come
«strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici ed
esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro
condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη,
la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo
Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai mortali»,
un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo.
Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle
figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo cui l’allusione
sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10
Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός):
l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra
soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un
tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa
percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il
problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: κατὰ
πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero,
letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «là riguardo a
tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia ταύτῃ
non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile,
riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon), «through
every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero portato14, su questa via
mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte
le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese
l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη, «come
emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe
tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος
dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto
che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»). 12
L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane
B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si
conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque
legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi
allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa
direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come
la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta
narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già
avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare
questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla
successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente
introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di
luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza
nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di
conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5]
trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un
sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il
poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo
racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti
in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle)
e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima
ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un
difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the
Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per
incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe
essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di
guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto
la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito
alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che
πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge».
Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si
allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da
cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella
lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario
espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano
mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la
capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba,
per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una
divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante:
frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello
sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze
celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9)
alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di
Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra
il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo
σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari
rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua
rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro. Kingsley
(op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, Plutarco,
Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86 incandescente20
(poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si
affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24 la
dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno
dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza
(tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος
letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο
avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1).
O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche
– l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non
riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come
nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa
osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del
carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23
L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso
indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero
(Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel
mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in
un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa
Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988,
pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella
drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole,
all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua
impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione
Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto
è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo
mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva
funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il
participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il
punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle
Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e
Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che
accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»),
probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte.
L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia,
744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che
in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal
capo27. prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente
soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui
essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe
leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno»
(πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo,
sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione
genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione
sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella
letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς
προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da
notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos.
D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le
omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in
Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che
sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica:
W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian
Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi
sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e
infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del
Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno
notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in
effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo
Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a
πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più
naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del
collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte
[muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente
ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura:
DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il
suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità
simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una
esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma
potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema
regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente
(v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche
rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di
un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il
poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173)
segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare
l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2)
con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i
battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto
scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto
della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460),
invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος
rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di
Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte
oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745).
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι
κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta
nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a
Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57)
suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto
dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande
portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien,
p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2)
riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon,
per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede
che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono
condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione,
incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a
viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale
lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX,
312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero;
uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit.,
p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i
versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il
quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla
tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la
Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta
del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba).
Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte
e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole
(sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta
varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione
distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli
usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare,
secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene
effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale
κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109):
si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ).
La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e
attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a
un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.)
è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un
analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In
relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il
suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di
varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la
porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma
sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa,
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti
nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35. Nel poema di Parmenide
troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero
(Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo
potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la
collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna»
piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta
intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della
struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due
porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione
interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella
regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che
toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán,
O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura
eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra.
Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora
suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La
scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p.
453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è
quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il
soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene
che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός
(«soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli
estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver
avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno»,
replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con
acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»),
di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36,
che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15]
Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso
molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico
del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα
(«porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come
correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella
tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore,
sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749;
VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che
anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è
tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la
ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e
Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di
natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe
garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente
segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh
πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione
è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di
segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come
sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su
questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos
(p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?),
ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione
traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale,
accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di
permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op.
cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a
intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί,
nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός –
raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le
chiavi consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al
loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto è probabile che il riferimento
sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria
sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione
drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse
lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un
valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come
segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente
affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai
battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i
bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati
per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la scelta del complemento
μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il
racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale
al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo
(βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una subordinata), cui
seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono
queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione
del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali del proemio. 42 Un
analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di
portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che
discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli
antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op.
cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il
pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare
il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione con il genitivo
πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della
soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della
quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono
rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si
abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso
alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica
dell’immagine, che si frappone, con la soglia petrigna, tra la quotidiana
esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere
estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide
contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura
almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p.
53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di
Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno
della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca
τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa e il
complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là,
attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le fanciulle lungo la via
maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra]
la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente
associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri,
quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op.
cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo
dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe
dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con
«la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del
suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita,
espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le
proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp.
180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano
diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla
dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe
è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa (p.
53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema.
Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino,
Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo
(Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre
di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata
come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola
del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una
laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio –
l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide).
La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393).
Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides
and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert
("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras",
«Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio
definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte), variamente
attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato
come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia
anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale, l’unica divinità
nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e
Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria
opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale
orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e
alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo
tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O
giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva
opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la
compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del
precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il
Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos
(op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel,
Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente
tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un
poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa
appunto come θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per
poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo
che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da
accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»),
con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso,
dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono,
giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a
percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo
preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e
Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione τήνδ΄
ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla
prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico
conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος
δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era
una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore,
nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e
Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle
parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due
dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e
impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di
necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti
(p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità),
rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma
cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce
valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse
solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato
nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro.
Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo
di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una
necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una
costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno».
In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere
è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op.
cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per
la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer
(op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce
con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle
opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio).
Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la
lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda».
Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si
potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel
verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας)
non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide
passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una
«vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via
«che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in
quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione
della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον
ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso
affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza
parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è
che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone
e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il
significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche
l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque
denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati
in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda
palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός,
sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È
significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità
all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella
letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in
cui non è reale credibilità70. connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ
può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la
fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in
riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p.
199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951,
p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la
sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ
Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme
linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68
L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per
adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale),
«incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere
incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo
ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la
Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul
tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla
opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno»
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza,
il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la
dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero
manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica
giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta
attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma
responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con
«considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide
evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad
altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una
divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non
è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ,
ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il
logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante
il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια:
δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in
cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe –
secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova,
dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73:
come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione»
(Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di
utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92)
osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore
soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina)
«credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma
alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄
ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è
impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless,
«nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia,
comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata
in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena
enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea
intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il
kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata
espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del
frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides
to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they
are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può
indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei
mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi
a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La
prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è
possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico
(μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli
obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare
quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes
(One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies,
Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo
non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea,
effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι),
i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende
riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede,
precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della
rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo
μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a
πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The
Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton
University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti
implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι
suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre
μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto
di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα,
cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ
δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono
accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi,
quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano)
in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ
ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle
opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come
è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di
«correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai».
Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei
termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le
cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali
[le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i
termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono
l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études
sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in
Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che
sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso
pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere
eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp.
267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) -
in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il
posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di
τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito
peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ
δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio
nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν
(«considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto
legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene
sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270)
crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai
mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i
mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75
fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto
χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando
soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa
proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del
presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può
riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato.
Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che
necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di
δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse
contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa
alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo
passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p.
363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had
actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento
dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un
avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di
esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente»
(Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso
eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina
una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale)
un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di
gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien,
pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in
proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει... (anche)
l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni].
Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως
comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con
le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio
dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da
δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il
senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé
implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua
radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità
(Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di
Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e
recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι
sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che
appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo
διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p.
204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura
ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le
cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente».
Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205)
propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso
di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso»
(Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo
il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia,
in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di
Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota
52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato.
Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti,
l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo,
designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della
ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄
ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή
τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ
ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di
Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge
con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la
propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza
da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale
dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che
nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che
dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per
eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico
(Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2
Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide",
in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν
è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice
moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa
(p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico
davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla
dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale.
4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco
maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta
degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e
in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή
(Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli
di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea
III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a
memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da
τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il
significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non
si può raggiungere». 106 Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una
volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura
tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione
e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole
Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con
«accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come
«riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda
significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine
indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione
della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa,
e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp.
30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di
Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha
da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui
il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo
progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe
sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla
luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito
tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso
di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che,
come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un
«authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella
nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco
familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario
del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles,
2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di
compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle
ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ
σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il
valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel
senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso
forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole
possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il
valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È
interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60),
ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore
metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine
per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di
vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile
riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al
comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia,
nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di
pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una
convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla
conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile
in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello
nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ
διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia
congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca
rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P,
Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine
ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8)
l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di
ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5)
rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare
una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno,
assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e
Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda
qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara
Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione
richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40),
l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è
spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta
valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente
pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è
possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza
delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono
corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per
pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla
natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione
analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»).
O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità
sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les
seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità
nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare
contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto
del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per
pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di
Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des
Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12),
in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il
pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being,
cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come
suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più
specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano
traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in
profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos,
pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον,
B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe
indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel
loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza
anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e
il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un
sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso,
suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17
infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è possibile non
essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario non essere»).
L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano
(op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di
guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι
quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre
qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana
(p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a
esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il
proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui».
12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui
resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo,
veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni,
Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare
l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto
al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento.
Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come soggetto sia
ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13 Letteralmente
ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non
essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il non-essere non è»,
cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι: «che, come
necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio 5b (dove la
traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per attribuire a ἔστι
valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva: «che non è possibile
non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta,
in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni
logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.). 14 La
nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der da laPomba) “es
ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai.
Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le premier chemin
énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être». 15 Come
divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite,
alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque
originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura
della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta:«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più
esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso
7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una
formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce
alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio
omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato
da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare
naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών
può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in
espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be»
secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di
χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e
interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio
potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione
proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8):
«l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito...
l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito».
Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da laPomba)
“es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il
est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή,
che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per
marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti
cosa fattibile25), né potresti indicarlo26. transizione nel discorso della Dea.
In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν
con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella
frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare,
evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito
nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è
contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e
4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν
«lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via,
Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato
secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare –
attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso
attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero
«imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si
tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto
essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è
scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in
B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo
il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la
realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό
μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177)
essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato
in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione
τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso
precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,
necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω
(«fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che
οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione
di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche
a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso
tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala
che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in
riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il
percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo
il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ
νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440);
Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia
platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί;
il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione
degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller,
seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come
dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι
νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che
accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought
and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi
del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso
completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo
o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui
est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto
che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due
infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un
problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come
osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι.
D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il
senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la
stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase.
Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti
sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν
τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as
is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for
the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p.
194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di
«capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente
attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca
filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in
Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to
Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in
Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora
presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo
di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto
con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν
come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino,
nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...]
facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144)
osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3
costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp.
22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2,
integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ
γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα
νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare
infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε
σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente
Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem
1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio,
Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67]
La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1
Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς
(«ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner
preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει,
quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione
del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei
manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori
ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale
corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ)
nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117 Considera1 come cose
assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5 presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω
è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità
di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente:
capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento,
contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una
resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda».
Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel
linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea
di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire»,
«rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo
πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza
(πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un
senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni,
il suo valore oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti.
Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα,
Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente
polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba
essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è
possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con
intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando
come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza:
l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla
mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato
direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your
mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di
Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala
con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione
dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui
esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola
infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano
(op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7,
infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe
l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare,
ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione
Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy,
Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha
rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti
eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζον ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς
λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7
La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro
indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni,
sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione
del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona
singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp.
34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε,
«allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36),
l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto
dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per
noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più
astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto
raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio
senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata
da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque
complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954,
p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo participio: nominale
(ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere la tesi che già
con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non
riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti.
Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe
impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di ἐστί.
Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di
riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la
pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali
(ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità
semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9
completamente10 in ogni direzione per il cosmo11, né concentrandosi. confermata
da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa
identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono;
intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν
sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si
limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere
il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo
συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio πάντως
(interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro avverbio πάντῃ
(dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11
L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in
cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo»
(Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa
tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o
«per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il
significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p.
190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere «secondo
l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon
sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo
attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma
avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι·
τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν
è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121
Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta,
farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp.
9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point
from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il
frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato
e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un
riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν
τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα.
πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †... † 5, 1 I codici di Simplicio
riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso
poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la
ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di
editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice
F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ,
secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del
codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897):
τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di
Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione
manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del
verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano»,
«distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα
- «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura
Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda
via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω
(«comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce
alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità,
coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul
parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie
parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a
«comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da
questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe
ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] <
πλάσσονται > 6, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7
νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ
πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι
κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78]
propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli
(B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The
Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels,
suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta
di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In
effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione
(intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι
(«mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82).
Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται
(«vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται,
variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per
indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della
questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia
sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce
corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo
tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται
(v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione
πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I
codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita
da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer).
124 Dire e pensare1: «ciò che è è2 », è necessario3; essere4 è infatti
possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio
proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti
(λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo
(sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di]
pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare
questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due
infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή,
come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111;
ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative:
(a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e
pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una
variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins
de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ
εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che
è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste
cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi
due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4
Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti
il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione
dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati.
Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito
sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri);
«infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being»
(Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura
potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano
τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si
accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei
soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come
infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni
sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che
sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che
sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien
e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»;
«for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in
questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera
frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una
cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in
questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere,
intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come
μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere»,
intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare
l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere
e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere
nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be,
but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das
Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi
i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but
nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e
senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e,
seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene
improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p.
113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is)
is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la
traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά
(accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al
contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2
precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è
necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione
sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione,
e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν
τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del
non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a
costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold
you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti
distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo
lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni
interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso,
per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in
funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127
[5], uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso
nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente
(Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti
per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea
intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit.,
p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose»,
ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo
οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien,
Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83)
segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non sono4. Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9, 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra
l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui
impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza,
organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono
citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale.
Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i
due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia,
non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia
del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e
contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα
(abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda
condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe
autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe
da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11
[5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16
precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche)
per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine
generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas
(op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la
possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto
riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei
nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri
scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con
«molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con
«induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia
tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217)
osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità
e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα
e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le
collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6,
infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella
stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto
a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe
alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In
πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides,
cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it
must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won
over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come
«giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e
Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata»)
alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai
passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con
«enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la
presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti,
tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine
cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo
lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J.
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in
Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio
aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2
μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον
ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È
possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII,
111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di
B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
- è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente
nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono;
d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di
recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di
dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι,
i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto
δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente
tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς.
4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento
alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e
Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente
accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella
V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita
dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές
(«è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien
e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva
di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in
B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso
solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario,
6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi
l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto
identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce
Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea
a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I
sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico,
resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con
varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6
Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές·
μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge;
d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute
ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile,
propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile
appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori
(Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk,
espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con
buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in
cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito
all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo
scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta
da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν
ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto.
Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is
not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per
aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né
esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che
(con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende
(integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31)
– οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a
favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si
trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del
frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una
libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque
suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema
disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87,
1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone
(Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di
Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1
EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29,
18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di
difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
(Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri);
(ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli
accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa
seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti
secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180
e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ
(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci
sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν
ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a
χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea
Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo
dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide
impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a
χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν):
l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels
(1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26
La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori.
Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε
ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten:
i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La
lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo
secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un
relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo
determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ
(espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i
manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D):
κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4
«è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione
greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le
due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni
dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν.
Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di
fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of»
(Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way
only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος
ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il
«discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal
kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola,
discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune
recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From
the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il
valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide,
cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare:
«ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come
genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe
il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di
via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il
valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso:
non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si
veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra
σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla
convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze
dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi»,
«segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere
intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria
direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di
non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα
sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di
essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la
via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente
parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con
la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il
concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A
Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero
essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere,
quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che
escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche
da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit
einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da
Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione
del principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La
Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un
tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori
della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da
ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali»
interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il
mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere
deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience
(interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104)
come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso
(B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei
σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest
è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere
d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos
propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è
….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e
σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere
usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una
persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da
parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica
dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della
propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il
nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che
l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare
segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ
μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore
che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello
che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che
invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto
numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro
portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che
σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti.
A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli
(Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti
della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali
dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti
senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán
p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b)
intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and
imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable»
(O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto)
indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia
il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e
dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p.
95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto:
Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una
loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o
di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ.
μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον
in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale
dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo +
aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della
esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν
come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta
di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più
astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con
valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è
anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto
sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo
al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato
atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione
dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti
si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)».
Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di
Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di
“nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine
μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare
l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές
in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni,
familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω
Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e
giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53):
dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni
interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ
τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι
μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente
da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008,
p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys.
30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di
Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93).
15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza
mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207).
18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un
istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso).
O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν:
la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless)
sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni
logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata.
In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento
temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai
era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga
si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5
sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato,
presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non
ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95)
insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata
temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita
argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di
«ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza
dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21.
Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli
attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha
senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del
futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio
precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota
simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i
«segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è
senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni,
inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra
insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che
sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti,
è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi,
in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui
giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva
Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota)
legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato
modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all
of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide
intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte
le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che
l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso»
(Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima
serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni
dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco
dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione
argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare
dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con
«origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul
valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich
(Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo
passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le
divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non
permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che
«non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30, [10] originando31
dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita)
la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La
formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso
dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su
direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce
senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo
(αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito
riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli
infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica
situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato
le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e
Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come
segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo
caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in
questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta
negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio
aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto
all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a
perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla»
(Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia
per intero o non sia per nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso
come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella
ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (=
quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse
sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner»
(Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or
before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον
è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi
che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi
9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse
marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un
qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe
offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p.
194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più
presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come
manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in
alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il
“principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché
esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre
McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda
retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò
che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la
tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la
conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il
senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più
naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a
quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre
l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo
valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua
funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in
effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si
genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile
che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è
già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve
fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano
allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione
πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza
di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva
Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide
impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come
l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un
potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge
dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15]
ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163)
– il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa
garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante
dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide
(Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità
logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171),
Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che
è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει,
per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν.
47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola
ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a
marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È
esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di
richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a
proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della
corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»:
rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale.
50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono,
a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione
dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι).
51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che
non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso,
non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che
non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e
sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon
(p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής
(B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53
in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti,
non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà
oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide
la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima
generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede
in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla
verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di
Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51)
Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la
formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la
Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via”
può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel
poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a
Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci
sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi
come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è
sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati
sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.
53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν,
e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in
cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende
diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come
into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what
becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata)
di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») -
invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa
eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto»,
«essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si
colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο –
aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a
una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a
essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo
emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche
Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi
verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo;
ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a
una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità:
se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien
(“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153)
osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole
intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla»
anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente
Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è
ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero
che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come
«essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione
indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε)
rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et
l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196)
interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a
completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in
futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa
venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos
(pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere
non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie
un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra
tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è
estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia
di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta
e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche –
l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche
ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus
generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p.
196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι
(«imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la
via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era
impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è
divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che
possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la
corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la
generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere
investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97),
secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro
la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto
l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος.
61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta)
sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202),
concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che
l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già
oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche
Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide
punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon:
esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che,
considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non
sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe
all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203)
sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25).
63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci
sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν).
È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da
rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso
modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale
lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è
non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto
ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente»
(v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni
discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che
Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni
caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa:
mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo
l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il
valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197)
sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding
together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di
meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo70:
ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del verbo a quello dell’attributo
ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130)
segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di
individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di
estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per
rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204)
sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso
avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν
come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full
of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò
che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere
(uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la
continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is
adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso
dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò
che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν
πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi.
Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il
contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione
ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e
Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος
come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha
nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p.
197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v.
22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si
tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua
ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di
difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce
l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente
collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73,
immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi
segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει
la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta:
l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo
leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non
è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso
al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino
il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò
che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di
molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan
(p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una
interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel
contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον
si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su
questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata
– a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei
grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv.
27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
«movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti»
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a
un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La
locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un
autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è
questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della
freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in
Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi
limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e
πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto,
"e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229)
segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio
«torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è
evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della
relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità
che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero,
per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello
«già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è
chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica».
Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII,
296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ
δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι
e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non
potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano
la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si
genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione
adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco
delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α
τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e
indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se
stesso83 riposa84, 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un
significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far
away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott):
come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la
resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra
una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro:
Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di
generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità»
- come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta
argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις,
intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto
correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario
(Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta
in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής
(reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il
significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica,
con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso
stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto
sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe
l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane).
Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale
rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere.
McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio
del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte
verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura:
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero
verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre
nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi
ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό
possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente»
(prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua
prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87:
dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere
qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 84
Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di
Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di
Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora
ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano
riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come
la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque,
esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non
temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene
(Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι
μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime
dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è
tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi
variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere
militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la
stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto
intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il
radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan
(p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi
esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di
essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è.
88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è
figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán
p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione,
traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel
suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione
intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9).
Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in
Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di
necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W.
Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene,
Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione
come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964,
pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri
termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento,
schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere
che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine
proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare
appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι
τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del
cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la
funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in
termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89
L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς
ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una
potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90
Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza
sui vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la
tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali.
L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a
McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel
riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans
le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per
questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide,
cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν
πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει
ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν
ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene
di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con
fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base
dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di
Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per
cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio
ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν)
il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il
significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e
può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto
preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la
perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il
ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile
matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον
nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto»,
«imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e
l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore
di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la
cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of
European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate,
C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il
verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione
con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame
circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di
promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in
relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore -
più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo
cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione
italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95,
invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il
pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio
sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere»
ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere
(τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in
effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto».
D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di
tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus
che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche
Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto
convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […]
né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi
non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è.
Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine
Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp.
121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il
verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza
sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso
avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò
significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione
del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen
vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il
testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre
fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e
pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia
a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari)
implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili
altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A
Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio:
nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41.
97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande
discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i)
«thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there
to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p.
203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché
non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di
B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98
Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla
scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee: “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa
lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for
conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist
Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire
e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there
is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das,
was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore
finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist
eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de
quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente
McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato
l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una
sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che
sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte
varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono
rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al
quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp.
123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been
expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia
opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La
Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ,
proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione
risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that
where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né
esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a
essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has
been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a
una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea
spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν,
se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è
sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere.
Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata
dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in
dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101
Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero
è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di
ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν
e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute
da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga
formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide
affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando
che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto
all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la
costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e
unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione
dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso
logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον
– marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento.
Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come
suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e
della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è
sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108
Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo
(riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται
del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been
given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in
Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali
stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e
non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113. natura è data come
nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa
pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione
Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le
cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto
come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale
dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui
natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di
Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been
named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With
reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ
come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione
a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione
risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo
peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente
assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni
degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti
del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della
ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha,
secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono soprattutto
dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα,
«superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione»
(cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più
generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι:
la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo
fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9)
nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più
plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio
culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος significa
«estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo,
ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176). 117
L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è,
risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato
McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei
vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di
naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in
ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è
usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di
Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una
interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del
reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon
«completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze
(appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione
conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da
noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero
esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla
sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è
ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta
non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda.
L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal
centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non
sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe
senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore
più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici
della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene
che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti
che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma
facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è
completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità
della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il
termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con
Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e
che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso.
Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento
alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera),
marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed
eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda
con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη),
dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda
palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza
(Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa
«spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla
periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna
in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come
«uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello
dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte
di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o
dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129
- qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente
interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che
è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e
Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso
(traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano.
Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere
aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον
ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la
pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide
ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando
l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi
differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere
il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) –
per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la
ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle
ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la
circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il
v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso
da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo
modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro
i [suoi] limiti rimane135. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione
(riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il
termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio
giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o
luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era
perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con
la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come
altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce
di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi
attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133
Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) -
che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi
limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se
stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo
determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p.
127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si
valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da
qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più
letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p.
127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi
limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un
elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica
dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a
espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe
presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata
l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν·
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο
δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν
4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο
κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8.
1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di
Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori;
i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3
Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4
Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici
delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti
irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν.
Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è
per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con
conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo
più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza
espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la
probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν,
ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto»)
è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia
(Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν
non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν
certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e
Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6
L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di
correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente
a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti
principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori
(Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono
γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno
dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o
«practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση,
i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A
questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno
a Verità2; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6, l’ordine7
delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11. 1 L'aggettivo πιστὸν è
immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche
caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere
distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano
reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης
– e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I
due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione
della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε
[...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας
βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe
forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε
riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro
μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico"
che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e
memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di
una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un
verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini
gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora
εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso
B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza,
evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si
potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi
verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος
(come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro).
Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella cultura
arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2
Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si
sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il
greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la
sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione»
deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère
("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur
Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del
mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in
Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che
funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente),
precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione
originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello
specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e
della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a
ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος
significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in
avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto)
il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le
affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di
per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in
quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo
possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di
responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai
pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p.
218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo
riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111).
Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le
implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole
che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur
impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà
evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος
viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la
propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201)
il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per
il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare».
La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza
fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un
complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con
«seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso
dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore
(come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto,
l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della
formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a
due16 forme17, ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la
tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti,
parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη
segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle
parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti
significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula
esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία
(da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe
deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di
Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di
ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia"
innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa
l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle
opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello
dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto
che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani»,
cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto
sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone:
Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i
«mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come
soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt
der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.)
di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e
dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali?
Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che,
diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί
di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto
preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο,
ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato.
Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe
da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso
κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si
potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe
costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο
(«due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar
nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai
loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora,
considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da
κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa,
invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They
estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας
come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes
pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase
molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea
anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non
possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto
del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente
a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si
dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei
codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare:
«[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro]
opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di
relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la
soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero
i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero
a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso
una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della
sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la
tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας
(l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare
quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco
senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le
affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la
proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In
realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi
la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di
nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in
B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ
Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che
fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ
τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι
κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero
origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste
cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto
della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert,
potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica
è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha
colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e
physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che
δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente
hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così
a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri
(p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle
sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe
successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che
sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη
τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie
di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a
6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due
forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a
minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine,
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come
«external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche
alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto
fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The
Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la
scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per
un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20:
in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν
è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La
traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine
accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle
due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è
«di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e
Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe
l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di
Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di
vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in
μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista
interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra.
Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da
Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme,
di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato
da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without
the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da
Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner,
Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν:
i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna
delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two
Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha
riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe».
Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν)
che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella
che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels
(1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein
und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi
adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not
necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non
si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome
(τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e
riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso
numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore
consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a
un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di
Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile
(Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu
benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden
zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die
Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di
Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων
στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità
nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste
esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati,
cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la
soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of
these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è
riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa
tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso
complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte
della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa
seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello
stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation
of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione
con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν.
Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma
l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto
medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il
valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua
l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status delle due
forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν
richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in
vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si
chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici.
La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio
precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero
aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio.
Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore
dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su
due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini
speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26
e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non
è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas
rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν:
la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la
validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54-
9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa
incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore
denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p.
65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di
κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema
del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede
Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar
nome a due forme» e «alcuni invece scelsero... e segni imposero»? Optiamo per
la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore
avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore
copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo
critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo
«elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in
effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di
Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme
concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione,
sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e
Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente»)
riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας,
accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο
e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e
νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come
neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo
Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come
divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma
corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che
indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali),
egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe,
secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella
scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni
dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29, che è mite30, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico31, coglie una ripresa della
«disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία
δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella
sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo
fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte
immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo
fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha
mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica
connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial
light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente
l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera,
a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ,
avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare
una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1, B2,
B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente:
nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος è per lo
più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ,
potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o
«propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con
i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite», nel
senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due forme
- «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica
identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma
opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione della
cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà
emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp.
170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo
rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in
questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò
consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee.
Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui
Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185
rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in
se stesso33, le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e
pesante36. proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma
contraria ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio
questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce
Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere
fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza,
l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami
le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν
τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo
ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of
Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4)
ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due
forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità
delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi
concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas
(“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55)
ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno
dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non
si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale»
sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva
confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p.
240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e
κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come
τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del
verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e
le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere,
percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare»,
«conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche
«absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro»,
proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo
ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223)
preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in
francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata:
«dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa
essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò
potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su
questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle
caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità)
richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda
(per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri
degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di
Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p.
143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle
due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183),
riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος
sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto
della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed
esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…,
cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un
intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di
mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le
espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del
tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è
importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e
Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον:
«this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il
significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo
Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza
è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in
analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa,
Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno
radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di
rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di
leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323),
piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente
il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp.
CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς
ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis
(Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività
del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di
positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i
mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato,
probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p.
183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa
che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva
(p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine
(disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere
come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone.
Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52
(κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della
falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in
effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:
l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi
personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il
destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di
interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea
attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte
agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana,
ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς)
è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un
aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ,
in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere
rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole
a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro»,
modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to
be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp.
262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per
indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse
la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il
sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un
dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di
conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui
valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea,
φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere
al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo
divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio
alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così
acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva
della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p.
209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che
manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto
ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione»,
«massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano
l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni,
altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella
veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di
saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in
effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha
il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che
il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe
dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel
rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche
il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche
da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto
per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa
parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo
con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente
ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3):
l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per
individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il
giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei
mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale
avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è
quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi
finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia
che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché
nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα
φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è
in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni
metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1, e
queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono state attribuite] a queste
cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8, 1 Coxon
(p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in
B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere
soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I
due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2
Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da
Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri
(per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon,
Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo
con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle.
3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo
(«proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da
attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e
Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro
avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e
notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις.
In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità
essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa
è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con
«meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un
carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione
ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti
caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le
cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a
essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare
la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p.
162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200)
esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle
cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole
cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza
quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia
costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9,
perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può
rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da
intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si
interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché
invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9
All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come
fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale
Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente
equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di
una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p.
233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι
questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza
(non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono
alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze,
tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ
οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa
accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt,
Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»;
(ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl,
Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin,
Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero,
Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo,
Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»;
(v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che
non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche,
Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di nessuna delle due».
Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la
svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53-
59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte
le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio
sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α
μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora
[citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il nulla», egli dice
chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da segnalare come
Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione
nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234)
– μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza Parmenide avrebbe
rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso esplicitamente.
194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος
ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ
περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ
τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. [Clemente
Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli editori; il
codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno corretto la
forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di Clemente
riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ τε è
correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1 la
natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6
Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma del futuro εἴσῃ,
come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del
verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura programmatica del
frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il termine φύσις è stato
in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si
proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con
«Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma di spiegare
il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e la genesi
dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere
l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario
intendere «natura» come «essenza»: il riferimento alla costituzione dei
fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine.
3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide
intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono
gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a
ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso
σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli
astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή,
«pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve),
utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga):
si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής
(con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής
(con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα
è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo
contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni
distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice
ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere
invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi
«oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più
convincente. Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57
la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7)
sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du
brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro
unione implica generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del
mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi
dalla componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12, donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre
ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e
fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel
contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito
del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7
giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare
la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso
περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di
«occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante
dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare
alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il
suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del
cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo,
l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra). 13
L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla
spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a
governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν
πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità;
qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230)
sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in
conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν):
torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri,
p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione:
avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον
καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio,
In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I
codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere
comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4
ebbero impulso5 a generarsi6. 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce
probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2
La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste».
L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per
Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος
ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a
quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che
tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così
forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo
un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di
forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea
degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che
sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo
di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza
immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema
cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1
πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ
τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5]
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3
Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ),
πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο
(adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori
contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien)
preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista
paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà
metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις
(DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei
manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten
e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e
Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori
(Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a
Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld,
Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p. 86 nota), di congettura
bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano
μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE
riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di fuoco non
mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una
porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e
l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna
Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon
(p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di
Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere,
evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel
contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui
due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si
riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι
qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone
più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels
proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle
corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del
sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di
pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la
struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco
vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura
Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11,
ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e
alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο)
di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta
dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per
mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le
successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono
riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone»
si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si
tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica
(composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte
all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato
(πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti
cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201
in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα –
termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce
l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione
ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa
può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel
contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius
esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν
τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ
γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην
τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è
principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come
Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37),
facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e
cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma
Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di
ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ
ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione
(contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il
commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda,
per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία
καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama
Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo
Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente
all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon
(p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e
all’unione12, [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al
contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con
Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41).
10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla
dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra
essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è
principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω,
«avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della
Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e
lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è
esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna
del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia,
attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo
τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi
esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις
è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito»
(Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il
poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in
genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν
(il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione
pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo
elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio,
In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di
B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel
contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur
lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo
a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella
δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del
verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque
la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ
γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma
νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ
φάος. 206 di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il
composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte
visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del
tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di
notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto
νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon
(«shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica,
Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano
(evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga
interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte
nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato
accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come
B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di
rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα
τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio
rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi
all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la
sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος
δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu
il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro
[dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere
letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna
(luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente
gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva
Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce
propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται
ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria
(ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές
[Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,... colui che va
intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della
Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta
e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(«ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(«dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito
dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e
Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di
recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto
παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La
forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto
riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in
volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4, così il pensiero5 si
presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al
verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state
proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del
v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς),
ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto
implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις
βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della
«mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις:
quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere
le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις
trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il
termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione»
(Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di
Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche
in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina
ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del
molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi
omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con
«corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo
dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al
plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui
qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli
«organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben
rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy
(B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II,
p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia
immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4
Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di
membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo
umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte
direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione
in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il
loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non
ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore
descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν
καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa
ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων
φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)».
Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora
anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo
νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e
φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente
la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in
ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli
altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un
tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la
stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer
(tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di
φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό il
soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra
pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in
questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione
del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις
come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una
fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua
traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo»,
secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale10, infatti, è il pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come
comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος
aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si
ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte,
ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro
che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán
(pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo.
Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il
pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i
componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di
Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal
momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87)
interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in
the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M.
Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von
Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come
pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e
ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das
Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il
risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ
2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν
è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo
di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ
(Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come
inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due
forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di
Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς
μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως
ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito
nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi
andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine
pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt
semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV,
9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e
maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3,
che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non
diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza,
qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei
genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex
sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p.
254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue,
rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò
differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare
il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come
suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in
relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto,
contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti
possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici
normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In
Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano
ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli
editori. 222 Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero
origine4 e ora5 sono6, 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto
detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che
si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della
seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 -
δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione».
In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo
l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce
qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a
noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della
realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista
che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla
base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di
διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i
fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte
(tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una
formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ
αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due
versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono
nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν
οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui
impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della
trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente.
Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli
occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine,
la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del
verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la
terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale
nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane
(DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in
Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo
«queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto
rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi
(νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la
determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν
di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8. A queste cose,
invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La
formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora»)
contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al
participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente
diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di
futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento
dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria
crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi:
«cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii)
subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio:
«una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore
avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire
senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta
opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto
alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la
polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione
oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente
B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la
più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo ἐπίσημος
si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere,
contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire
è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225 IL VIAGGIO [B1]
Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del
poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi
termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ
τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο
κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος
γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane),
Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni
deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile,
avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando
appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il
successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del
poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei
secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come
mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia,
conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo
a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους
μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ
τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον
θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2.
3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν
τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν
δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι
τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’
[14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’
[29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’
[30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi
Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri
irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti
della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la
quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2,
3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna
all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle
orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle
Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la
luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che
procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi
dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza
certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due
cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento
immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale
credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In
realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera
di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della
poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di
prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune
l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più
complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento
dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili
precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne
l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica
intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema
parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in
particolare1: (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di
Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως,
ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente
all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα
πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo
dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero
cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che
evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale
(ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica,
di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne
l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee
(misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava
l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del
«pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche
nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels,
Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von
D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897),
pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla
tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide,
Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di
Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische
Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung),
ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona»
(Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di
Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι
διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι
καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι
διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ.
κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν
Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς
θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro
Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato
maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto
che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo,
rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno
con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al
più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste»
(Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale,
il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore
cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno
spessore originale2. 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009:
le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è
inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a
un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e
partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la
comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle
citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele)
che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la
tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del
proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo –
da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette
alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche
nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare
all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per
decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto,
comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora
molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations
sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007
(Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito,
verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro,
contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione
mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo
a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei,
Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua
fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per
«celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4.
A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo
nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera
si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici),
espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco
Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si
riveli nella parola con la sua divinità5: ogni mito genuino si rivolge alla
totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione
originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come
esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione
arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle
cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della
sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la
recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia
(tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi
ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo
senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente
per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che
canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si
distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua
è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito,
a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il
mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un
«maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che
suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la
tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella
dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6.
Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come
si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto
nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un
fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la
forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti
designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2)
l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla
formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura»
(κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei
termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος
(B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente,
effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce
qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore
di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di
«ragione») 7, della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea
innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica
con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides
and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito,
cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere
l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la
contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul
terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma
e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος:
il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che
sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα,
Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere
come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la
Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto
dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione
sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del
divino stesso9. È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma
e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come
pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di
un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in
effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi
possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di
proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle
Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e
Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura
poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato
per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e
il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I
frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura
di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu,
Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p.
67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e
note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale
all’istruzione 12; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo
naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione)
tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che
potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte
della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la divinità
garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama
soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che
di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13. Poesia,
educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano
dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato
sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona
(il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente
privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione
radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione
divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti
escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica
(mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni
elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di
un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma
anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la
divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della
rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere
nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text
with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai
contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale
ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale
opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi
epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre
educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi
fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una
materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena
autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano, Becoming
Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic
Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp.
30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per
recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione
didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto
stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o
lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile)
destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica
(esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica
(l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla
fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a
«recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che
aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo
nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come,
in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi
esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il
cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione,
l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli
(nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era
venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di
Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non
solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente -
rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era
incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica
natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e
sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura
arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V
secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988,
pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va
comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata
da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione)
– implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare”
(recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare.
Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere
la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del
proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua
intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello
intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza
«trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22. In questo
senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema
suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia
omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i
versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel
proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente
garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa
di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della
dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ)
fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico
(237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca
dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli
potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico
dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος
ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ
μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε
νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il
falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide,
tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla
fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue
parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che
non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di
un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata
dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e
chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non
divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto
di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse
probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26. Parmenide poeta È
significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a
Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει
ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν
ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista
e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano
proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di
preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più
riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους
ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur
risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse
cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ
σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς
ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ
πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν
> λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a
causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò
tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò
in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così
che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica
dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ
Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος
ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως
διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι
φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς...
Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
[…] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
[…] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati
campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e
proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità
(Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante
accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ αί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι
’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος
παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern]
εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a
massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della
poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza
c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»?
(Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice
omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la
raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della
complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed
Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e
soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre
parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di
recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione
epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle,
probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le
potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur
Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106
(1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del
verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia
non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per
la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e
cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31. La rivelazione di
Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il
desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito
della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe
finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in
concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico,
invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come
il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire
che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità
immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34.
30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti
in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un
reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A.
Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero,
Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti
R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576.
32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec,
traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile
spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio
della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea
come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina,
prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ):
consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il
logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane,
sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana
espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35.
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono
apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide,
Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro
intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il
corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa
1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide
e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39. 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo
ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema
della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza,
sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi
a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo,
abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è
esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno
all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza
alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se
consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i
passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come
il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema
dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W.
Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge
1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla
scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν
λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A
questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno
a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni
sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed
essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere
di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o
esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon
riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della
rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e
nello spazio45. Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν
ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia
27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona
poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così
scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente
nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente
manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione
poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα
καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei
attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in
Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44
Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology",
in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo
cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione
dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione
è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa
è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato
la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's
Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini è cosa
riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente
imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς
πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν
Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime
hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente
imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione
contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della
corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a
cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di
recupero»48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di
Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti
tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione
concettuale49. Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il
divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti
conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: οὔτοι
ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον
non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel
tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è
di Most, op. cit., p. 339. 49 Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e
Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La
Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero
l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei
e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la
verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su
tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e significato dell'ultimo frammento
rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica
per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto
affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide,
Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ
Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις
τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto
queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose
mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo
trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare
intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora
simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The
Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il
riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ
τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la
virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che
riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les
incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007
[Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la soluzione parmenidea del
problema della verità»52. Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere,
negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa
di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata
nel proemio come prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera. Motivi
poetici e suggestioni In uno studio molto innovativo per l’attenzione alla
forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54
dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare
interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le
possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii)
quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella
comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di
Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti
rilevati55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso
nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta;
(iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti
a casa – i 52 Germani, op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of
Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella
distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure
forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o
«significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»).
Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250 primi quattro appaiono marcatamente
sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in
primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di
ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o
implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione
(viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali
risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide
(divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei
«mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa
di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di
lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al
viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le
coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν),
mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte
esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni
di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν),
connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non
riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante
letteraria nella poesia apocalittica 57, diffusa nei circoli pitagorici, a partire
dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a
crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie,
almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro
che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella
contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente
la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei
precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21.
57 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω
(scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy.
II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge
1965, pp. 10 ss.. 251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai
versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il
vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo
cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente
designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli
misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59.
Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie
classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo
a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il
motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque
bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio
della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono
(l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un
bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta
nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli
itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più
o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno
(come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire
solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero
informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto
del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del
sistema»61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio
parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι
δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via
che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora
molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del
proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine
misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252
πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo
consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma
soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un
tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva
connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63,
accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile,
le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro
di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο
δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di
Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe
stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται
ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti
chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade
rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che
potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico)
come riflesso di un fondo escatologico comune 66: la possibilità che una tappa
nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito
oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino
verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca,
vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi,
op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben
attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ
κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν
ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ
προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto
[...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις
δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον
ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ
λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una
fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non
accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο
δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς
κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ
προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto
a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da
presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di
Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67. Così come l'iniziato è
preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere
per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria
allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una
volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca»,
evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale
funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II
a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da
sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente,
riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine
IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una
traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le
rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp.
172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello
di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et
Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005,
p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp.
115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel
nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in
località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le
prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si
faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di
ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli
pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria
assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della
persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette,
proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di
Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide.
Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento
del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello
sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato,
qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più
originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei,
che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in
cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni
mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente
narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo
viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e
può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la
divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e
l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951),
capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos
74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di
elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie.
Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il
riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina
(Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto
immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore
"iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In
questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In
particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide,
si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di
poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è
la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante
di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo
retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica
precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova
contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio
sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di
evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario,
allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili,
secondo Kingsley 75, proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva
dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese,
infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς)
costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76,
colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era
proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta
denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77:
l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit.,
pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.
76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità
associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a
modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo
della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia
736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il
leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80,
come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su
tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte
vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di
Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di
Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo
modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un
retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i
propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il
ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla
stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la
morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza
sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata
di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra
parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive,
ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un
determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla
ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe
difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto
“performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto.
L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse
precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria
rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80
Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori
(iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale
del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […]
incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei
papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al
viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato
l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo
conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui
ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la
topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego
simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ),
movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) –
segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle
figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come
resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in
effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu
ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che
recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto,
è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo
a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal
momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è
possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla
iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco
dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella
stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84
Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli
Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139
ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe
familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma
nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì,
Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una
vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto
come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico
Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma
letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio,
immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe
cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i
gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione»
può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle
evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da
Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che
Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che
abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di
Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi
direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo
insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile
ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88
Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle
Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio,
incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari
significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come
crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore).
La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione
divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato,
nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle
allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente
decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo.
Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90,
privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare:
(i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia;
(ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo,
tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse
sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A
livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle
novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore
a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al
poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha
colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco
critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il
dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia,
giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui
l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte,
anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto
poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di
evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra
proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il
coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in
particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera:
«il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia
del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A richiamare
l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto
alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del
proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del
sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un
imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi,
rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono
(e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G.
Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς
καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης
πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ·
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων
ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς
κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί,
κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες
ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος
φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος
μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι,
τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν
πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e
del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di
tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli
dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per
giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe
tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale
prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide
avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo
con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo
vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per
scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo
la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e
l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno
tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue
mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno
dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole
splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di
essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per
gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel
petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli
dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella
cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una
fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo,
ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale",
dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo
trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit.,
pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il
viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei
Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente
navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo
sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i
fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non
si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo
studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97)
registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra
Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due
prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato
concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare,
trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in
questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti.
Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano
le interpretazioni cosmologiche 99, si prestano a suggestioni diverse,
proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di
Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei
Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.),
Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si
sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire
sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità
di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla
località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra
prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e
guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque
organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante
distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου
ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi,
p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in
Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti
(op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς
ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες
ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso,
del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le
scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in
odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite
commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani
hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua
intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono
Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una
dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha
puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa
seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro
cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione
omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle
due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il
cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»;
quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui
proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la
sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e
del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto
all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest,
secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia,
cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva
verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche
dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra
fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così,
nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite
occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera
celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e
impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e
Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per
soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro
turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime
diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i
versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la
funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi
delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe
locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva
"verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso
all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες
ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli
inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza
[...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta
struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con
il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento
della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio
oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113.
267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente
privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli
altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo
originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei
contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato
all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo
dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e
ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno
di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo
popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di
veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite
dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza
sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel
confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di
vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità
dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli
elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e
l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni
delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel
caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra
esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e
razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le
strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà,
quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi
si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero
quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo
(e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era
l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla
titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione.
È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del
filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano),
indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza
comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante
l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel
socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos,
per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività
di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105. D'altra parte,
contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio
meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza
vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui
un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si
scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI
secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide,
legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella
narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei
- il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche,
intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più
vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati
a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices
spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p.
45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti,
a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso
Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente
e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo
ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli
opzioni simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario
dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare
in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e
la correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la
verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua
esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo
riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema
in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il
privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre
l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno
dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio,
è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata,
che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo,
sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei
frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare
stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con
le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile,
infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei
contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109
Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le
contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A.
Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno
dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della
apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la
porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del
viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben
evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι)
presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale,
per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le
fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e
«sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità
evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza
della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ,
destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός)
per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista
il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui
concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio
potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο
πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle
Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare
due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i
confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere
non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una
lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv.
28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è
necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b)
la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c)
fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli
errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra
esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le
cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme
davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice
avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e
realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che
veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione
della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità -
meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il
quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto
protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111,
che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In
altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di
trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile
primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni
al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale
trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il
riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e,
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto
meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della
«dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del
possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione
concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114),
cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea,
la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la
θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel
regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze
sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza
della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος
ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in
cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113
Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che
accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come
la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea
era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p.
108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in
tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il
giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse
in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta
avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella
prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione
mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo
coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti
estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la
katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra,
piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117.
La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata
dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il
mito di Fetonte118. In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios,
il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e
Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente
tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di
vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso
l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia
nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese
l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e
della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo
e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la
processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del
cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al
poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp.
104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere
l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice
la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso
del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e
accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana
L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla
θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli
inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei
versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal
percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta
del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea
XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti,
miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni
abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica
nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo.
Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come
ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il
percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei
vivi e quello dei morti121. Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel
resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla
porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste,
la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba
(Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta,
scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta
cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un
tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e
illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la
meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri,
op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi
portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno
soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque,
presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta,
percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto,
quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a
Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema
soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la
distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni
umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo
della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si
apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le
cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1),
quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento
di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi
(sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ †... †
φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura
della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι
κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i
battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li
incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit..
123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande
telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv.
11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del
poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la
sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124,
condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la
successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che
le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con
il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza
eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte
di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano
essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è
ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che
continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura
del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le
cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al
secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di
raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato
discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ
κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su
Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41
ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18:
«Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da
trovare e impervio». 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’
Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera
esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato
compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile
solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale
approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p.
14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι
δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero
avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta †... † l’uomo
sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto
avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5).
L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità
dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come
“imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue
successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2,
anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è
costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione
presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 -
al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla
rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel
presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della
conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità,
del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo
che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via
della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un
tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il
canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che
collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza
giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die
Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964,
pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII
"Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili.
Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il
ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza
visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione
partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella
ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo,
potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque
designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla
scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla
conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere,
ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del
poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere
distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente
avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena
cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello
oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale
prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente
al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla
comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria
aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione
simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del
poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a
scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del
κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di
un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità
Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del
frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di
Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo
dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine
proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi;
(ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo
della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli
altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre
potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro
rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza
che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una
valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere
persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire
la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le
riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola
elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in
Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla
regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel
proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι
ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue
misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la
sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134,
Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della
storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla
cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135)
aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne
accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del
tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda
Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza,
che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe
come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il
viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono
convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se
accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere
proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il
suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del
mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra
direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita
puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle
profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade
(il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il
mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa
muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del
Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano
Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa
porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del
Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della
superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca
il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di
varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo
posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il
poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per
ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138. Gli elementi che
abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata
coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138
Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo
mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non
forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è
regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste
inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per
marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica
difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente
della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora
necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un
viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture
allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo
non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di
Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o
situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca
di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è
possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si
dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il
contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo
del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a
Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile
un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i
confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava,
nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero
potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti
della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea",
delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro
platonico140. 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la
convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo
(non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco
convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica
di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di
illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio
attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di
coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della
persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione
della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero
obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe
rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide
potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance
onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale
(forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di
profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla
concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato
nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza,
proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione
dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di
trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai
limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono
evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un
contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni,
il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia
coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.)
dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un lato,
favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro
contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la
focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii)
il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di
katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le
osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo
Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione
ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης
(congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure»
«anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma
anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente
corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei
contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende
la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato
su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la
fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta
dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος,
«ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore
che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono
veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non
risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai
giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della
Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire
menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed
esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra
la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo»)
illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali,
dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca
contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false»
(ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione
determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di
Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata
alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia
dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso,
allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure
anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario
fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso
l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle
convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma
intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli
enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto,
l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca
per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente
manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore
dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione
(secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come
“Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma,
naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante
di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece,
Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da
Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν
οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ
μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι
τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente
intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli
capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK
24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e
proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di
espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose
invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19).
288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni
umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina:
Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto
tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale,
l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo
riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la
possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda
parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini
non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga
tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più
assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i),
Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di
cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o
ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la
distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio,
corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e
falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a
esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento
di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo.
Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da
Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea,
l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo,
evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato
come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione
cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema
148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per
repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero
essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo
logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide,
quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la
titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la
logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a
principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di
originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo
logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia
del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni
alternative151. 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa
parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E.
Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I,
Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello
specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on
Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto
utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes
d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La
vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A.
Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited
by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger,
"The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di
D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific
Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp.
169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati
studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea
prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia»
nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti
complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile
modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere
che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile
questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che
supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema
didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È
necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155. Una
prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi:
Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν·
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,
καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν
κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ
δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By
Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004,
p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza
parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento
commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos".
291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia:
ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere,
egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione,
i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986
b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da
Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς.
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων,
οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον
καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι
τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον
καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade.
Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse
convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato
e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare
la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno
come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei
due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione
della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica:
la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis,
dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte,
originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni
ontologiche a priori dell’indagine156. Certamente il programma della Dea
prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei
mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di
verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni
circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la
stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile.
Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra
la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la
(contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie
convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto
coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni.
Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non
può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del
kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare
un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce,
nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto
(iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si
intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore
fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole
(οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora
trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei
cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος
(«ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo
notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις)
riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il
poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle
opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da
intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole
«tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole
riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è
effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il
percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ)
che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una
nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno
non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere
coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a
tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è
necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come
invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata
dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e
le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse
saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2)
dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione
della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e
sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una
realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata
esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni
naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato
sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la
verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in
questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro
cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p.
77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul
programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv.
28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su
cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e
μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per
indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di
ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la
docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i
temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα)
e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula
didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza
rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza
della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e
la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità
dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda»
comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La
seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati:
il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della
lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità
e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» -
plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e
soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice
(δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua
ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare»,
«supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di
«apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense.
Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua
«funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le
implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda
irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι).
In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come
«plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e
accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν,
come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono
accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il
valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In
ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi,
con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali
punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli
ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse
assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega
non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in
essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente
controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In
funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non
ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose
accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il
contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla
base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle
forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella
verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta
delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la
struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose
e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene,
complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura
intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e
della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si
riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la
traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza
degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo
della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno
lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema):
la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e
nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale
programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo
scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice
dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno,
mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella
relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro
due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile
(logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente
afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è
invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito
del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una
consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo
averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno
ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della
tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone
in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma
anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica
(sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità
della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento,
sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea
rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina,
anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la
dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire
tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e
Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale,
accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la
spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come
rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione
della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il
nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta
anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per
denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata,
coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I
modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente
centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse
l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della
esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto
umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162. La formazione
alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana
dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163.
162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op.
cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente
la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di
fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero,
fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva
comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda,
ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune
quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche
Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo
punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea,
sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e
dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo
stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una
trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che
conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza
giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario
celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora
di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque
destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto
il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è
decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà
di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa
di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le
allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per
la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con
riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta,
e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che
potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto (p. 37). 300 LE
VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione
suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del
precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1, a ridosso
del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo
inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6,
B72, un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per
manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un
tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
(«di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo
che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8
(la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di
B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς
κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione
DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per
esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben,
übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis &
Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301 della
parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella
mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è
rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La
Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta
del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni
immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La
sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea
non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non
designa neppure puntualmente un soggetto6. Un solo impegno è stato assunto e
quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5),
l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una
volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio
(μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e
trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la «parola»
divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il
canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del
mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare
posizione sociale, la sua σοφίη 7. 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To
Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la
Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων
ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον
προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della forza di uomini e
cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e
invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane
aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ
introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti,
sottolinea l’urgenza di illustrare la forza persuasiva del messaggio al
destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione
è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione
argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della
situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente
discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo
il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di
vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime
l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli
strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di
base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il
ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe
nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8, negli
asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io
dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις μύθοις καὶ
καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati,
con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς
ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare, poi, tra
gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria
e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω
Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe con
l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B
sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini
(letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non
è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι
l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con
l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto
privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative
incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per
un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa
divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9:
il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia
la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di
Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare
la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece,
riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di
una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10, ovvero
l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della
filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11
La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare
ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più
sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione
del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva
all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era
radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la
convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea.
Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della
Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) –
ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare,
fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa
espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta
sul contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che
abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso
presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e
complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come
rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo
averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via,
impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo
nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento
con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto
della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito
e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig
e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op.
cit., p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι
utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso
lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ
διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere
informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il
contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν
γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano
oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la
propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la
ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti
tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale,
torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che
Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος
ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli,
sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22
B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca
intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo
senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14
Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di
Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un
percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via
conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità
richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come
πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è
possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere
all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse
hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque
solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie
uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia
(i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso
potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere
pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare
corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo
dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva
determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato
attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»),
introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato
che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando
sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo
Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi
del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma
il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o,
secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso
impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo
indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio,
di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie
dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime
agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema
(soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare
che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur
giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la
comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in
effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν
ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις·
Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché
non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in
B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit.,
p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una
discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel
caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in
Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa
difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la nozione
di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle
sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di
giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e
B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso
di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di
informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e
inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua
prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità.
Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la
prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione
percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non
è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa
radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di
afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche
vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la
ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la
finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι:
«pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21,
«comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce
palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in
risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo
già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι)
la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20
Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende
alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ
τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che
è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione.
D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che
esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere
(B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e
che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la
ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν),
rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità
del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si
svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν),
pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere».
Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto
impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi
e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης
τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che
non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. 310 Per pensare
Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in
relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della
Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque
si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso
di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva
del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme
(«vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza22,
discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti
«mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio
anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος,
rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo
che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione
di B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con
riferimento alla via che, grazie all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha
condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli
uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός, precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di
ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua
“essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22
Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”,
cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del
termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ
δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da
scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in
precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua
derivazione dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso.
Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è
stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς
ὁδὸν πολύφημον) che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte
diretta da cui attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il
(nuovo) percorso per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla
Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa
coincidere la verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva
del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è
essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a
partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini,
insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale
comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali»
(manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da
un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione
(segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina
interlocutrice per istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a
determinare l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso
Parmenide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi:
natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare»,
come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p.
211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è
[possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι
l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo
risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale):
l’una che è e che non è possibile che non sia l’altra che non è e che è
necessario che non sia. La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata
alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto
di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν...
ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema
oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando
aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben
rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera
credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità
tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle
reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate, 313 anche se non (come vorrebbe
qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. Nel caso di B2,
l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della costruzione
(ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare
costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due
emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
[…] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι
(B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si
fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative
(sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’una [che pensa] che
«è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non è» […] (B2.5a), e che «non è
[possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b).
L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella
avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere
l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente per
esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato.
26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma
in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che
non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per
quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce
l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie»
può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel
contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale;
avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b)
e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso,
sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di
ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non
essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28: (i) «[pensare] che
A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la
seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di
vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile
non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non
essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos,
Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli
enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli
enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è
necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non
sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore
dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It
Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno
necessariamente vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere,
quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch)
l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive
(quindi in termini di espressioni incompatibili)31. In questo senso la nostra
scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è
possibile non essere l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea
puntasse ad associare all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la
forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco
verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν,
τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine,
due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si
impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il
loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire
al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato
dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le
principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato,
la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento:
dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma
impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero,
op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione:
Der eine, (der da laPomba) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da
laPomba) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero.
34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on),
sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40),
all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked
about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever
we inquire into»42. Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna
relativa al soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali
propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i
codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico
testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente
interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi
enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere
in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in
considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera
l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per
esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa
supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto
o come soggetto esso stesso) fosse una novità46. D’altra parte, l’esame del
frammento consente di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di
costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la
Dea sottolinea: 36 Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39
Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and
Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides,
Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen
1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le
citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di
un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed
esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora
implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν
τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il
dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla,
invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome
indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente
diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in
altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile
che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non
immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per
l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio
oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare
progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno
intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità.
Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo
pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti
della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8,
assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R.
Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica
di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit.,
p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione
«ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio
ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria
nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide
(rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il
traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero
soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il
lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν
(οὐκ ἔστιν) 52, una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza
linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma
verbale esposta all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico
soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza
persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione
sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del
puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici
(soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57
della realtà, 49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti:
Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che
preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al
supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su
questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas,
Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette
University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è»
sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale
al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R.
Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo
aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro
osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si
potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ
ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319
presupposto in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome
indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità
dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo
dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere».
Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la
Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι.
Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da
Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della
dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di
ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a
comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi
alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non
è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è
(B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo
astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità
degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è
forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G.
Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato»,
cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e
verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia,
Firenze 19772, pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale
in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile
in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione
intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p.
60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un
soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa:
Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il
linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320
che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di
quegli enti61. [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione
suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa
al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε
καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ
δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è
necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι
risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile]
nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è
aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni
verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione
l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι)
è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che
appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora,
volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi
chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il
rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente
comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di
O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che
senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν
θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In
questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν
(B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι
sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6:
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era
né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65.
Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a
proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν),
nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal
valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile
il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia
l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è
(necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte
dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si
debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle
«opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da
Mansfeld66. L’identificazione della seconda via con quella del mondo
dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in
B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile
[e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può
concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον
(letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso
assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea
la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza
nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto
espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le
due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca,
le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i)
generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al
coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale
prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si
fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né
potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la
negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e
che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di
contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di
pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia
intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura
espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la
contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione
positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e
necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8:
la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν)
di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è
necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ
ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa
fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il
percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è
accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è
possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
- di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il
viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare,
allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del
non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule
modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché
siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso»
(κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che
Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69.
68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης
τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ
ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il
più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che
l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che
non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il
seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante
perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la
direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In
questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica
(Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione
(heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro
accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo
della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ)
e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo
del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna»,
ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento,
conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui
svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con
intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile]
non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato –
dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via
(B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal
momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente)
natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi
d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario
non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per
«nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un
enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non
essere»76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti,
(a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op.
cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non
è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών
ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non
sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione
tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e
ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio
il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore di
sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1: esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸνο ε ῖ ν
ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο -
καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ
ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι
τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una
opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non
poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice
anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie
ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo
simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare
non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno
immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è
intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La
collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo
più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a
complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo
cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6; (ii) proiettarlo
verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7, con
argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla
compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti –
νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie
(«le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό
γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via:
oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che
esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il
senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν
ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno
decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in
passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233.
Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα
νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello
che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180);
Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni
si implicherebbero inscidibilmente9. Questa conclusione non è in discussione:
essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e
B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra
i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di
afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ
(B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere,
concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non
sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato
giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non
veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando
fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia
con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto
qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il
rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con
esso12. È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν
non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è
infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è
necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3,
secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due
frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore
esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della
tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il
generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti,
quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13, «Erkennen» 14,
«Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche,
op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13
Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente
funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con
«conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità
di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che
in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare
quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a
marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua
negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a
meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con
B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19;
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si
vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la
versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.
337 non troverai il pensare22. Cordero osserva come nei due versi successivi si
precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il
frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta
possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via
«che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente
(«che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il
linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse
effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato,
semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8
l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero.
23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il
suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice
argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente,
Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre
parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di
pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie
di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente
nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere
e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva
l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso
proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di
Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di
Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ
παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non
è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre
l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno
(Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi
contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ
καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει
ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26
Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide
stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è
nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo,
le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si
connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς
λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27,
comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il
concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione
peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non
introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ
τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno
secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non
ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno
e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura
adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come
assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla
tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della
conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò
che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9. 28 Ivi,
p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con
τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della
prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi,
avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e che non è possibile non
essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe
giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare
l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda
via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco,
cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che
effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo
impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι).
La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha
l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento
Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza
apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della
mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto
intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due
cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’
identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32
sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione
immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici;
dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità
è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione.
Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da
intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce
un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare
senza essere, nessun essere senza pensare33. Dall’incrocio con B2, B6 e B8
abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la
sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un
corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed
è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con
la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via
alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella
che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op. cit.,
pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza basilare,
implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con
due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente
un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto
di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due
verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova,
come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare:
il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si
riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprattutto
alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere come oggetto ciò
che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel pensiero. In apertura
di una comunicazione di verità, questa osservazione è capitale: pur prospettato
(più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve
svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere pensabile (il che
non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della Dea, almeno,
nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al
filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico
di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora su pensare e essere
Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua
collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare,
proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio
fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è
l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto
indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e
B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e
φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di
riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui
Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto
possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione
sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della propria
comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse,
ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo
la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio
soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε
μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra
vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed essere sono la
stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν
e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i
curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν
in modo da evitare di renderlo genericamente come «pensare»; ma non è facile
aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di mantenere il valore generico
in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione
legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν
come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre
all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie
in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in
ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto,
consistendo di fatto nel riconoscimento (intuitivo) della validità del
principio del terzo escluso. In attesa di trovar sottolineato in B4 un
ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità
di rendere presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo -,
possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op. cit., p. 69. Leszl intende
B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le vie di
ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore
passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di
ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente
designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero,
intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di possibilità
(«le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico;
(ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una
connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere
esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o
sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre
l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità
dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore
(fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del
pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto
designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37. D’altra parte νοεῖν
è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono
determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che
non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente
ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è
sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν
corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che
appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che
genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono.
Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre
presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come
proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa
realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza
dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre
costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua
collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla
prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e
funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a)
Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo
frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in
quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2,
al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo,
quindi, dopo B19)3, quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare
intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare
convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la
oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo
Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ
δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del
molteplice nell’Essere4. Che cosa rende di così difficile contestualizzazione,
all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al
disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena
intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J.
Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis»,
1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die
Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L.
Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il
quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide,
Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i
vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile
valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν
(vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i
possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il
noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante
il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι
αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ
ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν
φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν
δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche
Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo
genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede,
con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo
che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche
che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli
occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che
Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι:
adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5. La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente
caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il
pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi»
(τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di
oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo
l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente
colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi,
ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione,
possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di
Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha
la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose
assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo
«presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso
all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale
e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie:
Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur
Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare
(rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi
attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e
supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano
empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a
quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una
realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che
Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel
linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di
chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo che può essere direttamente messo
in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il
pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla
curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica,
senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in
particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e
spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε
νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7. Possiamo inoltre
marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria
dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma
semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà:
l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione
dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che
traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una
soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono
accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che
presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che
proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo
alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola,
op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone
pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale
ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα
siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti8. Elementi che puntano in direzione della
seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad
associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare
i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa
(spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere
la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto
che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente
“ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la
molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si
è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza
dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio
consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει
sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto
sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente
anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro
indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non
ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350
all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio:
il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato
nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che
verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente,
attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo
errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che
l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω,
che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente
passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla
maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei
giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione
didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura
di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e
l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un
pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op.
cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5.
16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della
prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver
svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le
due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il
contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la
differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con
Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura
dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma
alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il
posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della
«abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon
e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del
frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto
per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della
dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che
indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν,
della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una
alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ
πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai,
infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente
in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita
a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) -
di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere
rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce
a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare
l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver
imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi
paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già
in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è
indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ
καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον
ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ,
μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e
Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale
in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo
stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ
κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ
τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle
altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal
caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece
richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore
genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano effettivamente
riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως
χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη
πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων
ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν
τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν
εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον
ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι,
καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα
τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον
ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ
γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις
προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι
βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa
veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in quell'aspetto per
cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei componenti della realtà
nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi. E,
mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo
della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si
reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G.
Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele,
Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza
di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla propria natura e
massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo
raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre
regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia,
preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che
le è familiare, avendo trovato una via che non stanca. E le cose più lontane
fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo,
perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino occhio
dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le
accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi
senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21. Quello che risulta
interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe
peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la
dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli
elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo,
invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del
mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai
tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione
della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31
B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo»)
nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica
di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è
presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine
delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con
l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il
parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane
fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα
τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama
complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione
è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e
vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente
significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle,
Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati dalla
sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso
l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla
ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La
possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di
concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e,
in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος
potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto
alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di
B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della
seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche
specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un
riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto:
qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di
una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur
non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come
Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano
Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι
δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς
αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito
(B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del
frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di
condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale
e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di
Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo
avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che
la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per
contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più
consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di
Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi”
scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui
originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio
(ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating
Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella
seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno
coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti”
(Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory
(EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ
ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello
stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza
mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si
disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un
tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo
concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit.,
p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006.
358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia,
riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma
scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza
originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli
elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali
elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i
materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli
esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello.
Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e
propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi
convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza
generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una
legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di
questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che
Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως
metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come
generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che
l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili,
omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la
seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle
proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica
di Parmenide33. Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la
collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi,
pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio
è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi,
pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere
correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano
un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di
τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel
movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i
rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte
esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del
principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1),
in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ
συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α
λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti
che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte
che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda
[…] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ
πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK
22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di
versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o
meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del
contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe
l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa
concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile
funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i)
come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti
paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso
comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica,
a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione
della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34. 34 Op. cit., p.
251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in
una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò
che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a
partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque
all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire
all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di
Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la
relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν
di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare
in qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove
prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere
mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del
frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale
andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di
B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la
ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la
verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος
(«massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς
Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) –
appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la
forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo
conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota
minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione
della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È
il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il
principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ
παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce
della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra
difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato
Coxon9: nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una
direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali»
doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la
circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni,
dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10.
Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione
delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di
sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare.
Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe
contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata
verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da
Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione:
intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente
anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea
avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia
ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il
grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio
contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi,
che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In
questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396)
sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit.,
pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE
E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di
Simplicio (quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla
stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso
a B22, per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων
λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ
[B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν
συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie
non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in
quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti
[citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam
117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il
non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via
che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In
Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una
valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione
di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di
contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is,
cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In
questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da
parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio
salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il
primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore,
in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ
τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν
τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται
λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa,
quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio
l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una
sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la
sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso
B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto
(in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a
cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei
versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό
μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ
τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ
μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες·
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in
quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga
l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno
di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di
essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono,
tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli
unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio:
τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che
evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4
ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν
(letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è
costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo
reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un
passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione
di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni
alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come
appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e
νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il
«ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta
appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo
blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità
semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare
l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su
cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7: formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8, è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica
– è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la
dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a
riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e
discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo, in B6.1b-2a, ella
reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44.
B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il
carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla,
invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di
affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta,
ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La
traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque
particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative
plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo
emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla,
invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν
predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:
poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso,
esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due
soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una
duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della
versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione
dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι),
esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la
doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non
esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che
essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio
di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è
riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità,
in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle
quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra
(sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva.
Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa
sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due
vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal
fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso
la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in
B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece
con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non
si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16. Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una
congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità
che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe
a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato
due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno,
ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica
sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando
possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come
un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere
che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi
assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca
imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è»
rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per
pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della
via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile
all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto
l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In
B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati
delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla
[ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze,
come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in
particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel
complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il
nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è
possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si
è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la
Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo
rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda
via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque
un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose
io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ
δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il
rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della
realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della
confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve.
Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la
Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν
Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3,
allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece
non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima
via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo
greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base
di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata
vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla
Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι
(forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of
Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota
al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει >
since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ
σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin
> for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la
lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico
dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore
possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla
incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento
come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui,
ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì
solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e
riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo
necessario integrare secondo la sua lezione 24, ma offrirla solo come
possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura
tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il
dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica
indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non
essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che
dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a
partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7
rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la
necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso
che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a
quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per
la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti»,
l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno
naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque
plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica
nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa
«prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella….
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un
modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la
soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una
sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero
avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di
ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una
sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe
«l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non
è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii)
infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere
sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di
Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4)
sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento
che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt
concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per
precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in
modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le
uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le
uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali
dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone
«essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι);
(b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la
necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra
immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non
potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi
alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie
di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della
complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt,
Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi
cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale
dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore
e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla
Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!)
la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe
Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ
ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può
concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente
caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31.
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6,
sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare
spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella
produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna
la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo
un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza»
si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa
percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo.
Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento
sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio
perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa
interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà
l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e
propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai «mortali»una
prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che
nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica
per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente,
immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come δίκρανοι, «uomini
a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di
comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei
mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la
“finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa
situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς
φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente
frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la
loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione
del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal
modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν
αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello
θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste
determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che
sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς
τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e
ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono
in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione,
che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà:
gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei
«mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva
della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero
(Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel
petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più
importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo
concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca
della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità
mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in
quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale
che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di
Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ
ο ν ε ἶ ν α ι, τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice
che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di
coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν
νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως.
τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον
ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con
intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla
legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano
dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le
cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della realtà)
degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una
condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41. Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che
pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei
corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia
di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388
fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata
correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di
«coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di
B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι
e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente
formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro
scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie
alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio
cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e
concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano
a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi
in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam
117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν
τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere
nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando
con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra
inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere).
Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente
l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»),
ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per
essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la
Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà
contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità:
proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in
questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di
Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge
l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero
dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a
marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt),
magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole
Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di
B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze
espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio
precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o
dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto
allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono,
tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso,
citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo
indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione
consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla
sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in
B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del
verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che
Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il
greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista
ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel
linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν)
presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore
ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe
genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche
vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione
esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema.
Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici,
una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a
rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di
Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza,
altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo
(Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente
comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un
pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha
ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui
lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe
espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti
nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der
griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das
Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische
Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and
Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si
veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento
cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito.
46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον
καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393
In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide
potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili
dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica,
infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato
all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti
pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare
un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi
significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in
relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων
ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων,
λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In
tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì
quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro.
Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non
determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...]
(Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ
περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il
primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi
(è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca
per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti
culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul
rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel
commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è
maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz,
Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli
altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia
Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione
motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta
dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle
conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono
spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni
eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp.
134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente
concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della
lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον,
συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e
non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e
dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10)
ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν
Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22
B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due
volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si
valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti
diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν,
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i
quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa
cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán,
la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei
contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che
l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui
appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la
stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide
sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla
logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un
legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di
pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza,
soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a
tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura
radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea,
discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di
Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere l’ontologia
parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui
provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della polarità presente nel
modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di una «sostanza
generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una
legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi
di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco espressiva
eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le
parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι
κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento
alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo
punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51
Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in
Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi
si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori
dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e
propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del
mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo
studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di
Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria
dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati
paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle
oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56. Così non vi è
dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del
tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe
infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57. Lo
studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio,
nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via”
del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente
umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio
impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione
peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58. Questa
osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del
referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come
le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che
si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei
pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi,
nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe
approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il
materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la
versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri, op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206.
57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the
Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e
dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der
Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto)
diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse
profondamente di quegli schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato come ciò
risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide:
del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della
diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secondo il
motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di
rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una
prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili
schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate,
potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea:
considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica
e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti,
sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità
applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di
tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma
inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa
anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con
alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali
contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si
proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne,
consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta
una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur
avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la
maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al
λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia
delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica
parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti
colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui
l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii)
ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della
realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di
fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto
apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere
e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere
e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come osserva
Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν
è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι:
il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e
oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione
«mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che
Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della
Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger:
νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la
communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70.
A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna
anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le
uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte
potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui
reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op.
cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p.
170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento,
ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un
collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In
Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo
verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a)
riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos
VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e
completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi
3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale
ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1, nonché la sua
probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo
emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso
della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista
argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro
dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a
causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα
(B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3,
B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo
blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il
problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e
per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ),
cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando
l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp.
91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a
riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire
l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto,
ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7, non appare del tutto
convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica
citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria
(quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque,
che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da
un esemplare di tutto il poema»8. Nel caso della sua citazione sarebbe semmai
da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si
impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe
aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente
distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della
sensazione come vero strumento di conoscenza9. Nonostante perduranti
perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a
riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al
presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico,
per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle
“vie”. Una via che è impossibile addomesticare L’attacco del frammento,
infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6
Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo
emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι
μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe μοῦνος (in vece di
μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe
metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy,
cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο
δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti,
questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di
ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con
la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in
guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε
νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano
evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a
denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della contraddizione
appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di
ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un
pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: (i)
l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è
inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii)
il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con
la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta
discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La
contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza
«è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione,
si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile
“domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per
damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea,
lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione
della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si
giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della
“seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato
immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di
informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è
piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce
a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza
del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5
(Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non
sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi
Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con
soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più
voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti
dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire
esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un
complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale
(εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di
pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) –
condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto
instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe
impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero
"selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato
a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio
il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe
impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta
dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due
frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo
introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49,
rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide,
soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p.
77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p.
263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una
posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17,
secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente
condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma
delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da
Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2
proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore
o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ
παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in
senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura
parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una
contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui
alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα),
e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
«non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che
esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo
come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il
vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in
successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo
osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è
suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di
aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per
«pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν
εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa
impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di
ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste
cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei
due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente,
quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e
pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe
supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione
con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe
esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ
ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla;
e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele –
nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam
650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a
Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al
vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo
dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per
indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici,
effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma
anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è
in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che
l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini
a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo
verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op.
cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali
che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla
disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e
l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per
evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22. Che
siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto
dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e
dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di
far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi
successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume
mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su
questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via
di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit.,
p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che
mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel
frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli
sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era
solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente
(πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la
dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che
«siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi -
evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere
scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo
richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al
kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b:
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione
introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la
possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria
intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi
a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente
contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω
>, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello
sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente
sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto
all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica
della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di
Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per
distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di
«liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e
premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni
scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a valorizzare
in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato
lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a
immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa»
(B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28).
All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per
pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla
manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette
in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης
τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro
sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea
metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e
distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno
stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella
scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via
sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp.
48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman &
L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio
(forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea
inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano
indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1
denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già
segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del
fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali».
Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato:
la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano.
Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit.,
p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono
definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della
Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea
contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali
che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il
pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i
(o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie
dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine
quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono
appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il
linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα
(B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita
in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie)
certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la
qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti
416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa:
evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è
guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere,
inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in
guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro
orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla
ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso
dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato
nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione.
D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la
via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata
dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi
sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti,
richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente
rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso
dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione
linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit., p. 267. 32 Conche,
op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo
della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il
linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di
raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in
Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del
linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e
assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che
attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non
rivendicano33. L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9)
come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo
discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della
Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27),
l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel
percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo
con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso
consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e
l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore,
stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più
grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e
eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce
allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un
effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto
di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria
identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo
affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses
successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di
Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione
suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla
pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel
giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via
della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in
relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento
della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il
«vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo
di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a
collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura
nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con
la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna
(come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in
precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli
Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto
presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante
la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in
campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre
critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come
sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte
cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit.,
p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto
viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine
conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano,
op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è
dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio
lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune
ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione:
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν
ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in
Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma
soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα
μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι
τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα
(analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui
Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza
omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo
statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza
multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del
reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è
quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose”
sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima
forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle
cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che
in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di
comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una
osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando
si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una
formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i
mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali
perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48. Logos e elenchos
Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me
enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra
vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44
Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47
Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a
valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con
l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche
«molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del
participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con
trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza
della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra
umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del
logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono
come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare
vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è
il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è
colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422
modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare,
accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi
proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta
sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse
pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è
consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle
posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della
semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la
negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può
ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti
(ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per
pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι;
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul
cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro
contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui
la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica,
una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè
procedimento dialettico per eccellenza 51. 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su
questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E.
Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica,
Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento
B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla
Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono
riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo
Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo,
Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato,
almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo
originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo
già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica
per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e
comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi
superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi
Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera
comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame
critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente
designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva
coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς
ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι
διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου
συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo
di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti
versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere,
le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29).
Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due
segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito
concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per
passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi
della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito
delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν,
τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo
verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi
di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.:
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu
apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le
opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai:
come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente,
tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata
- per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1,
ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι,
anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in
B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben
rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e
ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La
sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da
mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè
una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti
dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità –
soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e
consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il
poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava
all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica:
probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce
(i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5,
come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni
semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in
silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto)
incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due
terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv.
1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola
ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi:
che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane
un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di
alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and
To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via
che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei
vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν,
ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce
sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola
ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν
(espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la
conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è
fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è»
(τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον)
e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di
informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è
conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è
riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo
la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio
di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che
imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere»,
rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere»,
garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco
inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e
conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act
(Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare
mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι
ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono,
persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in
conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso
affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni
mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare
(B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni
della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria
inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa
applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul rapporto tra
il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in
particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études
sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5 ella
aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la
«prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il
discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile;
molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti
che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra
πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del
riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere
usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà
allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν
e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei
«mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come
evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità
dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a
quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in
quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli
interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e
non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza
dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella
πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali»
(ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una
differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare
un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea
disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento»,
maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali
che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε
μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state
respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in
B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica
corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
< πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto
mortali che nulla sanno, […] schiere scriteriate, per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο
δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano
cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38
ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in
che cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il
fatto che, prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con
cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo
simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali
stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che
è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa nel linguaggio: a
qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali parlino e in
qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di
ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea:
trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua,
ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che discende,
dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν:
l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali»
che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52
marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e
l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile»
(πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle
nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments
in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema
interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È
la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne
con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto
trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo,
appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo]
tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha
costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta,
esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia
diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire
“umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi
opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita
e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere
in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον),
del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e
implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia»
lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di
orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea
diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza
della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono
immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il
riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere
consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς
ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso
di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ
κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che
veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato
(anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come
risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo
anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo
stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla
12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri),
fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi
dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui
il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa
di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il
richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde
l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i
segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di
riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del
proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo
(Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto,
piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella
comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale
revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che
"è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di senso comune e
contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola dialetticamente. È
indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre
in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato
sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –,
sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure
(divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi
costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una stessa esperienza
comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più
il ruolo della guida divina e la centralità del tema della via: è la Dea,
infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la
Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà
discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della
via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane
discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8 è
introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella
narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi
come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e
percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come
Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio
registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita
(vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές
che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e
senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,
uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον,
ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra
costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν
ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν
ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον
τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che
sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso
appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da
Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui
seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan.
Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento
è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ
πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde
cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008,
p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25 Noi abbiamo
preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione
cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443 L’implicita
opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a
ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto
dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è
necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile modello
argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo
accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la struttura del
procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον
ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί.
οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό·
τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει·
Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile
dire e pensare che «non è». Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Così è necessario sia per
intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di convinzione che nasca
qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle annotazioni al
testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten della forma ἐκ
μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444 L’argomento –
insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto sottinteso
(nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ;
- «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde
cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν) «originando
dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii)
che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non
rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione
della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore
garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi
associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La
struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε
(v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove
«questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in
proposito28, appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12
emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere
di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ
γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος
γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα
οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se
è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal
non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere
[...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p.
177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche
agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ
ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων
ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε
γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι
τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι·
οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι
γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ
μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei
pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi
hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono
sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi
sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge:
poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò
che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere,
infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal
momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le
conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere
stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162,
11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit.,
pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca
esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον
τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν)
μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso
pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non
c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa
lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione
dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore
intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo
delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον
ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi
viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano
necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος
(secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le
possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di
ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da
Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν).
Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico:
viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli
interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili)
della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al
kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i
passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31
Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un
modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere
l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv.
7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447
convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη).
Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν
- οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto
leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della
prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una
effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di
fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde
l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op.
cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non
sia33. D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e
risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che
sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore
del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne
conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il
ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse
rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono”
(garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di
dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36. 33 McKirahan, op. cit.,
p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in
particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata,
Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de
Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008,
per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima
sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea
l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così
formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale
nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile
intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν («cresciuto»,
da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema
dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali
indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine», da cui ἀρχή,
«principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere»,
da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα
γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti:
la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni
necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il «come?») che
richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti possono essere
letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di
γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire
di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan, op.
cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura Proprio la
connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle
stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti,
pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del
tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν =
τὸ θεῖον) immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3). 38 Per
esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è
conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla
Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli
ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei
fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον
εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ...
τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]
dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1],
parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al
di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno.
[...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la
totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν)
le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il
riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della
testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse
si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ
τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι
καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι
δένδρωι φ λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato
dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di
questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che
circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose
verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose:
gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale
processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del
tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra
interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora
un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il
costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ
δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43
ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione,
rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e
arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la
conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di
γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto
alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e
Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in
contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»),
presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e
appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος
ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν
ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας
περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας
καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una
certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che
è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi.
parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione
risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and
the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione
rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è
tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and
Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp.
89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito»
(φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è
«eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli -
«senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν )
- che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua
volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone
il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel
complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa
«nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro
soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e
γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che
è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a
esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione,
insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione
a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e
21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli
argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando
l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione
della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la
corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o
ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa.
Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος
(«oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p.
193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής
(«del tutto privo di informazioni» B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze
elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della
tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere
teogonico) 47. Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio
potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i)
«principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione
all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base
«caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων),
«a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con
il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle
origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire
degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla
si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del
principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel
principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e
dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul
modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo
aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà
intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come
origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto
intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»:
Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il
resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W.
Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp.
362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che
avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di
"second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i)
perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle
altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non
è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi
sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a
considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ
μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive
argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei
frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema
interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit.,
capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti:
per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford
Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con
qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un modello
analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford
Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi;
non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra
rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di
quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca
per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3), «l’altra: non è» (B2.5); (iii) la
seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός («sentiero del
tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia
(cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende
direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per
escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue
sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che
coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo –
il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più
discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel
commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i)
Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel
«nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per
quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe
generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto
che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un
momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto
ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in
presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento
determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria
causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più
antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione,
al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si aggiungerebbe
un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al
tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a
spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che
in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa
determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si
generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per
cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci
ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai
generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere
non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel cui
scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del
principio, per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra
all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op,
cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ
διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane
nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della
circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου
τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale
(Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν
μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ
πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον·
ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν
vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la
terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al
centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti
verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è
impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente
rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del
Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una
direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide
l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla
si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione dell’essere,
tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il filosofo
intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui,
«originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento:
nella completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna
necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per
la sua generazione54. Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un
rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per
intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non
ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura
importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero
assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa
fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa
darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come
indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione
prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva
discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto
omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a
partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e
incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si
attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe
comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende
da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta
incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal
non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere,
cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È
plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione
sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga
fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi
«accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere
comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1).
La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella
“personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ «non permetterò che...»): in
questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione
razionale (οὐδὲ ποτ΄... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di
convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo
precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella
tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione:
essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da
superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà
a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata
dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven,
Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel
complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del
divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli
cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo
studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva
la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e,
soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento
in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica,
si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale
spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e
in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non
escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia
quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione
cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e
Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del
poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento
dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui
per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura
ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che
abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12
richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile
un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa
e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura
parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή,
quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La
Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op.
cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici
fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può
concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i
quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al
rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68:
in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La
questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione
del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è
elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una
collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di
sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione:
persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito
di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale;
(iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio
del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα
κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke,
Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o
«via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura
dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni
“trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che
è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure
svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69
Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua
opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470
garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle
parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere
dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike,
in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν
da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini
preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia
oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo
costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di
salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro
passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la
discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e
omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro.
Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a
un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea,
supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia
assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le
figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto
trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema,
tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra
parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv.
15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ
ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73
Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità
che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera
interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι
τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι
E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è
nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo
i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ
ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare
l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ
ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne
riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma
riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν
esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale
inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione
lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H.
Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le
espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito
in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea
dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la
caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita»,
«inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco
a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν
(tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile,
poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di
essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È
perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile
al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον
letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in
altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi)
identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra
questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione
garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30).
L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità,
alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può
inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente
tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa
impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è
tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che
centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che
sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν
τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento
dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal
contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno
è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e,
ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo:
«è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme
Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte
espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione:
πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni
materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe
in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo
sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la
negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con
l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον
μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a
sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ
πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato
della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo,
che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe
coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν
Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono
due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi,
p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i
giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di
genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di
potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe
impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo
pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite
intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία
δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente
il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla
scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità”
(o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo
come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν,
è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione
della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo
degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata
sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno»
(κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi)
come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico
delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi
esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle
cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio
su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si
differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in
Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile
eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη
τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse
furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite
al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce
(vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato
dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo:
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa
cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui
[il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea
recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ
εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo
la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι
- e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente
essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi
in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per
l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος),
che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a
livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue
immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli
eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo
irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire»,
«cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες)
della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica
sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in
altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già
esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare
luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata,
risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino
(vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da
quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui
essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit.,
p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν –
in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità
(generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della
necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si
spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di
dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91)
- i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero»
(νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere
non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come
l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro
cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in
verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio,
qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o
dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto
essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a
causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano:
sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte
(trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel
contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa,
intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere
dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro
(dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In
questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma
non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto
perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria
cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato
dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si
riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il
tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza
divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta?
Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte
espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ
τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una
generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento
di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico
(nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato
nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e
nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo -
apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia
emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione
speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni
(ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le
incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93
Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto
concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa
attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa
a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei
presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un
tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la
comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per
l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver
fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura
della tradizione ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel
frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine
mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere
intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che
nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος):
ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità)
che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare
integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i
«nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la
superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere
e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν
e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente
le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la
fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo
Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi
(πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità
dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere
fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e
costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la
precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto
(πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi
traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che
concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo
particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio
ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον
τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia
in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì
meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale,
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente
due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per
comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione
dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura
dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν),
manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie
perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite
estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli
interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di
B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας)
vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη
χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν
πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν
οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς
ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene
(vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un
limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente
evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον
καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon
μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in
precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono
associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di
costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in
relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας
πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν)
utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica.
Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e
avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H.
Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des
Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano,
op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p.
140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò
che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ
κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora
l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν
τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò
l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21)
Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal
confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron)
Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων
εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo
diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso
stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e
tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare
proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità
e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49)
di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso,
infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto
alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno
della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà
cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De
Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono
tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati
neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono
omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25:
ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è»,
«ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v.
25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε
γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non
essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La
proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la
propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In
effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας
πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto,
dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si
enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un
avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che
è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di
M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in
Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in
ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua
"densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ
δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno
(vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità
(τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne
(con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne
eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la
inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a
livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del
nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come
abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti:
(i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον);
(ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος);
505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso
(«ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla».
Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile
tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi
– sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque
esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque
coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta
"in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò
che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative
conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei
versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da
quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) -
come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla
cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla
"ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa
realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali,
che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις
τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che
evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è
presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di
diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della
Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν
φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si
divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv.
50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la
prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e
terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del
frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta
nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea
al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν
λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei
compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη
τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν
πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος
anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i
non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose
da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda
parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica
milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente,
apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo
sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane
interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν
ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al
pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara,
l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati
risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»;
(ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας
βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella
divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si
rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur
continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla
corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico
adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il
linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di
contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in
mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che –
nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché
il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua
esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse
da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci
attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse
opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse
l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa
lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica
dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e
Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul
passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che
l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al
κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα
πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è
comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è
possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di
κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della
costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione
divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali
(σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del
kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente
plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica
«mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso
sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in
particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque
l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di
ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione
dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei
frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire
una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella
della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare,
con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere
(attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è
quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un
ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze
intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε
σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti,
che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni
direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema
rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli
enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν,
alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire
dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui
tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre
in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella
molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce
l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche,
senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non
annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come
all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza,
ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini
sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati
mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in
cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza
dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3
nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è
spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si
rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza
sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più
coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando
credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di
«tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία
ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura»
(φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ
γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς
δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per
questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale
natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato
Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che
raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del
non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni
di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una
ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in
un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza
con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come
evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e
non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518
Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma
dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere
apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura;
conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come
Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un
errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità»
(νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento
di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può
ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la
propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema
linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto
discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione,
infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa
si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le
principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli
studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente
nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o
specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo
antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea
allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso,
in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica
milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte,
la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno
della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da
parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso
potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la
sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che
il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale",
ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha
interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto
«appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra
segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a
posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ
πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene
imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due
momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v.
53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario
[nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida
sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi
linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del
se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile
credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ
[...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le
caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59).
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora,
qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile
riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς
ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον,
περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ,
ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ]
κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ
Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi
[Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se
consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle
connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo
in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella
tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i
poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole
e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in
Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello
elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo
rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν
προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα
δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον
τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa
attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è
mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto,
quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la
pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose
compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide
intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale:
l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο
δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ
δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece
[elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri
[...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse
sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - ·
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati
fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella
direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente
connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non
sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo
senso, come ha rilevato Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e
cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza
che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque
sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni
credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo
ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta
sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla.
Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità
oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A.
Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit.,
pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua
esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di
denunciare il rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato
Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il
dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per
esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo
appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro,
però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra
sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza
(B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala
che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura,
tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme»
e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto
occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ
που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι,
τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ
τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς
αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν
λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo
senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello
delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a
Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14
Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei
fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici)
e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere
e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω
καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme
a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono
principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo
parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro
proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari –
e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur
opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate
avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico,
emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro,
senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione
di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è
sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op.
cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente
essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio,
nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta
la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla
necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui,
in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν)
e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono
segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...),
la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la
decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία
ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende,
dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come
confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della
Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è
assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di
riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra
cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος
πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla
scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da
Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale:
l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο)
e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν).
Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana
risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui
esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà
(come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento
di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella
comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che
il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale",
inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui
la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto
accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo
falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione
nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro
che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda
sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas,
“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle
cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto
illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa
potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione
(μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la
possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide
potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà
fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi
poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di
stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle
indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti
alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι,
ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza,
ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538 LE FORME,
L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione
preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema
parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα
πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ
ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E
se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che
entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto
subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi
di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente
come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la
scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11
(ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o
addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld),
nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione
generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono
state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19
l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo
visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In
particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine
delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας
δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione
plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha
riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di
classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel
commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul
complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che
accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione
elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune
denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità
degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo
dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che
venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano
questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di
più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno
(B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν
ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22).
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo
far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso
ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al
duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di
uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν
(B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι
(B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla
precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla
Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος
proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle
narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della
fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che
è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος
(l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano
nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa
disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba-
541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio
della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno
dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la
doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse
la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe
dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già
ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a
una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della
dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo
"riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come
sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον
πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα
πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ
καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος
ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων
παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la
luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha
detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e
tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più
importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il
sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse
funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica.
Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento,
possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione
della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state
denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La
consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua
costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che
pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un
modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni
luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito
esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v)
distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli
procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi
σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero,
raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e
dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί
τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν
καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ
ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ
βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso
Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e
morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come
oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale
strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo
aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3
la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme»
concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione
assicura la stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere
rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da
principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la
presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme
(anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario
ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili
agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e
immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc,
per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve
rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica
l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5
Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE
AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da
due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e Simplicio
(tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del
commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione
approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco
dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito
dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di
B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro
contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e,
ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse
soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti
(Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene
citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela
dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che
cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole
ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il
commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10
costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che
chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un
"secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548
proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος)
- e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica
e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della
δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La
disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto
compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque
preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ
δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν
ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell
propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur
Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura
eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le
opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche
della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo
che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo
costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far
«conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni»
(πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα)
del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far
«apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura»
(φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto
intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far
conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11
(nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide:
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων
καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide
intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive
l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli
animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come
Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea,
evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i
temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali
nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non
è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in
Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono]
di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella
forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται),
proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla
formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più
avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera
terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida
esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i
corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto
governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice":
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che
lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla
contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed
equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto
rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo
manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna
– insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione
reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare
della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero
«distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici.
554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico annunciato in
B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso
a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo
a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva
essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei
primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν
περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco
più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più
accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione
degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un
primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci
dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in
apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più
strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui
alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione
dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti
superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ
ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας).
Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius)
dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la
sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere»
avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’
ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una
sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa
interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso
americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno
contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la
testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa
di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco
e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28
A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide
distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in
Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle
fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle
testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico
designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto
centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra,
concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia
sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora
igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente
Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più
esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno
strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e
igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p.
266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il
cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii)
vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄
ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per
tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i
rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti
risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide
avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto
intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri,
condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e
ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ
νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς
ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo
nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il
Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla
luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da
Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico -
densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37)
- e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata
concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle
testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione
peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il
lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p.
336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν
καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν
λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν
τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα
καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ
συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων·
καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ
περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν
λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης
περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ
σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι.
Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo
diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque
diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale
nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che
siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino.
In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto,
in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo
essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato
[compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo
e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre
modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si
generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che
nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia
parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate:
in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν
τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge»
(B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος),
anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea
che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ)
si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla
sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla
Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella
ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le
citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della
posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i
dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del
centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo
estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς
δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore
eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda
fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza
fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera
aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi
celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono
concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla
relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo:
quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata:
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν
λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ... κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ
σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν
συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ... θ η λ υ τ έ ρ ω ι
’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω
ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61],
dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così
[vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione,
ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto
chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ
μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ
συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν >
κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più
centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide]
la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e
Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo
d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν
τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς
θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς
Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι
σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον
φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che
nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione
centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i
Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi
la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura
monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede
in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del
sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con
quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ
κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω
διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα
τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως.
πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno;
iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi
passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in
senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in
mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le
altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano
nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ
κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ
α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς. καὶ πάλιν
πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο
δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς
ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα,
μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω
μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο
ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου
καὶ σελήνης τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ
περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν. καὶ
περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν
γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην.
Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto
[dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e
«misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che
primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi
divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole,
quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del
focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»;
quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole
e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre,
entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla
disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle
cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK
44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano
stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo,
sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione
eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si
appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος
«la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica
sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον
ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ «perciò Parmenide
mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia
[B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che
effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica
(πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite:
Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è
molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo
dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων
τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros
e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se
l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero
riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι
κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse
fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice
quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης.
La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in
particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la
«natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al
centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle
citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella
tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν
μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ
παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η
τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ
μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco
eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη,
da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica,
Hymnii 27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di
B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la
[dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La
collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili
convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina,
potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo
centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla
superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà
implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta
di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della
divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare
come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile
efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui
cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli
denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’
ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge
dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio
l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe
concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata
da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione
sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco
il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione
ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29
Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ
φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας
αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν
ώ λ ε θ ρ ο ν, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni
cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non
v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E
ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è
necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine
finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso
[principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di
tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle,
come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio
Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza
distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della
natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο·
ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή,
φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ
περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di
Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto
si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è
aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e
soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν,
ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola
sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene
Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ
πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει,
κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ
τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un
giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in
tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il
fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è
dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo]
(Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la
convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della
speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio
(καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi
cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν
κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni
vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει,
che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui
Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È
tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco
identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς, sia in realtà solo l'espressione mitica
della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci
ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco
(quae... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è
so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32,
per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza
vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla
generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad
Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo)
della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si
potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe
coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate
negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della
δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione
a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge
all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ
μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un
ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto
B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν
ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ
ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν
γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ... θηλυτέρωι ’.
[...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver
parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv.
1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma
anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto
chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e
connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ
θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς
ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν.
sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e
sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una
prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο
πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla
testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ
ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν...
π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di
Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due
frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13
(Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ
τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον
καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν,
φ η σ ί ν Ἔρωτα … πάντων’ [ B 1 3 ] Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo
abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti,
come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti,
ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene
condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia
parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem
commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem
ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo
neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem
< modi > monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui C u p i d i
t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel
somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae
reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di
fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce
che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci
sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità
di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e
tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal
sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli
astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in
questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente
autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi
sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la
funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa
efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni
generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso
alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune
in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende
possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a
nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea]
invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς
ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo
stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto
e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da
στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di
fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella
poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp.
225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire
nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o
almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente
il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è
anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente
attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la
genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di
Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare
all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze
cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato
direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία,
è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione
propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione
immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4,
della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra
implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo,
dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga.
Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi
il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza
immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί
τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe
espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione
sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento,
essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di
base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista
dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito»
(letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare
ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la
δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare,
timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi,
sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare,
ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione
teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura
filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI LUNA
[B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo
del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma
imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è
discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati
da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma,
strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le
implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ
λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην
[B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ
σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna
Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce
d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι
τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ
παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la
sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre
rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito
sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si
è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui
ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il
proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine
che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota
al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai
pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni
cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione
della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde
l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle
testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza
della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è
necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e
composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου
κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ
τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano
formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla
mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda
(DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός
La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην
[sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’
αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ....
ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la
Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete
per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora,
Parmenide...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando
Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso
della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del
Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al
fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3. 3
Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di
interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una
sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo
all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà
per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato,
infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le
possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta
risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema.
Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti
alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi
contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di
assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il
frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano,
costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante;
per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e
realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso
dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il
contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in
Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due
parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo
aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La
citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν
φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν
ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ
τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione
presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto
mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose
diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante
notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν
φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις,
come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i
primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς....
τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello
stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ
(congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione
παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli
uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico,
suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è
spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo
di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la
seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi,
di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella
formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per
l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è
riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti
la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B
16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν
λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται
φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo,
il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli
elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la
sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in
sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non
percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di
gnoseologia generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini
parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν
ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due
intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a
percezione5, riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza
del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251.
590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno
dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze
aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità
rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo
punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ
τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι,
οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i
sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul
simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come:
Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha
precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è
che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da
Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ
γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento
proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy,
"Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in
Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò
che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa
la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio
della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il
terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ
πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere
abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe
discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due
costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose
hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di
movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni
teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli
elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il
freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ
τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero
cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια)
qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il
caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è
tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare
sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi)
la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha
presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ
ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς
οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων
αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé
considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non
percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di
capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto,
dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa
asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione
della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano
la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo
esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma
solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία),
sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione
degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento
parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente
conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto),
quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7.
Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di
interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante
le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di
molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół,
Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter,
Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in
effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il
pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo,
esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore
(transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma
un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata
alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι),
alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero
(ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele
rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che
l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale
sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe
ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra)
la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività
percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare
la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone
ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del
temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il
genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli
elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico
di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare
dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica,
l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8: in
tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della
comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non
tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne
- come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in
De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν
τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo
M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da
Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre
degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole
equilibrio fisiologico corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe
allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità
della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε
(«ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων
(«molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi,
nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che
sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come
prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è
indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante
di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il
soggetto non sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il
frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ
πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa
ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp.
162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema
sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea,
riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende
dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in
virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν)
coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις).
La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella
proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13.
A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando
criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere
sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere
(B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del
pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica:
averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora
non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον,
B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero
nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων
πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un
«cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad
Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita
forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a
Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης
φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre
iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una
tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος,
letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης
ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa,
come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di
una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione
della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato
di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19.
Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp.
55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il
migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp.
120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo
impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e
della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un
abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di
citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare
la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν
ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν.
ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio
sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17].
Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e
l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto
avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una
"scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di
opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle
due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e
croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in
versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel
seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu
inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia
graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili
modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a... s e x u m ’.
Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e
sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure
in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è
stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue.
[B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione
letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la
facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la
loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili
modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle
citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e
Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς
τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη
τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae
professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri
putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono
gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte
sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori
della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte
destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva
posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento,
e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di
Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi
richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p.
285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel
lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium
IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων):
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας
καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ
παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν,
καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς
Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come
Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina
invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra,
e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti
sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel
seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina
virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine
virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili
ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle
madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e
femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις),
che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza
formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che
chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto
in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una
volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza
nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5
Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il
[loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua
citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita
miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem;
si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque
veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a
materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da
produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem)
conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme
corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi
i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata
(temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe
realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione
equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia
si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7: lo
sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era
funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le
presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto
attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione
dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1).
Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι
συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ,
πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου
ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν
τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è
l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la
supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in
effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è
mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali
(δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di
Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi
contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze
accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius
fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il
sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è
possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e
Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica
preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e
della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito
della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita
come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo
sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema
doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben
rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò
cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione
effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle
«cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore
designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze.
Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al
riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza –
e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della
discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce
effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate
nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo
modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini
imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν –
giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali
impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la
corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ
richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca
condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti
fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare
implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non a caso
l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9)
di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso,
Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo
passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle
cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici
dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op.
cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti,
dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti
di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò
che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che
funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad
affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Verb Edit fīō (present infinitive
fierī, perfect active factus sum); third conjugation, semi-deponent
(passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs ōrāmus ut discipulī
ācerrimī fīātis ― We are begging you so that you may becomevery keen students I
happen, take place, result, arisequotations ▲synonyms ▲ Synonyms: interveniō,
ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō, contingō ut fit ― as
happens usually/as is customary fit ut ― it happens that Titus Livius, Ab Urbe
Condita I, 13: silentium et repentina fit quies A stillness and a sudden
hush took place I appear quotations ▲ Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 10: fit
obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation Edit
While it does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb has
an irregular infinitive (fierī), and is therefore third conjugation. less
▲ Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular long
ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular plural
first second third first secondthird activepresent fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect
fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect
factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active
indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum
subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present
fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus
fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect
factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first
second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō
fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future
presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī———
participles—factus———— verbal nounsgerundsupine genitivedative
accusativeablativeaccusativeablative fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū
Usage notes Edit This verb ousted Facior, Facī in the sense of "to be
made". Verb Edit fīō first-person singular present passive
indicative of faciō Related terms Edit faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum
Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō (see there for further descendants) →
English: fiat References Edit fio in Charlton T. Lewis and Charles Short (1879)
A Latin Dictionary, Oxford: Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis (1891) An
Elementary Latin Dictionary, New York: Harper & Brothers fio in Gaffiot,
Félix (1934) Dictionnaire illustré Latin-Français, Hachette. Eliadi,
Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide
Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New
Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published by: Fabrizio Serra Editore Stable
URL: http://www.jstor.org/stable/20538610 Accessed: 22-06-2016 10:52 UTC Your
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http://about.jstor.org/terms Eliadi, Meleagridi, Pandionidi.
Osservazioni sulla met?fora mitica in Parmenide Antonio Capizzi 1. Non posso
fare a meno di ringraziare Fritz Fajen per la dura critica1 che ha rivolto alia
mia interpretazione dei frammenti 1 e 6-7 di Parmenide2. Devo ringraziarlo
perch? (a differenza di altri critici non meno duri) prima di giudicare il mio
libro lo ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti
da lui attaccati sono in effetti gli argomenti portanti della mia dimostrazione;
ma soprattutto devo essergli grato perch?, attaccando quei punti, mi ha
costretto ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e pi? validi
argomenti in loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono: gli
argomenti di Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai
debolmente. Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera
interpretazione del frammento 1, e cio? la lettura real?stica e topogr?fica del
viaggio di Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro
dei tempi verbali del proe mio; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il
viaggio si localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta,
la narra zione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen ? invece del
par?re che, "in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come
preparatoria ad una specie di rivelazione o simili, sia come espo sizione di un
viaggio storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso".
Premetto che il proemio, formalmente parlando, ? in ogni caso
"preparatorio ad una specie di rivelazione": il contenuto del poema
Sulla natura viene presentato come il discorso di una dea (Dike) all'autore,
cosi come il contenuto della Teogonia ? una rivela zione che altre dee (le Muse)
hanno fatto ad Esiodo; e la divergenza tra le vari? interpretazioni verte sulla
localizzazione delPincontro tra la divinit? e il poeta, localizzazione
inesistente nelle letture mistiche e 1 In Gymnasium 84, 1977, H. 1, pp. 39-41.
2 Contenuta nel volume La porta di Parmenide, Roma 1975. This content
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to http://about.jstor.org/terms 150 A. Capizzi allegoriche,
esistente nel mondo celeste nelle esegesi astronomiche, e infine esistente in una
citt? reale di questo mondo {certamente Velia) nella mia interpretazione. Ora,
Fajen pu? pensare ci? che meglio crede sui significato dei tempi verbali nei
vari tipi di narrazione; ma tanto il suo par?re quanto il mio resta?o
inverificabili se non si basano su esempi concreti. Concretamente parlando, gli
scrittori precedenti Parmenide, o a lui contemporanei, non ci forniscono esempi
di nar razioni allegoriche in prima persona, e, per quanto concerne viaggi nel
Pal di l? (celeste, infero o mistico che sia questo al di l?), non ci danno che
la Nekyia omerica: ma anche la sola Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai
significativa per il nostro problema. Essa si compone di tre parti: il
passaggio di Odisseo e dei suoi compagni per Pultimo agglomerato umano, abitato
da esseri viventi e definibile come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per
il paese dei Cimmerii {k 1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da
Circe4, e cio? nel bosco di Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale
le ombre dei morti giungono uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la
penetrazione di Odisseo (preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo
assicura il suo ospite che ci? che dira verra creduto 6 anche se narrera
"avvenimenti straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu?
vedere anche personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire
dalPErebo (k 583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso
la fossa, in mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle
persone, ed ? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece,
contengono localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro
mondo (appunto la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago
e Palbero di T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim
merii il poeta interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che
punteggiano il viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con
un perfetto equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non
avviene per i luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v.
583; uSwp anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<;
te tc?Xic te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ
(ibidem, 22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??,
363-366. 7 dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565
(ibidem, 571). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016
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Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi
del lago {ycda piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&,
v. 588), per il macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto
per la cintura di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea
della porta (fr. 1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai
iniziale si sosti tuisce un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici
di una nar razione si interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni
volta che il narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea
l?stico, non ? limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti
contenuti nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche
nei tragici, come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo
dal messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un
fiume 12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re
udito la gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben
nota (come la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata
? Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS??
TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la
via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen
mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la
citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha
probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto,
magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e
xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti
racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono
due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che
ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno
stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale l'oratore
acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV 390-402; XIX
165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte rispettivamente le isole
di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la narra zione vera e propria,
legata alia localizzazione in entrambi i casi dal ricordo di un re che regnava
nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202). La localiz zazione ? sempre
caratterizzata da tempi principali, la narrazione da tempi sto rici; e ci?
avviene anche in altri racconti deH'ultima parte d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV
331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449. 12 Ibidem, 487. 13 Med. 68-69.
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All use subject to http://about.jstor.org/terms 152 A. Capizzi ta"
(in quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma
congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso
tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti,
Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso
il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre
in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene
inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo
supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad
oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa
simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra,
Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per
Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger,
Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi
delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa
sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i
"centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di
simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca
delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di
questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il
izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di
rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con
esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli
esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non
di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci)
fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che
ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non
credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le
reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie:
ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non
lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che
sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere
io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un
emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E.
Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp. 389-396.
15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen 1939, p. 715. This content
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to http://about.jstor.org/terms Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 153
il passo ha senso compiuto senza di essa. Anche se Fajen trovasse non una serie
di presenti irregolari o di doppi present? (come quelli elen cati da Schwyzer),
ma addirittura una serie di hapax analoghi a quello presunto da Diels, Poner?
della prova resterebbe sempre a lui. Alla fine della sua breve ma densa
recensione Fajen mi accusa "di non essere al servizio della scienza",
e non posso dargli torto: se scienza ? quella che traspare dalle sue
argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il vecchio perch? vecchio e nel
rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ? chi (come Cesare Cremonini)
rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale non mostra Puniverso
descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di scienza lo lascio
volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato volutamente il primo
argomento di Fajen, quello riguardante la mia interpretazione delle
"fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come pioppi fiancheggianti
la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in Omero, le 'HXi?S?<;
compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen obietta che in questi
autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno al pianto delle
fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in Parmenide viene a
man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo al di fuori di
ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere a?YSi?poi come in
Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte, ma neanche
possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al mito di
Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione al mito
di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la
contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche
e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a
volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma
anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin
terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ?
Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se
optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se
riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione
astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come
equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a
miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes
suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica (non This
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subject to http://about.jstor.org/terms 154 A. Capizzi ? mai
esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i
moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto
tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi
rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato
un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole
(che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo
uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore
Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche
consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria,
"Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la
letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo
per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio
m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun
riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni
sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho
detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha
spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho
osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi?
fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore
poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato
casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non
diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della
genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive
in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri
poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano
soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica
valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che
il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e
comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ?
per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono
allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2.
19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e
stilistica di Aristotele, Roma 1967, p. 242. This content downloaded from
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poeti e degli oratori a modi di dire gi? esistenti e diffusi tra la gente del
pop?lo che (in ?poca di viva tradizione orale) li ascolta diretta mente.
Aristotele, insomma, non pensava mai che gli aedi omerici dovevano farsi capire
dalla gente delle citt? che visitavano; e che i poeti e gli oratori del sesto e
del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso uditorio 21, nel quale le loro met
afore dovevano suscitare reazioni immediate. Nessun cantore o parlatore avrebbe
detto "Ares" per indicare la guerra se non av?sse saputo che i suoi
ascoltatori usavano gi? la stessa met?fora; e le metafore mitiche erano
popolari prima di essere letterarie. La popolarit? delle metafore cui pi? sopra
ho accennato era senza dubbio estesa all'intero mondo di lingua greca, e la
ragione ? f?cil mente intuibile: si tratta di metafore o gi? presenti nei poemi
ome rici, o da essi der?vate. Ma esistevano metafore mitiche popolari di
origine postomerica o extraomeriea: Empedocle, che subi fortemente la
suggestione stilistica di Parmenide, e che gi? il retore Menandro accomunava a
Parmenide proprio per Puso di metafore mitiche22, usa per i suoi elementi tre
nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e Edoneo (= Ade), ma per il quarto
elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una divinit? siciliana24; e abbiamo qui
un chiaro esempio di met?fora po? tica che riproduce una met?fora mitica
popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un uditorio limitato, come era
anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non essendo un mito omerico, non
sono neanche un mito locale campano, o pi? in gen?rale italiota: sono, nel
momento in cui Parmenide compone il suo poema, un mito tr?gico. I miti
metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti gruppi di miti non
omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i sileni della
mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della mitografia
metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta e
agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di
animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa
prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente
uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per
Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr.
96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la
nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per
indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v.
N^ctttic). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016
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Capizzi appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la
buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game
con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli
di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli
popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li
rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di
origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire
il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa,
ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si
trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si
tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque
dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il
caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e
che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono
la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia
delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono
dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per
il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si
l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in
effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione
delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune
origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo
dramma di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle27. Ma
la leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle
Pandionidi, figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione
originaria erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel
Prometeo inca tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente
si allude anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ?
chiaro che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva
sulla scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che
anche negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche
attributo legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca
alludono chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv.
672-674). 26 ?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus,
etc." {N.H. XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta
tragicus [...] Hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium
Meleagrum deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from
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state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce
lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti
assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<;
la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro
dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva
nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle,
troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i
patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo,
che uc cide per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M,
oltre che con la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della
vendetta di Procne su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove
le Pandionidi si sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate
Puna in usignolo e Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa;
tuttavia anche in questo caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino
Aristofane)31 quando si rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che
narra la metamorfosi. Tutti e tre questi miti diedero luogo a metafore
popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di uccelli, appunto la sua attenzione
sui due miti sofoclei, ritrovando le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie
avicole locali: la rondine dovette essere chiamata abitualmente Filo mela, se
tutti compresero a vol? quando Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una
met?fora famosissima, evidentemente, se perfino Aristotele32, che abbiamo visto
cos? restio a citare metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e
Meleagridi furono chiamati, pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano
numerosi nelPAcropoli e che ri chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le
immagini e i cori del Meleagro 33. A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece
maggiore im 28 Op. 568. Probabile reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat.
IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od. XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi
Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101).
32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19. 33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v
t^ ?xpoitoXei. 5W.: M? X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei
X?Youca 8? o? uiv tgc? ?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc?
u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX. Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide
cit. pp. 33-34. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016
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Capizzi pressione la metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli
abitanti del centro campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia
di" gli alberi che fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide
utilizz? Pimmagine mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa
via". Ma il fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore
popolari locali non mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle
trag?die cui il suo uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da
oratore, dato che si rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono
dei tragici"35; Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta,
illuminando la met?fora popolare di origine eschilea con altre metafore tratte
dai testi stessi di Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per
"?ocpo?" e di "x??P" per "o?o?" e l'?vidente
gioco sui doppio significato di "x?pa" ("testa" e
"cima"36 che ritroviamo nella splendida immagine del verso 10:
"xaX?-rcTpa" per "velo di t?n?bre" ? in effetti accertato
come espressione eschilea37, mentre le immagini della trasformazione delle
braccia in rami e della testa in cima frondosa sono anche nei versi dedicati
aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che nella parte finale (allorch? le sorelle si
lamentano tutte insieme con un andamento che richiama i cori tragici)39
sembrano fortemente influenzati dalle Eliadi di Eschilo, dove le figlie del
Sole costituivano appunto il coro. ? anche significativo come queste metafore
popolari abbiano dato, in epoca pi? tarda, esiti assai simili: mentre i
mitografi conti nuavano a narrare la metamorfosi senza discostarsi molto dalla
versione tr?gica, gli scienziati attingevano ai nomi mitici per denominare ani
mali o piante poco conosciuti. Il nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata
twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.). Aristotele aveva coito bene l'al lusione
perch? conosceva il testo del Tereo (cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa
significante "cima d'albero" cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph.
&14. Ma va chiarito che i versi di Parmenide risentono con tinuamente di
quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum. 516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con
Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54; Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia
cum crines manibus laniare pararet, avellit frondes. Haec stipite crura teneri,
ilia dolet fieri longos sua brachia ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor,
mater, quaecumque est saucia clam?t, parce precor: nostrum laniatum in arbore
corpus (ibidem, 361-362). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed,
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Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 159 vano come sin?nimo di
"uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne
dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela
maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi
detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo;
e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la
celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua
forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse
detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide
Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a".
"Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto
dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il
nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli
uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede
del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto
id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet?
di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel
fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore
popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ?
quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la
maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia
piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di
valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens
philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido
implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus
fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos
nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa
(Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms.
Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II
180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655
B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48
Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V.
Apoll. T. V 5,87). 50 IX 28. This content downloaded from 128.143.23.241 on
Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms
160 A. Capizzi quelle metafore nei versi del pi? illustre figlio di
Velia, n? di rico noscerle come tali anche se in quei versi essa compare
disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente riferimento. . Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola
di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il verbo divenire, perche usa
la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi,
veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide, fieri, in esse, in fieri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714170366/in/photolist-2mPTYES-2mMNDa1/
Grice e Capocasale—segni di dialettica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Montemurro).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso
filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla
Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was
just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is
philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In
fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo
e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro
ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine
nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta
quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San
Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi
contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto. Dopo esser stato governatore baronale di
Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per
trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi
universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal
1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore
di logica e di metafisica all'Napoli.
Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo
governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione,
Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia,
preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con
l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo.
Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura
e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza,
tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile
e Eugenio Garin. Alcuni suoi discepoli
divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone,
Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella.
Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni
carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie:
Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la
Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna,
degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei
Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S.
Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco”
(Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso
dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem
sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm
investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet
primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi,
ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque
mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem
mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur.
Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei
pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut
in eo habitum adquirat, in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero
omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique
conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad
summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus
sint obnoxii, nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis, at que indubiis
dirigant, disciplina aliqua in veniatur, oportet, quae regulas ac prae cepta
tradat, quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur, et ad ve
ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi,
iudicandi, ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur, quae qunn in
casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum
erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans, confusam
tantummodo co gnitionem, non vero scientiam producere pol est. Ex quo legitime
fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI
Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam, qua regulae traduntur,
quibus, humana mens in cognoscenda, et diiu; dicanda veritate dirigatur. * *
Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony
LOGICA; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali
differat, ut sit potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa
praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet,
Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum, sed ei colen dam
esse artificialem. 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat
naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1. ut eas ex mentis
humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam
distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione, atque exa
mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin
ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM
ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus:
in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu, quantum
satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res
cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium pro fert, vel
denique rationes conficit: * de tribus his mentis operationibus priore pår te
agemus. Quumque veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern
inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventae
vero cum aliis communicentur: de omnibus his parte se cunda nonnulla haud
proletaria monebi mus. } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis
expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani
cla mitent ), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere,
deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare,
indeque novas verita tes deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus
obvias percipit, aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO,
sive idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas
cum aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur.
Nec aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt.
Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam
plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi
periculum facere poterit: nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti, id
omne huic disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae
operatio est SIMPLEX PERCEPTI, sive notio, quam de finimus per simplicem rei
alicuius reprae sentationem in mente factam. praesentationem autem intelligunt
adcura tiores assimilationem eorum, quae sunt exlra ens, in eodem ***. ** Dici
quoque solet idea, conceptus, vel sim ** Per rea plex apprehensio, ut Scholis
placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse
aiunt, mentis actio nem in obiecto percipiendo; hanc vero ipsam abiecti
imaginem menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre do
cent. Quidquid id est, nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque
nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per
imaginem menti ob versantcm. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per
exemplar rei in cc gitante. Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne definitiones
eodem redeunt. *** Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat,
quum sit cuique nota: sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam
ita explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae
sentatio: in omni autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe
modus repraesentandi, et obiectum, sive res ipsa quae repracscntatur: liquet,
in qualibet idea itidem duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et
ob iecta nempe res perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di,
cuntur. Si ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS;
si vero ad nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur, Et quia utroque re
spectu ideae inter se differunt: de forma li, ac materiali earum differentia
diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi
Xperientia abunde constat quaedam ita percipere, ut ca ab aliis in ternoscere
possimus, quaedam vero non ita. Repraesentatio illa, quae sufficit ad rem
perceptam ab aliis dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quae ad
eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram, et
obscuram E. Rosae ideam claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque
floribus distinguere scias, et quotiescumque tibi occurrit, eam dem agnoscas;
contra si arborem peregrinam videas, eamque a reliquis plantis discernere
nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum
recens nato rum, hominum bene potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi
reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes
externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero
OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebra rum eftectus: nam quun
tenebrae in lucis privatione consistant, haec vero obiecta exter pa distinguere
faciat; deficiente luce, deficit distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in
distinguendi impotentia sita est. Quum res existentes innumeris de terminationibus,
et circumstantiis involutae observentur, ut infra dicemus; hae vero, nisi
attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti, innotescere non
possint, ut experientia patet: recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam, quo
plu. ra possunt in obiecta distingui; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam
requiri sensus cum attentione coniunctos, qua des ficiente, ideas fieri
deteriores ** Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus, qnem qui vilet,
primo dubius hae ret, utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in
obiectum illud oculorun aciem at tente convertens, a motu animal esse compe rit,
sed cuiusnam speciei, nescit; propius ve ro'accedenten, ho nisen distinguit;
tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit.
Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret!
Quemadmodun ideae meliores funt, si ex obscuris clarae evadant, ex confusis
distin ctae, ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex
claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia
vero ab attentione penlet cla ritas idearum, eaque gralus ha bet, nec semper,
aut in omnibus eadem est: liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic.
Pars 1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed
RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re
percepta quaeren dam esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui
absolute obscura esse di cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant
(ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel
relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non
potest; haec autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re,
clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris
horum claritatis est obscuritas relativa. fit, 21. Quoniam autem ad idearum
clarita tem utramque facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt:
con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones, si alicui meditationi
defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8.
denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus
attentionem turbant, ut cxperientia docet: infertur 9. menten adfectibus
agitatam * ad ideas cla ras vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus
enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate,
et confusione orti, de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis
praedominan tibus nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si
namque in ideis claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve
xaretur. Hinc ergo est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas
enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res
clare percipere, nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de
Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor, iraque mentem prae
cipitant.Vides hinc, obscuritatis caussas easdem esse, quae attentionem turbant
vel minuunt: nem pe 1. distractionem, 2. obiectorum multipli citatem, 3.
praeproperam festinationem, 4. denique adfectuum praedominium. Quae omnia
mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed
quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus
idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris
notionibus adquiescere non pos * adeoque il. in distinctarum et adae quatarum
perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se; · Clarae namque
ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox
adparebit, res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum
cognitione nullum ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec
hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem
ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem
experientia docet, nos re rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres
quibus ab aliis discer nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet
ideam claram nabere; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos
obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus,
idea dicitur DISTINCTA: repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea
CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam, et con fusan.
seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem, illius
characteres sibi clare sistit, adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si
vero coloris nigri notas distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus
discer nat, ejusdem ideam habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum,
sonorum, odo rum, etc., quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec
a Cartesio, et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque
grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras
et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara
notarum; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens
est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente,
etiamsi distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus
gaudent nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id
esse, si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus;
oppositum autem ess: indicium ideae confusae. Hinc 13. idcas confusas aliis
referre volentes, objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum
alia re, de qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet
exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis
explicare poterit: quod recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab
aliis distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas
proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo
intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis
admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con
fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo
explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam
huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei, cuius distinctam habe mus
ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam
sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel quosdam tantum · eosque
insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo distincta dispescitur in
completam, et incompletam. * Sic invidiae idea iam tradita completa est: adsunt
enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro
hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume, notionem haberes incom
pletam: * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus
discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum hanc Pla tonis sententian
irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis
discipuli, addito latorum unguium charactere: nusquam enim homines a simiis
discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm. 40. ** Licet duo
clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique
in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo discessit. Quumque
Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit: Wolffins contra eam
in completam, et incompletam dividi debere, docuit et demonstravit. a * 26.
Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam ita percipere, ut non
solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et novas characte rum
notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere.
Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta; idea totalis erit ADAEQUATA;
quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA. Quo fit,
ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam, et inadaequatam. * E. g.
Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum
imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii: is
invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail
juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc ideam habebit
inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec fieri possit, invenire
liceat, eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus,
qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437.
seqq. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i. f. 9.
seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea
fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet 15. eo
adaequatiorem fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero
ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in
notionum analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque 18. quum ad
notas vel simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam
instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis
est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo
in alias aliasque particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta
perveniant, om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates
attente perscrutantes: ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt,
easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque
adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles
particulas pervenerint, eas in novas rursus se care non licet: Philosophis
etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum, si vel
ad simplicia et indivisibilia, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel
finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva,
sive materiali idearum differentia. 28. Haecaec de divisione idearum formali.
Ad, materialem, sive obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repraesen
{are possumus, vel sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid
exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po
test id, quod est omnimode determina tum. Repraesentatio ergo individui vo
catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles,
Caius, Titius, haec dumus, haec mensa, hic liber quem legis, sunt individua,
quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores, ut
Socrates sit Socrates, et non Plato, Caius sit praecise Caius, et non alius:
ita ut si aliqua earum desit, desinant esse quae prius erant. Hinc individuum
idem est cum uno mathemat.co, quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * >
individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur individuum res singularis;
ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem
individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta (S.
27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant: 11 bent tamen aliquas
determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum
complexus aliam ideam su periorem constituit, quae SPECIES dici. tur. Non
iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per similitudinem indivi
duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a
nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam.
Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis
notum; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici
rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, li
cet aetate, ingenio, roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum
distent, habent tamen commuue corpus organicum, et animain ratione praeditam.
Duae hae de terminationes speciem constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides,
haec omnia individua in eo siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium
specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto,
ut aiunt, coelo differre; in aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae
determinaciones, in quibus spe. cies, licet diversissimae, perpetuo conve.
niunt, novam ideam, eamque supremam, constituunt, quae GENVS vocatur. Genus
ergo recte definitur per similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo,
canis, quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen
in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui
animalis nomen inditum. Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per
petuo similes, quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem
generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque
constituatur a com plexu circumstantiarum, in quibus species perpetuo
conveniunt; in speciebns autem aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter
se differunt: sequitur 1, ut non abs se harum proprietatuin di versificantium
summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et
commiseratio id habent commune, quod sint taedium. En genus. In eo ve ro
differuut, quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem; commiseratio vero
ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32.
Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes, di
citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et specierum determinationes
continent pluribus speciebus vel individuis communes (SS. 29. 30. ): infertur
2. i deas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau
couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus;
unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas
uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse
vel concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas,
quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem
est, ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. 53. Ex
dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula
ribus, nempe speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5.
plus esse in individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in
genere. Ex quo patet 6. quam scite
Logici pro puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa
comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono
maiorem habet idea comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra.
Comprehensio dicitur complexus determi dationum, quae ideam aliquam
constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum, qui bus
delerminationes illae tribui possunt. Vid. la Logique, ou l'art de penser.
part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur (9.
28. ), ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas
comprehendens circumstantias (5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non
videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec
ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu
sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab
illo removeri, quod huic repugnat; contra vero 9. a genere ad speciem, atque ab
hac ad individuum bene concludi, ideoque 10. individuo dandum, quod speciei
convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire
observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo
comprehensio maior est, extensio minor, quam in specie, ut et in hac relate ad
genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur, eius proprietates differentiales;
si ita loqui fas sit, respicit, quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de
de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae de specie dicuntur, differentiam
tantum specificam spectant: genus autem proprieta tes multis speciebus communes
continet; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt.
Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur
determinatio; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte
enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob
scientiam, qua praeditus erat (S. 3. 4. ), quaeque inter Socratis proprielátes
individua • les enumeratur. Possesne id de specie, idest de homine pronuntiare?
Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed
scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare
solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus
individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si imputare non
erubescunt. ** Quum enim genus in specie, species pariter in individuo,
contineatur (§. 23. ): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik
uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet
aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo
homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc.
35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis
sunt omnes animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus
nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis
supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra
SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri
* Illae * Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu,
conscientia refle xione (haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si
quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu
intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà,
adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia
sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus
percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. **
Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein
pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque
totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui
na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam
corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur;
ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero
universales sola mentis abstra ctione formentur (S. 32. ): liquido infer tuir
11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas
adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a multis docelur, omnes ideas
partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE
adquiri. Vid. Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et
reflexione confundi debere, docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc
ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam
hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius
census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae
nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores
ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem
tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint,
impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis
ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus,
adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse, 37. Ex quibus omnibus plane
consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine
vel ADVEN. vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de
iis praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas
tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea
tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim
intelligunt notiones sen sique adquisitas ($. 36. ): per fictitias vero illas
quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas
humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes,
qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a
diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate
inclusa fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob
quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc
nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum
eius effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. Cicero Tuscul. quaest. 1.
24. Illas ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum
putumque sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti.
Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia
intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed
pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque videt, quam proin de ideam
adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in
natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia, quae ab ipsa cogitaudi
facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet sui parte; non posse
idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat, haec
esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione, ac ab ideis totius et
partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius
adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini, ideas invatas nullo modo dari
posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES, a quibus
nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE, bus per mentis
abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. ** in qui Ex quo
necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at confu
sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum, sonorum
saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec
illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino
incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum
matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt
aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quae ita simul a nobis
adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur:
veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque
odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel
substantias, vel modos, vel relationes pobis repraesentare queamus, ideae sunt
vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus
ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhaerere conci
piuntur.. *., MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhaerentia, a
qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM
denique ideae sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit
ita, ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura, * Veluti diximus, ut
nostram imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet,
non autem in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter
ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali
demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia.
occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente
sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni
aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt
ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus.
Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. §. 2. seqq., et in
Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis
nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re;
idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed
tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;. quinisomo ló. rerun
natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam
esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum fundamentum non recte
considerantes, vel absolute de relativis ideis enunciantes, praecipitantiae
errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis
hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem
esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero
relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus
egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo
Seneca in Troad. v. 1016. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol. Explicatis
iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius, quem paucis,
iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam
navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito. CANONES. i.
Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam
cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum perfectionem
utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium
mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum initium a Mathesi
capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie bat, nisi
Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato festinationem;
praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec, nisi iisiprobe
intelleétis, ad cetera pergito.* * Quantum enim festinatio idearum claritati
osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio,
et praeci pitantia caute est obtundenda, ne superficia rie discant et errores
saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis, non
plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun
varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca
discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura
dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de
iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re
Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae
buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad
idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne relativa pro absolu tis
accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem
amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata;
adeoque sodalitates, compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit
Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos *
Comessationibus enim corporis inertia aus getur, mens obstupescit et habetatur,
ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i
sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur, quo fit, ut aut
nullae ad quirantur ideae, vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere
infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti, audivisti > ditatus es, ita
familiaria tibi reddito, ut eorum notas aliis indicare queas. Ea proinde vel in
chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo, idcarum tuarum distinctionem
experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum, et praest an tissimum
dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud;
docendo disci mus. Rationem huius canonis invenies supra. nes, utpote rei immaterialis a stiones, nullo
modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;;
abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter
sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant:
binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA
dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces
signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia.
Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum
nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt
signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia
adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum
fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha
Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in
dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba
et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi
sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis
intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut
alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non
licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed
tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis
eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel
obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos.
Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones
adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS INANIS dicitur, qui
nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni
ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ, vel sonus
sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille,
quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus:
Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes,
aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea
donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur.
Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e
rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora, et in
Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel
obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam
cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves
ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS
CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram.
Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV; qui vero
incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur,
Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici.
adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem
indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque
significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione
Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore;
non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui
idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id
quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non
heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma?
quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis
animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est,
et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est
qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem
illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem
exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS
ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius”
est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio
dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra,
qui ideam continet abstractam (sive universalem ). Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox
oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero
Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie
sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide, voces improprias esse vagas et
indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria.
At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus
quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini
FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi
vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi
usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac
memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo
familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas
nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi,
adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum
esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et
familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex
pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive
PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae
conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII,
sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis
ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe, ab eruditis
adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed
confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces
technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu
annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina.
Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi
doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda
putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus,
complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam
oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes
porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti
adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima
sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis
notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile
parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla, nisi benedigestum,
emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere
te credas; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur
enim persaepe homines, quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con.
tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni habent, et nihil cogitantes
aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles
sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae
vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam
cogitantem exsistere posse imquam probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap.
4. eas 3. sum loquendi semper servato,
nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris,
adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula
technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae
voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si
houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati,
ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque
decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto,
nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in
paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse
Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde
colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs,
ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen
obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt
phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e
ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium,
nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. 5. Si aliis
displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno
fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere,
videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere
adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au
dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum
littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa
verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur
DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de
ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua
ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae
breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur,
enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus
si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive '
emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est
termiuis: ita complexus ille yocum, * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est
idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque
non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. 2. eas ** ne 49. Ex
qua definitione consequitur 1. in definitione notas et characteres enume rari
oportere, qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab
aliis rebus distinguenduin; notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li
definito in tota eius extensione, conve niant; quare 3. merito a Logicis ad
firmari, definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito, sed ipsi
aco, qualem esse debere, ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem,
per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius essentia a Metaphysicis
adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo gici esse dicant
orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus
quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui
possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis notas tales esse debere, ut
omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis sub definito con tentis
conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae, et
specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae, quae integram definili essentiam expo.
nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex
genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non
sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari,
vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co
consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra,
adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita:
contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90.
Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quae Jei
perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5.
locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia, et
attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam
essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam
attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint,
in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in
triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no nec tio clara notarum (5. 23. ): sequitur ut
ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec
vagis ($. 43. ), nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus.
Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in
definiendo committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri
quid habere videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic
in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius
taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis
concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia
non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque
defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis
indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium
adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari
potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia,
quae non exsistit in alio, tamquam in subie *** Definitio identica est, quae
idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones
quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis
allata per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quaeso, haec verba
significant, nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones
istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim
Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo
ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus,
eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum
ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum
explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quae in vi
to posita est. Illa notas et characteres e numerat sufficientes, quibus
definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit; haec autem rei
definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per
definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem,
qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur:
vel multiplex eiusdem significatio, eoque casu Homonymia; Cap. III. De
definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et
Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est, realis inter illos
audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per
substantiam intellectu et volun tate praeditam: realis autem, si invidiam
definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et
origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales
contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed
incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in
descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae quum in individuis tantum
concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae
vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum
propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret no tas; quam definitio,
eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales
notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote omnimode determinatis:
universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac
sufficientes ipsis distinguendis Ꭰ. 76 Logic. pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut
ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et
specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi
meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his definitiones
proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu
expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta observamus,
quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis,
essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in deliciis esse
debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre
possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus.
Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit,
sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones, utpote rei naturam et
essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. ' Iudicium porro cum
m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito; sed ope rum
dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli
memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt,
ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au
feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat. Homunciones isti memoriae
dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex pertes, libros quosvis
sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt expcsiti er roribus;
quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes, qui memoriam
tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem premant viam, sibique pessime
cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces sariam, quo prima scientiarum
hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium
excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis, et ad eruendas inde
propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum
libris, prum phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis
subiectam lare, ac distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur
stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit,
ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi
stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars.
I. lescentes, quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine
magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo
adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt
ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in
telligis, definitiones proprio marte con ficito, ut ex iteratis' actibus,
continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi
momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut irrito eventu.
Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima
procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis fructus, addiscent.
Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo prosequi, ac notionum
analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae
docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas; * aut
definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim
a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur
synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni
definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis, adeo
que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri
cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim auditorum animos inani
verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium.
Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de
laudibus Theo logiae acturus, amplificat syllogismun quam brevissimum has
continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens est omnium
praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quae in hac
inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio
tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to
perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est,
exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium
praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na
copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinae
natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars
1. logiae definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi
pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di
stingui exoptas, efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales
que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres
esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in
tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine
indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione
consistere, snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in
partes, sive notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit
qui earum naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur,
characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis
expressa DIVISIO nominatur, * quae recte definitur, quod sit to tius in partes
resolutio. * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur:
iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut
totum considerari potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1.
totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2.
totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius
integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit,
4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, 5. accidens quod pluribus
subiectis inhaerere potest, 6. caus sa, quae plures producit 7 effectus, qui a
pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa
' quae versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo
est, ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive
essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species
subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE,
ACCIDENTIS in sua snb 7, D 5 82 Logic. pars 1. iecta, rei in suas caussas,
denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec: Homo dividitur in
animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae: Animal
dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus vel indoctus.
Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso phiae dogmata
alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae: Veritatis
impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique:
Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et
intellectuales versatur. 56. Totum illud, quod in divisionem cadit, DIVISUM;
partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra
haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo
dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in
caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, 57. Ex membrorum itidem
dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo
fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres?
trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS
divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et
curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum;
quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et
rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem
ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra
dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec
minus compre hendant; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per
novas definitiones, easque oppositas, distincta; ** 3. ut ex ipsa rei
dividendae natura petantur, scili cet in tot membra totum dividatur, capax est;
4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate
liberetur, posteaque divisio insti tuatur. i quot *** * Contra hanc regulam
peccant, qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum, vel qui lineam
esse aiunt, vel rectam, vel curvam & derari potest: vel mixtam. In primo
enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora; in se cundo autem eodem
maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum,
utile, et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut
genuinam boni denominationem tue ri possit: adeoque non sunt repugnantia.
Peccant etiam ii, qui licet totum in membra opposita distribuant, ea tameu
definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et
compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat: illud contra
definiunt per id, in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo.eruditorum merito
incurrunt Ramistae, qui tam superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura
membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis,
qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit
Seneca, habet nimia, quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et
subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa
tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis
producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus aeque, ac
subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quae
confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter
necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui
veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione. Ad hujus porro
doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus
regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios hosce discat
CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum
consulito. * Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. * Hoc namque modo
nec Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum
membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad
curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac
seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quae ordi...
nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai deberent,
comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam,
divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem
ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne
pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De
iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum
instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas
inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM
adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis
perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO.
** * E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque
unam alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si
indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud. et prop. 87 separas: haec poris
notioni non convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In
primo ca su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex
pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina
statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero,
si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret
ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur,
propositio di citar ($. 60. ); idearum vero signa sunt voces seu termini:
liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis, quorum ille, cui
aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto
tribuitur vel ab eo removetur, ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo
simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo
substanti vo exprimatur: merito vox illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis
extrema coniungit, COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est
aeternus,” Deus est subiectum, quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur
attributum, quia Deo convenire enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec
extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio,
adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA,
et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si
namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis
compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod
copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset
ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum
species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp
sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt
enunciationes ex iis dem verbis repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui
videns, ego fui vinccns.” QvanVandoquidem
in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet:
materia, sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas
comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis:
ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione
MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque
postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in
extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum
subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa
seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis
propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum
dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de
mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est
aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod
dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere
propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius
partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g.
Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio
haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum
que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES,
vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed
unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura >
Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel
EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS,
si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii
enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis
propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam
proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert,
exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus,
ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens
est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex
ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo
vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit,
ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id
porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri
enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA
enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM;
DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae
praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est
ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera
propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non
largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si
dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio
vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet
vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire
poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere:
si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo
centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in
qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel
plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia
sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni
subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num
attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant,
licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac observari
merentur, con fer in S. 58. cur (1 ) Caussalis est, in qua ratio additur,
praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus, defendimus:
Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur,
quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut illud
Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent.
andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una
pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur ut il lud Virgilii Georg. II. v. 291. et quantum
vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero
species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV; COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque
inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua
sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc.,
estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in
qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E.
g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel
particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et
praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore
validior. Restrictiva denique est, quae
multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum,
quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS
vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a
creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut:
tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum
at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu
differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita
contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”.
Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita
cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”. Possibilem vocamus, in qua attributum sn
biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius
termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS
enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione
conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in
subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum
subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali
dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua
ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti
natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec
enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in
tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo
invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas
homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut
Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione
est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate
metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur,
sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii
esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est
repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota
sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio
sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet
in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in
negante vero additur particula NON. E.
g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem
singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus
consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam
uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici
propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari,
propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum
universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos,
qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo
aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si
subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim
propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia
signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus,
vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate
deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est
philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de
homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo
exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in
universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest.
Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin
ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi
commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere,
veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”,
“I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”,
verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat.
et Syll. S E Ć T10 11. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus.
Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea
est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica
vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc,
theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero
operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel
talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in
digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus
enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis
ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec:
“Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum
scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis
theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır. E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus
simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac
quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione,
postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio
theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum
Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi,
propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum,
quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se
concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est
haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM
dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae
consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil
est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne,
quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua
illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae
usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum
obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur:
ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis. LEMMA est proposititio ex aliena disciplina
desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in
subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum
lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi
partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in
al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum
adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum
adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur
laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones
referuntur: OPPOSITIO, SVBALTERNATIO,
CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se
pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis
in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel
CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum
illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que
SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae
verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones:
Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se,
quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo
est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est,
altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti
huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g.
Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod
quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. ***
Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt
contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter
negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a
quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli
com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites:
quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod
si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit,
altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram
dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105
propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium
mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero
SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda
occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi
tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam
subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis
homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa
subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo
verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam
homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae
verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará
falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis
necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan
necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque
par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs
esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes
homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria
vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque
subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse
mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis
fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante,
utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ),
poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere
sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens
propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit
subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse
doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est
mutua extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis,
scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per
ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum
salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut
enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 *
Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud
raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est
substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis
doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est
doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur:
ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum
diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur
enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae
ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae
aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et
sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his
postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur,
tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis
haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus
cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua
propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia
sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis
ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a
iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius
sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel
carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam
habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum
mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus,
distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re
lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte
iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio
vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo
coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae
prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum
subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non
poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4.
Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto,
ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA
BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa
Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente
seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus
mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius
in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri
110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite
iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus
inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien
tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur
veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol
vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero
RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein
communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum
teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis
expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu
ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et
ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et
Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem
inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam
gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit
convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire concludit
hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis. En
ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia teste
scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim cum
illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea
discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans,
in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his
axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt
inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat,
illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens
syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e
g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo
Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam
monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab
ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus
clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere,
adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad
sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae
totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria
quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes
admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums,
componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a
teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici
potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam
ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel
repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De
iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore confertur,
MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore comparatur,
MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio denique, quam
principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a Scholasticis
CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior, aer
minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro positio est maior, altera
minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus,
et syllogismum corrumpere, idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo,
vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per aequivocationem, ut fi
terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg: Vilpes habet
qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob
servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice suintam; 3. per
supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in una, formaliter
in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est
ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in miori gran. matice;
in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum
con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus: Titius est prudens: ergo
Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici
possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis
vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur: difficilis
tamen admodum est termini me dii, qui communis idearum mensura est inventio.
Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re
decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi
viam: vel enim notionum alteram ad pro prium genus, vel speciem revocat, et
quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel definitionis characteres
evolvit, eosque al. teri convenire observans definic tum quoque coniungit.
Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub iectum ad genus, vel
speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi, vel adimendi quidquid
ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera attributi definitionem
cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel discrepantia, praedicati
quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo
sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis, aer sit gravis? Reduc subiectum
sub genere corporis, et vide, utrum huic conveniat gravitas, eam de aere quoque
enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave, aer est corpus: ergo
aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis
defi nitionem evolve, eiusque characteres, nem pe corporum inferiorum
pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant, attribu tum cum subiecto
coniunges hoc modo: Quidquid corpora inferiora premit, est grave: Aer premit
corpora inferiora: Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me
thodum. Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes: quod si
adcurate ser ves, numquam tua te fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio
fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi
vel speciei, conve nit etiam omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu
conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus,
et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit definitio, convenit pariter definitum: ac
proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat etiam definitum. * Vides ergo
ideam mediam semel universaliter sumi debere, quia ideam universalem, ge. mus
nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur, ratiocininm
vi tio laboraret, ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat, quam
subiectum cui tribuitur, ut cuique manifestum est: li quet, propositionem, in
qua medius vicem praedicati sustinet, particularem esse. Debet ergo medius
terminis universaliter sumi in ea propositione, cuius subiectum constituit Et
quoniam propositio, in qua subiectum in tota sua extensione sumitur, est
universalis: liquido infertur, saltem unam praemissaram esse debere
universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis, quas
barbaris ali quot vocabulis, versibusque distinguere consueverunt. Nos, missis
futilibus tracla tionibus, regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras,
quibus syllogismi leges breviter exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes
exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures
termini sunto, quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis
observanda, quo omnia sophismata, si bene perpendantur, contra illam peccare
observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an
liquitatis, amphboliae, dictionis composi tionis, divisionis, caussae, dicti
simpliciter, con e juentis, accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor
terminis conflati, in quibus quarins cryptice latet? Veritas hace altcate
consideranti baud aegre patescet. Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius
terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in
effectus constitutionem immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice
Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin
aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit, nec, nisi in
comparatione, mensuram adhibet: ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus
indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit, in quod medium comparatio nis
ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus
Phi losophus est homo: Titius est bonus Philo sophur: ergo Titius est bonus
homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto
plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur
termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm
tertio eisdem adplicato, scilicet mersura: iudicium ex comparatione ipsa
procedens, perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in
conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis, idem esset, ac si dice
res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum
Plus cotineret conclusio, si ita diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est:
Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra, si sic
ratiocinaris: Qui furium commi sit, restitutioni et poenac subiacet: Titius fur
tum commisit: tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne
gantibus (praemissis ) nihil sequi, ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 *
Diximus enim f. 86. *, praemissarum unam saltem esse debere universalem: unde
si am hae essent particulares, impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero
ambae negantes, tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil
sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti:
quidam homines sunt in docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus
impius salvatur: nullus impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5.
Conclusio partem sequatur debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. *
Pars debilior est propositio particularis, vel negativa. Si ergo una
praemissarum fuerit particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio
quoque particularis esse debet, alias plus esset in conclusione, quam in
praemissis; quod est contra regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans
con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum
conclusionis unum cum medio convenit, alterum ab eo discre pat; adeoque ea
inter se quoque discrepare concludendum est; quare conclusio negans esse dcbet.
Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur, eae ad rem non
faciunt; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT
SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae,
quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1.
CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca
pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo
modolibet périurbatur, aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis
perturbationem, *. 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis
alicuius omissionem, quo casu dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. *
Ordo perturbatur, ai quando propositiones transponuntnr: ut si prino
conclusionen vel minorem, de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum
ira sit adfectus minor ), debei omnino compesci (conclusio); omnis namque
adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap.
VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est attentionem turbare.
Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur, in iracundo
attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus
constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In
hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur, speciatim vero illa,
quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat attentionem: ergo ira turbat
attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo
et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e. g. ir & est adfectus:
ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum
medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est
Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito est medius, est terminus
maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota propositionum connexione
reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid
cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est, in
quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel HYPOTHETICVS; * vel CO
PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui
proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus, sive
conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est
rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo est
capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur
conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi
contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá
adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari
debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul
propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram
conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore
perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est
cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple:
aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo
regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis
rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus
diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur,
DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id
vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De
aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in
conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te
oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex
alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio
ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in
Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc
referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte
exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio
additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris
eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum
connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut
prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms.
cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro
Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét
audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius
non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars.
I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo
adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris
conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis
spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima
humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile.
CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius
procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur
polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum
habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus.
SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium
propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius
subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis
duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot
triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta
tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae
funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis
rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens
oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in
eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem
vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum.
Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in
alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare
lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis
rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur
INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe
quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit.
Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas
conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi
praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his
ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt,
INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel
individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie
enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua
exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun,
ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad
inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod
inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes
enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit:
si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad
oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis
enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari
bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia
a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit.
Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet,
In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse.
Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa
hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap.
VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi.
innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia.
Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem
adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim
syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo
sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet
autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet;
Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo
proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id
agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non
ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni
esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo
syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua
de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque
abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins
bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam
methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque
deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur
Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque
illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia
eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane
re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia
occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore
evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium
lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten
duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet
do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam
eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti
nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis
satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non
contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum
in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus
hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti
debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim
spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel
METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA
quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet
conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit,
qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere.
Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur,
inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum,
aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum
iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. **
Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae
trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui
opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in
Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam
cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131
stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis
forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S.
15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in
ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con
sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo
consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM.
Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente
nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro,
cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM
adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua
mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et
fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem
habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus;
quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione
exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si
quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM,
siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem
RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo
singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi
stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea
uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut
characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas
deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici
non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab
eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae
characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de
eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam
exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma
cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt
quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam
credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id
quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus
vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem
iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt,
f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive
syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam
vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro
positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non
poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat
effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex
quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare
conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione,
licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare:
potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis
es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus;
Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis
praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque
veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60.
): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque
ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas,
nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad
quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem
quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum
particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni
versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra
Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis
discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te
Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur,
vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis
conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum
nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt,
quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram
es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus
participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter
tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in
intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum
Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin
ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na
animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis
criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis
praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas
attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim
inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem
esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse
determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con
tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis
criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis,
quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et
ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa
pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis
instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque
conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori
ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens
adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus
certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit
coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones
humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente
intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur,
fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum
2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones
singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec.
sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D.
Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus
coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos
pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut
saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in
intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve
humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse
cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec
certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem
respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa
sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss.
de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia
cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint
adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis
reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius
sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter
se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non
conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa
propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter
enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium,
quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in
bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera
tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto
tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim
subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in
ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit
manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur
SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens:
Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum
est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim
terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie
ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II.
minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque
termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem,
in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam
usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque
tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi
failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium
plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes
non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul
pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose
servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios
deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua
addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo
Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit.
CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes,
deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus
quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae
igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt,
quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae
infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices
gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim
nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie
lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae
inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu
latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De
eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato:
negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere
iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo
vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime
adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium
praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod
exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione
tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in
veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem
profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis,
qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc
cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus
adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo
mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est
huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt,
ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde
ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur
remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio
Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas
intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in
Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De
ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. )
agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero
absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione
desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit,
eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit
'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna
it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus
cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio
jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua
sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II.
* Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires
superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum
cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum minime
pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat
Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id ipsum er go
argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt, cognitionis apicem
pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se gaudere cognitione
animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes
homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani reperiri posse,
qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet: quapropter oportere
2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo necessaria * deinde
ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum reprchensionem
merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin
animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique status suiperfectionem
sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique cogni tionem spectant,
item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo quae ad socie tatis
commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo
itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est
quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret. Ignorantiam quoque suam
magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus, medicos aliosve sibi
inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti
extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de
tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus
igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non solum in iis rebus, quae nostrum
si perant captum, sed etiam in iis, quae iu jus limites von excedunt, 2. MENTIS
IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem, LABORIS
IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM
CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia
haec ab idearum mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente
mensura, nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones
T. 1. ** Confusio studiorum habetur, vel
quia fine attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque
discuntur: ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia
illa sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum,
nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris
impatientiam, adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis
defectum au get. Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein
memoria retinere non valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve
viventes illi sint, sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici
non po test, quot sublimia vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus,
aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo
ingenia ista iuveni euidam com parat, cuius sinistra manus duabus alis in
Coclum tollitur, dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus
em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si
quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt,
societatis perturbatores, bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima
quaeque, (si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando
au tem propositicni verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc
ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia
confundere. Qua propter ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun.
Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse
dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur
vero praeiudicium, vel quia sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema
ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti:
discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum
caussas: et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error
vero confusio iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob
curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione
unice esse petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a
voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to
aberrant coelo: voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam
animum ab iis liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per
penderint videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis
vel imagin natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus
quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non
aliunde, quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur
Syrbius in Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera,
AVCTORITATIS scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris
viribus parum confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud
nos plurimum valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus,
eaque pro sanctis habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium
fidentes, quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera
lamen adsumunus illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo.
cis, pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi
opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut
aiunt, unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri
det. Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat,
in quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet
quae in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est
hypotheses a nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept
as opiniones, quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the ***
Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex
Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus,
classes com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis
praeiudicia sunt ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ),
aut populo haurimus: eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus,
familiis, vel.: sectis familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae,
adscripli, nulloque utentes iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque
inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate
co smico, de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm
Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua
maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem, per cervicem transire, per
spiralem distendi, ac postea per totum corpus divaricari observasset, nec, nisi
tenue filamentum, funiculi instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc
in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non
sine magno adstantium risu respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti,
ut nisi tex tus. Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in
sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu '
temperaret? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos,
novitatis, similia: ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata
omnia ab eruditis inventa, quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis
pondus, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis,
restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac
praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad
iudicio rum confusionem impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in
generales dividuntur, et speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS
DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare,
idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali
corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla
idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus
non intelligatur denique LI BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab
idearum ob scuritate repetenda est, idearum vero obscuritatem pariunt
attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci,
quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De
ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque ignorantiae tantum Caussa esse
possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est:
etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus tali cupiditate ductus intra
ignorantiae fuae te niebras consistere nolit, opportunisque prae • diis vacuus
ea investiget, quibus par non est, ac proinde in plurimos lahatur errores. **
Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit; nimis
autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget, sel saltem crassam
parit ignorantiam. 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum
trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et
CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et
ut de educatione quaedam singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu
dicia, quae ab ca procedunt, tribus cha racteribus optime distingui, temporis
BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE, cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si
desint, propositio non in ter praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum
consensione probat as est referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix
dici potet. Parentes enim tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor
is mederi curent, ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis,
erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab
iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba
iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de
Religione, dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po
pulo quot foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda
nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui
nimium suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el
pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum
aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta
hominibus mala produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er
annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo
sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt
ubique earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia
sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur;
rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter
praeconceptas opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam
destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De
ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae
praeiudiciorum remotae sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita
sint, optimum, idqne uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium
suspendere, seu DUBITARE: est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio.
Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque
negamus. * Cave la nen credas, ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum,
vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos
incredulitatis fauto. res uii, non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum
temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac
prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium,
donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra
rationis fines ex sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum.
Etenim quae Divina auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de
illis dubitare, impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis
mentis humanae imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam.
Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos
Nicolaus Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia.
proposuerint, quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit
ta men, ad Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem
ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare
cupis, hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne,
meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus
perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id
consequantur adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum
Institutionum parte observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol.
adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem
editis infans, accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque
utilia disci io, nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius
ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te
ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione
magna cautio adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas
et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca
inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis
eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur
studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia
sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum
deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne
glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina
auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec
certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito.
Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis
probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum
superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens,
memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud:
ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a
nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque
horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et
dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato.
Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper
coniungito Non nostrum est praeceptum,
sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum
paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum
habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8.
Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te
pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR,
SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157
Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan,
vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia
pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia
legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca,
quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque
ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus.
VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla
nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad
certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de
hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum
ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si
quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non
idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam
esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum
agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex
esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in
relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo
Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse,
aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi
cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma;
Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si
vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi
absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad
certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute
infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique
sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse
certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111.
De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur
indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt
axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec
propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit
primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram
non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi
monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis
varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO
seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet,
breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale
(S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus
ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione
conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in
Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera,
quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit,
nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a
posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef
fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori.
De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae
ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui
sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus
aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id
genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien
percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum
singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae
obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc.
161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi
tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu
larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique,
ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero
est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA.
Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere
percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos
adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro
ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus.
"Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut
calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis
mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas,
elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta
colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae
quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non
ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s
ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae
ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non
solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad
critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla
ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur;
ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab
externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis
(ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad
sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed
a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli.
Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et
Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio,
3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum
requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum
interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem
incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente
cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė
certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt:
si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non
eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus
adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum,
sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt
1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones
istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius
difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que
emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal
laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia
tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae
minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia
deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni
alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars
II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex
magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis
incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro
repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe
rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia
iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi
ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non
posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia
INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur,
eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant
discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est
cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur
tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea
conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap.
III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa
occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. *
remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem
percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem
pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias
observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc
attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem
enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis
notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u
niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12.
Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis
involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab
attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa
haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II.
convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae
depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi
quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus
eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia
intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18.
attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus
liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia
attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt
scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut
alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut
plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo
similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius
notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm
ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva:
videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo
casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties
repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et
costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio,
cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur
uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem
inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali
dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse
liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit
in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur
ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in
rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam
sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae
sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri
iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3
tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se
mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam,
nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae
liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa
existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam
illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex
experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni
omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et
definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel
postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate
iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio
isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per
legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI
habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit
praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI
dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo
requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum
conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones,
axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine
gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da,
proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque
principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet,
sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4.
duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO.
STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime
connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia
reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a
priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad
syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc
proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus.
DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est,
qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus
sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus
vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed
era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2.
Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem.
THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in
tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go
Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet
perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu
perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui
omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus
om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis
confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ):
quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque
appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def.
4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe
ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta
confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis
exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus,
aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab
aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc
est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum,
quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima.
TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat,
aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin
autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **.
Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec
autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde
deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit
demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori
sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 "
); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel
ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum
aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio
scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus
aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in
nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter
non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum.
Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est
sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque
propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere
metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem
perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis
excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici.
dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando
CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem
probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per
idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet
PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel
nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque
enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum,
Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134.
Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus
requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res
exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca
dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem
FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo
patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque
auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte
dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo
consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde
2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate
narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et
infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip;
Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni
exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum
veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo
loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere,
utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo
certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum
utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet,
non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit
fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque
demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana
fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda
supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de
narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores
sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet
6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit
ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus:
veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil
emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non
repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per
secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt
scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so
la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta
dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si
vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non
amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis
tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E
S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in
strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177
aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con
stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat,
aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras,
caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita
instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint,
observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda,
praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc
Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut
phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope
concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis
deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim
imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis
rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su
bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione
experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es,
ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens,
an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato.
Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus,
vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut
diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le
tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus
productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in
dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed
sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur
legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est,
ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro
demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex
debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit
demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis
robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro;
earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6.
Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque
per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito,
extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax
esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo
namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram
singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae
idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita
comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum
solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab
impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol,
): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde
experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis
vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione
pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum
inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili
evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui
proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili
subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui
deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia
demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset
audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit
Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam
evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos
Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut
sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç
unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis
non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas
esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą, certitudo
numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad calculum
revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in, fallibilem
eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns, quia
demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines quaer
stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181
monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum
duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis?
* Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est
explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua
laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que
Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan
to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei
spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex
ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego
vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18.
Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem
veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum
Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus
ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo.
138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam
ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS
dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test,
enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam
dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel
componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre.
diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel
SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad
principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt )
procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus.
Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus:
analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret
@ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret
appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret
repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin.
app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret
appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime
repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia
si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4.
Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime
repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu
perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens
perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est
ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe
ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in
gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc
dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo:
THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum
(defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184
Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod
omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun
confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores
motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus
carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque
insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis
demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui
syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam
methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia
progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. )
conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo
adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo
illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior
**: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus
synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur,
quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem
esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via,
eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem
est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que
considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva
conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica
vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via
pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est:
adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando
difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi
apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad
melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas
acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les,
ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum
que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos
rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad
demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad
ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque
selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam
inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis
gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare
sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus
iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans
gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor
facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis
clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam
tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae
namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare
cogimur. Cap. IV. De Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate,
si quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est:
singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis,
ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur,
quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent,
adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer
quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem
inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius
accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non
poterit, quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae
stione aliquam habent connexionem di 古 88
Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses:
quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et
comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes
perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto
numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant.
* Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur
ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo
tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo
alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere
cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae
Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant
haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete
Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici
certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su
pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo
minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi
suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de probabilitate,
quantum satis erit, dicere instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status
mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua tamen op
positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in
sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap.
10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim:
Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni neces sarium iter
Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse maxime expedito, et
praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse.
Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed probabiliter,
insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex
quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem,
quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si ex alterutra parte
aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima
inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr; 4. omne
probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici pro babile
possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim probabilitas
veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat, cui deest
possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui posse quum
rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit,
uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro versiai tollat.
Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum possibile sit, quod non
involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo probabile dici potest,
nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera exsislere evincant. 145.
Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat:
liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem.
Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio
probabilis, prae certa: consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte
rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium
praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit
probabilis, conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum, quibus illae
a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex
syllogismis concatena tis, quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9.
integram de monstrationem, in qua vel una probabi lis propositio irrepsit, non
esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet, ut
aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus, ita et
certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a
certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo
certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit,
altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus conclu sionem probabilem duobus
dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem: tunc enim ma
ior erit Ei, minor -, quibus addie tis, babetur in conclusione summa = 2. quae
duobus tantum gradibus ab unitate, sive certitudine diftat. Ponamus porro prae
missarum unam ita probabilem esse, ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat,
altera ve ro tribus; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae
quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit, quot deerant in am babus
praemissis. Dem. 146. His generatim expositis, ad pro babilitatis species
transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM,
PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate
differt OPINIO, quae est propositio insnfficienter probata, scilicet a
principiis nondum certis, et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde
po test ut plurimum esse falsa: unde opinio di viditer in PROBABILEM, et
IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia, vel
precaria, omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate
probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est
factorum fidelis et. Eius au ctores sunt homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo
vero factum aliquod fideliter et complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS
dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia, nec demonstratione ad
examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque
imbecillitatem, nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in
sola opinione versetur, non certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt.
Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus: evidens est,
historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio
historia dicatur, dcbet non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo
contigerunt, ordine narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum
adiuncta, circumstantias, relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero
Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere
ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum
testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines
autem ob ignorantiam malitiamve, aut fal li aut fallere possunt, ut experientia
testa tur: consequens est, ut ad adsequendam probabilitatem historicam
cautiones quae dam adhibendae sint, quibus testium an ctoritas, factorum
genuinitas, natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est
ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte
adhibendi, factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque
indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem,
infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus; non ideo
no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed
quidquid de usi auctoritatis, rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt,
ea ad artem criticam: pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per
observandum. 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt;
narrans nempe, bar ratiun, et ipsa narratio: hinc est, ut in fide humana ad
tria potissimum attendi so leat, scilicet i. ad homines narrantes, ad res
narratas, 3. ad modima parran di. * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his,
quae sequuntur, regulis tam historicam, quam hermeneuticam probabilita tem
respicientibus, nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus, gene
rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias
adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet,
qui philosophi nomen tue ri cupit, quo frequentius in evolvendis li bris,
factisque diiudicandis erit ei, re exi gente, versandum, Quoniam hominibus,
licet eadem natura, non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas, nec
omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ); hoinnes
autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ): patet in quolibet teste
tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si
intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES, yet RVDES et
IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes, itemque
vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II.
OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab
aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI sunt, qui eodem facti tempore vi
xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt. Sic Livius inter testes prudentes est referen
dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat, quippe
Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate evenerunt, testis coaevus,
eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem, ac per tot saecula ad sua
usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus
omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod attentionem iudiciumque
requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos;
promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus, non etiam iu dicio,
indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur: tunc
enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes neutrales alterutri
parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos auritis, 5. coaevos
recentiori. bus, inter auritos autem
prudentes ru dioribus, eos tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate
Probalili. 197 nullam esse, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama
pervenit, ceteris incerto alio. quin rumore ductis esse anteferendos, ac
denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri, cui nescio
quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit, 153. Quod altinet ad res ipsas
narratas síve facta; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint
sibi invicem repugnantes;nihil enim impossibi le potest esse probabile (S. 144.
); 10. nullam quoque esse probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod
insolitum et mira bile narret: licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a
pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur; 12. nulla itidem
probabilitate gaudere, narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat;
13. non idem tamen dicendum de ea, quae moribus opinionibusque nostris ad versatur,
*** nec 14. si caussa modusque ignoretur, aut vim artemque nostram su peret.
Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni
proba bilitate destituta: veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam
Romanorum cum Albanis, Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars.
II. in Monte Albano lapidibus pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante,
Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim
mirabile quidem et insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem
Historicus de his, fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem
suam sartam tectam servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae
suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc
poeticis magis decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis
confirm mata. nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum
scatet Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis
manicam delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia,
et id genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate,
varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes
honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio:
tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret
The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen
haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos.
in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem,
id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari
debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur,
maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco
lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica, politica,
et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio occupatus
conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius, nempe
PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam
physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat
hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere:
nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad
physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut
phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem,
habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae
nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam
ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles
investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu
resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum
autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam
tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas
ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque
in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus: evidens est
tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam pertinere: adeoque non
mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas
intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus hilaritas, iocandi
studium, corporis mobi litas, laboris impatientia, prodigalitas', in constantia,
garrulitas etc. observentur: non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap.
V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur
interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu animi indice. Quae de
probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius persequuti sunt Andreas
Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et Ludovic. Mart. Kallius in
Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat,
qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum.
Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat, eaque ex
pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari
ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo apud Politicos usui esse solet. * *
Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius
aut alterius Regni praedicunt eversionem, propte rea quod aliae res publicae
post easdem cir cumstantias subversae sint: adeoque a simi Jium casuum
exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA habetur, quum a quibus dam in
Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus. Saepe enim accidit, ut in
auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant, quae multiplicem sensum ad
mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum significatione, locorumque collatione
pro babiliter colligitur, quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit
ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca
interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus, quem
scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci.
Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis principiis eius sensus
investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter
pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te;
adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille quam proba,
bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203 Quumque in
his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in
terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus huic
sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent, et
loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus
perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua scriptor
conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque patet 4.
falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque
fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus, aetatem, gentis
suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat, ac
de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni bus, iudicium
ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2.
cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus, nostrarum opi nionum
veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint non quod sentire
dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter
pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere; nee
8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed antecedentia et
con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca parallela auctoris
eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir, repserat, statim
evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum
ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari
vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere ' curet quam
emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio,
ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi tiones
quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe notatore
opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris,
qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus
trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis suppeditare
adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et matura aetas,
omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico legent. ARS
CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica
Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones
genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare. *
Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque
ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam
historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa
capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per
lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius
nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius
nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat,
quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit,
vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel.
latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula
ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De
Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus:
nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores,
tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat.
166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus
ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES
t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii
tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo
reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus
inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero
nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili
muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant,
genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius
nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime
sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I.
> 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit
recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis
admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen
praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo
latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com
memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum
iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae,
vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis
scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo
scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto,
eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem
arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni
hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi:
utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus
hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est
maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem
patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima
inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce
omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam,
adeoque in errores prono cursu la bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis
inquisitione. 167. Sendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus, nempe PRAXIS,
qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas
inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam; vel ab
aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi,
nec bonae lectioni par est, qui hasce lautitias nondum degus tavit: Logicae est
regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari, et
libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum
utilitati studere: de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns.
MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus
adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus
g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex
cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1. ait quantum diſfert
regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a medi tatione distet,.
meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S. 141. ), callere debeat;
adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges illas esequitur; nec non 3.
aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut ex ijs veritates aljas erue
re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo, aliique bonae methodi,
veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui enim serei principium
deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum catenam conficere potest.
Pari modo qui concatenationis leges ignorat, quantumvis veritatum mente te *}
Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat, nec illas recte disponere, nec
ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur
idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio (S.
19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult, attenitonem praecipue
colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis (S.
131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur
praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9. ut res de qua
institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ), ac inde
novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de
definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et
quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam
axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue
eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex
definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat.
Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic
adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS
OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac
definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et
habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam,
eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in
definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit
est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus
E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel
eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein
ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea
melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea
dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius
felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex
eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde
consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori
explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213
Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex
principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect.
2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema:
Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio
practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione
petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare;
cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo
invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei
ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur.
Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus
enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur
corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest:
item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non
habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet;
atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur,
brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars
II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert,
exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque
ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia
vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata
efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4.
Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito,
ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates,
novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo
ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. ) propo
sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque legibus,
quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da
Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas
vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen
da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum
nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius
artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi
addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque
librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex
casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus
est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens
quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc
noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex
alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo
diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. )
fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est
amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116
Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5.
Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur,
eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8.
Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori
untur sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2.
Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur
ad alte rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate
capiamus, alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex
alterius felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc
sis tit. V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur.
THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a.
mat, alterius felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud
1. ); ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata
consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione.
217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio
afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In
quibus, quum taedii facta sit mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem
invidus, qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero, quem
alterius infelici. tatis taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus
non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem
taedio adficitur (S. VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go
non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim
percipit x personae amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur
coinmise atio (5. VII. ): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama
zm. §. IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus
amicus. 2. Qui ergo nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e
commiserari alterius vices, eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri
pere, non se dicat amicum. 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur
veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis,
maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive
delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii..
XI. Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius
bonitatem ac per feciionem, earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur
ad sensum per fectionis in altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo
excitandum. 3. Oui - iubet primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero
fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu
durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii
promovet, eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4
Quicumque obligatur ad primum, obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur
definitiones cum antecedentibus, indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis
Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi, tamquam bonum,
reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ($. V. ): quod
quum fie ri nequeat, nisi illam sibi, iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus
alterius felicitatem sibi tamquam bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus
delectatur alterius statu durabilis gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius
felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii (S. X. def.
2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus
alterius gauuium durabile sibi, tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius
namque statu de lectatur (per theor. 2. ), quod fieri non potest, nisi id,
tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi,
tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION. His praemissio succurrit lex
appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum repraesen tal, adpetit, et
promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem
THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium durabile, adpe tit, et
promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam bonum, repraesentamus, ad
petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi alterius felicitatem statum
que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat: er go ea omnia adpeiit; et
promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om
nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai
personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit. S. XVII. Durabilis
gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est
voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua
ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet, eius
quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus
alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ($.
XV. ), quod idem est ac promovere eius perfections. F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum:
Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA.
1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam
colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat.
4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut aliis simils amici. etc. Haec
brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu
proferretur, dici non potest, quot novae propositiones exurgerent. Huic autem
exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra nos fallit opivio, aut
sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore Philosophi acutissimi
evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione.
Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus,
atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax:facile est
and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte
possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate
scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant, ideoque errare
possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris, ac proinde Lo
gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad examen revocandis,
dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur: id
quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut HISTORICVS, aut
ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares; hic, in quo pro
positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla
alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI. De Veritatis
Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar gumentorum
alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes in histo
ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA, quum sit
rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel Naturae opera,
vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel deniqne
litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS,
ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel
alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM,
PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum
vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat,
po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia
refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae
opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno
vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae,
lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4
224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram
177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et
dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus
intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor
cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus.
CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis
con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima
consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad
definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum
ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras
ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se
quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in
libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap.
VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione
dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria
potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris
histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad
eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo
respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis
regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in
temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca
suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum
ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum
lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra
adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum
di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas
exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae,
incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su
premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis,
ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis
aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla
rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur
(S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem
habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu
de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore
ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi
reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus
vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum
examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age.
mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri
absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227
attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint,
le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam
in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per
tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt;
vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti,
qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem
laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero
in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu
exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum
nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates
a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt,
aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum
cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque
DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib.
II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic.
Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt,
alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser
mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum
vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos
vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto
exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque
scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit,
quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus
eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit,
SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM,
DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem
verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus
sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus
ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0
portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod
requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6.
bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu
suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae
est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta
artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta
perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate
certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt,
convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios
de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus
argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te
cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur
demonstratio vero est vel directa vel indirecta, (132. ), vel a priori vel a
poste riori ($. 131. ): non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates
demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in
convincendo ani mum sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in
demonstrationibus versatus, et talis; qui rationum momenta perpendere possit.
Quapropter solidis demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque
iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium
iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae
quum sit rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe
quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit
Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In
vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque,
ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS
es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut
liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum
enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas
Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium
per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §.
50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex
veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint
deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea
praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id
exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat
Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS
adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres,
hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen
generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione
quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se
connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas
recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque
scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros
scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas,
et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt.
Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui
aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis
habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt.
Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue )
ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta
suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt,
iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt.
SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios
voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit,
certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a
natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS,
et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De
singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione
sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui
doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS
qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at
que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est,
vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in
fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au
ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6.
Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et
suavitate, quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica
Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui
eum docet, ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum
inopia, dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu
non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se
huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus,
ut cendi munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam
autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce,
quam exemplo erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat
doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite
disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque
iis pracheat antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver
setur institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum
exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA
INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam
laborum suorum fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum,
quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter
praeceptoris imitationem, prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes
duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque
magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus
permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine, patientia patientia, et
labore haec auien omma nisi ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte
infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et
studio; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit
haec in doctore virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat,
et studium deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore
exsurget mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et
tanc nec morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes
promovebuntur. Si haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus
inservientem, in muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio
abreptum, et ad vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia
sibi per mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu,
aliorum no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare.
198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia
ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA,
idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit,
ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con
tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi
negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3.
docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et
suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas,
aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur,
quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus
rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum
omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser
monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam
ten dit attentionem. Cap. VII. De verit. commun. 239 * Non desunt equidem, qui
naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio, nec captui auditorum
se accommodare sciunt, li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti.
Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est
referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus
lepor desit: me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto
sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia,
scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum
ducens est IMPRVDENTIA in do cendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui
genioque se adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde
animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in
imperito? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua
inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis
invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles
irrisiones dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem
incidant, adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant.
240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur:
AMBITIO, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis,
autº eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta
non explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam
discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit
commodum efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi:
VOLVPTATIS CONSECTATIO, quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique
neglectum parit, atque soliditatis defecium arguit, quum bene monterit
Genuensis.noster: difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et
mollem, ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis
alios lacerandi consuetndo, quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum
petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint:
videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam
paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa
docentium praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel
aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis
reservant, vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam
quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum
singularium et ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod
maximo adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae
indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis
avaritiae studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas
an nefas, nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes,
vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum
instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque
praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant,
adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati
nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque
inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in
buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os
loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat
etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te
munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom.
I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod
val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula
quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes
nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se
exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut
si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini.
Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter
observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore
Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos
laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi
solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa
fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3.
Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque
disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que,
teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem,
morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis
reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil
proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. ", SECTIO III. De
Discentium dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium
pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi;
solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur
notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et
libertas a praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia
fovet, ab iis abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA
NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique
ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem
ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem,
verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino
oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini. Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di
clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin
adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus
operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium
supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus.
| Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri
tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero
perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De
verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at
tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui
sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia,
qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis
adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris
impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus,
6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut
attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac
perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra
lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci
po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De
litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque
disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur.
Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO,
vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus:
VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo
alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro
positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram
disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet
diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione
patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis,
quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori,
directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi
certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et
falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem
legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse
contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM
QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem
falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA,
qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita,
aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de
verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis eruditorum. Si vero indicia fuerint
insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con
L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus
quisbusdam subiici, ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op
positi suspicio, id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost
convictio; haec autein requirit, ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in
eo attentionem turbantes exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia
quae attentionem in altero per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere;
consequenter 6. a conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae
confutandi famam laetlunt, abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi
CONSEQVENTIAE, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis
opi nione eruuntur, quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed
ut adver sarii fama in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur.
Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII
vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient
($. 207. *, ) eique invidiam creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi
L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet
ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque
8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat.
pag. 752. Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al
terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii
famam perse quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius
persecutor, quia id non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol.
Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con
futatione nihil vel minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN
ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum
ductus accedito. Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae
nocentibus de errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo
ad edəssarius scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet,
ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa
sint, sive connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis
rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario
nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO
est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo
definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit,
ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide
demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio
nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim
propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De
litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis
seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, *
Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam
que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique
perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac
iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret,
Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam,
aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne
defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis
conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor
abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies,
adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides,
quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua
versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que
consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et
nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum
perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet:
si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in
demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis
ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse
quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare
debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa
loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet.
SECTIO III. 7 212., 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem acMilanius,
quae non scripto, sed voce fit, quaeque disputationis no. De litt. certaminemine
venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea
tribus ' personis absolvitur, quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem
defendit, tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem
difficultatibus du bisque implicat, OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione
vindicat, DEFENDENS, vel RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert,
PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse
impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque
demonstratione absol vi, ut disputantium alteruter de veri tate convincatur;
quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam
intelligatur, prae cipue vero 4. status quaestionis formandus et 5. oportet, ut lingua loquantur clara et
intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec
lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant, odio, praesertim et
invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum. descendunt. At affectus
convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S. 207. ): ac proinde a
disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti tantum absit ut
veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex eadem
definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis versari,
hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia idem
subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in
terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat,
eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus
incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA
est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć
syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis
veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique
defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem
opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens
ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat,
dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi
potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et
Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem
ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen
praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica
metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit
disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis.
Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia
recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim
Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis
claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2.
Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda
cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor
dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque
meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu
solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi
impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo
nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio
probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones
attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero clara, Cap. ult.
De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit, contra formato.
Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare,
proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod vocari solet
ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum. IV.
17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos
autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae coram fiunt id commendamus:
de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id
sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito,
deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat soliditate. Praenissarum quae
tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato. 7. Syllogismum in forma
peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio.
Propo sitiones falsas negato, veras concedito, dubias vero distinguito: sed de
omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas. 258 Logic. Pars. ii. 本 Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega,
numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum
exspectare debebis, vel ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que
neges meridianam: utrumque homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae
propositionis impossi bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis.
Si vero in auctoritate probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus
obscuros claris auctoritatibus re fellere. 9. Caveto, ne propositionem
concedas, in qua adversarius struxit insidias: ne cx eius admissione incidas in
laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio, quam
praeceptis, ad discuntur '. Si tamen dicendum quod res est, in huiusmodi
litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo, immo ve ro impudentia
valet et veritas amittitur potius, quam invenitur: Qua de re vide inus
eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur
Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III. Cup. 3. g. 11. AN OUTLINE OF
SEMATOLOGY; OR AN
ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW
THEORY OP GRAMMAR, LOGIC, AND
RHETORIC, " Perhaps if words were distinctly weighed
and duly considered, they would afibrd us another sort of Logic and
Cretic, than what we have been hitherto acquainted w4th." —
Locke. LONDON : JOHN RTCHARDSON, ROYAL EXCHANGE.
1831. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl* tTRWT,
LOWDOH. ADVERTISEMENT. I PUT not my name
to these pages, nor shall I, beyond this notice, speak in the first
per- son singular, but assume the pomp and cir- cumstance of the
editorial "we". Why I choose for the present to remain unknown,
I leave the reader to settle as his fancy pleases. He is at liberty
to think that, being of no note or reputation, and fearing for my
book the fate of George Primrose's Paradoxes, I do not place my
name in the title page, because it would inevitably make that fate more
cer- tain. Or, if he chooses, he may imagine a better motive. He
may suppose me to be the celebrated author of ***** *, with half
the alphabet in capitals at the end of my name ; and that I prefer an
incogfiito, lest he, my " cotirteous reader", should relax
the rigour of examination, and receive as true, on the authority of
a name, a theory that may be false. OUTLINE OF
SEMATOLOGY. INTRODUCTION. In the last chapter of
Locke's Essay on the Human Understanding , there is a
threefold division of knowledge into ^uo-t*^, TrpaxriK^, and
trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole body of instruction wliich
acquaints ua with TO. <f>v<TtKa by the name Physicology,
and that which teaches to -irpaKTixa by the name Practkology, — all
instruction for the use of TO <7?j^aTo, or the signs of our
knowledge, might be called Sematology *. * Physicology, far
more comprehensive than the sense to wliich Physiology is fixed, would in
this case signify the doctrine of the nature of all things what-
ever which exist independently of the mind's concep- tion of them, and of
the human will ; which things in- clude all whose nature we grow
acquainted with by ex- perience, and can know in no other way, and
therefi>re include the mind, and God ; since of the mind as well
as of sensible things we know the nature only by ex- perience, and since,
abstracted from Revelation, we know the existence of a God only by
experiencing His providence, Practicology, the next division, is
the doctrine of human actions determined by the will to s
preconceived end, namely, something beneficial to in- dividuals, or to
communities, or the welfare of the kJ
INTRODUCTION. The signs which the mind makes use
of in order to obtain and to communicate know- ledge, are chiefly
words ; and the proper and skilful use of words is, in different ways,
the object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of 3. Rhetoric. Our
outline of Sematology will therefore be comprised in three chap-
ters, corresponding with these three di- visions. species at
large. As to Sematology, the third division, it is the doctrine of signs,
showing h ow the mind ope- rates by their means in obtaining the
knowledge com- prehended in the other divisions. It includes Meta-
physics, when Metaphysics are properly limited to things TB /*ETa Tct
pi/fiKa, i. e. things beyond natural things — things which exist not
independently of the mind's conception of them ; e. g. a line in the
abstract, or the notion of man generally: for these are merely
signs which the mind invents and uses to carry on a train of reasoning
independently of actual existences ; e. g. independently of lines in
concrete, or of men in- dividually and particularly. But as to the class
of signs which the former of these instances has in view, and which
are peculiar to Mathematics, there will be no necessity, in this
treatise, to make much allusion to them: it is to the signs indicated by
the other example that reference will chiefly be made: for these are
the great instruments of human reason, and we believe they have
never yet had their suitable doctrine. ■■>.l ■■ ■. ■ ■
■ ■ ■■.■•••1 : ^'. .■ h . CHAPTER I. ON
GRAMMAR. y- ■' •* —reveal MEPOnXlN avdf
wsrwy. £[oM£E. T ■ 1. To ascertain the
true principles of Gram- mar, the method often pursued will be
adopt- ed here j namely, to imagine the progress of speech upward
as from its first invention. As to the question, whether speech was or
was not, in the first instance, revealed to man, we shall not
meddle with it : we do not propose to inquire how the first man came to
speak ^^ ^ Beattie and Cowper, poets if not philosophers, ate
among those who insist that speech must have been revealed. The former
thus turns to ridicule the well L known passage in the
Satires of Horace, Cvm pro- repseruntf &c. lib. I. Sat 3* v. 99
: — ^^ When men out of the earth of old A dumb and beastly vermin
crawled. For acorns, first, and holes of shelter, • They, tooth and
nail, and bdter dceker, B 2 4 ON CiSAUMAH.
[CHAP. I. but whether language is not a necessary effect of
reason, as well as its necessary instrument, Fought fist to fist ; then
with a club Each learned hia brother brute to drub ; Till more
experienced grown, these cattle Forged fit accoutrements for
battle. At last, (Lucretius Bays, and Creech,) They set their wits
to work on speech : And that their thoughts might all have marks To
make them known, these learned clerks Left ofi' the trade of cracking
crowns, And manufactured verba and nouns." Theory of
Language, Part I. Chap 6. (in a note.) The other poet does not, on
this occasion, appear in metre, but is equally merry. "
I ta';e it for granted that these good men are phi- Bophically correct in
their account of the origin of language ; and if the Scripture had left
us in the dark upon that article, I should very readily adopt their
hypothesis for want of better information. I should suppose, for
instance, that man made his first effort in speech in the way of an
interjection, and that ah ! or oh ! being uttered with wonderful
gesticulation and variety of attitude, must have left hia powers of
ex- presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he would
invent many names for many things, but first for the objects of his daily
wants. An apple would consequently be called an apple ; and perhaps
not SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5 growing out of those
powers originally bestow- ed on man, and essential to their further
deve- lopment. many years would elapse before the appellation
would receive the sanction of general use. In this case, atid upon
this supposition, seeing one in the hand of another man, he would
exclaim, with a most moving pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh
apple,** is a very affecting speech, but in the mean time it
profits him nothing. The man that holds it, eats it, and he goes
away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing better. Reflecting on
his disappointment, and that perhaps it arose from his not being more
explicit, he contrives a term to denote his idea of transfer,, or
gratuitous communication, and the next occasion that offers of a similar
kind, performs his part accordingly. His speech now stands thus — * Oh
give apple ! ** The apple-holder perceives himself called upon to part
with his fruit, and having satisfied his own hunger, is perhaps not
unwilling to do so. But unfortunately there is still room for a mistake,
and a third person being present, he gives the apple to him. Again
dis- appointed, and again perceiving that his language has not all
the precision that is requisite, the orator retires to his study, and
there, after much deep thinking, conceives that the insertion of a
pronoun, whose office shall be to signify, that he not only wants the
apple to be given, but given to himself, will remedy all defects ;
6 ON GRAMMAR. [CHAP. I. S. Now instead of taking it
for granted, as others have done who have pursued the method
proposed, that men sat down to invent the parts of speech, because they
found they had ideas which respectively required them, we as- sert
that men have originally no such ideas as correspond to the parts of
speech. The im- pulse of nature is, to express by some single
sound, or mixture of sounds (not divisible in- to significant parts)
whatever the mind is conscious of; nor is there any thing in the
na- ture of our thoughts that leads to a different procedure, till
artificial language begins to be he uses it the next opportunity,
succeeds to a wonder, obtains the apple, and, by his success, such credit
to his invention, that pronouns continue to be in great repute ever
afl^er. Now as my two syllable-mongers, Bcattie and Bl^r, both agree that
language was originally inspired, and that the great variety of
languages we find on earth at present, took its rise from the confusion
of tongues at Babel, I am not perfectly convinced, that there is any just
occasion to invent this very ingenious solution of a diiEculty,
which Scripture has solved already." Letter to the Rev.
Wm. Unwin, April 5, \'J8i. SECT. 2.] ON GRAMMAR. 7
invented or imitated. Let us take, for our first fact, the cry for
food of a new-born infant: that is an instinctive ciy, wholly
unconnected, we presume, with reason and knowledge. In pro- portion
as the knowledge grows, that the want, when it occurs, can be supplied,
the cry be- comes rational, and may at last be said to sig- nify,
" Give me food," or more at full," I want you to give me
food." In what does the ra- tional cry, (rational when compared with
the instinctive cry,) differ from the still more ra- tional
sentence? Notin its nieaning,but simply thus, that the one is a sign
suggested directly by nature, and the other is a sign aijsing out
of such art, as, in its first acquirement, (we are about to presume,)
nature or necessity gradu- ally teaches our species. Now, that the
arti- ficial sign is made up of parts, (namely the words that
compose the sentence,) and that the natural sign is not made up of
significant parts, we affirm to be simply a consequence of the constitution
of artificial speech, and not to follow from any thing in the nature of
the com- ON GRAMMAR. [chap. I.
munication which the mind has to make. The natural cry, if
understood, is, for the purpose in view, quite as good as the sentence,
nor does the sentence, as a whole, signify any thing more. Taking
the words separately, there is indeed much more contained in the
sentence than in the cry ; namely, the knowledge of what it is to
give under other circumstances as well as that of giving food ; — oi'Jbod
un- der other circumstances as well as that of be- ing given to me;
— of me under other circumt \ Btances as well as that of wanting
food: but all this knowledge, in this and similar cases for which a
cry might suffice, is un- necessary, and the indivisible sign, if
equally understood for the actual purpose, is, for this purpose,
quite adequate to the artificially compounded sign. S. The
truth is this, that every perception by the senses, and every conception*
which • *' By Conception I mean that power of the
mind, which enables it to fonn a notion of an absent object of
perception ; or of a sensation which it has formerly SECT.
3.] ON GRAMMAR. 9 follows from such perception, as well as
every desire, emotion, and passion arising out of them, is
individual and particular; and if lan- guage had continued to be nothing
more than an outward indication of these its passive affec- tions,
it would have consisted of single indivi- dual signs for single
individual occasions, like those which are originally prompted by
na- ture. But it was impossible to find a new sign for every new
occasion, and therefore an ex- pedient was of necessity adopted; which
ex- pedient, from its rudest to its most refined ope- ration, will
be found one and the same, — an expedient of reason, and that through
which all the improvements of reason are derived. The expedient is
nothing more than this : — when a new expression is wanted, two or
more signs, each of which has served a particular purpose, are put
together in such a manner as to modify each other, and thus, in their
united fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the Human
Mind, Vol. I. Chap. 3. 10 ON
GRAMMAR. [chap. I. capacity, to answer
the new particular purpose in view. In this manner, words,
individually, cease to be signs of our perceptions or con-
ceptions, and stand (individually) for what are properly called notions',
that is, for what the mind knows ; — collectivelif, that is, in
sen- tences, they can signify any perception by the senses, or
conception arising from such per- ception, any desire, emotion, or
passion — in short, any impression which nature would have prompted
us to signify by an indivisible sign, if such a sign could have been
found : — but individually, (we repeat,) each word be- longing to
such sentence, or to any sentence, is not the sign of any idea whatever
which the mind passively receives, but of an abstractiont •
Notio or notitia from «o«co, I knov. (It is a pity we cannot trace the
word to ado instead of noac.->.) Note, Locke will be mucli more
intelligible, if, in the majority of places, we substitute " tlie
knowledge of" for what he calls " the idea of" His wide
use of the word idea has been a cause of the widest con&slon in
other writers. t Home Tooke's doctrine is very different from
SECT. 3.] ON GRAMMAR. 11 wliich reason obtains by acts
of comparison and judgment upon its passively-received ideas.
tbis. He says (Diversions of Purley [2d edit. 1798] Vol. I. page
51,) " That the business of the mind, as far as regards language,
extends no further than to re- ceive impressions, that is, to have
sensations or feel- ings"; — he affirms (pa££^im) that what iscalled
abstrac- tion has no existence in the mind, but belongs to lan-
guage only, and that " the very term metapht/sic is nonsense "'
{page 399). It is hoped that what follows in the test will prove these
opinions to be erroneous. Could the proper name John, or any word being
an ar- tificial part of speech, have been invented, if the mind had
not exerte d its active powers upon its passively r&-
ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind we have of John must
be ideas arising out of particular perceptions ; and ve must irame him to
our minds standing, or sitting, or walking; talking, or silent;
dressed or undressed, with other circumstances which imagination can
vary, but cannot set aside. It is only by comparison that we know John to
be independent of all these, and the name is the effect of this
know- ledge, not the cause of it. The abstraction is not in the
word only ; for till we know that Jolm is separate (abstract) from
whatever circumstance the perception of him includes, how can his name
exclude it ? Neither is the terra iiietaphysic nonsense when applied to
this ON GRAMMAlt. [chap.
The sentence " John walks " may express what is actually
perceived by the senses ; or any other abstraction. For John
separate from cir- cumBtancea that must enter into an actual perception,
ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or of which we
have no example in external nature, though it may esist in our minds,
like a line in mathematics, which is deifined as that which has length
without breadth, and which is therefore, for the same reason,
properly called a metaphysical notion, and pure mathematics are justly
considered a part of metaphysics. It was because H. Tooke set out with
these principles thus fiindamentally erroneous, that he could not
com- plete his system when he had brought it to ail but a close.
With admirable acuteness of inquiry, he had tracedup every part of speech
till he found it, originally, either a noun or a verb, and he then left
his book im- perfect, because he could not, on the principles he
had started with, explain the difference bet ween these : — he
promised indeed to return to the inquiry, but he never fiiliilled his
promise for the best of reasons, that there was no pushing it further in
the way he had gone ; he must have contradicted all his early premises to
have reached a true conclusion. The whole cause of his error seems
to havebeen a too unqualified understanding of Locke's doctrine, that the
mind has no innate ideas. SECT. 3.3 ON
GRAMMAR. but neither word, separately, can be said to
express a part of that perception, since the perception is of John
walkmg, and if we per- ceive John separate from walking, then he is
not walking, and consequently it is another perception ; and so if we
perceive walking se- parately from John, it must be that we per-
ceive somebody else walking, and not him. The separate words, then, do
not stand for passively received ideas, but for abstract no- tions
; — so far as they express what is pec- ij ceived by the senses, they
have no separate meaning ; it is only with reference to the un-
derstanding that each has a separate meaning. The separate meaning of the
word John is a knowledge (and therefore properly called a I notion
not an idea*) that John has existed and ] Hence, Tooke acknowledges
nothing originally but ] the senseB, and the experience of those senses,
calling ■ reason " the effect and result of those senses and
that experience." See Vol, II. page 16. " If indeed
the word idea were uniformly employed to signify what is here meant by
notion, and nothing else, little objection could be made : such use
would 14 fCHAP. r.
will exist, independently of the present per- ception, and the
separate meaning of the word •walks, is a linowledge that another may
waik as well as John. This is not an idea of John or an idea of
walking such as the senses give, or such as memory revives : for the
senses present no such object as John in the abstract, that is, neither
walking, nor not walking ; nor do they furnish any such idea as that of
•walking inde- pendently of one who walks. There is then a double
force in these words, — their separate force, which is derived from the
understanding, and their united force, by which, in this in- stance,
they signify a perception by the senses. nearly correspond in
effect though not in theory, with the old Platonic Bcnse, and in the
Platonic sense Lord Mooboddo constantly employs it in his work on
the " Origin and Progress of Language." But as Dr. Reid
observes, ** in popular language idea signifies the same thing as
conception, apprehension. To have KD idea of a thing is to conceive
it." This sense of the word Dugald Stewart adopts. (Philos. of
the Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.) Locke, as already
intimated, uses the word in all the senses it will bear.
SECT. 4.3 ON GRAMMAR. 15 4. In otlier instances, the united
significa- tion of words may not be a perception of the senses j but
whatever may be their united meaning, they will separately include
know- ledge not expressed by the whole sentence, though, if the
meaning of the sentence be ab- stract, the knowledge included in the
separate words will be necessary to the knowledge ex- pressed by
the sentence. " Pride offends," is a sentence whose whole
meaning is abstract; but pride separately, and offends separately,
are still more abstract, and in using them to form the sentence, we refer
to knowledge be- yond the meaning of the sentence as a whole,
namely, to pride under other circumstances than that of offending, and to
offending under other circumstances than that of pride offend- ing
; and here, tlie knowledge referred to seems necessary, in order to come
at the know- ledge expressed by the sentence. " John walks,"
(or, according to our English idiom, " John is walking,") is a
perception by the senses, and does not therefore depend on a
16 01^ GRAMMAR. [chap.
knowledge of John, and of walking in the ab- stract ; (though to
express the perception in this way requires it;) but " Pride
offends," does not express an individual perception, nor would
many individual perceptions of pride offending give the knowledge which
the sen- tence expresses : we must have obser\'ed what pride is,
separately from its offending, and we must have observed what offending
is, separately from pride offending, before we can rationally
understand, or try to make known to others, that Pride offends. In
this DOUBLE force of words, by which they signify at the same time
the actual thought, and re- fer to knowledge necessary perhaps to
come at it, we shall find, as we proceed, the ele- ments, the true
principles of Logic and of Rhetoric; while in tracingthe necessity
which obliged men to signiiy in this manner even tliose individual
perceptions which nature would have prompted them to make known by
a single sign, (if such sign could have been found,) we shall ascertain
the true principles SECT. 5.j ON
GRAMMAR. 17 of Gkammau. The last mentioned
subject must occupy our first attention. 5. To get at the
parts of speech on our hy- pothesis, we must consider them to be
evolved from a cry or natural word. Not that this is the present
principle on which words are invented ; for art having furnished the
pattern, we now invent upon that pattern j but our purpose is to
consider how the pattern itself is produced by the workings of the
human mind on its first ideas. Those ideas can be none other than
the mind passively receives through the senses ; and perhaps the first
ac- tive operation of the mind is to abstract (sepa- rate) the
subjects or exterior causes of sensa- tion from the sensations
themselves. When we see, we find we can touch, or taste, or smell,
or hear ; and when the perception through one of these senses is
different, we find a difference in one or more of the others. We
also recollect (conceive) our former per- ceptions, and finding the
actual sensations not recoverable by an effort of the mind alone,
18 ON GBAWMAR. [chap.
I. we recognize the separate existence of the ma-
terial world. All this is Knowledge, ac- quired indeed so early in life,
that its com- mencing and progressing steps are forgotten ; but we
are nevertheless warranted in affirm- ing that not the least part of it,
is an original gift of nature. Along with this knowledge we acquire
emotions and passions ; for to knoia material objects, is to know them as
causes of pleasurable or painful sensation, and hence to feel for
them, in various degrees, and with various modifications, desire and
aversion, joy and grief, hope and fear. And here, as the same
object does not always produce the same emotion, or the same emotion
arise from the same object, we begin a new class of abstrac- tions
: we separate, mentally, the object from the emotion or the emotion from
the object : we are enabled in consequence to abstract and consider
those differences in the objects, from which the different effects arise,
and to ascer- tain, by trial, how far they yield to volition ope-
rating by the exterior bodily members, which SECT. 6.3
ON GRAMMAR. 19 we have
previously discovered to be subservient to the will. In this new class of
abstractions, and the consequences which arise from them, we shall
find the beginning of that knowledge which human reason is privileged to
obtain, compared with that which the higher orders of the brute
creation in common with man, are able to reach j and from this point
we shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr, or divider of
a natural word into parts of speech *, while other animals retain
unaltered the cries by which their desires and passions are first
expressed. 6. As we are able to separate, mentally, the
object from the emotion, and to remem- ber the natural cry after the
occasion that produced it ceases, the natural cry might re- main as
a sign either of the object or of the emotiont. But this does not carry
us beyond • Thia is the sense in which we choose to under-
stand the word, and not merely voice-dividing or ar- ticulating.
■f For instance, as, in the present state of language, the
exclamation of surprise ha-ha '. is either an inter-
to ON GRAMMAR. the mind which forms
the abstraction, and has the power to establish a sign (wliether
audible or not) to fix and remember it: — our inquiry is, how a
communication can be made from mind to mind, when the signs which
na- ture furnishes are inadequate to the occasion. And first be it
observed, that only such occa- sions must, at the outset, be imagined as
do but just rise above those for which the cries of nature are
sufficient: — we must not sup- pose a necessity for communicating those
ab- stract truths which grow out of an improved use of language,
and which could not there- fore yet have existence in the mind. And
we have further to observe that no com- munication can be made from one
mind to another, but by means of knowledge which the other mind
possesses; — the cries of na- ture can find their way only into a
conscious breast, — that is to say, a breast that has known,
jection eignifyiDg that emotiou, or the n so placed ae to give
occasion to it. SECT. 6.3 ON GRAMMAR. 91 or at
least can know, the feelings which are to be communicated, and is
capable, therefore, of sympathy or antipathy ; and knowledge of
whatever kind can be conveyed to another mind only by appealing to
knowledge which is already there. To suppose otherwise, would be to
attribute to human minds what has been imagined of pure spirits, — the
power of so mingling essences that the two have at once a common
intelligence. To human minds It is certain that this way of communicating
is not given, but each mind can gain knowledge only by comparing and
judging for itself, and to communicate it, is only to suggest the
sub- jects for comparison. Let us suppose that a communication is
to be made for which a na- tural cry is not sufficient, — the difficulty,
then, can be met only by appealing to the know- ledge which the
mind to be informed already possesses. The occasion will create some
cry or tone of emotion ; but this we presuppose to be insufficient.
It will however be under- stood as far as the hearer's knowledge may
02 ON GRAMMAR, [CIIAP. 1. enable him to interpret it —
that is, he will know it to be the sign of an emotion which himself
has felt, and he will think perhaps of some occasion on which himself
used it. But the cry is to be taken from any former par- ticular
occasion, and applied to another; and he who has the communication to
make, will try to give it this new application by joining another
sign, such as he thinks the hearer is hkewise acquainted with. The
natural cry thus taking to its assistance the other sign, and each
limiting the other to the purpose in hand, they will, in their united
capacity, be an ex- pression for the exigence, and will, to all in-
tents and purposes, be a sentence. 7. In some cases, nature seems
to furnish an instinctive pattern for the process here de- scribed
: —a man cries out or groans with pain ; he puts his hand to the part
affected, and we at once interpret his cry more particularly than
we could have done without the latter sign. In other cases, we are driven
to the same process not by an instinct, but by the
SECT, 7*3 ON GEAMMAH. ingenuity of reason
seeking to provide that which nature has not furnished. If a man
unskilled in language, or not using that which his hearers understand,
should try to make known what art expresses by a sentence such as
" I am in fear from a serpent hidden there," his first effort
would be the instinctive cry of fear ; but aware that this could be
particularly interpreted only of a known, and not of an un- known
occasion, he would, by an easy effiirt of ingenuity, fix it for the
present purpose by add- ing a sign or name of the reptile, (for
mimick- ing the hiss of the reptile would obviously be a name,) and
by joining to both these a ges- ticulative indication of place. The
instinctive cry thus newly determined and appUed, is a sentence ;
and however clumsy it may seem when compared with the more
complicated one previously given, yet the art employed is of the
same kind in both. We leave the read- er to smile at the example as he
pleases, and will join in his smile while he compares it with that
in the epistle of the poet in the note at ^
ON GRAMMAR. I^CHAP. I. Sect. 1.; and,
if he is disposed to smile again, we will suppose another example : — Two
men going in the same direction, are stopped by an unexpected
ditch, and ejaculate the na- tural cry of surprise ha-ha/ This is
remem- bered as the expression suited for that par- ticular
occasion; and the mind, the human mind, seems to have the power of
generalizing it for every similar object. Suppose one of these men
finding another ditch very offensive to his nose, signifies this
sensation by screwing up the part offended, an d uttering the
nasal interjection proper for the case ; — the inter- jection may
not be sufficient j for the other man may remain to be
informed of what his companion knows, namely that the offence
proceeds from the ditch. To fix the mean- ing, therefore, o f the
interjection to the case in hand, the communicator adds the former
natural cry in order to signify the ditch, and the two signs qualifying
each other, are a sentence. 8. An artificial instrument as
language is, SECT. S.J ON GRAMMAR.
25 growing (as we suppoaej out of necessity,
and adapted at first to the rudest occasions ; per- fected by
degrees, and becoming more com- plicated in proportion as the occasions
grow numerous and refined ; — such an instrument, when we compare
its earliest conceivable state with that in which it has
received its iiighest improvement, must appear clumsy and awk- ward
in the extreme. But in the very rude state in which we here suppose it,
the art em- ployed is essentially the same as afterwards : — two or
more signs are joined together, each " sign referring separately to
presupposed know- ledge, but in their united capacity communi- i
eating what is supposed to be unknown. Of the signs used, that must be
considered the , principal by which the speaker intimates the ,
actual emotion j the other signs, which do but j fix its meaning, are
secondary. Thereforej ; though the appellation word (that is p^/io,
i dictum, or communication,) strictly belongs to the whole
expression or sentence, we may reasonably give that appellation to the
prin- Sfi ON GRAMMAR. [CHAP. I. cipal sign.
According to this supposition, the original verb was an expression
equiva- lent to what we now signify by I hunger, I thirst, I am
warm, I am cold, I see, I hear, IJeel, &c., / am in pain, I am
delighted, I am angry, 1 love, I hate, I fear, I assent, I dis-
sent, I command, I obey, &c. Whether this a priori conjecture has any
facts in its favour, is an inquiry suitable to the etymologist, but
fo reign to our purpose, because, whether true or not, the general
argument by which we in- tend to prove the nature of the parts of
speech, will remain the same*. " Vet it may be
worth while to quote the coinci- dent opinion of another writer. "
It may be asked " says Lord Monboddo, " what words were (irst
invented. My answer is, that if by words are meant what are
commonly called parts of speech, no words at all were first invented ;
but the first articulate sounds that were formed denoted whole sentences
; and those sentences expressed some appetite, desire, or inclination,
relating either to the individual, or to the common business which
I suppose must have been carrying on by a herd of savages before language
was invented. And in this SECT. 9.3 GHAMMAR.
S7 9. We have next to imagine the use of
any of the foregoing verbs in the third per- son ; for that, it should
seem, would be the next step. In communicating that anothet-
hungers or thirsts, or sees or hears, or is angry or pleased, &c.,
the difficulty would be to give the word this new application, and a
limiting sign would, as usual, be necessary. A proper name would be
the sign required ; and if not too great a tax upon fancy, we may
conceive the invention of these from the mimicking of a man's
characteristic tone, or his most frequent cry ; not to mention the
assistance of gesticu- lative indication. But when verbs had thus
lost the reference which, at first we presume, they always bore to the
speaker, a sign, whether a change of form, or a separate word, would
be wanted to bring them back to their early meaning as often as
occas ion required. A gesticulative indication of the speaker
and way I believe language continued, perhaps for many
ages, before names were invented." — Origin and Pro- grese of Language.
Vol. I. Book 3. Chap. 1 1- 28 ON GRAMMAR. [CHAP. I.
of the person spoken to, can easily be con- ceived : how soon
tliese would give place to equivalent audible signs, the reader is left
to calculate j and as to the pronoun of the third person, he may
allow a longer time for its in- vention, especially as even in the finest
of lan- guages, tliere is no word exactly answering to ille in
Latin and he in English. 10. We have suggested a clew to the
in- -yention of proper names, and (for the reader jnust allow us
much) we will suppose these, L ^ far as need requires, to be invented.
But r piost of these, from the difficulty of inventing a new name
for every individual, would gra- dually become common. If a man has
called I the animal he rides on by a proper appellation I
corresponding to horse, what shall he call t Other animals that he knows
are not the same; and yet resemble? Because he is unprovided
.. r jwith a name for each individual, he will call' I each of them
horse*, and the name will then " Compare Adam Smith, "
Considerations con- cerning the First Formation of Languages,"
appended SECT. 10.] ON GRAMMAR. no longer be
proper but common. But the same powers of observation which
acquaint us with the points of resemblance, likewise show the
points of difference, and when we wish to distinguish the animals from
each other, how is this to be done ? The question is easily
answered when we have a perfect lan- guage to refer to, but it was a real
difficulty when the expedient was first to he sought. Yet the
difficulty not unfrequently occurs even in a mature state of language,
and the manner in which it is overcome, will enable us to conceive
how, in the rude state of Ian- guage we are supposing, itwas universally
met, till the noun-adjective became a part of speech*. Of two
horses, we observe that one to his work on the Theory of Moral
Sentiments. As a proof how prone we are to extend the appellation
of an individual to others, he remarks that " A child just
learning to speak, calls every person who comes to the house its papa or
its mamma ; and thus bestows upon the whole species those names which it
had been taught to apply to two individuals." ' The
Mohegans " (an American tribe) " have so ■ ON
GRAMMAR. [cHAP. I. has the colour of a chestnut, and the other
is variegated hke a pie ; and we call the former a cfieslnut horse,
and the other a pied or piebald horse. Here we perceive are two
nouns-sub- stantive joined together to signify an indivi- dual
object, and employed, Ui their united ca- pacity, to signify what would
otherwise have been denoted by an individual or proper name. This,
then, is their meaning, respectively, as a single expression. In their abstract
or separate capacity, the one word denotes either one or the other
of the two animals without reference to the difference between them :
the other word denotes, not a chestnut or a pi^ but that colour in
a chestnut, and those varie- gated colours in a pie, by which one of
the animals is distinguished from the other, and these words are no
longer nouns-substantive DO adjectives in all their language. Although it
may at first seem not only singular and ciuious, but im- possible
that a language should exist without adjectives, yet it is an indubitable
fact," — Dr. Jonathan Edwards — quoted by H. Tooke, Diversions of
Purley, Vol. II. p. 463. SECT. 10.]
ON GBAMMAR. but nouns-adjective *. And here the
ques- tion will naturally occur, how would a hearer know when a
noun was used substantively, and when adjectively ? As this would
often be attended with doubt and ambiguity, the necessity of the
case would soon suggest some slight alteration in the word as ofi;en
as it was used adjectively ; and the same all- powerful cause would
likewise, in time, dia- tinguish adverbs from adjectives : for at
first an adjective would be used without scruple to limit the verb,
as to limit the substantive j since • " The invention
of the simplest nouns-adjective,*' says Adam Smith, " must have
required more meta- physics than we are apt to be aware of." But the
dif- ficulty he imagines is done away by the hypothesis suggested
above ; and how near it is to the truth, will fae conceived by calling to
mind the ready use of al- most any substantive as an adjective, as often
as need requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a
grammar school, a school grammar ; a man child, a cock sparrow, an earth
worm, an air hole, a (ireking, a water lily ; not to mention the
innumerable com- pounds that are considered single words ; as,
seaman^ Iiorsenian, footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic.
«t ON GRAMMAR. [chap.
1 this is often done even in the present state of
language j but the doubt whether it was to be taken with the substantive
or the verb* would soon produce some general difference of form ;
and thus the adverb would be brought into being as a distinct part of
speech. 11. Still it would often happen, that in endeavouring
to limit a verb to the particular communication in view, no substantive
or pro- noun joined to it, not even with the further aid of an
adjective or adverb joined to the substantive or verb, would suffice ;
and failing, therefore, to convey the communication by one
sentence, it would become necessary to add another to limit or determine
the significa- tion of the first. Now a qualifying sentence thus
joined, when completely understood in connexion with that it was meant to
qualify, would be esteemed as a part of the same sen- tence, and
the verb, in the added sentence, • E. g. whether " I
love much society " is to be understood / much-li/ve suciety, or, /
Iwe 7iutch- society. SECT. 11.] ON GRAMMAR. 38
would possibly then lose its force as the sign of a distinct
communication. This again, will easily be understood by a reference to
what occurs in the present state of language. Look- ing at the
sentence, " In making up your par-- ty, except me," no one
hesitates to call concept a verb ; but in this sentence, *^ All were
there, except me," although the word except has pre^^ cisely
the same meaning, yet, as we do not con^ sider the clause except TTie to
be a distinct com- munication, but only a qualification to suit the
whole sentence to the purpose in view, we call except a preposition *,
that is, a word put be^ * This solution of the difficulty in
the invention of prepositions, which seems so considerable to Adam
Smith, is suggested, as the reader will perceive, by the etymological
discoveries of Home Tooke, and will receive complete confirmation by the
study of his ad- mirable work. Let it not be supposed, however,
that we have nothing to object to in the Diversions of Purley :
some ftmdamental principles we have already marked for inquiry ; and on
the point before us, we have to observe on that curious way of thinking,
which leads him, because a word was once a verb or a noun.
Olf GRAMMAR. j^CHAP. I. fore
another to join it to the sentence that goes before. 12. But
in thus qualifying sentence by sen- tence, it may sometimes be necessary
to use three verbs, one of them being merely the sin- gle verb that
joins the two sentences together ; as, " I was at the party, and (i.
e. add, or join this further communication) I was much de-
lighted." Sometimes a noun will be used in this way ; as, " I
esteemed him, because (i. e. this the cause) I knew his worth." Any
par- ticular form of verb or noun used frequently in this manner to
join sentence to sentence, will cease at last to be considered any
thing more than a conjunction *. IS. As to the article, we
have only to sup- to esteem it always so ; on the same principle, no
doubt, that, because the word truth comes from he trou-eth or
thinkelh, a.aA a man's thoughts are always changing, he denies that there
is any such thing as eternal, im- mutable truth. * Again the
reader is referred to the Diversions of Purley, for a confirniation of
this account of the birth of conjuncticms. SECT. 14,]
ON GRAMMAR. 85 pose some adjective used in a particular
limit- ing sense so frequently, that we at last regard it as
nothing more than a common prefix to substantives : — as to a participle^
it is confess- edly, when in actual use, either a part of the verb,
or a substantive, or an adjective : — and as to an interjection^ this we
have supposed to be the parent word of the whole progeny ; and if
it is sometimes used among the parts of an artificial sentence, it is
only as a vibration of the general tone of feeling that belongs to
the whole. 14. In this manner, or in a manner like this in
principle and procedure, would lan- guage grow out of those powers
bestowed on man by his Creator, even though it had not been
directly communicated from heaven :-— in this manner is the progress from
natural cries to artificial signs contemplated and pro- vided for
by the constitution of the human mind; — in this manner would the parts
of speech be developed j and men placed in so- ciety, and endowed
with powers for observa- D S 36 ON GRAMMAR.
[CHAP. I. tion, reflexion, comparison, judgment, would, in
time, become fiepoire^f or dividers of a na- tural word into significant
parts, with the same kind of certainty that they become bipeds or walkers
on two legs* ; being bom neither one nor the other. * And
according to Monboddo, with the same certainty that they lose their
tails; for when they were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to
think they might have been so appendaged ; nay, he knew a Scotchman
that had a tail, though he always took care to hide it : (his lordship
was surely in luck^s way to find it out.) After all, it would be
difficult to prove, notwithstanding the authorities Monboddo quotes,
that herds of men were ever found destitute of language. Leaving,
therefore, the origin of the first language, and the subsequent
confiision or division of it precisely as those two &ct8 stand in
Genesis, all we mean to assert in the text is this, — that if a number of
children having their natural faculties perfect, were suffered to
grow up together without hearing a language spoken, they would invent a
language for themselves : though, for a long time, it might remain
nothing better than that of the Hurons described by Monboddo,
(Origin and Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in which the
parts of speech are scarcely evolved, from the original elements, but
what in a formed language SECT. 15.] ON GRAMMAR. S^
15. But the object of the foregoing at- tempt, was not so much to
trace the origin is expressed by several words, is expressed
by a sign not divisible into significant parts. Thus, he says,
there is no word which signifies simply to cut, but many that denote
cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths, cutting the heady the arm^
&c. And so of the language throughout. More than one generation would
be re- quired, and very favourable stimulating circumstances, to
bring such a chaos of a language into form ; but that the human mind has
within itself the powers for accomplishing it sooner or later, we see no
cause to doubt — These words, and the whole of the hypothesis in
the text above, were written before the third Volume of Dugald Stewart's
Philosophy of the Human Mind had been seen. From that part which treats
on Lan- guage we quote the following passages : ^^ That the
human faculties are competent to the formation of language, I hold to be
certain.*" ^^ Language in its rudest state would consist
partly of natural, partly of artificial signs ; substantives being
denoted by the latter, verbs by the former.*" These are among
the many passages which coincide with the views opened in the previous
hypothesis. It is to be added, that D. Stewart considers the imperative
mood to be the first form in which the artificial verb would be
displayed. ON GRAMMAR. [chap. 1.
and first progress of language, as to get at the real ground
of diflference among the se- veral parts of speech. On this subject,
there prevails a universal misconception. Prom the definitions and
general reasoning in Gram- mar ; — from the theories laid down in Logic
; — and the basis on which the rules and prac- tice of Rhetoric are
presumed to stand, this principle seems to be taken for granted,
that the parts of speech have their origin in the mind
independently of the outward signs, when, in truth, they are uothing more
than parts in the structure of language ; contrivances adopted at
first on the spur of theoccasion, the shifts and expedients to which a
person is driven, ■when not being able to lay bare his mind at once
according to his consciousness, he tries, by putting such signs together
as were used for former occasions and therefore known as regards
them, to form an expression, which, as a whole, will he a new one, and
meet the pur- pose in hand. True indeed it is, that these very
contrivances become, in their more re- SECT. 15.2 ON
GRAMMAR. 39 fined use, the great instruments of hmnan rea- son
by which all improvement, all extensive knowledge, is obtained; but we
are not to confound the instrument with the intelli- gence that
uses it/ nor to suppose that the parts of which it is composed, have, of
ne- cessity, any parts corresponding with them in the thought
itself. It is not what a word signi- fies that determines it to be this
or that part of speech, but how it assists other words in ma- king
up the sentence. If it is commissioned to unite the whole by the
reference immediate or mediate which all the other words are to bear
to it, and to signify that they are a sen- tence, that is, the sign of a
purposed commu- nication, then it is the verb : — if it has not
this power, (namely, of uniting the other words into a sentence,) and yet
is capable, in all other respects, of standing as an independent
sign, (this sign not being the sign of a purposed communication)
then it is a substantive .-—if it is the implied adjunct of a
substantive, it is an adjective or an article^ — if of a verb^ an ad-
40 ON GRAMMAR. [CHAP. I. verb : — if we know it to be
a word, which, in a sentence, is fitted to precede a substantive,
(or words taken substantively) in order to con- nect such substantive
with -what goes before, then it is a preposition : — and if it goes
before, or mingles in a sentence, in order to connect it with
another sentence, then it is a conjunc- tion. These are the only real
differences of the parts of speech : — as to the meaning, that does
not of necessity differ because a word is a different part of speech ; —
the following words, for instance, all express the same no- tion
: Add Addition Additional
Additionally With* Andt * The
imperative of the Saxon verb Jpi^an to join. -|- The imperative of
the Saxon verb ananab to add. The place and ofHce of these six
words in a sentence would of course differ, and the sentences in which
they were respectively used would require a various arrange-
SECT. 15.] ON GRAMMAR. 41 Our definitions reach the real
differences among these words, and they will be found adequate to
all differences, when, by the ob^ servation hereafter to be made, we are
quali- fied to make due allowance for the licences assumed by the
practical grammarian *• In ment to meet the same purpose, but as to
the meaning of the words, it would be the same in whatever sentence
: e. g. Add something to our bounty. Make an addition
to our bounty. Give an additional something to our bounty.
Give additionally to our bounty. Increase o ur bounty
with the gift of something. Consider our bounty and give
likewise. * To suit our definitions to an elementary grammar, they
must be quaUfied and circumstanced: — a verb, for instance, must be shewn
to be a word that is by itself a sentence, as esurio ; or which signifies
a sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig- nify a
sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive mood, is a verb named
but not used ; a8 to be, to love ; or if used in a sentence, it is not
the verb. A noun- substantive is a name capable of standing
independently, but it cannot enter into a sentence except by being
connected directly or indirectly with a verb. The in- flexion of a
noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^ is ON GRAMMAS.
[chap. I, the mean time, in order to throw as
much light as possible on the nature of the con- nexion between
thought and language, let us look back a little on foregoing
statements, and partially anticipate those which are to be opened
more at full under the heads of Logic and Rhetoric. called a
substantive, bnt in so calling it, we must say a Bubstantive in the
genitive, or other case. A noun- adjective is a name not fitted to stand
independently, but to be joined to a noun-substantive, and so to form
with it one compound name. An adverb is a word not fitted to stand
independently, but to be joined to a verb, and to form with it one
compound verb, A preposition ig a word governing as its object a
substantive or pro- noun in the manner of a verb, but not an obvious
part of a verb, nor capable, like a verb, of signifying a sentence.
The article, pronoun, participle, conjunc- tion, and interjection, may be
defined as usual. We would suggest moreoverthat in an elementary
grammar, no definition, and no part of a definition, should be
brought forward, till absolutely required by the examples that are
immediately to follow it. In teaching a child, it is the greatest
absurdity in the world to set out with general principles, when the
business is, to reach those principles by the eiiamina- tion of
particulars. SECT. 1(3-3 '^^ GRAMMAB. 43 1 6. It
may be that the organs of sensation are not all fully developed in a
new-born in- fant ; but if, for the sake of our argument, we allow
that they are so, this is as much as to say, that our earliest sensations
from the ob- jects of the material world, are the same that they
are afterwards. But there must be this most important difference, — that
the early sensations are -wilkoui knowledge, and the lat- ter, with
it. I know that the object which now affects my sense of vision, is a
being like my- self, — I know him to be one of a great many similar
beings ; — I know him to be older or younger than many of them, — to be
taller or shorter; — I know pretty nearly the distance he is from
me ; — 1 know that the particular circumstances under which he is now
seen, are not essential to him, but that he may be seen under other
circumstances : — I know that what now affects my sense of hearing, is the
cry or bark of a dog j — I know, although my eyes are shut, that there
are roses near me, or something obtained from roses j — I knoie
u ON GRAMMAR. [CUAP. ]
that sometliing hard has been put into my mouth ; — and now
I know it to be part of an apple. All the sensations by which the
various knowledge here spoken of is brought before the mind, the new-born
infant may possibly be capable of; but as to the know- ledge, there
is no reason to believe he lias the least portion of it. For the
knowledge is gained by experience, requiring and com- prising many
individual acts of observation, comparison, and judgment j all which
we suppose yet to take place in the new-born infant. Now, in
looking back to what has been said on the acquirement of language,
we find the effect of our progressing knowledge to be this, that
every sign arising out of a par- ticular occasion, will lose that
particular re- ference in proportion as we find it can be used on
other occasions j and so all words will, at last, in their individual
capacity, become ab- stract or general. This is as true of such
words as yellow, white, heat, cold, soft, hard, . bitter, sweet, and the
like signs of what Locke SECT. 16.] ON GRAMMAR. 45
calls simple ideas as of any other * : for we can evidently use
these words on an infinity of different occasions j and the power of
so using them is an effect and a proof of our knowing that the
different occasions on which we use the same word, have a something
in common, or in some way resemble. But while all words thus
acquire an abstract or general meanipg, every communication which
we purpose to make by their means, must, in comparison with their
separate signification, be particular ; and our putting them together
in order to form a sign for the more particular thought, will be to
deprive them of the abstract or general meaning which they had
indi- vidually. If this is the real nature of the process, we are
completely mistaken if we suppose that every word in a sentence
sig- nifies a part of the whole thought, and that the progression
of the words is in corre- spondence with a progression of ideas
which the mind first puts togetlier within, and then * Vide Locke,
Book II. Chap. 1. Sect. 3. 46 ON GRAMMAR. j^CHAP. I.
signifies without What deceives us into this impression, is, that
on considering each word separately, each is found to have .1
meaning. Let us try, however, whether the joining of words into a
sentence, does not take from them the meaning they have separately. Put
to- gether the three words " My head aches," and we have
an expression, namely the whole sentence, which signifies what, from a
want of clearness in our remarks, may possibly be the reader's
present particular sensation: hut my, separately, signifies the general
knowledge I have attained of what belongs to ine as dis- tinguished
from what belongs to another j a knowledge which is not at all necessary
(that is, the ^'•CTJcra/ knowledge) to the sensation it- self, nor
even to the expression ofit, if we could find any single sign in lieu of
the three which we have put together. Accordingly, the word my, as
soon as it is joined to the other words, drops that meaning which it
had separately, and receives a particular limitation from the word
head, which word head is like- SECT. 17.3 OM GRAMMAR.
47 wise limited by the word rrof ; and the
more particular meaning which both these receive by each other, is
limited to the particular oc- casion by the word aches. Yet, it may perhaps
be thought, that in this, and in every other sentence, each word, as the
mind suggests it to the lips, is accompanied by the knowledge of
its separate meaning, and that, in this manner, if we use the word idea
in the un- restricted sense familiar to the readers of Locke, each
word may be said to represent an idea. Without entirely denying the
justice of this view of the matter, we offer in its place the
following statement : 17. In forming a sentence for its
proper occasion, the knowledge of which each sepa- rate word is
fitted to be the sign, may, or may not be in the mind of the speaker:
it may be entirely there, or only in part, or not at all there ;
that is to say, the speaker may not know the separate meaning of a
word, but only the meaning it is to have in union with the other
words. And even if the 48 ON GRAMMAR. [CHAP. I.
speaker does know the full separate meaning of each word, yet he is
not under the neces- sity of thinking of that separate meaning
every time he uses it : nor does he, in fact, think of the separate
meaning of words while, in putting them together, his purpose is to
ex. press what has been often expressed before, but only (and even
then but partially and occa* tonally) when he uses words to work out
some conclusion not yet established in his own mind, or when a
train of argument is required to convince or persuade other minds.
This statement will of course require some con- siderations in
proof. 18. And first, as to the knowledge of which each
separate word is fitted to the sign, it is to be observed that our
knowledge grows with the use of words, and therefore our firet use
of them is unaccompanied by that know- ledge which we gain by subsequent
use. This is true, whether we invent words, or adopt those already
invented. In the rude beginning of language, the first use of a
word SECT. IS.J ON GRAMMAH. 4.9
for head, would be a use of it for a particular occasion,
and the word would be particular or proper. If the speaker used it with
reference to himself, it would signify what we now sig- nify fay
the two words my head ". By observ- ation and comparison, he would
find he could extend the meaning of the word, and apply it with
reference to his neighbours as well as himself, and it would then no
longer be proper but common ; that is to say, it would signify a
human head, and not mj/ head. Extending his observations still more
widely, he would ap- ply it with reference to every other living crea-
ture, and it would accordingly then signify a /(u- ing creature's head.
Looking and comparing still further, he would apply it with
referenceto every object, in which he discovered a part having the
same relation to the whole as the head of a living creature has to its
remaining parts ; and the word would then, and not till then, have
its present meaning ; that is to " Compare the characteristics
of the Huron lan- guage referred to in the note appended to Sect.
14. ON GRAMMAR. [chap.
say, in a separate unlimited state it would signify neither my
head, nor a human head, nor a living creature's head, but the top,
chief part, beginning, supremacy of any thing whatever. Nor is the
process essentially different in acquiring the use of words already
invented. A child does not at first put words together, but, if his head
aches, he will say perhaps "head! head!" using the single
word in place of a sentence. At length he will say mi/ head, and
brother's liead, and horse's head, and cradle's head. Still there
are other applications of the word to be learned by use ; and it surely
will not be contended that any one knows the meaning of a word
beyond the cases to which he can apply it. The knowledge which a
separate word is fitted to signify, may then be wholly or may be
partly in the mind of him who uses it in a sentence ; and it is very
possible not to be there at all. A foreigner, for in- stance, who
had beard the phrase the head of the army applied to the general-in-chief,
SECT. 19.3 ON GRAMMAR. 51 would know the meaning of
the phrase, but might be quite ignorant of the meaning of the
separate words, or even that it was com- posed of separable words : and
probably most people can look back to a time in early life, when
they were in the habit of using many a phrase with a just application as
a whole, without being aware that it was reducible into parts in
any other way than as a poly- syllabic word is reducible. ig.
But even when the speaker, in form- ing a sentence, has previous
possession of all the knowledge of which each word is sepa- rately
fitted to be the sign, yet he does not in general think of their separate
meaning while he is putting them together, but only of the meaning
he intends to express by the whole sentence. For through the frequent use
of phrases and sentences whose forms are hence become familiar,
there is scarcely any senti- ment, feehng, or thought, that suddenly
arises in the mind, that does not as suddenly sug- gest an
appropriate form of expression. This [chap. is
manifestly the case with such sentences as arc in constant use for common
occasions : these the speaker cannot be said to make, they occur
ready-made, and he pronounces the words that compose them with as
little thought of their separate meaning as if he had never known
them separate. Even when sentences ready-made do not occur, yet the
forms of sentences will occur, and the speaker will, in general, do
nothing more than insert new words here and there till the sentence
suits his purpose. Thus he who had said " My head aches," will
recollect the form of sentence when his shoulder aches, and in
using the sentence, will only displace head for shoulder: or if his head
" is giddy," he will only displace aches for the two
words quoted, in order to say what he feels. 20. When indeed
we use language for higher occasions than the most ordinary in-
tercourse of life ; when by its means we pro- secute our inquiries after
truth, or use it dis- cursively as an instrument of persuasion,
then 5ECT. 20.] ON GRAMMAR. 63 the operation
itself is carried on by dwell- ing on and enforcing the abstract
mean- ing of some of the words and some of the phrases whUe in
their progress towards form- ing sentences, as of the sentences while
in their progress toward forming the whole ora- tion or book. But
in such cases, language may more properly be said to help others to
come at our thoughts , than to represent our thoughts : although it
is likewise true, that we could not ourselves have come at them but
by similar means. Independently of the words, therefore, the thoughts
would have had no existence j neither should we have proposed the
inquiry after the truths we seek, nor have imagined any thing in other
minds, by addressing which they could be influenced. Still,
however, in these higher uses of lan- guage, (uses which are to be dwelt
on more at full in the chapters on Logic and Rhe- toric,) there is
the same difference between words separately, and the meaning they
re- ceive by mutual qualification and restriction ;
«* ON GRAMMAR. [chap. I.
that is to say, in these higher uses of lan- guage, 83 well
as in those already remarked upon, the parts that make up the whole
ex- pression, are parts of the expression in the same manner as
syllables are parts of a word, but are 7tol parts of the one whole
meaning in any other way than as the instrumental means for
reaching and for communicating that meaning. And suppose the
communication cannot be made but by more signs than use will allow
to a sentence, — suppose many sen- tences are required — many sections,
chapters, books, — we affirm that, as the communica- tion is not
made till all the words, sentences, sections, &c. are enounced, no part
is to be considered as having its meaning separately, but each word
is to its sentence what each syllable is to its word ; each sentence to
its section, what each word is to its sentence ; each section to
its chapter what each sen- tence is to its section, &c. Thus does
our theory apply to all the larger portions of dis- course, and to
the discourse itself, Aristotle's SECT, 20%]] ON GRAMMAR*
55 definition of a word, namely, ** a sound sig. niiicant. of
which no part is by itself signi^ ficant ;" * for if our theory- is
true, the words of a sentence, understood in their separate
^rapacity, do not constitute the meaning of the whole sentence, (i. e.
are not parts of its whole meaning,) and therefore, as parts of
that sentence, they are not by themselves significant ; neither do the
sentences of the discourse, understood abstractedly, constitute the
meaning of the whole discourse, and therefore, as parts of that
discourse, they are not by themselves significant : they are sig-
nificant only as the instrumental means for getting at the meaning of the
whole sentepce or the whole discourse. Till that sentence m oration
is completed, the Word t is unsaid which represents the speaker's
thought- If ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP
abrh arif/iotv-i rikiv. De Poetic c. 20. f In this wide
sense of the expression is the Bible called the Word of God. We shall
distinguish the term by capitals, as often as we have occasion to use
it with simitat comprehensiveness erf meaning.
'$^ ON GRAMMAR. [ CHAP. I. it be asserted that the parallel does
not hold good with regard to such words as Aristotle has in view,
because, of words ordinarily so called, the parts, namely the syllables,
are not significant at all, while words and sentences which are
parts of larger portions of dis- course, are admitted to be
abstractedly sig- nificant, however it may be that their abstract
meaning is distinct from the meaning they re- ceive by mutual limitation,
— we deny the fact which is thus advanced to disprove the parallel
: we affirm that syllables are signifi- cant which are common to many
words ; for instance, common prefixes, as wn, mis, corif dis, bi,
tri, &c.; and common terminations, as nesSjJul, hood, tion, fy,
&c. j and so would every syllable be separately significant, if
it occurred frequently in different combinations, and we could
abstract out of such combina- tions the least shade of something common
in their application : nor is it peculiar to syllables to be
without signification individually; the same thing happens to words when
they are \ SECT. 21.] ON GRAMMAR.
57 always combined in one and the same way in sentences *.
Conceiving, then, that we are fully warranted in the foregoing statement,
we affirm it to be the true basis of Grammar, Lo- gic, and
Rhetoric. Leaving the latter two subjects for their respective chapters,
we pro- ceed, in this chapter, with such further proofs as may be
necessary to confirm our position as far as Grammar is concerned.
21. We have imagined the gradual de- velopment of all the parts of
speech recog- nized by grammarians ; but no reference has yet been
made to the inflexions which some of them undergo; nor to the diflference
of meaning they receive in consequence of such inflexion ; nor to
interchanges of duty among the several parts of speech ; nor to
pecu- liarities of use, which so oflen take from them their
characteristic differences; nor to va- " What separate
meaning, for instance, is there, now, in the words which compose such
phrases as, by- and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.
I ON GEAMMAB. t^CHAP. I. riety of phrase in expressing the
same mean- ing j nor to the power which we frequently exercise of
making the same communication by one or by several sentences ; nor,
in short, to the multitude of refinements which grow out of an
improving use of language, many of which seem to confound and
destroy the definitions we obtain from the first and simplest forms
of speech. All these seeming irregularities will, however, find a ready
key in the general principles we have ascertained. For our general
principles are these : i. That two or more words joined together in
order to receive, by means of each other, a more particular
meaning, are, with respect to that meaning, inseparable j since, if
separated, they severally express a general meaning not included in
the more particular one. Hence it follows, that words may as easdy
receive a more particular meaning by some change of form, as by
having other words added to them : nay, it seems more natural, when
the principle is considered, to give them a more SECT.
21.] ON GRAMMAR. 59
particular meaninjj by a change of form than fay any other way. —
ii. That a word is tliis or that part of speech only from the. office
it fulfils in making up a sentence. From this principle it follows,
that a word is liable to lose its characteristic difference as often as
it changes the nature of its relation to other words in a sentence
; and it also follows, that every now and then a word may be used
ia L8ome capacity wliich makes it difficult to be assigned to
any of the received classes of words. — iii. That since the parts of
which a sentence is composed denote general know- ledge, distinct
from the more particular mean- ing of the whole sentence, it may be
possible i to work our way to a particular conclusion, either in
reasoning for ourselves or in per- j auading others, by putting such
words to- gether as form a sentence, that, as a whole, expresses
the particular conclusion; but that when, from the length of the process,
this cannot be accomplished in a single sentence, we shall be
obliged to work our way by many ON GRAMMAR.
[chap. I, sentences, whicli will bear the same
relation to the conclusion implied by them as a whole, as the parts
of each sentence bear to what the sentence expresses. From this
principle it follows, that using many or fewer sentences to arrive
at the same result, will frequently be optional. The examination of these
se- veral consequences a Httle more in detail with reference to the
principles from which, i they flow, will complete the chapter.
22. It is well known, that the inflexions which nouns, verba, and
kindred words are liable to in many languages, are comparatively
unknown in English, the end being for the most part attained by additions
in the shape of distinct words. Thusthe particular re- lation of the
word Marcus to the other words in the sentence, which in Latin is
made known by altering the word into Marco, is signified in English
by the word io ; and to MarcuSy esteeming the two words as one ex-
pression, is the same as Marco. So likewise the word amo, which in
English signifies / SECT. 23.] ON GEAMMAR.
Gl l&ve, is adapted to a different meaning
by being changed into amabit, which in English is to be signified
by he mil love, the three words, taken as a whole, being the same
as the single Latin word. Shall we call to Mar- cus the dative case
of Afarcus, and he will , love, the third person singular of the
future tense of / love, as Marco and amabit are re- spectively
called with reference to Marcus and amo? or shall we parse (resolve
into grammatical parts) those English sentences, and so deny, in
our language, a dative case and ' a future tense ? It is evident that
this is a question which only the elementary grammar- writer is
concerned with : he may suit his own convenience, and contend the point
as he -I pleases. Thus much is certain, and is quite sufficient for
our purpose, — that to Marcus , cannot be considered a dative case, nor
he wiU ] love a future tense, on any other principle than the one
it is stated to flow from, namely; that marked i. in Sect. 21.
23. To the practical grammarian we may 64
ON GnAMMAR. [[chap. I. likewise
frequently allow, for the sake of con- venience, the continuing a word
under its usual denomination, when its office, and con- sequently its
character, are essentially changed. He will love, taking the three words
as one expression, are a verb both on the principles we have
ascertained, and in the practice of the elementary grammarian : but in
parsing tliis verb — this p^iio, dictum, communication, 01
sentence, — only one of the three words can properly retain the
denomination of verb, viz. that word to which the others have a re-
ference, by which they hang together, and are signified to be a sentence,
namely, ■will. As to the word love, which the practical grammarian
will tell us is a verb in the infi- nitive mood, it does not in fact
fulfil the office of a verb, but of a substantive. But if, by
calling it a verb in the infinitive mood, its character for practical
purposes is con- veniently marked, we may fairly leave the matter
as it stands. All we insist upon is, that the doubtful character of the
word is a SECT. 23.] ON GBAMMAB. 63 consequence
of the principle marked ii. in Sect 21." I •
Strictly, there is no verb but when a c cation ib actually made ; and
that word is then the verb, which expreaseB the communicatioti, or
which, when several words are necessary, ie the sign of union among
the whole of them. A verb not actually in use is acaptain out of commission,
and if we still call it a verb, it is by courtesy. Home Tooke never
an- swered his own question, " What is that peculiar dif-
ferential circumstance, which added to the definition of a noun,
constitutes a verb ?" (Diversions of Purley, Vol. II. p. 514),)
because he bad previously blinded himself to the perception of what it
is, by laying down the principle already animadverted upon in a note
ap^ ponded to Sect. 3., namely, that the business of the mind, as
far as regards language, extends no fiirther than to receive impressions:
the consequence of which priuciple would be, (if it could have any
consequence at all,) that the first invented elements of speech
were nouns, or names for those impressions ; which accord- ingly
seems to be his notion, and that verba afterwards arose from nouns, by
assuming the difierential some^ thing that was found to be wanting. Our
doctrine is, that the original element of speech contained both the
artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind exerted its
active powers in order to evolve the artir ficial parts ; that the act of
joining them together M ON GRAMMAR. [CHAP. I.
S't. It might also perhaps admit of dis- pute, whether substantives
in what are called their oblique cases, do not, by being the ad-
juncts to other words, and taking a change of form to signify their
servitude, cease in fact to be substantives, and merit no higher
name than adjectives or adverbs. But here again we consult convenience by
using the descriptive title, a substantive in the geni- tive,
dative, accusative, or ablative case. We only need insist, as
philosophical inquirers, that the definition of a substantive in
Sect. 15., is not less correct, because it does not in- clude a
substantive in these oblique cases*. i^ain, made them a verb ; but
if the title was given to one more than to the other, it was given to
that which arose most immediately from the occasion, and took the
other to fis or determine it ; and that subsequently that word in a
sentence came to be coneidcred the verb, which joined the parts K^ether,
and signified them to be a sentence. * The only oblique case
in English substantives, is the genitive terminating in 'fi or having
only the apostrophe, the s being elided. Grammarians, in- deed,
have found it necessary to allow an accusative. SECT. 25.]
ON GRAMMAR. G5 25. The very doubt itself which so often
arises, whether a word is this or that part of speech, — the varying classification
of the parts of speech by different grammarians, — are cir-
cumstances entirely favourable to the theory advanced, and adverse to any
theory which attempts to explain the parts of speech by a reference
to the nature of our thoughts in- dependently of language. For if the
parts of speech had taken their origin from this cause*
because pronouns have it : for if in the sentence Cas-
s-iua loved him, we put the noun where the pronoun stands, and say,
Casmus loved Brutus, it seems con- venient to consider the noun to be in
the same case that the pronoun was in. On the same principle, the
substantives which, in the classical languages, have no accusative
distinct from the nominative, are neverthe- less considered to have an
accusative, because, lite other substantives, they can be used
objectively with regard to verbs active and certain prepositions.
On the score of convenienee this must be allowed. But when words
are taken separately, (and this, by the very delinttion of the word, is
the business of parsing,) it is evident that only those
substantives are, strictly speaking, in the accusative case, which,
when uaed as just staled, have a form to signify it. ON
GRAMMAR. [chap. surely we could never have
been in doubt either as to vskat, or koio many, they were. But our
theory accounts at once for the in- certitude on these, and many other
points. We admit no original element of speech but the VERB, or
that one sign which denotes what the speaker wishes to communicate.
If no one sign can be found adequate to the occa- sion, then
we must make up a sign out of two or more. Now the division of a verb
into these parts of speech, is necessarily attended by the
consequence, that each part is insigni- ficant of a communication by
itself, and that they signify it only by being joined together.
Supposing a sentence never consisted but of two parts, the mere act of
joining them to- gether, would be sufficient to signify that they
were a sentence or verb. But the ne- cessity or usage of speech being
such, that the hearer knows a sentence may consist of two or of
many words, how is he to be warned that a sentence is formed, unless to
certain words is given the power of signifying a sen-
SECT. 25.] ON GRAMMAR. G? tence, while to other words this power
is de- nied until associated with a word of the for- mer class?
Hence the distinction between noun and verb ; a distinction arising out
of the necessities of speech, and not out of the nature of our
thoughts. The noun and the verb, then, are the original parts of speech,
the verb beingthepreviouselementof both. But as each derives its
office and character solely from an understanding between the
speaker and the hearer, a change of understanding may make them
change their offices, and so the verb shall sometimes be a noun, and
the noun a verb. These changes occur in fact so frequently, as to
require no example. Then, as we have seen, a noun will frequently
be used as the adjunct of another noun, and so become an adjective j an
adjective or other word may be joined to a verb, and so become an
adverb j and any of these, by frequent use in particular combinations,
may acquire, or seem to acquire, a new and peculiar office, and so
become articles, prepositions, and con- ON GRAMMAR.
[chap. I. junctions. But who can ascertain that
de- gree of use, which, to the satisfaction of every grammarian,
shall fix them in their acquired character • ? Nay, must not every such
word, of necessity, while in transitu, be at one period quite
uncertain in its character ? In this man- ner do the effects arising out
of such a theory of the parts of speech as we have supposed, agree
with actual effects, and fully explain them. 26. Again, on any other
hypothesis than the one before us, what are we to think of
compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs, &c., of which all
languages are full ? With- out adverting to established compounds,
such as (to take the first that occur) husbandman. *
What, for instance, shnll we call the word fi/ce in such phrases as like
him, like me? Originally theword unto intervening between it and the
pronoun, govern- ed the latter ; but unio cannot now be aid to
govern the pronoun, since it has been so long disused, as to be no
longer mtderstood. We miglit therefore say, that like is a preposition
governing the pronoun : — the point perhaps is disputed ; — be it so :
for this fact jugt serves our argument. :6.]
ON ORAMMAK. m worJcmanlike,
waylay, browbeat, nevertheless ; without bringing words from the
ilUmitably compounded Greek language, — we may refer to such as are
not established, but compounded ibr the particular purpose ; as when
Locke speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad- mired book,"
where the words in italic are an adjective; and when some old lady
pettishly says to her grandchild " Don't dear Grand' mother me
i" v/here the whole sentence, ex- cept the pronoun governed in the
accusative, is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv
7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie- Ci'/y,— and, TO
Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara Kaipov Trpa.TTea$at, the
completing-spcedili/'and- seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are
war- ranted in considering the whole of the words following the
article, to be, in each instance, a noun-substantive. For these, and for
every other species of compound, the theory before US at once
accounts. For it shows that the use of many words to form one sentence,
arises out of the necessities of language only, the na-
w ON GRAUMAR. [^CHAP. I
tiira] impulse of the mind being tomake its com- munication
by a single expression. Having complied, then, with the necessities of
lan- guage, and rendered it capable of serving as the interpreter
of much more knowledge than we could have attained without its help ;
we then return on our steps, and give a unity to our expressions in
every possible way. 27. The corruption of early phrases, by
which, in so many instances, they come under the denomination of adverb,
will be found another obvious consequence of the present theory,
while they abundantly perplex the grammarian who attempts to reconcile
them to any other system. "Omnis pars orationis" says
Servius, "quando desinit esse quod est, migrat in adverbium."
" I think" says Home Tooke, " I can translate this
intelligibly — Every word, quando desinit esse quod est, when a
grammarian knows not what to make of it, migrat in adverbium, he calls an
ad- verb."* What indeed can be made of such '
Divctsioiia vi Puiky, Vol. I. SECT. 270 Of* GRAMMAR.
71 expressions as at all, by and by, to be
sure, for ever, long ago, no, yes. They are adverbs, say the
grammarians. But (to take the phrases first) what are the words,
individually, of which the adverbs are composed? The answer will
be, they are prepositions, adjec- tives, &c., which remain from the
corruption of regular phrases once in use. This is a true , account
of the matter : — yet it leaves us still to ask, what ai'e these single
words, now that the phrases which produced them exist no longer in
their original state. Let any gram- marian, if he can, prove their right
to the name of any of the received parts of speech. Our system, if
it does not make a provision tor them by a name for a new class of
words, at least shows the cause and the nature of their difference.
For according to our principles, words have both a separate and a, joint
signifi- cation. But if words should be constantly
another place, he says " that this class of words, (ad- verb,)
is the common sink and repository of all hetero- geneous, unknown
corruptions." w ON GRAMMAR.
[chap, r. occurring in particular combination,
this ef- fect will enaue, — that their separate significa- tion in
such hackneyed phrase, will at last be quite unattended to, and their
joint significa- tion alone regarded ; — and such phrases will then
be as liable to be clipped in the currency of speech, as any long word
which is trouble- some to be uttered at full : — thus will the re-
maining parts of the phrase be fixed for ever in their joint, and lose
for ever their separate signification*. So much for the words com-
posing adverbial phrases. But what are we to say for no, yes, which
probably had the same origin as the phrases ? These have not, Hke
the phrases, a compound form, nor do they, like the phrases, always
assist in making up a sentence, but are frequently and proper- ly
pointed oft' by the full stop. Are we, un- der such circumstances, to
call them adverbs P •• Yes." This is the answer our
grammarians make. But is there, in these words, any •
Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs onilcr this doicnption.
SECT. 28.] ON GRAMMAR. 73
thing which gives them a just claim to be ranked with any of the
received classes of words? " No." This is an assertion it
would be difficult to gainsay. For consider them well, and we shall
find, that, in their present use, they are not j3ar/s of speech at all,
except with reference to the larger portions of dis- course of
which all the sentences are parts : they are sentences ; and they afford
a striking example of what was intimated in the prece- ding
section, namely the tendency oflanguage, in a mature state, to return on
its early steps as far as can be done without losing the ad-
vantages gained : for not only do we, when- ever we can, bring the
smaller parts of speech into such union as to form larger parts,
but in some instances, (as in these last,) we come round again to
the simpHcity of natural signs. 28. This union of the smaller into
larger parts of speech, and the power we have to dis- pose the same
materials into more or fewer sentences, will furnish further proofs, that
the present theory of language can alone be the
74 ON GRAMMAR. [chap.
true one. A proper examination of compound sentences will show,
that the grammatical parts into which they are first resolvable,
are not the single words, but the clauses which are formed by those
words ; which clauses are substantives, and verbs, and adjectives,
and adverbs, with respect to the whole sentence, however they may,
in their turn, be resolva- ble into subordinate parts of speech
bearing the same or other names. To take the fol- lowing as an
example : " The sun which set this evening in the west, will rise
tomorrow morning in the east." The two parts into which this
sentence is resolvable, are, to all intents and purposes, a noun-substantive
and a verb, if considered with respect to the whole sentence*. This
is the first, or broadest ana- * And HO may the two parts
(technically called the protasis and apodosis) of every periodic sentence
be considered : for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re-
solvable into two chief parts, the one assimilated to the semicircle
tending out, the other to the rendering- in, or completing semicircle.
These answering parts ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in
En- *■] ON CRAMMAlt.
75 lysis. Then taking the former of these two
chief constructive parts, we shall find it re- solvable into these two
subordinate parts, viz. the sun, a noun substantive, and w?iick set
this evening in the west, its adjunct or adjective : — the latter
chief constructive part being in the same way resolvable into will rise,
a verb, — and, tomorrow morning in the east, its ad- junct or
adverb. Returning to the adjective of the former chief constructive part,
we shall gUsh very frequently by as — so; though — yet,
&c. There may exist a doubt in most sentences so construct- ed,
whether the one part has a claim to be considered tlie verb more than the
other : each part is meant to be insignificant by itself, and, {as was
lately supposed of the parts of speech in their early institution, before
a sentence was composed of more than two words,) they Bifrnify a
communication by the very act of being join- ed together. Yet as the
protasis is a clause in sus- pense, and so resembles a substantive in the
nomina- tive case before the verb is enounced ; — as the apodo- 618
removes the suspense, and so resembles the verb in its effect on tlie
substantive ; — it seems that in con- Hidering the protasis as a
nominative case and the apo- dosis aa its verb, we shall not be far from
taking a , right view of the principle and procedure.
76 ON GRAMMAR. [chap.
find it, if separately viewed, to be a sentence having its
nominative which, its verb set, and the latter having its adverb tins
evening in the ivest ; which adverb is resolvable into two clauses
of which the former consists of the de- monstrative adjective this, and
evening, a sub- stantive used objectively with relation to the
preposition on understood •• The latter clause in the west is nearly
similar in its grammatical parts ; but the preposition it depends upon,
is not understood. This subordinate or adjec- tived sentence which
we have thus taken to pieces, (viz. which set this evening in the
west,') is however no sentence when considered with " Or
more properly this eeening is an adverb ; for a word cannot justly be
called understood, when its ab- sence is not suspected till the
grammarian informg us of it : — on before euch phrases when the custom to
omit it had just begun, was indeed understood; it is now understood
no longer, and what remains of any such phrase is an adverb. As the next
clauses, in the tceat, retains its preposition, we are at liberty to
parse the clause, instead of considering it, in the whole, as an
adverb attcndijig the verb set, though we are also ab liberty to
consider it in the latter way. *■] ON
GilAMMAR. 77 reference to the larger
sentence of which it is a grammatical part : but it might, if the
speaker had pleased, have been kept distinct, and the same meaning have
been conveyed by two simple sentences, as by the one com- pound one
: e. g. " The sun set this evening in the west : — It will rise
tomorrow morning in the east." Here, we have two sentences or
commuuications. But this is nothing more than a difference in the manner
of conveying the thought, precisely analogous to the using of two
words that restrict each other, in place of a single appropriate sign. In
the instance before us, the thought, whether expressed by the one
sentence or the two, is the same ; and it is one and entire, whatever the
expression may be. For we must not confound the two facts referred
to in the sentences, with what the mind thinks of the facts : — it is the
con- nexion of the facts that the speaker seeks to make known. Yet
he may imagine he can best make it known by using the two sen-
tences ; for though, it is true, that while they 78
ON GRAMMAR. [chap. I. are in
progress, they will be understood se- parately, yet no sooner will they
be com. pleted, than the hearer will understand them limited and
determined the one by the other, and no longer abstractedly as while they
were in progress. In this manner, in correspond- ence with the
principle stated Sect. 21 . iii., will the same result be obtained by the
two, as by tlie one sentence. 29. This power, which exists in
all lan- guages, of expressing the same thought in a variety of
different ways, is, one would think, a suiEcient proof, by itself; that
thoughts and words have not the kind of correspondence whicli is
commonly imagined : for if such cor- respondence had existed, the same
thoughts would always have been expressed, if not by the same
words, yet by words of similar mean- ing in the same order. Let us
suppose that tlie expressing a thought by several words,' I had
been, (which it is not,) a process analo- gous to that of expressing the
combined sounds of a single word by several letters. There is
SECT. 29.] ON GRAMMAR. 79
the more propriety in instituting tlie compa- rison, because men
were driven to the latter expedient by a necessity similar to that
which drove them to the former. For, no doubt, the first idea of
the inventors of writing was, to appropriate a character for every word ;
and we are told that, to this day, a practice near to this prevails
in China, But it was soon found that the immense number of
characters this would require, must make the completion of the
design next to impracticable ; and the expedient was at length adopted of
spelling words. By this expedient, twenty four cha- racters, by
their endless varieties of position with each other, are capable of
signifying the multitude of words, and the innumerable sen- tences,
which constitute speech. The parts of speech were set on foot by a
similar urgency, and in tlie same way. At first, every sound was a
sentence. But the communications which the business of life required,
far, far outnumbered every possible variety of sound. It was
fortunate, therefore, when a necessity eo
ON CnAMMAR. [chap. I, arose to give
to some of the sounds a less par- ticular application ; for then the
requisite sign was formed out of two or more sounds already in use,
and no new sound was required. So far the parallel holds ; but it will go
no further. In the spelling of words by letters, the same letters
must always be used, — if not the same characters, yet characters of the
same power. And it would have been the same in spelling a thought
by words, if the process had been what it is commonly supposed to be :—
that is to say, the same thought would always have been expressed
by the same words, or if the words had been changed, the change
must have been word for word, as in a completely literal translation from
one lan- guage to another. How different this is from fact, hardly
needs further examples in proof. Mr. Harris attempts to shew *,
that • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree in
Home Tooke's opinion of thia well-known work, that it is " an
improved compilation of almost all the enors which grammarians liave been
accumulating SECT. 290 *^^ GRAMMAR.
81 tlic different forms or modes of sentences, depend
on the nature of our thoughts. That the character of a thought has an
influence in determming our preference of this or that mode of
speech, needs not be questioned; but all the modes of speech, are
interchangeable at pleasure, and therefore they cannot aub-
stantiallydepend on thenature of our thoughts. An affirmative sentence,
" 1 am going out of town," ma be made imperative, "
know, that I am going out of town ;" or interrogative, *' Is
it necessary to say, that I am going out of town ?" A negative sentence,
" No man is immortal," maybe made affirmative,
"Every man is mortal." It would waste time and patience
to multiply examples. The con- clusion, then, is, that the parts of
speech and from the time of Aristotle, to our present days."
Di- versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally, when
our etymologist runs a little bard on this Com- piler of errors, the
theory we advance, opposite as it ib in its general tenor to all that the
Hermes conttuns, will be found to lend its author a lift. See the
section ensuing in the text. ON CnAMMA
[chap. the forms of sentences, are alike
attributable to the necessities and conveniences of lan- guage, and
not to the nature of our thoughts independently of language. Perhaps by
this time it may almost seem that an opinion con- trary to this has
no defined existence, and that the combat has been against a shadow.
But this is not true. If the opinion opposed to the principles
contended for, is seldom ^rwio% expressed, it is nevertheless universally
under- stood — it is at the bottom of all the systems of grammar,
of logic, and of rhetoric, which we study in our youth, and which we
after- wards make our children study ; and as it is an opinion
radically, essentially wrong, the pains employed to overthrow it, cannot,
if successful, have been supeiHuous. In no other way was a
preparation to be made for an outline of the higher departments of
Sema- tology. 30. New, however, as we believe our
theory to be, yet it is not without authorities in its favour ; and with
these we shall conclude SECT. 30.] ON
GRAMMAR. the chapter. Harris, the author of"
Hermes," in treating of connectives, stumbles unawares on the
fact, that a word which is significant when alone, may he no significant
part of what is meant hy the expression it helps to form. He makes
nothing indeed of the fact, further than to lay himself open to the
ridicule of Home Tooke for tKe inconsistent assertions in which it
involves him. " Having " says Tooke *, " defined a word to
he a sound sig- nificant, he (viz. Harris) now defines a pre-
position to be a word devoid of signification ; and a few pages after, he
says, ' prepositions commonly transfuse something of their own
meaning into the words with which they are compounded.' Now if I agree
with him," continues Tooke, " that words ai'e sounds
significant, how can I agree that there are sorts of words devoid of
signification ? And if I could suppose that prepositions are devoid
of signification, how could I afterwards allow, ' Diversions
of Purley, Vol. I. Cliap. 9. 9» ON
GRAMMAR. [chap. T. that they transfuse
something of their own meaning?" Yet with all this, Harris is
right, only that he is not aware of the principle, which lies at
the bottom of his own doctriue. A preposition, as well as every other
word, is a sound significant j — it has an independent abstract
signification : but being joined into a sentence, it is devoid of that
signification it had when alone : it has then transfused its own
meaning into the word with which It is compounded, as that word has
transfused its meaning into the preposition — that is to say, they
have but one meaning between them. 31. But Dugaid Stewart, in his
Philoso- phical Essays, furnishes a direct, and a more satisfactory
authority in favour of the theory we have advanced. " In reading
" says he •, " the enunciation of a preposition, we are
apt to fancy, that for every word contained in it, there is an idea
presented to the understand- ing ; from the combination and comparison
of which ideas, results that act of the mind • Philosophical
Essays, Essay 5. Chap. I. SECT. 31.] ON GRAMMAR, 85
called judgment. So different is all this from fact, that our
words, when examined sepa- rately, are often as completely insignificant
aa the letters of which they are composed, de- riving their meaning
solely from the connexion or relation in which they stand to
others." — Again : " When we listen to a language which
admits of such transpositions in the arrange- ment of words as are
familiar to us in Latin, the artificial structure of the discourse
suspends, in a great measure, our conjectures about the sense, till, at
the close of the period, the verb, in the very instant of its
utterance, unriddles the jenigma. Previous to this, the former words and
phrases resemble those detached and unmeaning patches of different
colours, which compose what op- ticians call an anamorphosis ; while the
effect of the verb, at the end, may be compared to that of the
mirror, by which the anamorphosis is reformed, and which combines these
appa- rently fortuitous materials, into a beautiful portrait or
landscape. In instances of this k 86 ON
GRAMMAR. j^CHAP. I. sort, it will generally be found, upon an
accurate examination, that the intellectual act, as far as we are able to
trace it, is altogether simple, and incapable of analysis ; and
that the elements into which we flatter ourselves we have resolved it,
are nothing more than the grammatical elements of speech j — the
logical doctrine about the com- parison of ideas, bearing a much
closer affinity to the task of a school-boy in parsing his lesson,
than to the researches of philoso- phers able to form a just conception
of the mystery to be explained." — Had this acute philosopher
brought these views of language to the elucidation of Grammar, Logic,
and Rhetoric, and so have cleared them from the incrusted errors of
immemorial antiquity, the reader's patience would not have been
tried by the chapter now finished and those which are to follow.
CHAPTER 11. ON LOGIC. Say,
first, of God above, or man below. What can we reason, but from
what we know. POPE. 1. In commencing this branch of
Semato- logy, it may be as well to define not only this but the
other branches, that their presumed relation and difference may at once
appear : i. Grammar, then, is the right use of words with a
view to their several functions and inflexions in forming them into sentences
; ii. Logic is the right use of words with a view to the
investigation of truth ; and iii. Rhetoric is the right use of
words with a view to inform, convince, or persuade *. * This
definition includes the poet^s use of words as well as that of every
other person, who, having one or more of the purposes mentioned in view,
speaks or fts ON LOGIC.
[chap. II. 2, The object of the present chapter
will be, to show that there is no art of Logic (except sucli as is an
imposition on the un- derstanding but that which arises out of the
principles ascertained in the previous chap- ter ; — that tliis, which is
the Logic every man uses, agrees with the definition in the previ-
ous section; —and that we cannot carry the definition further, without
transgressing a clearly marked line which will usefidly distin-
guish between Logic and Rhetoric. 3. In affirming that there is no
art of Lo- gic but that which arises out of the use of signs, we do
not mean that reason itself is de- writes skilfully. Should it be said,
that the poet's end is to delight, — we answer that he gains this end by
in- forming, convincing, or persuading. The true dis- tinction
between the poet and any other speaker or wri- ter, lies iu the different
nature of their thoughts, In communicating his thoughts, the poet, like
others who are skilful in the use of words to inform, convince, or
persuade, is a rhetorician ; although, with reference to the creative
genius displayed, {iroix^n a jrcn'm,) and al- so with reference to the
added ornament of metre or rhyme, we chU the result, a poem.
SECT. 4.3 89 pendent on language.
Reason must exist pri- or to language, or language could not be in-
Vented or adopted. What we affirm is, that prior to the use of words or
equivalent signs, »o art exists : the mind then perceives, as far
fts its powers extend, intuitively; and thus working without media, it
can no morye ope- rate otherwise than as at first, than the eye can
see otherwise than nature enables it. The mind can, however, invent the
means to assist its operations, as it has invented the telescope to
assist the eye ; the difference being, that the telescope is not such an
instrument as all minds would invent, but the use of signs to assist
its operations, grows out of the human mind by its very constitution, and
the influ- ence of society upon that constitution. 4. That
writers on Logic do not in gene- ' ral view the matter in this light, is
evident from this, that they devote, or at least they persuade themselves
and their readers that they devote, a great pait of their
considera- tion to the operations of the mind indepeud-
90 ON LOGIC. [chap. II.
entlyof language, which, for any practical end, must
evidently be nugatory on the supposi- tion stated above ; since, if the
mind, without the aid of signs, can but operate as nature en- ables
it, all instruction concerning what the mind does by itself*, will but be
an attempt * WattB Bays t&at " the design of Logic, b
to teaeli us the right use of our reason." Recurring to
our comparisDU in the previous section, this is as if any one had
proposed to teach the right use of the eye. It is true indeed, a man may
be taught a right use of the eye, — that is, he may be taught to observe
proper ob- jects by its means ; and so may he be taught a right use
of reason by applying it to those things which are conducive to his
improvement and happiness. But all this belongs to Morals not to Logic ;
nor was this Watts's meaning. He imagined a man could be tattght
how to use his reason independently of any considera- tion of an
instrument to work with ; as if any one had offered to teach mankind how
to sec with their eyes. Now, there is nothing preposterous in offering to
show how a telescope is to be used in order to assist the eye ; nor
any thing preposterous in trying to show how words may be used in a
better manner than com- mon custom instructs us, in order to assist
the mind. — Be it observed that the objection here made, is to what
was proposed to be done by Watts, and not SECT. 4.] ON
LOGIC. 91 to teach us that which every one does with- out
teaching, and which no teaching can make us do better : but if, by the
use of signs, the mind can carry its natural operations to things
which it could not reach without signs, the instruction of the logician
should at once begin by pointing out the use and the abuse of
signs. Now this is in fact the point at which every teacher of logic does
begin, how- ever he may disguise the real proceeding from himself,
and whatever confusion he may throw over his subject, by not knowing in
what way he is concerned with it. In pretending to teach us the
nature of ideas j logicians do no- thing but teach us what knowledge we
attain to what he actually does, except so far as he has done
it amiss from setting out badly. What follows in the text will explain
this last observation. Our illustration must not lead the reader to
think we are ignorant of the fact that men do learn to see, that
is, to correct, by experience and judgment, the im- pression of objects
on the retina. We take the matter as commonly understood, namely, that
men see correct- ly by nature, which is near enough to the truth for
our present purpose. IB ON LOGIC. QCHAP. II.
by means of words-, and when Home Tooke says of Locke's great work,
that it is " merely a grammatical Essay or Treatise on words,"
* be comes so near the truth, that it is wonder- ful he should have
so wrongly interpreted other parts of that philosopher's doctrine.
Putting a wrong construction on Locke's just fundamental principle, that
the mind has no innate ideas, Tooke affirms that '* the busi- ness
of the mind, as far as it regards language, extends no further than to
receive impres- sions, that is, to have sensations or feelings.
What are called its operations are merely the operations of
language." t This is palpably absurd ; ftx how can language operate
of it- • Diversions of I'utley, Vol. I. page 31, note.
-j- Diversions of Purley, Vol. I. page 51. We have already quoted
this passage ; and perhaps more than ontc : but it is hoped we need not
apologise for the re- petitions whicli may be found in this and the
next chapter. Our purpose is to trace Grammar, Logic, and Rhetoric,
to a common source, and in doing so, if they really have an origin in
common, we must necesEarily traverse the same ground repeatedly to come
at it SECT. 4.] 93 aelf?
The mind must observe, compare, and judge *, before it can invent or
adopt the lan- guage of art ; and having adopted it, every use of
it is an exercise of the reasoning facul- ty, excepting only that kind of
instinctive use, in which some short sentence takes the place of a
natural ejaculation. Feelings or sensa- tions we cannot help having ; but
these do not help us to language. This requires the ac- tive powers
of the mind ; and every word, in- dividually, will accordingly be found
the sign of something we kno-w, obtained, as every thing we know
must be obtained, by previous acts of comparison and judgment,
involving, * These powers of the mind are innate, — that is
to e&y, they belong to tlie mind by its constitution, al- though
sensation is the appointed means for first call- ing them forth. It
should seem as if Tooke thought nothing was bom with man except the power
to receive senEStionB or feelings, and that reason comes from Un-
guage ; an opinion so preposterous that we can hardly think him capable
of it ; and yet, from what he says, no other can be understood : — "
Jleason,"" he says, " ia the result of the senses, and of
experience." Diver- sions of Purley, Vol. 11, p^e 16.
J^ ON LOGIC. [CilAP. II,
in every instance beyond that which sets the sign on foot,
an inference gained by the use of a medium. And such, as we have
seen, are the necessities of speech, that tliey lead us constantly
to extend the application of words ; which extension requires new acts
of comparison and judgment; and thus, by means of words, (or signs
equivalent to words,) we are constantly adding to our knowledge,
still carrying the signs with us, to mark and contain it, and to serve
afterwards as the media for reaching new conclusions. It is only
ne- cessary to read Locke's Essay with this ac- count of the matter
in view, to prove that it is the true account j so readily will all that
he has said on ideas, yield to this simple inter- pretation *, He
who first made use of words * " Read," saya Home
Tookc, " the Essay on the Underslnnding over with attention, and see
whether all that its immortal author has justly concluded, will not
hold equally true and clear, if we substitute the composition, &c. of
lerraa, wherever he has supposed a composition, Sec. of ideas. And if
that, upon strict examination, appear to you to be the case, you
will SECT. 4.] 95
equivalent to yellow, white, heat, cold, soft, hard, bitter,
sweet*, used them, respectivelyy to signify the individual sensation he
was con- scious of, and in that first use, the expression must have
been a sentence, or tantamount to a sentence. By experience, he came to
know the exterior cause of that sensation, and after- wards, by the
same means, to know that other need no other argument against the composition
of ideas : it being exactly similar to that unanswerable one which
Mr. Locke himself declares to be sufficient against their being innate.
For the supposition is un- necessary : every purpose for which the
composition of ideas was imagined being more easily and naturally
answered by the composition of terms, whilst at the same time it does
likewise clear up many difficulties in which the supposed composition of
ideas necessarily in- volves us." Diversions of Purley, Vol, I. page
38. In this, and other passages, H. Tooke is very near the trutli ;
but he nevertheless misses it. " The com- position, Sic. of terms
"' in lieu of " the composition, &c. of ideas," does
not describe the actual process. But Tooke, who discovers that Locke has
started at a wrong place, begins his own theory from a false
found-4 ation. • yide Locke, B. 2. ad initium : we have
used the examples before. Chap. I, Sect. 16. ».
ON LOGIC. [chap. It, ol^ects
produced the same sensation. To these several objects he would naturally
apply the expression (originally tantamount to a sen- tence) by
which he first signified the sensa- tion ; and suppose those objects
already pro- vided with namesj the expression would, in such pew
application, be tantamount to a name or noun-adjective. Thus in the
several instances, he would use two names for one thing, in
correspondence with our present practice when we say, yclhw flower,
yellow sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce- dure is an
effect and a proof of what the speak- er has observed in common, and of
what he observes to be different, in the several ob- jects; and
this is a knowledge evidently ob- tained from comparison and judgment
exer- cised on many particulars. The same know- ledge enables us,
when we please, to drop the words which name the objects accojding
to their differences, and to retain only that which signifies their
similarity, and the name-adjec- tiv e then becomes a
name-substantive stand- gECT, 5.3 ON LOGIC. 97
ing for the sensation itself whenever or how4 ever produced, and
not standing for it in amy particular case, until limited to do so by
the assistance of other words. Individually and separately, then,
these words^ viz. yellow; white, heat, cold, soft, &c. are, to him
who has properly used them in particulars, tiie eigns of the
knowledge he ha^ gained by com^ paring those particulars :«^hey denote
con- clusions arising out of a rational process which has been
carried on by their means ; which conclusion, as to the word^elloWf for
instaop^ is this, — ^that there are » great mwy Qbjepte which
produce the same sensation, or a sensar tion very nearly the same j*—
^(very nearly the same, since yeU&w^ by all who have acquired a
full use of the word, is applied to different shades of yellow j — ) and
to understand the word, is to have arrived at, or kno^ this cof^-
elusion. 5. The words so far referred to, are those which
denote what Locke calls simple ide^js. Now, we may reasonably doubt
wheth^ the H 98 ON LOGIC. ^CHAP. II.
mind could have obtained the knowledge, which, as we have seen, is
included even in a word of this kind, if it had not been gifted
with the power of inventing a sign to assist itself in the operation.
That sign needs not be a word, though words are the signs com-
monly used. He who remembers the sensa- tion of colour produced by a
crocus, is re- minded of the crocus the next time he has the same
sensation from a different thing ; and the crocus may become the sign of
that sensation arising from the new object, and from every future
one. And this is the way in which the mind probably assists itself
an- tecedently to the use of language, or where, (as in the case of
the totally deaf *,) the use of * Though long for a
quotation, yet we cannot re- sist transcribing, from a work by Dr.
Watson, master of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near London,
the following able remarks : — they will help to shew how for superior
are audible signs to every other kind, and place in its proper light the
misfor- tune of being naturally incapable of them. He is speaking
of the comparative importance of the two SECT. 5.3
99 it, by the ordinary means of attainment,
is precluded. But for this power of the mind, senBES, hearing
and seeing. " Were the point," he says, " to be determined
by the value of the direct sensations transmitted to the sensorium
through each of them, merely as direct sensations, there could not
be any ground for a moment's hesitation in pro. , nouncing the almost
infinite superiority of the ej/e to ] the ear. For what is the sum of
that which we derive I from the car as direct sensation P It is sound ;
and sound indeed admits of infinite variety ; but strip it of j the
value it derives Irom arbitrary associations, and it is but a titillation
of the organ of sense, painful or pleasurable according as it is shrilly
soft, rough, dis- cordant, or harmonious, Sec. Should one, on tlic
con- trary, attempt to set forth the sum of the information we
derive from the eye " — independently of the aid derived from
arbitrary means — " it is so immense, that volumes could not contain
a full description of it ; so precious, ' that no words short of those we
apply to the mind itself, can adequately express its value. Indeed, all
lan- guages bear witness to this, by figuratively adopting visible
imagery to signify the highest operations of in- tellect. Expunge such
imagery from any language, and what will be left ! What, in this case,
must be- come of the most admired productions of human ge- nius P
Whence then (and the question is often asked) 1 does it arise, that those
bom blind have such su- h2 100 ON LOGIC. [chap.
11. which seems pecuHai* to man, and is the cause of language,
(not the effect of it, as perlority of imelligence over
those bom deaf? Take, it miglit be said, ii boy nine or ten years of age
who has never seen the light, and you will find him con- versable,
and ready to give long narratives of past oc- currenceH, &c. Place by
his side a boy of the same age who baa had the misfortune to be bom deaf,
and observe the contrast. The latter is insensible to all you say :
he smiles, perhaps, and his countenance ie brightened by tlie beams of '
holy light;' he enjoys the face of nature; nay, reads with attention
your features ; and, by sympathy, reflects your smile or your
frown. But he remains mute : he gives no ac- count of past experience or
of future hopes. You at- tempt to draw something of this sort from him :
he tries to understand, and to make himself understood ; but he
cannot. He becomes embarrassed : you feci for him, and turn away from a
scene so trying, under an impression that, of these two children of
mi^ fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the blind, who
appears, by his language, to enter into all your feelings and
conceptions, while the unfortunate deaf mute can hardly be regarded as a
rational being ; yet he possesses all the advantages of vi- sual
information. All this is true. But the cause of this apparent superiority
of intelligence in the blind, is seldom properly understood. It is not
that those SECT. 5.3 ON LOGIC. 10] H. Tooke
seems to tliiak,) we never should have been able to arrange olyects in classes,
who are blind possess a greater, or anything like an equai stock of
materiak for mental op^adons, but bs- cause they possess an invaluable
etigine for forward- ing those operotioiis, however scanty the materials
to operate upon — artificial language. Language is de- fined to be
the expression of thought ; so it is : but it is, moreover, the medium of
thinking. Its value U> man is nearly equivalent to that of his
reasoning fa- culties: without it, he would hardly be rational. It
is the want of language, and not the want of hearing, (unless as being
the cause of the wont of language,) that occasions that deficiency of
intelligence or ine&. pansion of the reasoning faculty, so observable
in the naturally deaf and dumb. Give them but language, by which
they may designate, compare, classiiy, an4 consequently remember, excite,
and express their sen^ sations and ideas, — then they must surpass the
origin< ally and permanently blind in intellectual perspicuity
and correctness of comprehension, (as far as having kctual ideas afiixed
to words and phrases is concerned,) by as much as the sense of seeing,
furnishes matter for mental operations beyond the sense of hearing,
con- Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^ fluency
of words, and quite another to have correct no- tions or precise ideas
annexed to them. But though the car furnishes us only with the sensation
of sound, t^ ON LOGIC. [chap. II. and reason on
them when so arranged ; nor to consider some common quality in many
ob- jects, separately from the objects themselves. Every object
might have produced the same individual effect by the senses, which it
now produces, and have been recognized as the same object when it
produced the effect again ; for all this happens to other
animals, as to man ; but to know a something in each which is
common to many, implies a remem- brance of that something in the rest at
the time of perceiving each individually j and how can this remembrance,
(a remembrance and sound, merely as such, can stand no
comparlEOD with the multiform, delightful, and important informa-
tion derived from visual imprestiioDS ; yet as sound admits of such
astonishing variety, (above all when articulated,) and is associablc, at
pleasure, in the mind with our other sensations, and with our
ideas," (notions,) " it becomes the ready exponent or
nomenclature of thought ; and in this view is important indeed. It
is on thie account, chiefly, that the want of hearing is to be
deplored as a melancholy chasm in the human frame.'" Instruction of
the Deaf and Dumb, in 3 Vols. Edit. 1809. Vol. I. p. 49.
SECT. 6.] ON LOGIC. 103
not of the objects, but of a common some- thing in all of
them,) how can it be kept up, but by a sign fitted to this duty ; which
sign, as just observed, may be either a word, or one of the objects
set up to denote the com- mon characteristic, and retained in mind
Bolely for this purpose, in this representative capacity ? 6.
In proceeding from what are called by Locke simple ideas to those he
denominates [ complex, we shall find the account just given equally
applicable. The words he refers to . under the threefold division of
Modes, Sub- stances, Relations, are, as our last examples, signs of
certain conclusions obtained from s comparison of particulars. This is
true even \ of a proper name ; for a proper name, as was ' shewn
Chap. I. Sect. 3., does not denote an individual as we actually perceive
him, or as. J we remember him at any one time ; but it J denotes a
notion, that is, a knowledge of him I drawn out of, or separated from all
our par- ' I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii.
ticular perceptions *• For such an effect of reason^ we have
however nb certainty that the superior powers of the huknan mind
ar« indispensable; nor is it eiisy to ascertaiq any peculiar
privilege it enjoys till we find it rising from individuals to classes.
As soon as it sets up a sign to represent some property, whether
pure or mixed, which has been observed iA many individuals,— or to
re- * It id aft efifect of reaisoiiing to know that a
pa]>> ticular act or situation, which enters into our percep-
tion or conception of an object, is not essential — to know, for instance,
tliat the act of walkiAg is ftot es- iBentiAl to John. The reasoning by
which «uch k^w- ledge is acquired, occurs indeed so early, that the
operation is forgotten ; but there was a time when our perceptions were
without the knowledge, because they had not been repeated i^ isu^ti^t
hUtiibet to leHkbl^ the mind to make the BCcessary ootaipluidcms^
Th^ natives of the South Sea Islands^ when Cttptaia Cook <8nd
his companions first made their appearance among them, took every sailor
and his garments to be one creature, and did not arrive at a different
condhision, but by o{>portuiiitte6 fdr comparicon.
5-] ON LOGIC. 105
present the whole class of individuals, so classed because of the common
property, — ^it displays a power of assisting itself which we have
no cause to think any of the inferior animals enjoy. To ahew how this
takes place in producing what Locke calls complex ideas, and which
he subdivides into Modes, Sub- stances, Relations, would only carry us
onc^ more over the ground we have so often cur- Lsorily
traversed. We should have to shew, for instance, how some word, at first
equiva- lent to a sentence, by which a man expressed his delight at
a particular visible object, came to be a name for the object ; how this
name beauly, came to be applied as a noun-adjec- tive to the
nouns-subatantive of other objects producing the same or a similar
emotion j how, by the continued application of this noun-adjective,
we kept on comparing innu? merable particulars, till our knowledge
(no- tion) included a very wide class of things very different
indeed in other respects, — nay^ including objects of other senses than
sight— 106 [chap. II.
but still, agreeing with each other in a certain effect produced on
the mind : and that then, dropping the nouns-substantive of the nu-
merous individuals, we retained solely in con- templation the noun
beautiful or beauty, the sign of the knowledge we had gained from
this extensive comparison— of the induction derived from these numerous particulars
*. • Very few persons reach so wide a knowledge of the
subject as we here refer to, and books may be, and have been written, to
teach us how to apply the word beautiful with taste, and critical — nay,
moral pro- priety. Having attained so far, we are not to suppose
that beautiful or beauty is a real existence independently of the
classification of objects we have thus established. All we have learned
is, to know the objects which pro- duce a certain elfect ; to know why
they produce it ; to enjoy, it is probable, the pleasure of that effect
with higher relish ; and to be prepared, by means of the
classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings on the objects
it contains, to higher truths, and still more important conclusions. Now,
if the reader would see how a business so plain and simple, may
appear very complex and mysterious, let him
consult Plato on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find
it treated, for instance, in the dialogue called STMHOSION : Let
him admire as he will, (for who can help it. SECT. 6-3 ON
LOGIC. 107 We should again have to shew, (to take another
instance,) how a word once expres- sive of some sentiment or recognition
of which a horse was the subject, came to be used as a name for that
particular horse i that the name came afterwards to be given to
another resembling creature, — thence to another, — and to others, till
the points of re- semblance which led to this extension of the
word, could be found no longer *. We should especially in company
with Cicero, — witness his Errare tnekercule malo cum Plaione, quam cum
istia vere sentire?) let him admire the sublimity which the amiable
and highly-gifted Athenian throws over his doctrine ; but let him not be
betrayed into an opinion, that a speculation which is in the most exalted
etriun liipoeh'y, belongs to the sober, the undazzled, and tin-
dazzling views of philosophy. • Compare Chap. I.Sect, 10. We may be
per- mitted once more to observe, that, with regard to sab- stances
at least, the sign of the class needs not be a word : one individual set
up for all, will equally serve the purpose. Not that the boundaries of a
class are plain, till an accurate logic determines them ; but the
general differences (as of the horse, for instance) are sufficiently
obvious to prevent a person from being JflB
[chap. II. likewise have toshew, (totake a third
instance,) how some word,-^originally equivalent, like the others,
to a sentence, — by which a man expressed his gratitude for kind offices,
might come to be a name for every one to whom gratitude for similar
offices was due; and how this ua.me,Jriend, applied at first only
to misled, who carries one individual in his mind ae the
eign of all he has seen, and all he calculates on seeing, and reasonB on
this one, with a conviction that the reasoning includes all the others.
The idea of an in- dividual thing which is thus set up as the
represent- ative of a class, may perhaps, without impropriety, be
called a general idea ; and if Locke had never used the expression but in
subservience to such an cxplana- uon, little or no exception could have
been taken to it. There is a passage (Essay on the Understanding,
Book III., Chap. 3. Sect. Jl.) which perfectly ac- cords with the
doctrine in the text, and proves that though Locke had misled himself by
setting out with an opinion that the operations of the human under-
standing could be treated of independently of words, he had more correct
thoughts on the subject as he proceeded. Another passage, giving a
correct account of abstraction with reference to language as the
instru- ment, will be found Book IL Chap. II- Sect. 9-
SKCT. 7.] 109 one who stood in this
ration to the speaker, came at last, by observing and comparing
other cases, to be applied to all who stood in the same relation to any
other person. We should, in short, have to shew the same pro- cess
with regard to all the examples of modes, substances, and relations,
which Locke's Es- say supplies; but with these brief hints to guide
him, the reader may be left, in other instances, to trace the process for
himsdf. It will now be time, — still witii reference to the
principles ascertained in the last chapter, —to examine some other points
of doctrine in- sisted upon by writers on Logic. 7. The
operations of the mind necessary in Logic are said to be three, viz.
Percep- tion or Simple Apprehension ; Judgment ; and Reasoning.
Under the first of these di- visions, writers on Logic treat of ideas,
or the notions denoted by separate words, that is, words not joined
into sentences ; — under the second, they give us separate
sentences, technically called propositions j — ^and under
110 ON LOGIC. [chap. ir.
the third, they shew how two propositions may of necessity
produce another, so that the three shall express one act of reasoning.
Now, that perception, judgment, and reasoning, are all essential to
Logic, needs not be called in question ; but if the theory we have
before us in this treatise be true, the common doc- trine will
appear, by the manner in which it ex- emplifies these acts of the mind,
to have com- pletely confounded what really takes place, in the
preparation for, and in the exercise of this art. What, in the first
place, is perception but a sensation or sensations from exterior
objects accompanied by a judgment ? Our earliest sensations are
unaccompanied by any judg- ment upon them ; for we must have ma-
terials to compare in order to judge ; and these materials, in the
earliest period of our existence, are yet to be collected. At
length, we can compare j and because we can com- pare, we judge,
and hence we come to know : — " I know that the object which now
affects my sense of vision is a being like myself; I
SECT. ?•] ON LOGIC. Ill know him to be one of a great many
similar beings j I know him to be older or younger, &c. ; I
know that what now affects my sense of = hearing, is the cry or bark of a
dog" •, &c.j I could not know all this, if I had had no
means of judging ; and I can have no means of judging which the senses do
not originally furnish or give rise to. Perceptiouj then, (which in
every case is more than mere sen- sation,) always includes an act of judgment
; and to treat of Perception and Judgment under different divisions
of Logic, must pre- vent the proper understanding of both. In-
stead, however, of the term Perception, some writers t use that of Simple
Apprehension. *' Simple apprehension," says Dr.
"Wliately, *' is the notion (or conception) of any object in
the mind, analogous to the perception of the senses." t The examples
appended to • See Chap. I. Sect. 16. ■f- Viz.
Professor Duncan and Dr. Whately. J Elements of Logic by Dr. Whately,
Chap. II. Part I. Sect. 1. [|CHAP. II.
this definition, are, *'inan;" "horse;" •'cards
;" " a man on horseback ;" " a pack of cards."
Now, if the notion or conception of tliese, 13 analogous to the
perception of them by the senses, — then, as the perception
includes an act of judgment, so Ukewise does the conception. But, in
truth, the no- tion corresponding to any of these expressions, is
very different from the perception of a man, a horse, a man on horseback,
&c. ; and the word or phrase in a detached state does not stand
for a perception or concep- tion inclusive only of an act of
judgment, but signifies an inference obtained by the use of a
medium, — in other words, a rational conclusion. For in all cases, what
gives the name and character of rational to a proceed- ing, is the
use of means to gain the end in view. When we perceive intuitively of
two men, that one is taller than the other, al- though the judgment
we form may be an e0ect of reason, yet we do not describe it as a
rational process ; but if the investigator, SECT. 7-] ON
LOGIC. 113 not being able to make a direct comparison between
them, introduces a medium, and by its means infers that one is taller than
the other, then we say the conclusion has been obtained by a
process of reason *. So, in applying a common name to two
individuals that are intuitively perceived to resemble, we may be
said to exert the judgment, and nothing more ; but if we apply it to a
third, and a fourth, and a fifth, it is a proof that we measure
each by the common qualities ob- served in the first two, and that we
carry in the mind a sign of those common qualities (whether the
name, or one of the former in- dividuals) for the purpose of carrying on
the process. In this way, an abstract word or phrase, let it
signify what it will, provided it be but abstract, is both the sign of
some ra- • Reasnn is the capacity for using mpdia of
any kind, and it consequent capacity for language : — the term
reasoning has reference to tlie act of thinking, with the aid of media in
order to reach a couclu- 114 [chap.
II. tional conclusion the mind has already come to,
and the means of reaching other conclu- sions : which statement is true
even of a proper name. For the name John, for in- stance,
underetood abstractedly, does not sig- nify John as we now perceive him,
or as we have perceived him at any one time ; but it signifies our
knowledge of him separately from any of those perceptions. But we could
not know of him separately from our percep- tions, unless we had the
power of setting up some sign (whether the name or aught else) of
what was common to all those perceptions, and comparing them all with
that sign *. • It is not meant that we could not know him
every time we perceived him, but that we could not know of him separately
from our perceptiong, if we bad not the power spoken of in the text. It
might be curious to trace this distinction in the case of a dog. A
dog knowE his master every time he perceives him : — when he does not
perceive him, he is reminded of his absence by some change in his
sensations, — (smcU, for instance, as well as sight, and perhaps
some others ;) he therefore seeks him, and irets if he cannot find
him. But abstracted from all perception, and SECT. 8.J ON
LOGIC. 115 8. It appears, then, from what precedes, that
words and phrases which writers on Logic give as examples of Perception
or Simple Apprehension distinct from Judg- ment and from Reasoning,
are no examples at all of the first distinct i'rom the latter two ;
and equally groundless will appear that dis- tinction which refers a
proposition to an act of judgment separate from reasoning. Not that
an act of reasoning takes place whenever a proposition or sentence is
uttered. For, as we have seen in the previous chapter, (Sect. 19.)
a speaker does not always think of the separate meaning of the words when
he utters a sentence ; and if a sentence denotes, as a whole, some
sensation or emotion not de- pendent on reason, (for instance, " My
head aches;" •' My eyes are delighted,") the ut- tering
of it as a whole, without attending to the sqiarate words, will no moj'e
express aa from all notice by change of sensation, it will
scarcely be contended that a dog knows of his master, as a ra-
tionsl being knows of his absent friend. 116
ON LOGIC. [chap. II. act of
reasoning, or even of judgment, than would a natural ejaculation arising
out of the occasion, and used in place of the sentence. But the
following propositions, " Plato was a philosopher;" "No
man is innocent ;" which are given in Watts's Logic as examples of
the act of the mind called Judgment, stand on a different footing ;
and we affirm that, being used Logically, they involve not an act
of judgment merely, but express a conclusion drawn from acts of
reasoning. 9- Previously to shewing what has just been
asserted, let us distinguish a grammati- cal, and an historical
understanding of these sentences ; for a mere grammatical under-
standing of them must be, and an historical may be, essentially different
from the logical understanding of them. A grammatical un-
derstanding, for example, of the sentence, Plato was a philosopher, is
merely a recog- nition of its correctness as a form of speech
without considering whether it conveys any meaning or not ; and it would
be grammati- SECT. 9.3 117
cally understood if any words whatever were substituted for those
that compose the sen- tence, provided they had a proper syntactical
agreement. An historical understanding im- plies some concern with the
meaning of the sentence ; but this may be very different in kind
and degree, as depending on the know- ledge whicli the mind is previously
possessed of. If the hearer did not know what Plato waa previously
to the communication, but knew the meaning of the word philosopher, he
would, by the sentence, be informed what he was, If he previously
knew, from history, how Plato lived, thought, and acted, but did not
know the meaning of the term philosopher, the ad- ditional
information conveyed to him by the sentence, would be but little : he
would be in- formed. Indeed, that he was called a philoso- pher,
but why or wherefore, he could, for the present, only guess. Let us
suppose, however, that before he comes to calculate why Plato is
called a philosopher, he had heard the word plied to others : if he bad
heard Socrates m [chap. II.
called a philosopher, and Confucius a philo- sopher, he would, on
hearing Plato so called, compafe the individuals in order to
ascertain some common qualities in all, of which the word might be
the sign, and getting these, he would know or have a notion of the word
philosopher ; though the notion would pro- bably undergo many
modifications as otlier individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-
seau, Newton, were successively subjected to the common sign : — for if
the hearer fixes his notion at once, many individuals will perhaps
be excluded from his class of philosophers, which other people include
under that term ; and perhaps he will include many, which the usage
of the term excludes. In this way, then, while our knowledge of what is
included in separate words or phrases is imperfect, we may
nevertheless have some understanding of the sentences we hear or read ;
and this his- torical understanding suggests the reasoning process
just described, by which we get a logical understanding of the separate
words. SECT. 10.] 119
10. But now to make a logical use of tfaem in framing a
proposition. We suppose the preliminary steps, namely the knowledge
included in the separate words ; we suppose it to be known, from history,
how Plato lived, thought, and acted ; we suppose it to be known
what is meant by philosopfier, by having heard the word applied to many
indi- viduals i but we have not yet applied it to ' Plato ; in
other words, we have yet to ascer- tain whether Plato belongs to the
class of in- dividuals denominated philosophers. Writers on Logic
talk of a comparison of ideas for this purpose, and of an intuition or
judgment ; but this, to say the best of it, is an imperfect and
bungled account of the matter. If, in- deed, to know how Plato lived and
acted can be called an idea, it is necessary to have this idea ; it
is further necessary to have a clear notion of the term philosopher, — if
this again can be called an idea: — and it is true enough that in
comparing Plato with this sign, we judge or know their agreement
intuitively. am ON LOGIC.
[chap. But out of this intuitive judgment an
infer- ence arises, and the sentence expresses that inference : a
comparison has been instituted through the intervention of a medium,
in order to ascertain whether Plato is to be as- signed to a
certain class of individuals ; we intuitively perceive his agreement with
the medium, and draw or pronounce our infer- ence accordingly, —
" Plato was a philoso- pher." Nor is this the splitting of a
hair, but a real distinction, marked and determined by that
difference in the words so often pointed out, when understood
detachedly, and when understood as a sentence. The proposition,
Plalu was a pJiilosopher, may be understood as a whole, without making
the comparison in the mind between what Plato, and what
philosopher, abstractedly signify j but this, with a full understanding
of the whole sentence, can be done only after the comparison has
once at least been effectually made : — then indeed, when the
comparison has been made, and the inference drawn, the
8ECT. 11.] 121 sentence which
expresses that inference, be- comes, like any single word, the sign
of ■knowledge deposited in the mind, and, like such single term, it
is fitted to be an instru- ment of new comparisons, and further
con- clusions. 11. Let us now take another proposition
: *' A philosopher, or every philosopher," (for the meaning is
the same,) " is deserving of respect." This, hke the other, is
an infer- ence from a comparison which took place in the mind ;
previously to which comparison, the notion or knowledge included in the
word I philosopher was obtained in the manner lately described
(Sect. 9.) : and the notion included in the phrase to be deserving of
respect was similarly obtained, but independently of the knowledge
denoted by the other expression ; — that is to say, the phrase deserving
of re- spect, was originally, we suppose, a sentence applied to
some one thing deserving of re- spect J whence it was successively
applied to other things till a class was formed — in other
B ON LOGIC. [chap. U. words, till a notion (knowledge) was
esta- blished in the mind of what things are de- serving of
respect. Now, the present ques- tion is, whether a philosopher is
deserving of respect ? To determine this, we consider what a
philosopher is, (it is presupposed tliat we have this knowledge,) and we
then niea- Bure our notion of a philosopher with our no- tion of
what is deserving of respect, and thus £nd that a philosopher is to be
admitted among the things to which we had been ac- customed to
apply the designation deserving qf respect : that is to say, we come to
the conclusion, that a philosopher is deserving of respect. Here,
therefore, as before, there has been a reasoning process previously to
the proposition, and the proposition expresses the inference from
it. And the comparison having once been made in this instance as in
the other, the sentence becomes, like any single term, the sign of
knowledge deposited in the mind, and like such single term, is
fitted to be an instrument of new compsrisons, SECT. 11.] ON
LOGIC. and further conclusions. Well then, we know from reasoning
these two things, that " Plato IB a philosopher," and that
" a philosopher is deserving of respect." These are
detached WORDS* or sentences : but the mind, in com- paring them,
at once comes to the inference that Plato is deserving of respect: and
the whole may be expressed in one sentence ; thus ; " Plato,
who is a philosopher, is deserv- ing of respect j" where
Plato-who-is-a-pJiiio- sopher, is equivalent to a noun-substantive
in the construction of the whole sentence ; and,
deserving-qf-respect is equivalent to another ; and thus the two, with
the assistance of the verb which signifies them to be a sentence,
are but one proposition. Here, as in the former cases, a comparison has
been made \ij. means of the signs of deposited knowledge ^ for we
knew that Plato was a phUosopher; we knew a class of things or persons
deserv- ing of respect: — comparing our knowledge by • See
the second note (Aristotle's definition of a' vord bcuig the first)
appmded to Sect. 20. Chap. I. 324 ON LOGIC. [chap. ir.
means of the sign deserving-of-respect, the in- ference follows,
that " Plato, who is a philo- sopher, is deserving of respect."
And the comparison having once been made in this instance as in the
others, the sentence be- comes, like any single terra , the sign of
know- ledge deposited in the mind, and either in this or any other
equivalent form, is fitted to be an instrument of new comparisons
and further conclusions. And in this manner are we able, ad
infinitum, to investigate new truths by means of those already ascertained,
always making use of former words or their equivalents, as the means of
operation. 12. Now, so far as Logic is the art of in-
vestigating truth, (and we intend to show that its office ought not to be
considered of further extent,) this is the whole of its theory. We
have defined it as the right use of words with a view to the
investigation of truth ; and the way in which words are used for the
purpose, is that which has been described : — in brief, they are used
by the mind in making such SECT. 19,] o^f LOGIC. 125
comparisons as it cannot make intuitively. Of two objects, or of a
sensation or emotion twcie experienced, we can intuitively judge
what there is in common between them;, l< suppose a third object, or a
sensation, &c« thrice experienced, an intuitive judgment can
still be applied only to two at a time, and wei can but know in this way
what there is common to every two. But if we set up tf sign of what
is common to two, we can compare with the sign a third, and a fourth, and
a fifth, and judging intuitively how far it agrees with the sign,
we infer its agreement in thq same proportion with the things
signified, In Logic, the sign used is always presumed to be a word.
Now, in our theory of Ian- guage, every word was once a sentence ;
and every sentence which does not express the full communication
intended, but is qualified by another sentence, or becomes a clause of
a larger sentence, is precisely of the nature of any single word
making part of a sentence *. • See Chap. I. Sect. 28.
IM I^CMAP. 11, From the first
moment, then, of converting the expression used for a particular
communi. cation, into an abstract sign of the sentiment or truth
which that communication conveyed, the mind came into possession of the
instru- mental means for furthering its knowledge : and this means
always remains the same in kind, and is always used in the same
way. The word which once signified a present par- ticular
perception, ceased, through the ne- cessities of language, to signify
that percep- tion in particular, and came to signify, in the
abstract, any perception of the same kind, or the object of any such
perception. In this state, it no longer communicated what the mind
felt, thought, or discovered at the moment, but was a sign of knowledge
gather- ed by comparisons on the past. By u«ng this Bign, the mind
was able to pursue its inves> tigations, and every new discovery was
de- noted by a sentence which the sign helped to form, its general
application being limited to the particular purpose by other signs. But
if SECT. 13.] ON LOGIC.
137 one WORD" ' may lose its
particular pnrpose, and become an abstract sign, so may another,
and be the means, in its turn, of prosecuting further truths, and
entering into the com- position of new WORDS. Thus will the procesa
which constitutes Logic, be aiways found one and the same in kind, having
for its basis the constitution of artificial language, such as it
was ascertained to be in the previous chapter. H 13. Now of this
Lc^ic, — the Logic, uni- H versally, of ntpotres, or woKD-dividing
men, — H let the characteristics be well observed, in order
H to keep it clear from any other mode of using H signs for
the purpose of reasoning, to which H the name of Logic is
attributed. The Logic H here described, is a use of words to
regista- H our knowledge as fast as we can add to it, by
H new examinations, and new comparisons of I things } each
new esamination, each new H sen! • The reader
will bear in mind the comprehenBive sense of the term which we have in
view, when it is printed in capitate. US*' ON LOGIC.
[chap. II. comparison, being made with the help and the
advantage of our previous knowledge. The reasoning takes place in the
mind in such a manner that it is not a comparison of terms, but a
comparison of what we newly observe, with what we previously knew. Words
indeed are used, because without signs of one kind or of another to
keep before the mind the knowledge already gained, we could compare
only individuals j but however words may in- tervene, it is always
understood that the mind, at bottom, compares the things, A man may
be informed, that, " Plato who is a phi- losopher, is deserving of
respect;" that, " William who is recommended to his
service, is an honest man ;" that, *• A particular tree in his
garden, is a mulberry tree ;" that, " Stealing is a vice, and
temperance is a virtue ;" that, " Throughout the Universe,
all greater bodies attract the smaller ;" that, " A
triangle described within two circles in such a manner that one of its
sides is a radius of both, and the others, radii of each circle
SECT. 13.] 129 respectively,
is an equilateral triangle;" — a man may be informed of these and
similar ^'things, and may entirely believe the inform- ation; nay,
hemayjustifiably believe it J for he may know of those who give it, that
their ho- nesty is such, that they would not wilfully de- ceive him
; that their intelligence and inform- ation are such, that they are not
likely to say what they do not know to be true : but a man can be
said to know these things of his own knowledge, and in this way to be
convinced of their truth, only by a process of reasoning that musl
take place within his own mind ; a process which can take place only in a
mind by nature competent to it, and which requires, in every case,
its proper data or facts, aided, it is true, by language, or by signs
such as Ian- guage consists of, to register each inference *, • The
necessity of language, as a means of in- vestigation, applies not to our
last example. The mincl may investigate (though no one can
demonstrate) mathematical truths, with no other aid than visible
diagrams ; or even diagrams that are seen only by " the mind's
eye." 130 ON LOGIC. [chap. II. and so to
get from one inference to another, and thus, ad infinitum^ toward truth.
Be- cause the several steps, leach of which is a conclusion so far
attained, cannot take place, without the instrumentality of signs to
assist the mind, we consider the process an art ; and if the signs
used are words, the art is pro- perly called Logic. But whatever aid
the reasoner may borrow from words, the only true grounds of his
knowledge are the facts about which the reasoning is employed.
Without them, no comparison of the terms can force any conviction further
than that the terms agree or disagree. He may be told that — "
Every philosopher is deserving of respect,*' and that, — " Plato is
a philosopher :** but if he knows not what a philosopher is, or
what it is to be deserving of respect, the comparison of the terms in
order to draw a conclusion from them, will be a mockery of reason :
— it will be reasoning indeed, but reasoning without a rational end. And
suppose the knowledge to have been acquired of what a philosopher
is by the application of the word SECT. 13.] ON LOGia
131 to many particulars, and by a consequent classification
of them in the mind, — supposing the knowledge of what is deserving of
respect to have been acquired in the same way, — supposing the
inquirer has learned from history what Plato was in his opinions and
manner of life, — the conclusion takes place by a com- parison of
the thingSj by means indeed of words, but not by any comparison of the
terms independently of the things ; nor is the con- viction in the
least fortified, or the process ex- plained, bya demonstration that in
reasoning with the terms alone, independently of their meaning, we
get at the conclusion ; — by shewing, for instance, that the terms
which include the facts, may be forced into cor- respondence with
the following ^nwwfa; Every B is A : C is B : Therefore C is
A. Every philosopher — is— deserving of respect : Plato — is—
a philosopher : Therefore Plato — ^is — deserving of respect.
K 2 .18« ON LOGIC.
[chap. This way of drawing a conclusion from a
comparison of terms, is. properly speaking, to reason or argue with words
; but in the Lo- gic we have ascertained, every conclusion is
required to be drawn from a comparison of the facts which the case
furnishes ; and words being used only for the purpose of
registering our conclusions, such Logic is properly de- fined the
art of reasoning by means of words. The inquirer who seeks to know, of
his own knowledge—" Whether William who is re- commended to
his service, is an honest man", — will gather facts of William's
conduct by his own observation ; and these he will com- pare by the
light of his previous notion (i. e. knowledge) of what an honest man is :
but then he must have that previous notion, or he cannot make the
comparison ; and the notion will have been gained by a process just
like that he is pursuing : and so downwards to the original
comparison of individiial tJujigs, from which all knowledge begins. So
again, if an inquirer seeks to know that " a particular tree
SECT. 13.] ON LOGIC. 133 is a mulberry tree", —
he must first know what a mulberry tree is; and how can he know
this but by a comparison of different trees? There must be some art
employed to classify the individual trees, otherwisehe could never
know more than the difference between every two trees. By setting up one
tree, or some equivalent sign, as a word, to denote the common
qualities observed in many, he comes to know what a mulberry tree is ;
and looking at the particular tree in question, he sees that it has
the common qualities indica- ted by the sign, and infers that it is a
mul- berry tree. So likewise, if an inquirer seeks to be convinced
that " SteaUng is a vice", or that "Temperance is a
virtue", — he must have such facts before him as will enable
him to come to a clear conclusion as to what is vice, and what is virtue
: and this conclusion will either include or ex- clude stealing
with respect to his notion of vice, and temperance with respect to
his notion of virtue, and he will consequently be 134
[chap. [I. convinceti or not convinced of tlie
proposition in question. So, once more, if an inquirer desires to
know, of his own knowledge, *' Whether, throughout the universe,
all greater bodies attract the smaller", — he must first
observe certain facts from which the ge- neral law may be assumed
hypothetical ly : — he must then ascertain what, according to other
notions gained from experience, would be the effect throughout the
universe of the general law which he has so assumed ; and if the
effects arising out of the hypothesis cor- respond with actual effects,
and no other by- pothesis to account for them can be framed, he
will have all the proof the subject permits, and know of his own
knowledge, as far as can be known, the conclusion asserted. So,
lastly, if an inquirer seeks to be convinced that "a triangle
described within two circles in such a manner that one of its sides is a
radius of both, and the others radii of each circle re- spectively,
is an equilateral triangle", — he must first form within his mind
the notions of SECT. 13.] ON LOGICi tS5^ a
triangle, and of a circle, the latter of which he will find can be
conceived perfect in no other way than in correspondence with this
definition : — "a plane figure bounded by one line called- the
circumference ; and is such that all straight lines, (called radii,)
drawn from a certain point within it to the circumference, are
equal to one another. " Having formed this notionr^ he will
find, by certain acts of comparison^ (which must take place within the
mind, al- though they may be attsisted by a* visible sign-J^ that
the previous proposition is an inevitable consequence of the notfon so
formed, and his' conviction: wiU be comffiete. If the convic- tion,
in the previous ifrstances, has not the same force as iiti the last^ —
^if, in those instances, the force may be diffident m. degree, while
in the last there can be no coD^victioa short of lliat which iS'
absolute an4- entire, the cause^ in not that the reasoning process^ is
different in kind, but that the facts or data about which" it
is' employed are dii&re»t. In the last in^ stance^ the reasoning is
employed about no- 136 ON LOGIC.
[chap. II. tions, which admit uf being so
defined, that every mind capable of the reasoning at once assumes
them before the reasoning pro- cess begins ; but in the other instances,
the facts or the notions may be attended by cause for doubt. A man,
if he have any notion of a philosopher at all, cannot indeed but be
quite sure (consciously sure) of his own no- tion of a philosopher j but
how can he be sure that others have the same notion, or even quite
sure that Plato had the qualities that conform to his own notion ? In the
same way, he will be quite sure (consciously sure) of his own
notion of an honest man ; but he may be deceived as to the facts which
bring William within that notion. He will be quite sure
(consciously sure) of the notion he has in naming a tree a mulberry tree
; but that notion may be totally unlike the notion which other
people entertain ; or if the general no- tion agrees, he may mistake the
characteristics in the particular instance. He will be quite sure
(consciously sure) of his own notion of SECT. 13.]
137 vice or of virtue, and whether it includes
or excludes this or that conduct, action, habit, or quahtjr ; and
in this case the conviction is absolute and entire while the reasoner
confines himself to his own notion ; but the moment he steps out of
this, and begins to inquire whether it agrees with that of others, he
finds cause to doubt. He must be quite sure (sen- sibly sure)
that bodies near above the earth's surface have a tendency towards it ;
and by proper experiments he may convince himself that all bodies
without exception which are so situated, have the same tendency. In sup-
, posing the fact universal of the tendency of smaller bodies to
the greater, his conviction of the consequences involved in that
hypo- thesis, must, as soon as he has mentally traced them, be
absolute and entire ; but he has yet to find whether reality corresponds
with the hy- pothesis. The strongest proof of this will be, the
correspondence of the consequences of the hypothesis with the phenomena
of na- ture, joined to the impossibility of forming
138 ON LOGIC. [chap. II. another hypothesis which shall
account for these phenomena; and the doubt, if any, will attach to
that impossibility, and to the accuracy of bis observatioda of the pheno*
rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and cocise^aently for various
degrees of assent, in all the instances except m that whose facts
or data are notions which the mind is bound to tstke up according
to the definitions before it enters on the argument, we are not to
con- clude that the reasoning process is different in kind iti any
of them ; since the difl^ence in the facts or data about which the
reasoning process i& employed, fully accounts for the ab-
solute and entire conviction which takes place in one instance, and the degrees
of convictioti which are liable to happen in such cases as^ the
others. 14. But what IB a process or act of rea^ soning? Is
it, abstractedly from the means' u£^d to register its conclusions, and so
pro- ceed to new acts of the same kind, — ^is it aa act which rules
can teach, or any generalbsau- SECT. I4.j
139 tion make clearer, or more satisfactory than
it is originally ? We shall find, upon examina- tioH, that any such
pretence resolves itself in- i to a mere verbal generalization, or the
appli- cation of the same act to itself; and that this does in no
way assist the act of reasoning, or explain, or account for, or confirm
it. A man requires not to be told — *' It is impossible for the
same thing to be and not to be," in order to know that himself
exists ; he requires not the previous axiom, " The whole is
greater than its part, or contains its part, " in order to
know that, reckoning his nose a part of his head, his head is greater
than his nose, or his nose belongs to his head ; neither is the
previous axiom, " Things equal to the same, are equal to one
another", necessary to be enounced, before he can understand, that
if he is as tall as his father, and his father as his friend, he is
as tall as his friend *. Whatever neatness of arrangement a system may
derive from being • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis
7 and 12. 140 ON LOGIC.
[chap. II. headed with such verbal
generalizations, it is manifest that they neither assist the reasoning
nor explain it : nor must a generalization of , this kind be
confounded with the enunciation of what is called a law of nature*, —
(the law of attraction and gravitation for instance, — ) since this
last is a discovery by a process of experiment and reasoning, but a
verbal gene- ralization is no discovery at all ; — it is merely a
mode of expressing what is known by every " rational mind at
the very first opportunity for exercising its powers. Or more properly
speaking, the laws of reasoning, which are gratuitously expressed by what
are called axioms, are nothing else than a mode of de- * See
Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he attempts to evade Dugald
Stewart's oh^ection to the Ariatotelian syllogism, that it is a
demonstration of b demoiigtration, by comparing the Dictum de omni
et de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is rather
pleasant, in the first note of the Chapter referred to, to hear the
doctor running riot upon Locke's con- fuinon of thought and common place
declamation, be- cause the latter had the sense to sec the futility
and puerility of the syllogism. SECT. 14.] ON LOGIC.
141 scribing the constitution of a rational mind.;—* they are
identical with the capacity itself for reasoning: to view them in any
other light is to mistake a circumlocution for the discovery of a
principle. And this kind of mistake every one labours under who supposes
that, by any means whatever, an act of reasoning is assisted or
explained, accounted for, or con- firmed. Nothing is more certain, than
that if two terijns agree with a third, they agree with each other,
— if one agrees and the other dis- agrees, they disagree with each other:
but every other act of reasoning has a conclusion equally certain (the
facts or data about which an act of reasoning is conversant being
the sole cause of any doubt in the conclusion*,) and this or any
other attempt at explaining or accounting for the act, will therefore
only . * And note, that when people are said to draw a wrong
conclusion from facts, the correct account would be, that they do not
reason from them, but from some- thing which they mistake for them,
through their ina- ability to understand, or their carelessness to the
na- ture of, the facts given. I4!l
[chap. ir. amount to the placing of one such act by
the side of another; as if any one should set a pair of legs in
motion by the side of another pair, and call it an explanation of the act
of walking. Such would at once appear to be the character of the
Aristotelian Syllogism, were it not for the complicated apparatus
ac- companying it ; an apparatus of distinctions and rules rendered
necessary by the nature of the terms compared. For these terms being
obtained by the division of a sentence, are such that they agree or
disagree with each other only in the sense they bore before the
division took place. Our theory makes this plain; for it shows that words
which form a sentence limit and determine each other, and thus have
a different meaning from tliat which belongs to them when understood
abstracted- ly. Therefore, though it may be true that " Plato
is a man deserving of respect, ' does not follow that " Plato "
and " A maai deserving of respect " shall agree togetiier
as abstract terms : accordingly the latter term SECT.
I'i.] 143 understood abstractedly,
signifies any or every man desei-ving of respect, and does not
agree with Plato. It must be obvious, then, that terms obtained
iirthis way, can be compared with other terms similarly obtained, only
un- der the safeguard of certain rules. Such rules are accordingly
provided ; and tliat they may not want the appearance of scientific
general- ization and simplicity, they are all referred to one common
principle, — the celebrated dic- tum de omni et de nullo ; whose purport
is, that what is affirmed or denied of the whole genus, may be
affirmed or denied of every species or individual under it ; — which
indeed is nothing more than a verbal generalization of such a fact
as this, that what is true of every philosopher, is true of any one
philosopher. All tliese pretences to the discovery of a uni- versal
principle, do but leave us just where we were, a few high-sounding empty
words ex- cepted; and this must ever be the case when we seek to
account for that which is, by the constitution of things as far aa we can
ascer- ON LOCTC. [CHA
tain them, an ultimalefact. An act of reason- ing is the natural
working of a rational mind upon the objects, whatever they may be,
which are placed before it, when, having formed one judgment
intuitively, it makes use of the re- sult as the medium for reaching
another: and the pretence to assist or explain this operation by
the introduction of such an instrument as the syllogism, is an imposition
on the under- standing. 15. This will more plainly appear
when we examine the real use, (if use it can be called,) of the
Aristotelian art of reasoning. It may be described as the art of arguing
unreason- ably, or of gaining a victory in argument without
convincing the understanding. As it reasons "with words, and not
merely by means of words, it fixes on expressions not on things,
and is satisfied with proving a conse- quence, or exposing a non-sequitur
in those, without inquiring into the actual notions of the speaker.
" Do you admit " says a syllogi- zer, " that every
philosopher is deserving of SECT. 15.] ON LOGIC. 14.5
respect? " " I do;" says the non-syllogi- zing
respondent. " And you admit, (for I have heard you call him by the
name,) that Voltaire is a philosopher : you admit, there- fore,
that Voltaire is deserving of respect. " Now, if the notion of the
respondent is, that Voltaire is not deserving of respect, here is a
victory gained over him in spite of his con- viction. Arguing from the
words, and allow- ing no appeal from them when once conceded, the
conclusion is decisive*. But in looking beyond the words to the things
intended, we shall find that the respondent either did not mean
every philosoplier, as a metaphysical, but only as a moral universal, or
else (and the supposition is the more likely of the two) that in
calling Voltaire a philosopher, he called • " If," says
a. doughty Aristotelian doctor, " a imiyeraity is charged with
cultivating only the mere elements of mathematics, and in reply a list of
the hooks studied there is produced, ^should even any one of those
books be not elementary," [" / day here on my biynd,''] "
the charge is in fiiirncss refuted." Whately's Logic, Chap III.
Sect. 18. 146 ON LOGIC. [chap. II. him so
according to the custom of others, and not according to his own notion.
In a Logic whose object is truth and not victory, the business
would not therefore end here. An attempt would be made to change the
notion of the respondent (supposing it to be wrong) by an appeal to
things. His mind might in- deed be so choked with prejudice as to be
in- capable of the truth ; but at least would the only way have
been taken to remove the one and procure admission for the other. — To
the foregoing, let another kind of example be add- ed : "
Every rational agent is accountable ; brutes are not rational agents ;
therefore, they are not accountable." * " Non sequitur*^
cries the Aristotelian respondent. The other man, who reasons by means of
words and not merely mth words, is certain that the internal
process by which he reached the conclusion is correct ; nor is he
persuaded to the contrary, or at all enlightened as to his fault, when
he is told that he has been guilty of an illicit pro- ♦ From
Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3. SECT. 15.] ON LOGIC.
147 cess of the major. He is informed, however, that his mode
of reasoning finds a parallel in the following example : " Every
horse is an animal ; sheep are not horses ; therefore they are not
animals.'* * But this he denies ; be- <:ause he is sure that his mode
of reasoning would never bring him to such a conclusion as the
last. All this time, while the Aristo- telian has the triumph of having
at least puzzled his uninitiated opponent, the real cause of
diflference is kept out of sight, name- ly, that the one refers to that
reasoning which is conducted merely with words, and not by means of
words only, while the other refers to that reasoning which looks to
things, inatten- tive perhaps, as in this instance, to the expres-
sions. If the latter had used no other ex- pression than " Brutes
are not rational agents ; therefore they are not accountable ;•" —
the as- sertion and the reason for it, must have been suffered to
pass; but because another sen- tence is prefixed to these two, and the
whole * Whately'*s Logic, Chap. I. Sect. 3. l2
F 1 148 ON LOGIC. [^CHAP. II.
of them happen to make a violated syllogism, the speaker is charged
with having been guilty of that violation, when in fact he has not
at- tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to draw his
conclusion from a comparison of the extremes with the middle, but from a
judg- ment on the facts of the case. In a Logic which gets at its
conclusions by jneans of words, and not by the artifice we have
just referred to, an expression which does not reach the full facts
reasoned from, (every rational agent, for instance, where it should
have been said none but a rational agent,J would not be deemed an error
of the rea- soning, but a defect in the expression of the
reasoning. ] 6. These examples will, it is hoped, be sufficient
to show the real worth of the Aris- totelian syllogism, ft is indeed, as
its advo- cates assert, an admirable instrument of ar- gumentation
; but of argumentation distinct from the fair exercise of reason. It is a
pro- per appendage to the doctrine of ReaUsm, SECT.
16.]] 149 and with that exploded doctrine
it should long ago have been suffered to sink. While ge- nera and
species were deemed real independ- ent essences, to argue from words was
con- sistently supposed to be arguing from things : but now that
words are allowed to be only counters in the hands of wise men, the
Logic of Aristotle, which takes them for money, should surely be
esteemed the Logic of fools". The claim for its conclusions of
demonstrative certainty, rests solely on the condition that words
are so taken. Every conclusion from an act of reasoning, would have that
charac- ter, if the notions about which it was employ- ed were
notions universally fixed and agreed upon. In mathematics, this
circumstance is the sole ground of the peculiar certainty at-
tained. All men agree in the metaphysical notion of a point, of a line, a
superficies, a circle, and so forth t : if all men necessarily
* " Words are the counters of wise men, but the money
of fools," — Hobbes. f According tu Sugald Stewart,
mathematical IW ON LOGIC. [chap. il. agreed in
the notion of who is a philosopher and who is not, of what is vice and
what is virtuBj and so forth ; our conclusions on these and similar
subjects, would, as in mathematics, be demonstrative : but till
definitions can be framed for Ethics in which men must agree, there
is little chance of erecting this branch of learning, with any praciical
benefit, into a science, according to the notion insisted on with
some earnestness in Locke's Essay*, lu Physics we can do more ; for men
agree pretty well as to what is a mulberry tree, and what is a pear
tree ; what is a beast, and what is a bird ;— by experiment they can be
shewn what are the component parts of this sub- stance, what the
qualities of the other j and so forth : so that here, our conclusions
need definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather
describe notions of and relating to quantity, which, by the congtitution
of the mind, it must reach, if, setting aside the sensible instances of a
point, a line, a circle, &c., it tries to conceive them perfect
? * Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same book Chap.
XII. Sect. 8. SECT. 17.] ON LOGIC. 151 not be
wanting in all necessary certainty; although, as that certainty depends
on the conformity between our notions, and the out* ward or
sensible objects of them, it will be of a different kind from the
certainty obtained in meta-Phi/sicSj and therefore not called de-
monstrative. In the latter department, (Me- taphysics,) the chain of
evidence has its first hold, as well as every subsequent link, in
the mind, and the mind cannot therefore but be sure of the
whole. 17. As we propose to limit the province of Logic to
the investigation of truth, the re- marks and examples in the section
preceding the last (15.), might have been spared till we come to
consider Rhetoric, to which we in- tend to assign, among its other
ofiices, that of proving truth. How far the form of ex- pression
which corresponds to the syllogism, is calculated to be useful to a
speaker or wri- ter, may at that time draw forth another ob-
servation on the subject. Meanwhile we pro- pose to exclude it entirely
from Logic; and U3 ON LOGIC.
[chap, II, in truth the common practice of manlcind
out of the schools, has never admitted it as an in- strument either
for the one purpose or the other. Common sense has always been op-
posed to it ; and Logic is a word of bad reputa- tion, because it is
supposed to mean the art of arguing for the sake of victory, and not
for the sake of truth. In vain have Locke, Campbell, Reid, Stewart,
and other sound thinkers, endeavoured to clear the art from its
reproach by detaching the cause : the Aristo- telian Syllogism has been
repeatedly over- thrown ; yet some one is ever at hand to set it on
its three legs again, and argue in defence of the instrument of arguing :
— some per- tinacious schoolmaster may always be found Who e'en
though vanquished yet will ahgue still; While words oflearncd length and
thundering sound*. Amaze the gazing rustics ranged around.
* Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss major and minor ,-
quantity and quality of propositions ; Universal affirmative ; Universal
negative ; Particular affirmative ; Particular negative ; Distribution
and non- distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-
SECT. 18.] ON LOGIC. So much
— (till, in the next chapter we come to a parting word — ) so much for
the Aris- totelian Syllogism. 18. As to the Logic which we
have en- deavoured to ascertain, it is, we repeat it, the Logic
which all men learn, and all men ope- rate with in gathering knowledge ;
and the only inquiries which remain are, i. Whether, so far as we
have gone, there is ground or ne- cessity for principles and rules in the
exercise of Logic, as there is for grammar in speaking a language;
and ii. Whether we ought to consider its limits as extending beyond
the cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor ;
Mood itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,
CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi, Felapton, Bokardo,
Feriso, Bramantip, Camenes, BU maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals,
Modals, Hypo- theticals. Conditionals, Constructive form.
Destructive form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c.
kc &c. Well may we join with Mons. Jourdain — " Voila dee
mots qui sont trop rebarbatifs. Cette logique ]& ne me rcvient point.
Apprcnons autre chose qui soit plus joli.'* lAt ON
LOGIC. [chap. II. bounds proposed at tlie commencement ot*
this Chapter. 19. Though few persons would be dis- posed to
answer the former question in the negative, yet an analogous case may
induce a moment's pause in our reply. At the conclu- sion of the
first note appended to Sect. 4., allusion was made to the fact, that men
do not see truly by nature, but acquire, through judgment and
experience, the power of know- ing by sight the tangible qualities of
objects and their relative distances. Now, the in- terference of
rules, supposing them possible, to assist this early discipline of the
eye, would be useless — perhaps raiscliievous : — why are we to
think differently of the discipline of the mind, as regards the use of
those signs which, if our theory is true, are forced upon us at
first by an inevitable necessity ? Because the art of seeing truly is
necessary to the preserva- tion of the individual ; and nature takes
care, therefore, that we do not teach ourselves im- pertectly or
erroneously ; but the conducting SECT, ly.] ON X-OGIC.
155 of a train of reasoning with accuracy and pre- cision
into remote consequences, is unne- cessary in a rude state of society j
and man, who is left to improve his physical and moral condition,
has the instrument of that improve- ment confided to his own care, that
he may add to its powers, and form for himself rules for using it
with much more precision and much more effect, than any random use of
it can be attended with. Accordingly, if we look to that department
of knowledge which Locke calls ipvaiK^ * , we shall find that it
owes its existence to the accurate Logic by which inquirers
registered all their observations and all their experiments, and by which
they as- cended from individuals to classes, till each had
comprehended in his scheme all he de- sired to consider. Here then begins
the pro- per business of Logic as a system of instruc- tion : it
ought to lay open all the various me- thods of arrangement and
classification by ' Vide the lutrixluction to this
Treatise. XISS ON LOGIC. [^CHAP. 11. which
science is acquired and enlarged ; and if something may yet be done
toward im- proving these methods, it should open the way to such
improvement. The Aristotelian rules for definition, which are a sound
part of Logic, should be explained and illustrated ; and the
nomenclatures invented by various philosophers, particularly that which
is used in modern chemistry, should be detailed and investigated.
SO. But if, by the application of a more accurate Logic than
belongs to a random use of language, men have been able to accom-
plish so much in ^uo-ik^, it does not appear that they have great cause
to boast of their success in the other department, namely
■n-paKTiK-^. Do they act, whether as com- munities or individuals, muck
better with a view to their real interests, than they did two
thousand years ago ? If improvement here, as in the other department, is
possible, how is it to be accomplished ? We live in an at- mosphere
of passions, prejudices, opinions, SECT, go.] ON LOGIC.
157 which mould our thoughts, and give a cer- tain character
and hue to all the objects of them ; — these we do not examine, but
take them as they appear to us, and our reasonings too often start
from them as from first facts. As to the process itself, — a process
which every individual conducts ■within his avra mind according to
the power which nature gives him, — we affirm that it cannot be other
than it is, and that, provided it starts from true data, it can never
lead us wrong : but if that is false which at the outset we take
for true, then indeed our conclusions may be perniciously,
ruinously erroneous. It is ac- cordingly the business of the moralist to
re- move the false hue which habit, opinion, and passion, cast over
the surface of things ; and it should be the business of the politician
to examine the principles on which the general affairs of the world
are conducted, and open the eyes of mankind to their pernicious
ten- dency, if in the whole or in part they are per- nicious. But
neither the moralist nor the 158 ON LOGIC^ []CHAP. II.
politician can come at the necessary truthis intvitiveljf : they
must use the mediaj and the media consist in that use of words which
con- stitutes Logic, as we have described it. We do not intend to
say that language affords the means of reaching equal results to
every person who makes the right logical use of it ; for men's minds
are very different in natural capacity; and some are able to
perceive truths intuitively, which others attain only by a slow
process; as tall men can reach at once, what short men must mount a
ladder to : but we do intend to say, that, let the natural powers
of any human mind be what they will, there is no chance for it of any
ex- tensive knowledge, but through the employ- ment of media to
assist its natural operations ; <and, we repeat it, the media which
nature suggests, and leaves for our industry to im- prove, is
language *. Well then, if our im- * The reader does not understand
us, if he deems it an objection to our reasoning, that many highly
gifted men in point of understanding, do not SECT. 20.] ON
LOGIC. 159 provement in ntpaKrucrfj is, at this time of ^ay,
less than we might expect, is it not reason- able to think that, with
regard to this depart- ment, we do not quite understand the instru-
mental means, and consequently do not ap- ply them with complete effect ?
Surely there is some ground for such a suspicion, when we find a
doctor (of some repute we presume) in one of our two great places of
learning, de- claring that '^ the rules of Logic have nothing to do
with the truth or falsity of the premises, but merely teach us to decide
(not whether the premises are fairly laid down, but) appear
to have a skilful use of language. A man may be rhetorically unskilful in
language without being logically so ; — he may be imable to convey to others
how and what he thinks ; but he may make use of media in the most skilful
manner to assist his own thoughts. And if his capacity is such that he
seei many truths intuitively for which others require media^ it is
evident that he cannot convey those truths to them till he has searched
out the means. The nature and the principle of such an operation
be- longs to our next chapter on Rhetoric. fim
ON LOGIC. [chap. 1 whether
the conclusion fairly follows from the premises." * We acknowledge
that the Logic to which this description applies, has never been
the Logic of mankind at large, however it may have been the baby-game
of men in colleges ; but that the office of Logic should be
described so completely opposite to what it really is, at a time when its
proper office and character ought to have been long ago thoroughly
understood, is not a little surprising, and may reasonably warrant
the suspicion stated above. We have no doubt our reader is by this
time convinced, that men who reason at all, do not want rules for
drawing their conclusions fairly, if we could but get them to draw those
conclusions from right premises ; and that to get at right pre-
mises is every thing in Logic. For this end, it is our business to set
all notions aside that have not been cautiously acquired ; and to
begin the formation of new ones at the point * Whateiy'a Logic.
Provinceof Reasoning, Cliap- I. Sect. 1. sf;ct.
20.] IGI where all genuine knowledge
commences, — the intuitive comparison of particulars or single
facts ; to make use of the knowledge (notions) hence obtained as media
for new comparisons or judgments; and so on ad in- Jinitum. Alas!
it is but too certain, that though we draw our conclusions faiily enough,
our premises, in a vast proportion of cases, are laid down most foully,
because they are laid down by our ignorance, our passions, and our
prejudices ; and because language itself, when its use is not guarded, is
a means of deception*. • We arc somewhat backward in offering
examples of general remarks, such as is this last ; because it is
scarcely possible to be particular without touching on questions in
religion or politics that carry with them, either way, a taint of parti
zanshi p ; and we hold it to be very impertinent in a writer on Logic, to
turn those general precepts for the discovery of truth which he is
bound to ascertain, into a particular chan- nel in order to serve his own
sect or party. What business had Watts to exempliiy so many of hU
cautionary rules by the errors of Papistical doctrine, at a time when its
doctrine was a subordinate and '16S ON LOGIC. [^CHAP,
II. 21. But can the assistance which lan- guage is intended
to furnish, be rendered such party queBtioit, and be himself was a
sectarian opposed to it ? We trust that no exception of the same
kind can be taken {particularly as we give them only in a. note) to
two examples we are about to submit of the remark in the text, that
language itself may lie the means of deceiving us into wrong premiseB : —
they are by no means singular, hut Guch as may he met with every
hour on almost every question. The ph rase natural state is, as we
all know, a very com- mon expression, which we are much in the habit of
applying to things that have not been abused or per- verted from the form
or condition in which nature first placed them. Now, because the same
phrase happens to be frequently applied to man in a rude state of
society, we start, in many of our reasonings, with the notion, that in
proportion as we have depart- ed from such a state, we have perverted and
abused the purposes of nature ; when, in truth, it seems wiser to
inquire, whether we have yet reached the state which nature means for
creatures such as we are, and whether she is not constantly urging us on
to such an unattained state. Our other example is of narrower in-
terest, and belongs to politics, or rather to what is called political
economy. The word price, in general loose speaking, means that which is
given (be it what it may) to obtain some other thing ; but in a
strict SECT. 21.] ON LOGIC. 163 as to lead us to
truth in spite of ignorance, passion, and prejudice, and in spite of
the delusions of which it is itself the cause? Why not, if the
guarded and careful use of it, is fitted to diminish these obstacles, and
if we do not look for the ultimate effects -faster than, by the use
of the means, the obstruc- tions ^ive way ? Nor are mankind
inattentive to improve the means, nor are the means and
mercantile Bense, it has a uniform reference, direct or indirect, to the
quantity of precious metal given for commodity ; inasmuch as gold and
silver are the sole universal medium of barter throughout the world,
and every promise to pay has reference to a certain quan- tity of
one or the other of these metals. These things premised, it must be
obvious that the phrase price of gold, using price in a strict sense, is
an abeurdity, and could arise only from confounding the meaning
which prevails in ordinary speech with the meaning in which the
merchant uses it. What, then, are we to think of an English House of
Commons, which, some twenty years ago, deputed to a committee the task of
in- quiring into the causes of the high price of bullion ? Might
not the committee, with as much reason, have been deputed to inquire, why
the foot rule was more or less than a foot ? 164 ON
LOGIC. [chap. II. without effect : for when we ask, whether
their moral and political condition is much ad- vanced beyond what
it was in the most pro- mising state of the world in past days *, we
do not mean to deny what every one of common knowledge and
observation is aware of, that it has advanced : all we urge is, that a
sys- tematic attention to the means of investigating truth, might,
peradventure, in politics and morals, as it has in physics, have been
at- tended with effects more widely beneficial. Neither do we afSrm
that existing works on Logic are destitute of many admirable pre-
cepts for investigating truth, although we assert that the precepts are
referred either * Note, that it is unfair to fix on a particular
part of the world in proof of what it was in the whole. States and
cities may advance themselves for a time by a partial policy which keeps
others backward : but the policy will fail in the end. By a natural
course of things the advanced state will merge in the mass and
improve it : and thus the world will keep on advancing, although the
spectator, who contemplates only the particular state, will think it is
retrograding. SECT, iil.] 165
to a false principle, or to no principle at all fitted to
unite them into one body of sys- tematic instruction. The work lately referred
to *, fnrnishes, for instance, many excellent precepts for avoiding
errors in the use of words, and for guarding against the snares of
sophistry; and if such precepts and such ex- amples as it offers,
distinct from the doctrine of the syllogism, were industriously
collected, and brought forward in aid of the Logic which all men
learn and all men use, they would be of inestimable value. A useful
system of Logic will guard our notions from error not only while we
think, but while we are reasoned witht: for one chief way by which
truth enters the mind, is through the * Viz, Whately's
Logic. + Our meaning will be understood ; but wc express it
by ii distinction which is grounded on no real dif- ference. He who is
reasoned with, if he understands the ai^ument, is set a thinking ; and
his agreeing or disagreeing with the argument is the effect of his
own thoughts, however these may be set in motion, and perhaps
unreasonably influenced, by what he hears. 1S6.
QCHAP. II. medium of language as employed by others
: and Logic should therefore arm us with all possible means for
coming at truth so offered, through the various entanglements by
which the medium may be accompanied. Hence, the various sophisms of
speech accompanied by their appropriate names, would still occupy a
place in such a Logic ; nay, for this purpose, and for this alone, would
the Aristotelian doctrine of the syllogism deserve explanation ;
namely to understand how a conclusion drawn from mere terms, may, as a
conclusion from them, be perfectly true and perfectly useless, and
thus to induce us to bottom all our reasoning on things. — Having thus
offered, on the first of the questions proposed in Sect. 18, such
observations in the affirmative as we thought it required, we now proceed
to the second question. 22. That question was. Whether we
ought to consider the limits of Logic as extending beyond the
bounds proposed at the com- mencement of this chapter : towards
answering SECT. 22.] ON LOGIC. 1G7
which, we may first inquire how far other views of it
extend. By the Scotch metaphy- sicians, and generally in the schools of
North Britain, the word Logic seems to be so used as to imply the
cultivation of the powers of the mind generally, correspondently with
M'atts's definition of tlie purpose of Logic, namely, " the right
use of reason." " I have always been convinced," says
DugaJd Stewart*, " that it was a fundamental error of
Aristotle, to confine his views to reasoning or the discursive faculty,
instead of aiming at the improvement of our nature in all its
parts." And he then goes on to mention the following as among
the subjects that ought to be con- sidered in a just and comprehensive
system of Logic. " Association of ideas ; Imagina- tion ;
Imitation j the use of language as the GREAT INSTRUMENT OP THOUGHT
; and the artificial habits of judging imposed by the
principles and manners in whicli we have * Fhilotiuphical
Essays. Chap. II. Preliminary Disscrtatio
16s ON LOGIC. [|CHAP. 11. been educated." * Now if the
threeibld di- vision of human knowledge is a just one, which, in
the Introduction of this work, was his *
io the same purpose, Philosophy of the Humat n the second
volume of Mind, (Chap. III. Sect. S.) he speaks
thu^ ' The following, (which mention by
way of specimen,) seem to be among the most powerful of the causes of our
felse judgments. 1. The imperfections of language both as an
instru- ment of thought, and as a medium of philosophical
communication. 2. The difficulty in many of our most important inquiries
of ascertaining the facts on which our reasonings are to proceed. 3. The
partial and narrow views, which, from want of information, or some
defect in our intellectual comprehension, we are apt to take of subjects
which are peculiarly complicated in their details, or which are
connected by numerous relations with other questions equally
problematical. And lastly, (which is of all perhaps the most copious
source of speculative error) the pre- judices which authority and fashion
fortified by early impressions and associations, create to warp our
opinions. To illustrate these and other circumstances by which the
judgment is apt to be misled in the search of truth, and to point out the
most effectual means of guarding against them, would form a very
important article in a philosophical system of Logic,"
SECT. S2.] 169 borrowed from
Locke,— namely into, it., the knowledge of things tiiat are, — ii., of
things fitting to be rfonc, — and, Hi., of the means of acquiring
and improving both these branches of knowledge;— it wUl at once appear
that all the subjects referred to in this enumeration of Stewart's,
except the fourth, which we print in capitals, come under the
denomination of physica : — they are energies or tendencies of the
mind derived from nature, or habits arising out of natural causes ; and
they come accordingly under the division of things ex- isting in
nature, which things, as they all concern the mind, it is the business of
the Pliilosophy of the human mind to explortf: but the fourth of
the subjects mentioned in the quotation from Stewart, viz •* the use
of LANGUAGE AS THE GREAT INSTRUMENT OF THOUGHT,"
comes under the third of the divisions laid down by Locke, and ought
cer- tainly to be distinguished from the other subjects, because it
is the means of becoming acquainted with them : it is the
instrument. m ON LOGIC.
[chap. II. and they are among its objects. True,
we discover, as we proceed in the use of it, and we are properly
warned by those who have used it before, that its efficacy is assisted
or impeded by extraneous causes, as well as by defects in the
instrument itself: similar dis- coveries will be made, and similar warnings
must be given, in the practice of almost every art: but these ought not
to enter into the de- finition of the art, although it will be
proper to bring them forward, incidentally, as we open its rules.
" A method of invigorating and properly directing all the powers of
the mind is indeed," says Dr, Whately, " a most
magnificent object, but one which not only does not fall under the
province of Logic, but cannot be accomplished by anyone science or
system that can even be conceived to exist. The attempt to comprehend so
wide a field is no extension of science, but a mere verbal ge-
neralization, which leads only to vague and barren declamation. In every
pursuit, the more precise aud definite our object, the more
SECT. 22.] ON LOGIC. 171
likely we ai'e to obtain some valuable result j if, like the
Platonists, who sought after the avTodyaSov, — the abstract idea of good,
— we pursue some specious but ill-defined scheme of universal
knowledge, we shall lose the substance while grasping at a shadow,
and bewilder ourselves in empty generalities." *■ To these
just remarks, we may add our ex- pression of regret that Dugald Stewart
never had opportunity to do more than speak pro- ^'^ectively of *'
a just and comprehensive system of Logic ;" " to prepare the
way for which, was," he says, " one of the main objects
he had in view when he first entered upon his inquiries into the human
mind."t Had he himself completed such a design in- stead of
leaving it for others, we doubt not he would have found the necessity of
circura- scribing Logic within the bounds we have proposed, in
order to give it existence as an • Whately's Logic ;
Introduction, t Pliilos. Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the
paragraph immediately following the last quotation. fjtt ON
LOGIC. [chap. U. art distinct from the wide ocean of
intellectual philosophy. 23. But Dr. Whateiy, who deems,
with us, that every consideration of the mind con- ducted without
reference to its making use of language as its instrument, lies out of
the de- partment of the teacher of Logic*, com- pletely differs
from us, as to the province of the art. Of the question, " whether
it is by a process of reasoning that new truths are brought to
light," he maintains the negative t, and consequently denies that
investigation be- longs to Logic. Afler what has been ad- vanced in
the former sections of this chapter, we think it quite unnecessary to
combat this opinion here ; and as Dr. Whateiy concedes, that "
if a system could be devised to direct • Dr. Whateiy defines
Logic (Chap. II. Part I. Sect. 2.) " the art of employing language
properly for the purpose of reasoning." But with him,
reasoning B argumentation. t Whateiy "s Logic, Province
of llcasoning, Chap. II. Sect. 1. ^
SECT. 23.] ON LOGIC. 173 the. mind in the progress of
inveBtigation ", it might be " allowed to bear the name of
Lo- gic, since it would not be worth while to con- tend about a
name " *; — as, moreover, we propose to comprehend under Rhetoric
all that belongs to the proving of truth — that is, convincing
others of it after we have found it ourselves ; — we might be satisfied
with stating that this is the distribution we choose to adopt, and
there let the matter end. Be- lieving, however, that our reasons will
shew this distribution to be not only useful, but al- most
indispensable, we proceed to offer them. 24, And first, that, so far as
we have gone, the art we have described ought to be called Logic,
we think will hardly now be de- nied: — for we have proved that from
be-' ginning to end, it is a process of reason, that is to say, a
process to reach an end by mediae and we have shown that the media
are • Whalely't* Logic, Province of Jteasoiiing, Chap.
II. Sect. 4. Wi ON LOGIC.
[chap. II. words, (Xo'yoi.) If the term Logic is not
pro- perly applied to such an art as this, we know not where an
instance can be found of pro- priety in a name. But shall we include the
of- fice of proving truth under this name, as well as that of
investigating it ? We answer, no, for these two reasons : first that the
things them- selves are difierent, and ought therefore to be
assigned to different departments ; since it is one thing to find out a
truth, and another to put a different mind in a posture for finding
it out likewise : And, second, that persuasion by means of
language, which is the recognized office of Rhetoric, is not so distinct
from con- viction by means of language, as to admit of our saying,
precisely, where one ends, and the other begins. That common situation in
life. Video meUora proboque, deteriora sequor, proves indeed there
are degrees of conviction which yield to persuasion, as thei'e are
other degrees which no persuasion can subdue : yet perhaps we shall
hereafter be able to show, that such junctures do but exhibit one set
of SECT. 24.] 175
motives outweighing anol^ier, and that the ap- plication of the
term persuasion to the one set, and of conviction to the other, is in
many cases arbitrary, rather than dictated by a corre- spondent
difference in the things. If, then, the finding a truth, and the proving
it to others, ought to be assigned to different departments of
Sematology, why not, leaving the former to Logic, consider the latter as
appertaining to Rhetoric, seeing that convincing is not always, and
on every subject, clearly distinguishable from persuading, which latter
is the acknow- ledged province of Rhetoric ? Thus will ana- ^5ii'
uniformly belong to Logic, and synthesis to Rhetoric. While we use
language as the medium for reaching further knowledge than the
notions (knowledge) we have already gained, we shall be using it
logically : when, knowing all we intend to make known, we employ it
to put others in possession of the same knowledge, we shall be using it
rhe- torically. As learners we are, according to this distribution,
to be deemed logicians }— .as 176 [chap,
II. teachers, rhetoricians. The two purposes are quite
distinct, though they are often con- founded under the same name,
reasoning ; which sometimes means investigation, and sometimes
argumentation*, or a process with • 111 spite of all we have said
against taking up no- tions from mere terms, (for " what's in a name
?") we confeES a strong antipathy to the word argumentatmi. It
no sooner meets our eyes, than, fearing the approach of some Docteur
Pancrace, we instinctively put our hands to our ears. " Voub voulez
peut-etre savoir, si la substance et Vaceident sont termes synonymes
on equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle. Point du tout. Je...
Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou une science.^ Sgan. Ce n'est pas
cela. Je... Pancr. Si elle a pour objet les trois operations de I'esprit,
ou la troieieme seulement ? Sgan. Non. Je... Poner. S'il y a dix
categories, ou s'il n'y en a qu'une ? Sgan. Point. Je... Pancr. Si la
conclusion est Vessence du sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si
fessence du bien est mise dans I'appetibilite, ou dans la convenancc?
Sgan. Non. Je... Pancr. Si le bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He,
non! Je... Pancr. Si la fin nous pent emouvoir par son etre reel,
ou par son Stre intentionel ? Sgnn. Non, non, non, non, non, dc par tons
lea diables, non. (Moli&re's Mariage Force.) We join in our friend
Sganarelle'g SECT. 24.] ON LOGIC. 177 a view to
proof: and the confusion is pro- moted by the circumstance, that the two
pro- cesses are often used in subservience to each other. Thus, when
a writer sits down to a work of philosophical investigation, it is to
be expected that the general truths he designs to prove, are
already in his possession ; but he has to seek the means of proving them.
Now in searching for these, it is not unlikely, that, with regard
to the detail, he will frequently come to conclusions different from
those he was inclined to entertain, though the final re- sult he
had entertained may remain un- changed. At one moment, therefore, he is
a logician, at another, a rhetorician. His reader, on the other
hand, is a logician throughout : in following and weighing the arguments
offer- ed, he is an investigator of the truths which
deprecation, wishing to shun all argumentation, except of that
quiet kind which takes place when the talkers on both sides are disposed
to truth, ilot victory. If the word conveyed to us the notion of so
peaceable a meeting, we should have no objection to it ; but we
have confessed our prejudice. N 178 ON LOGIC.
I^CHAP. II. the other undertakes to prove. In this man- ner
may the same composition, accordingly as it exercises the inquiring or
the demon- strating mind, be considered at one time with reference
to Logic, at another with reference to Rhetoric. Still must it be
admitted, that to investigate and to prove are different things ;
and conceiving there is sufficient ground for confining Logic to the
former office, we shall conclude our chapter as we began it, by
defining Logic to be the right use of WORDS with a view to the
investiga- tion of truth. CHAPTER III. ON
RHETORIC. Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.
AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3. 1. In the chapter
just finished, it was shown that the use of language as a Logical
instru- ment, entirely agrees with the theory of Gram- mar we
ascertained in the first chapter, and that, on no other principles than
those which arise from that theory, can Logic be pro- fitably
studied. We have now to show that the use of language as a Rhetorical
instrument agrees with the same theory, and that the view of the
art hence obtained, lays open its true nature, and the proper basis for
its rules. 2. The language of cries or ejaculations, which in the
first chapter we started with, may be called the Rhetoric of nature.
To this succeeds the learning of artificial lan- guage ; and the
process, whether of invention N 2 180 ON RHETORIC.
[CHAP. III. or of imitation, brings into being the Logic
described in the preceding chapter. For whether we invent a language, or
learn a lan- guage already invented, (presuming it to be the first
language we learn,) we must learn, (if we do not learn like parrots,) the
things of which language is significant. All words whatever, not
excepting even proper names *, express notions (knowledge) obtained
from the observation and comparison of many par- ticulars ; and
singly and separately, each word has reference to the particulars from
which the knowledge has been gained. But it is by degrees we reach
the knowledge of which each single word is fitted to be the sign.
We begin by understanding those sentences, or single words
understood as sentences>, that signify our most obvious affections and
wants, and which, taking the place of our natural cries, retain the
tone of those cries as far as the articulate sounds they are united
with permit. In all cases, as a sentence expresses * Vide
Chap. II. Sect. 7- ad fincm. SECT. 2.] ON RHETORIC.
181 a particular meaning in comparison with the general terms
of which it is composed^ the hearer may be competent to the meaning
of the sentence, who is not competent to the full meaning of the
separate words. A cry, a gesture, may deprecate evil, or supplicate
good ; and a sentence which takes the place of, or accompanies that cry
or gesture, will, as a whole, be quickly interpreted. But the
speaker and the hearer must have made con- siderable progress in the
acquirement of know- ledge by means of language, before the one can
put together, and the other can separate^ understand, such words as, ^^ A
fellow creature implores"; "A friend entreats *\ It
is by frequently hearing the same word in context with others, that a
full knowledge of its meaning is at length obtained * ; but this
implies that the several occasions on which it * Consult, on this
subject, Chapter 4th of Du- gald Stewart's Essay " on the Tendency
of some late Philological Speculations,^ being the fifkh of bis "
Phi- losophical Essays^. 182 ON RHETOnic. [chap.
hi. is used, are observed and comjiared; it im- plies, in
short, a constant enlargement of our knowledge by the use of language as
an in- strument to attain it. 3. But he who uses language as
a logical, will also use it, when need requires, as a rhe- torical
instrument. The Rhetoric of nature, the inarticulate cries of the mere
animal, he will lay aside ; or at least he will employ them (and he
will then do so instinctively) only on tliose occasions for which they
are still best suited, — for the expression of feelings re- quiring
immediate sympathy. On all other occasions, he will use the Rhetoric by
which a mind endowed with knowledge, may expect to influence minds
that are similarly endowed ; and our inquiry now is, how the effect is
pro- duced;— how, by means of words, (taking words to be nothing
else than our theory of language has ascertained them to be,) —
how, by such means, we inform, convince, and persuade.
4. According to our theory, wobds are to SECT. 4.] ON
RHETORIC. 183 be considered as having a double capacity ; in
the first, as expressing the speaker's actual thought ; — ^in the second,
as being the signs of knowledge obtained by antecedent acts of
judgment, and deposited in the mind ; which signs are fitted to be the
means of reaching further knowledge. Now, when we use lan- guage as
a rhetorical instrument, we use it, or at least pretend to use it, in
order to make known our actual thought, — in order that other minds
should have that information, or be enlightened by that conviction, which
we have reached. Could this be done by a single indivisible word —
could we realize the wish of the poet — Could I embody and
unbosom now That which is most within me ; could I wreak
My thoughts upon expression, and thus throw Soul, heart,
mind, passions, feelings, strong or weak. All that I would have
sought, and all I seek, Bear, know, feel, and yet breathe, into One
Word* Were this instantaneous communication with- ♦ Byron's
Childe Harold, Canto III. Stanza 97- 184 ON RHETORIC. £CHAP.
III. in our power. Rhetoric would be a natural faculty, not
an art, and our inquiry into its means of operation would be idle.
But getting beyond the occasions for which the Rhetoric of nature
is sufficient, and for which those sentences are sufficient that serve
the most ordinary purposes of life, an instan- taneous
communication from mind to mind, is impossible. The information, the
conviction, or the sensitive associations, which we have wrought
out by the exercise of our observing and reasoning powers, can be given
to another mind only by giving it the means to work out the same
results for itself ; and, as a rhetorical instrument, language is, in
truth, much more used to explore the minds of those who are
addressed, than to represent, by an expression of correspondent unity,
the thought of the speaker ; — rather to put other minds into a
certain posture or train of thinking, than pre- tending to convey at once
what the speaker thinks. Contrary as this doctrine will ap- pe$ir
to common opinion on the subject, a very 6ECT. 4.] ON
RHETORIC. 185 little reflection will show that it must be
true. For a word can communicate to another mind what is in the
speaker's, only by having the same meaning in the hearer^s : but if it
have the same meaning, then it signifies no more than what the
hearer knows already, or what he has previously experienced. And this
is plainly the case with sentences (words) in familiar use, which
signify what all have at times occasion to express, which are used
over and over again for their respective pur- poses, and of which, while
uttering or hearing them, we do not attend to the meaning of the
separate words, but only to the meaning of the whole expression *. Here,
it is confessed, the communication is made at once ; but then it is
a communication which the hearer is pre- pared to receive, because he has
himself used the same expression for the same purpose. What is to
be done when the information or the conviction is altogether strange to
the mind which is to receive it ? In this case the ♦ Refer to
Chap. I. Sect 19. ON RHETOKIC. QCHAP. HI.
speaker will seek in vain, as in the first case, for an expression
previously familiar to the hearer; and he will have to form an
expres- sion. But how shall he form it? As words have the power of
representing only what is known on both sides, he must form it not
with signs of what is to be made known, but of what is already known. In
this way, he may produce an expression — whether that expression
take the name of sentence, oration, treatise, poem, &c. * — which, as
a whole, de- notes that which his mind has been labouring to
communicate — the information, the con- viction, or the sensitive associations
he is de- sirous that others should entertain in common with
himself. The necessity of so protracted, so artful a process, must be set
down to the hearer's account, not to the speaker's. The latter is
(or ought to be) in previous possession of what he seeks to communicate —
he has been through the process, and reached the result : but that
result he cannot give at once ' Compiirc Chap. I. Sect. 20.
SECT. 5.] ON RHETORIC. 187 and gratuitously to others : he
can but lead them to it, as he himself was led, by address- ing
what they already know or feel ; and his skill in rhetoric will be the
skill with which, for this purpose, he explores their minds. It
will be a process of synthesis on his part, and of analysis on theirs. He
will form an ex- pression out of WORDS which signify what they
already know, or what they have already felt : and the separate
understanding of these on their part, will enable them to
understand his expression as a whole. This being the theory of Rhetoric
which grows out of our theory of language, we now proceed to show
that the actual practice of every speaker, and of every writer, is in
accordance with it. 5. To begin with Description and Narra-
tion : — Is it not obvious, that, to procure in another mind the idea of
things unknown, we proceed by raising the conception of those that
are known ? An object of sight which the party addressed has never seen,
we give an idea of by allusions made iu various ways
188 ON RHETORIC. [CHAP. III. to objects he has seen :— or if,
being new as a whole, it is made up of parts not new, we give the
idea of the whole by naming the parts, and their manner of union. An
unknown sound, or combination of sounds, an unknown taste, smell,
or feel, is suggested to another mind by a comparison, direct or
indirect, with a known sound, taste, smell, &c. As to
conceptions purely intellectual, it is a proof how little one mind can
directly represent or open, itself to another, that, in the first
in- stance, such conceptions can be made known not by words that
directly stand for them, not by comparisons with things of their
own nature, but only by comparisons with affec- tions and effects
outwardly perceptible; as would at once be obvious in tracing to
their origin all words that relate to the faculties and operations
of the mind *'y although it is true * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»»,
originally signify wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ;
in- tellect is from inter and lego, I collect from among ;
perception and oonceptUm are from capio I take, — a SECT.
5.] ON RHETORIC. 189 that these words at last become well
under- stood names, that at once suggest their re« spective
objects, without bringing up the ideas of the objects of comparison that
once in- tervened. In narration we proceed by similar means. We
presume the hearer to be ac- quainted with facts or events of the
same kind as that which is to be made known, though not with the
particular event ; for we \x%Q generalievmSy i. e. terms expressing
kinds or sorts, in order to form every more par- ticular
expression. If the hearer should be unacquainted with facts or events of
die same kind, the communicator then has recourse to use of
the verb still common in such phrases as ^^ I take in with my eye,'' and,
" I take your meaning ;'' judgment is from jus dicere ;
understanding suggests its own etymology ; refleadon implies a casting
or throwing back again; imagination is from imago^ an image or
representation; to thinks according to Home Tooke, is from thing ; —
" Res-^k thing (he says) gives us refyr I am thinged,'' i. e.
operated upon by things. These are etymologies suggested by
authori- ties universally accessible ; — the curious in this
depart- ment of learning would be able to add much more.
IdO ON RHETORIC. [CHAP. III. circuitous comparisons. If
nothing is pre- viously known to wliich the action or event can,
however remotely, be compared, the attempt to make it known must be as
fruitless as that of giving an idea of colours to one bom blind, or
of sounds to one born deaf*. * Not without reason does the angel
thus speak to Adam in the Paradise Lost : High matter thou
enjoin'st me, O prime of men, — and hard : for how shall I
relate To human sense the invisible exploits Of warring spirits
? And he proposes to overcome the difficulty in the only way in
which it can be concaved possible to be over- — what surmounts the
reach Of human sense, I shall delineate so By likening spiritual to
corporal forms, As may express them best. Far. Lost. Book 5.
1. 5G3. Still must the discourse of the Angel have been unin-
telli^ble to Adam : for the latter must be supposed ignorant not only of
the things to be illustrated, but of far the greater part of the
illustrations. There was no keeping clear of this defect in the
philosophy of die jwem, if, in a poem, we arc to look for philoso-
phy. The discourse even of Adam and Eve, though SECT.
6.] ON RHETORIC. 191
6. Thus, then, when we make use of words in order to inform, we
produce the effect by adapting them to what the hearer already
knows. In using words in order to convince and persuade, we produce the
effect in the same way. But to convince, it is ne- cessary to inform
— to acquaint the hearer either with something he did not know
before, or with something he did not attend to ; and the
information is called the argument * or proof. Thus the information that
"Plato was a philosopher," is an argument or proof that
he is deserving of respect: and the clear testimony that " a man has
killed another maliciously," proves that the perpetrator is
guilty of murder. But why do we account the information in the respective
instances an argument or proof of the conclusion ? For
Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things which the
least philosophy will teach us they could not be acquainted with.
* The word argument is commonly used iii the sense we here assign
to it ; though it is likewise often used with » more coniprelicnBivc
meaning. 192 ON RHETORIC. [^CUAP. III. no Other
reason than this, that it is addressed to a notion (knowledge) previously
acquired of what persons are deserving of respect, (in the first
instance,) and of what constitutes the crime of murder, (in the second
instance.) Take away this previous knowledge, and the information
remains indeed, and may perhaps be clearly understood, but in neither
instance can it lead the hearer to the conclusion, — that is to
say, it will not then be an argument for the end in view : it will
communicate, perhaps, what it professes to make known, but there
the matter will end. In every process, then, by which we propose to
convince others of a truth, there are three things implied or
expressed : i. that which we intend to prove true, and which, if stated
first, is called the proposition, if last, the conclusion : ii. the
in- formation by which we try to prove it, and which is accordingly
called the argument or pro of; iii. the previous notion (knowledge)
to which the information is addressed, and which is frequently
called the datum ; being SECT. 6.] ON RHETORIC. 193
that which is presumed to be already known, and therefore conceded
or given by the person reasoned with ; on account of which, and
solely on this account, the information is offered in the capacity of an
argument or proof. Now, here we have the parts of a syllogism,
(though in reversed order, viz. the conclusion, the minor, the major,)
and this may serve to show, without having recourse to the
Aristotelian doctrine of the comparison of a middle with extremes, why
the form of a syllogism, where necessary, must always be a forcible
way of stating an argument. For first we state that which our hearer
cannot but. concede j (major ;) then we state that which he did not
know or attend to, in such a way that he must receive it on our
testi- mony, or admit as evident as soon as it is attended toj
(minor;) and these two being admitted, they are found to contain what
we proposed to prove: which we then draw from them without the
possibility of a rational contradiction; (conclusion.) For example;
o 194 ON RHETORIC. [CHAP, III. our hearer
knows by experience what persons are deserving of respect: he knows,
then, that ** Every philosopher is deserving of
respect.^ We then remind him of the fact which he has learned
from history, that " Plato is a philosopher :''
Hence on his own knowledge we advance the undeniable
conclusion, " Plato is deserving of respect'' Is
this conclusion at all fortified — is the process which led to it
explained — by shew- ing that a comparison of the terms independ-
ently of the things, produces the proposition which expresses it ? Both
the hearer and the speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the
first two propositions refer to, or the conclusion can- not be
drawn for any rational end : and if they have the knowledge, they have
the conclusion in that knowledge. In convincing the hearer, the speaker
does nothing but remind him that he (the hearer) has the necessary
know- SECT. 6.] ON RHETORIC. 195 ledge ; and the
syllogism, we admit, puts the matter home in a very forcible way : but
that is all : another form of speaking will oflen do equally well :
for instance, " Plato who is a philosopher is deserving of
respect." Whether the truth is stated in this way, or in the
for- mer way, or in any other way, the extract- ing of a middle and
extremes out of the ex* pression, and demonstrating that these
agree or disagree, is, we repeat it, a puerile addition to the
process that has previously taken place. Again, with regard to the other
example at the beginning of the section: — Our hearer knows,
(suppose him to be a juryman,) either of his own knowledge, or by the
definition laid down by the judge, that ^^ Maliciously
killing a man is murder.''^ This is the datum, or major. He
receives in charge, i. e. he is informed that A. B. killed a man maliciously,
which is tantamount to saying that " What A. B. did, is
killing a man maliciously.*" o 2 196 ON
RHETORIC. [CHAP. Ill, This information is to be the argument
or minor by which the conclusion is to be esta- blished; but the
juryman must be made sure of its truth, — he must know it, — before
he can receive it in this capacity : — well, he is made sure of its
truth : — must he then go to Aristotle, and be taught to compare
the middle with the extremes, in order to pro- nounce his verdict
that " What A. B. did, is murder:'' that is, he is
guilty of murder? Will he be MORE satisfied with his own verdict, if he
is able to do so ? Common sense pronounces, no. Let us, then, for
ever have done with the Aristotelian Syllogism ; admitting, how-
ever, in favour of the form of expression, that to express (i.) the
datum, — (ii.) the inform- ation which, because it is addressed to the
da- tum, is an argument,— and (iii.) the conclusion from them — in
three distinct propositions, is a very forcible way of stating a truth
which we have reason to believe our hearer is prepared
SECT. 7-] ON RHETORIC. 197 to admit the moment it is so
stated. But the syllogism thus detached from the artifice of
comparing a middle with extremes, is only one among the innumerable ways
of express- ing a truth, which the custom of language permits, and
is no more the invention of Aristotle in particular, than any of
those other forms that might be used instead of it *.
7. This brief notice of the syllogism in addition to what was
advanced in the last chapter, occurs by the way : — ^the point we
had in hand, was, to show that in convincing others by means of words, we
adapt our words to what they already know. And this must be evident
from what has preceded. For we previously proved, that, in order to
inform, * Our observations on the syllogism are not meant to
call in question the intellectual capacity of the in- ventor. For what we
conceive to be a just estimate of his merits, we refer to Dugald
Stewart'^s Second Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III.
Sect. 3., near the middle of the section. 198
ON RHETORIC. [CHAP. III. we adapt our words to what
our hearers al- ready know ; and we have just shown that the
process of convincing them, is a process in which we address some
information to a pre- existing notion. Let us now see how this
doctrine tallies with the terras of art which are already in recognised
use ; and, as occa- sion may offer, let us inquire if there be any
difference, and what, between conviction and persuasion. 8.
That every argument used to influence others, is considered to derive its
efficacy from some pre-existing notion, opinion, or rul- ing
motive, whether permanent or transitory, in the hearer, is evident from
the following and similar expressions : argumentum ad Judi- cium,
by which we signify that our inform- ation is addressed to such general
principles of judgment as mankind at large are guided by :
argumentum ad hominem, by which we imply that we address those peculiar
principles by which the individual man is actuated. Again ;
argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad SECT. 8.3
ON RHETORIC. ignorantiam, argumentum ad Jidem,
argumcn- tum ad passiones, all imply arguments (infoim- ation)
addressed to some partial motives of judgment and action ; and in all
these, the conclusion arising out of the reasoning has the same
validity, as far as regards the mere act of reasoning : it is the
difference of the data that makes it of very different value. A
conclusion from an argument addressed to principles which all men
recognise, is obvious- ly a conclusion of universal force; but one
which arises from an argument addressed to peculiar principles, can of
course be convinc- ing only to such as admit those principles. So
likewise a conclusion which arises from the reverence entertained for the
author of the principles professed ; — or which follows in the
hearer's mind from his limited notions, and would not follow if he were
better inlorra- ed ;— or which follows because of his faith, and
would not follow, if he had not that iaith J— or because his passions are
previously disposed, and would not follow, if they were
«00 ON RHETORIC. [chap.
otherwise disposed: — in these and in similar cases, the
argument is valid, and therefore ef- fective with respect to the minds
for which it is adapted, but addressed to other and more general
motives or knowledge, it may be no argument at all *. Here, then, we
may perhaps see how the difference arises between conviction and
persuasion ; — mere persuasion is conviction as far as it goes ; but it
is con- viction arising out of partial data : the person persuaded
is conscious that the reasoning process itself is right, but he suspects
— perhaps more than suspects — tliat the data which he has
permitted his inclinations to lay • Hence, what is Rhetoric at one
tune and to one set of auditors, may be none whatever at another
time. Who has not admired tlie Rhetoric of Marc Antony, (the Hpeecb
over Ciesar's body,) in Shakspeare's play of Jnhua Caesar ? But why do we
admire it F Is it such Rhetoric as would persuade all people under
the circumstances supposed ? No. But it is just such Rhetoiic as
was fitted for the multitude under those circumstances; and we admire the
dramatist who so completely suits the oration to the art of the
speaker, und the minds of those whom be has to operate upon.
SECT. 8.] ON RHETORIC. 201 down, are wrong: he perceives
another con- clusion from other and less suspicious data, though he
has not resolution enough to em- brace it : so that the case we referred
to in the last chapter* as being so common in life, Video meliora
proboque^ deteriora sequor, amounts to this, — that we are divided
between two conclusions, the one drawn from data which we know to
have the sanction of uni- versal consent, the other from data
supplied by private motives. Thus, when Macbeth is bunging in doubt
between the suggestions of duty and ambition t, the conclusion from
each source is reasonably drawn : but he is not ignorant of the
different value of the respec- tive sources. He has nearly determined
in favour of the conclusion drawn from duty, when his wife enters,
who, by addressing con- siderations (information, arguments,) to
his known sentiments of greatness and courageous * Chap. II.
Sect. 2+. f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-
JBOS ON RHETORIC. [^CHAP. 111. daring, persuades him to
murder Duncan and seize the crown. 9. So much for the terms
of art by which we signify the quaUty of the arguments we use, as
depending on the known motives, or information, or disposition, of the
persons addressed : which terms suit our theory so well, that they
seem to be invented for it. Nest, for the terms by which the
arguments themselves are technically distinguished. First, we have
a distinction of them into Ex- ternal and Internal. Now, according to
our theory, every argument consists of some in- formation which we
communicate to the per- son reasoned with : — but this information
may be something that he could not possibly have discovered by any
consideration of the subject itself J or it may be something that
he might have so discovered ; in which latter case, our information
will amount to nothing more than making him aware of what he had
overlooked. The former, then, will be an ex- »■]
ON RHETORIC. temal argument or proof; the
latter, an in- temal argument. Of the former, the evidence in a
court of justice is an example ; as are al- so proofs from history and
other writings, and irom the testimony of the senses. Of the lat-
ter kind, are all arguments from what are call- ed the topica or loci
communes : — for instance, from the definition or conditions of a thing
j as when certain lines are inferred to be equal to each other from
their nature or conditions as being radii of the same circle : —
from enumeration ; as when we prove that a whole nation hates a
man, by enumerating the several ranks in it, who all do so : — from
nota~ tion or etymology ; as when we infer that Lo- gic has
reference to the use of words in reasoning, from its connexion with the
Greek Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus f as when we
prove that Plato is deserving of ■ respect, by showing that he is one of
a getius or kind that is deserving of respect : — from species ; as
when we infer the excellence of ^ virtue in general from that which we
observe eo* ON RHETORIC.
[chap. lit. in some particular act of virtue : — anil
so like- wise of the same kind, namely internal, are aiguments from
the other well known topics ; (not to prolong the instances, which are
easily imagined ;) from cause, whether efficient, JiJial, Jbrmal,
or material; from adjuncts, antecedents, consequences, contraries,
opposiles, similitudeSy dissimilitudes, things greater, less, or
equal: &c. The deriving of arguments from these internal
topics*, is nothing more, on the part of the speaker, than turning a subject
into every point of view that may suggest a some- thing relating to
it, overlooked perhaps by the hearer, and which, by being brought
to his notice, and addressed to his pre-existing notions, may
prove, or render probable, the proposition in hand ; and according to the
de- gree of force which the argument carries, it is • The
reader needs not be reminded how largely this subject of topics, (or
places for finding the internal or artiiicial proofs in contradiGtinction
to the external or artificial,) ia treated by the ancients : for
instance, by Aristotle, by Cicero, (vide the book called Topu-a,)
and by Quinctilian. SECT, y.] ON
RHETORIC. 205 deemed an instrument of
conviction or of persuasion. An argument from defimlion ; — - (for
instance from the conditions of a problem or theorem j as where lines are
required to he drawn which are to be radii of the same cir- cle J )
which argument is addressed to a notion assumed among the general conditions
of the I reasoning ; (for instance, that " a circle is suct]^
] a figure that all lines, (called radii,) drawn, j from a certain
point within it to the circum- ference are equal " ;) — an argument
so derived and so addressed, is demonstrative of the pro- position
which it is brought to prove : (e. g^ that the lines are equal.) An
argument froni[1 enumeration, — (for instance, from a statement 1
of the several ranks that are found in a n&- ] tion,) addressed to a
notion that the parta J enumerated are all the parts, (for instance^
j that the several ranks of people that hate A. j B. comprise the
whole nation,) is also de- monstrative with respect to that notion ;
but if the enumeration should not comprehend all the parts in the
hearer's notion of the whole, 90Si ON RHETORIC. [CHAP.
III. or if the hearer should doubt whether his own notion is
sufficiently comprehensive, no ab- solute conviction takes place. Still,
the enu- meration may induce belief, and will in such case be said
to persuade, though not to con- vince. The same might be shown of the
ar- guments derived from all the other topics. Entire conviction
would follow from any of them, if the hearer were fully satisfied both
of the truth of what is offered in the way of ar- gument, and of
the correctness of his own no- tion to which the argument is addressed :
but greater or less degrees of doubt may accom- pany each of these,
and greater or less de- grees of doubt will therefore attach to the
conclusions which flow from them. We may moreover observe, that the
truths a speaker has in view, do not always stand in need of
demonstration : they are perhaps admitted al- ready, but it may be that
they do not suffici- ently influence the hearer's sensibilities.
The object of an argument will then be, to awaken those
sensibilities, and with this effect its pur- SECT. 9.] ON
RHETORIC. 20? pose wiU stop : as, for instance, when in or-
der to awaken sensibility to the frail nature of man's existence, (not to
demonstrate it,) the speaker draws his argument from simili- tude
: Ah ! few and full of sorrows are the days Of mieerable man
! his life decays Like that fair flower that with the sun's uprise
Its bud unfolds, and with the evening dies. Here, the argument is
obviously meant for persuasion. There may, at the same time, be an
ultimate truth in view, which the speaker designs to enforce when he has
prepared the mind for receiving it; and he will then employ
arguments of a different kind, and address them to notions of universal
dominion. — But with regard to any of the arguments which, in this
brief review we have glanced at — whether external or internal, whether
demon- strative, or only inducing belief, whether de- signed to
convince, or fitted but to per- suade, — the process accords with the
theory assumed: — the speaker adapts words to know-
208 OM RHETOftlC. [chap. IU. ledge the hearers have already
attained, or to feeliugs they have already experienced, in order to
conduct them to some discovery he wishes them to make, or to some
unexperienc- ed train of thought conducive to such dis-
covery. 10. The assumption of this as the great principle of
the art, will, in the next place, enable us to clear it from certain
misdirected charges to which it has always been liable. The
expedients which the orator employs, the various tropes and figures of
which his discourse is made up, are apt to be looked upon as means
to dissemble and put a gloss upon, rather than to discover his real
sentiments*. That, like all other useful * We refer more especially
to the following pas- sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on
the Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book. ^^ Since wit
and &ncy find easier entertainment in the world than dry truth and
real knowledge, figurative speeches and allusion in language will hardly
be ad- mitted as an imperfection or abuse of it. I confess in
discourses where we seek rather pleasure and de- SECT. 10.]
ON RHETORIC. 209 things, they ^re sometimes abused*, nobody
• E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag Tn roKzuTn
^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara ^ivruv Tuv ayaOav*
Arist. Rhet. I. 1. light than information and improvement,
such orna- ments as are borrowed from them can scarce pass for
faults. But yet if we would speak of things as they are, we must allow
that all the art of rhetoric, besides order and clearness, all the
artificial and figurative ap- plication of words eloquence hath invented,
are for nothing else but to insinuate wrong ideas, move the
passions, and thereby mislead the judgment, and so indeed are perfect
cheats : and therefore however laudable or allowable oratory may rehder
them in ha- rangues and popular addresses, they are certainly, in
all discourses that pretend to inform or instruct, wholly to be avoided ;
and where truth and knowledge are con- cerned, cannot but be thought a
great fault either of the language or the person that makes use of
them. What, and how various they are, will be superfluous here to
notice ; the books of rhetoric which abound in the world, will instruct
those who want to be informed : only I cannot but observe how little the
preservation and improvement of truth and knowledge is the care and
concern of mankind ; since the arts of fallacy are endowed and preferred.
It is evident how much men 210 ON RHETORIC. [CHAP.
III. will deny : but to consider them by their very nature as
instruments of deception, only proves that the objector utterly
misconceives the relation between thought and language. These
expedients are, in fact, essential parts of the original structure of
language ; and however they may sometimes serve the pur- poses of
falsehood, they are, on most occa- sions, indispensable to the effective
communi- cation of truth. It is only by expedients that mind can
unfold itself to mind;— lan- guage is made up of them ; there is no
such thing as an express and direct image of thought. Let a man's
mind be penetrated love to deceive and be deceived, since rhetoric,
that powerftil instrument of error and deceit, has its esta-
blished professors, is publicly taught, and has always been had in great
reputation : and I doubt not but it will be thought great boldness, if
not brutality in me, to have said thus much against it. Eloquence,
like the fair sex, has too prevailing beauties in it, to suf- fer
itself ever to be spoken against. And it is in vain to find fault with
those arts of deceiving, wherein men find pleasure to be deceived.'*'
SECT. 10.3 ON RHETORIC. 211 with the clearest truth —
let him burn to com- luunicate the blessing to others ; — ^yet can
he, in no way, at once lay bare, nor can their minds at once
receive, the truth as he is con- scious of it. He therefore makes use of
ex- pedients : — he conceals, perhaps, his final pur- pose ; for
the mind which is to be informed, may not yet be ripe for it :— ^he has
recourse to every form of comparison, (allegory, simile,
metaphor*,) by which he may awaken pre- disposing associations : — he
changes one name for another, (metonymy,) connected with more
agreeable, or more favourable associa- tions : — he pretends to conceal
what in fact he declares ; — (apophasis ; — ) to pass by what *
In referring to these and other figures of speech, it is impossible not
to be reminded of Butler'^s distich, that All a
rhetorician'^s rules Teach nothing but to name his tools.
The fact is as the satirist states it. But then it is something to
a workman to have a name for his tools ; for this implies that he can
find them handily. — May we add to our remark, that the world is scarcely
yet p2 212 ON RHETORIC. [CHAP. III.
in truth he reveals ; — (paraleipsis : — ) he in- terrogates when
he wants no answer ;— (ero- tesis ; — ) exclaims, when to himself there
can be no sudden surprise;— (ecphonesis; — ) he corrects an
expression he designedly uttered ; — (epanorthosis ; — ) he exaggerates
;— (hy- perbole ; — ) he gathers a number of particu- lars into one
heap; — (synathroesmus ; — ) he ascends step by step to his strongest
position ; — (climax; — ) he uses terms of praise in a sense quite
opposite to their meaning ; — (iro- nia ; — ) he personifies that which
has no life, perhaps no sensible existence ; — (prosopo- poeia ; —
) he imagines he sees what is not actu- ally present ;— (hypotyposis ; —
) he calls upon aware how much it owes to such men as Butler,
Moliere, Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts of
intellect, that of plain sound sense, which enabled them at once to see,
in their true light, the vanities and absurdities of (misqalled)
learningp But for the histo- rian of Martinus Scriblerus, his
predecessors and suc- cessors, the world might still be under the
dominion of a set of solemn coxcombs, whose whole merit consisted
in making small matters seem big ones, and themselves to appear wiser
than their neighbours. SECT. 10.] ON RHETORIC. 213
the living and the dead ; — (apostrophe : — ) all these, and many
more than these, are the ar- tifices which the orator* employs ; but
they are artifices which belong essentially to lan- guage ; nor are
there other means, taking them in their kind and not individually,
by which men can be effectually informedy or perstuidedj or
convinced. Could the prophet at once have made the royal seducer of
Uriah's wife fully conscious of the sin he had committed, he would not
have approached him with a parable t : that parable was the means
of opening his heart and understanding to the true nature of his crime ;
and it is a proper instance of the principle on which all eloquence
proceeds. It is true, we do not * We trust the reader scarcely
needs to be remind- ed, that the word Orator isused throughout this
treatise, in the comprehensive sense which includes all who wield
the implements of Eloquence. In modem times, the influential orator is
read not heard ; or if heard, his hearers are few in number compared with
his readers. t 2 Sam. 12. 214 ON RHETORIC.
[CHAP. III. now make use of parables fully drawn out ; but
all metaphorical expressions, all compa- risons direct or indirect, are
to the same pur- pose ; namely, that of bringing the mind of the
hearer into a state or temper fitted for the apprehension of truth. Nor,
(we repeat,) must it be thought that the means referred to,
(excepting some instances in bad taste,) are ornaments superinduced on
the plain mat- ter of language, and capable of being detached from
it : they are the original texture of Ian- guage, and that from which
whatever is now plain at first arose. All words are originally
tropes ; that is, expressions turned (for such is the meaning of trope)
from their first pur- pose, and extended to others. Thus, when a
particular name is enlarged to a general one, as our theory shows to have
happened with all words now general, the change in the first
instance was a trope. A trope ceases how- ever to be one, when a word is
fixed and re- membered only in its acquired meaning ; and in this
way it is that all plain expressions have SECT. 11.]
ON RHETORIC. originated. In a mature language,
a speaker or writer may, therefore, if he pleases, avoid figurative
expressions. But the same neces- sity, the same strong feelings, which
originally gave birth to language, will still produce new figures,
or lead the speaker to prefer those already in use to plain expressions,
if, by the former, he can touch the chords, or awaken the
associations, that are linked with the truths iie seeks to
establish. 11. Our theory of language, and conse- quent
theory of Rhetoric, will, in the next place, no longer leave us to wonder
at an ef- fect, which Dr. Campbell has laboured to account for with
much ingenuity; namely, that nonsense so often escapes being
detect- ed both by the writer and the reader*. For according to our
theory, words have a sepa- rate and a connected meaning, each of
which is distinct from the other. Now, suppose a succession of
words to have no connected Chap. VII.
See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II. 216 ON
RHETORIC. [CHAP, III. meaning, which is as much as to say,
suppose them to be nonsense ; yet, in their separate capacity, they
will nevertheless stand for things that have been known and felt ;
and if both the speaker and the hearer shbuld be satisfied with the
vague revival of this know- ledge and of these feelings, they will
neither of them seek for, and consequently will not detect the
absence of an ulterior purpose. The effect which is produced by words
thus used, (or rather misused,) extends no further than that
produced by instrumental music, and is of the same kind. For no one
will pretend that a piece of niusic expresses, or can express, independently
of words, a series of ra- tional propositions ; yet it awakens some
sen- timents or feelings of a suflSciently definite cha- racter to
occupy the mind agreeably. Now perhaps it is not an unwarrantable libel
on one half of the reading world, if we affirm, that they read
poetry and other amusing composition for no further end, and with
no further effect, than the pleasure of such vague
SECT. 11.] ON RHETORIC. 217 Sentiments or feelings as spring
from music : and to such readers it is of little moment whether the
words make sense or not. Ac- cordingly, when composition like the
follow- ing is put before them^ which presents striking though
incongruous notions, in words gram- matically united, agreeably jingled,
and having a connexion, probably, with certain sensitive
associations, they are liable to read on, not only without feeling their
taste shocked, but perhaps with some pleasure. Hark ! I hear
the strain erratic Dimly glance from pole to pole ; Raptures
sweet and dreams ecstatic, Fire my everlasting soul. Where is
Cupid's crimson motion, Billowy ecstasy of wo ? Bear me
straight, meandering ocean, Where the stagnant torrents flow.
Blood in every vein is gushing, Vixen vengeance lulls my heart
; See, the Gorgon gang is rushing ! Never, never let us part
*. * " Rejected Addresses ;^ the particular example
S18 ON HHETORIC. [CHflP. III.
Nor is it in (pretended) poetry alone, that the eflFect here
alluded to tahes place. Bring to- gether the rabble of a political party,
and place before them a favourite haranguer: — it 13 not by any
means necessary that he should make a speech which they understand, or
even himself: he has only to string, in plausible order, the
accustomed slang words of the party, and to utter them with the usual
fer- vour ; the wonted huzzas will follow as a matter of course,
and fill each pause that the speaker's art or necessity prescribes.
And BO likewise in an assembly of a different de- scription, — the
piously disposed congregation above being in ridicule of
Rosa Matilda's style. See also Pope's " Song by a Person of
Quality." The reader whose taste is gratified by such composition
as is here caricatured, stands at the other extreme from that
mathematical reader, who returned Thomson's Seasons to the lender with an
expression of disgust, that he had not been able to find a single thing
proved from the beginning to the end of the book. The reader for
whom the genuine poet writes, is equally removed from each extreme.
SECT. 12.] ON RHETORIC. 219 of a conventicle : the
good man whom they are accustomed to hear has but to put to- gether
the words of familiar sound and evan- gelical association — grace, and
spirit, and new light, regeneration and sanctification, edification
and glorification ; an inward call, a wrestling with Satan, experience,
new birth, and the glory of the elect ; interweaving the whole with
unceasing repetitions of the sa- cred name, accompanied by varied
epithets of, blessed, holy, and divine : and with no further
assistance than the appropriated tone and frequent upturned eye, he will
throw them into a holy transport, and dismiss them, as they will
declare, comforted and edified. This effect, which is apt to be attributed
to hypocrisy because the ordinary notions of language suggest no
cause for it, our theory explains with no heavy scandal to the
parties. 12. Concerning the elements of Rhetoric ranged under
the divisions of Invention and Elocution, we have now made what
remarks 220 ON RHETORIC. []CHAP. III. our object
required. There yet remains one division, namely, Pronunciation *; which
will, however, scarcely furnish occasion for extend- ing our
observations ; since our theory is not in any peculiar manner concerned
with it. As we started with the Rhetoric of nature, namely, tone,
looks, and gesture, so we are at * Disposition and Memory are in
general adde4 to these three. " Omnis oratoris vis ac
facnltas,'*^ says Cicero, ^^ in quinque partes est distributa ; ut
deberet reperire primum, quid diceret; deinde in- venta non solum ordire,
sed etiam momento quodam atque judicio dispensare atque componere ; tiun
ea de- nique vestire, atque omare oratione ; post, memoria sepire;
ad extremum, agere cum dignitate et venustate.^ De Orat. 1. 31. As to two
of these divisions, we have no occasion to notice them, because there is
nothing in our theory of language which requires them to be viewed
in a new or peculiar light : — We may take oc- casion to observe, before'
concluding the note, that the modem use of the term Elocution, assigns it
to sig- nify what the ancients denoted by Pronunciation or Action :
and Dr. Whately sanctions this modem sense by adopting it in his
Rhetoric. We have used it in the foregoing page in the ancient sense : ^^
quam Graeci f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine dicimus
Elocutionem.'*'* Ins. viii. 1. SECT. 12,] ON RHETORIC.
221 once ready to admit that these may, and ought to accompany
the language of art ; — that they ought not to be absent even from
the recollection of him who writes, lest his style be deficient in
vivacity. In union with these parts of Pronunciation, is that ele-
ment of artificial oral speech called Empha- sis ; and it will be to our
purpose to observe, how very inadequate are the common notions of
language to account for the actual practice of emphasis, as it may be
observed in English speech. The common view of words that make up a
sentence, is, that they respectively correspond to ideas that make up the
thought : and therefore, in a written sentence, if we would know
the emphatic word, we are de- sired to consider which word expresses
the most important idea*. Thus, when Dr. * To this end some
teacher of elocution (elocution in the modem sense) somewhere says : ^^
If, in every assemblage of objects, some appear more worthy of no-
tice than others ; if, in every assemblage of ideas, which arc pictures
of those objects, the same difference 222 ON RHETORIC.
[CHAP. III. Johnson was asked how we ought to pro- nounce the
commandment, ** Thou shalt not bear false witness against thy neighbour/*
he gave as his opinion that not should have the emphasis, because
it seemed the most im- portant word to the whole sense. But Garrick
influenced by no assumed theory, pronounced according to the practice of
English speech, ** Thou shalt-not bear," * &c. There is in
fact no other rule than custom in English speech for the accenting
of words in a sentence, any more than there is for accenting syllables in
a word. A peculiar or referential meaning may indeed disturb the
usual accent of a prevail, — it consequently must follow, that in
every assemblage of words, which are pictures of these ideas, there
must be some that claim the distinction called emphasis.^ All this
ingenious parallel, with Aristotle^s authority to back it, we affirm to
be purely visionary, and we hope the reader by this time thinks as^ we
do. Yet is the passage in entire accordance with the no- tions of
language that commonly — nay, it should seem, universally prevail.
* The story is somewhere related by BoswelL SECT. 12.3
ON nHETOrtic. 223 word : for instance, the common accent of
the word for^ve, will be displaced if the word is pronounced referentially
to a word that has a syllable in common ; as in saying to give and
loj'drgive. And just so will it be in a sentence which is pronounced
refer- entially to an antecedent or a subsequent sentence, either
expressed or understood : which would be the case, if we pronounced
tie ninth commandment in contradiction to one who had said
"Thou shaltbear false witness," &C., for then we should
accent it in Johnson's way, and say " Thou shalt n6t bear," &c.
Now this is what is properly called emphasis, namely, some peculiar way
of accenting a sentence in order to give it a referential mean-
ing. A sentence pronounced to have a plain meaning has its customary
accents, but no emphasis. The commonest example will be the best ;
and therefore we will quote one that may be found in every book in
which emphasis is treated of: " Do you ride to town to-day
?" If this is pronounced with- •294 ON RHETORIC.
[CHAP. HI. out allusive meaning, ride, town, and day, are
equally accented by the custom of the language, and there Is no emphasis
properly so called : which, by the way, is a pronun- ciation of the
sentence that teachers of read- ing, in their search after its possible
oblique meanings, forget to tell us of. Suppose we give an emphasis
to ride, then lide-to-toivn-to day will be allusive to
■wdlk-to-town-to-day, as we might accent the word intrinsical in
the mauner marked with a reference to the word Extrinsical,
although the plain accentuation is intrinsical. So again to-loTvn-lo-day
is allusive to the-country-to-day, and to-town-to-ddy is al- lusive
to to-town-to-m6rrow ; as the word powerless might be accented on the
last syl- lable with a view to poweiiful. That the ac- tual
practice of emphasis corresponds with this account, the reader may
satisfy himself by observing the conversation of the well- bred, —
not their reading, for that is oflen conducted on mistaken principles : —
and we scarcely need point out how completely this
SECT. 12.] ON RHETOIUC. 2@5 practice accords with our theory
of language. For with us, a sentence is a word, not more resolvabie
into parts that constitute its whole meaning, than a word made up of
syllables ; and as with regard to a word of the latter de- scription,
the accent is determined to one syl- lable by custom, but is disturbed
and placed on another syllable in making allusion to another word
having syllables in common ; so with regard to a sentence (word) made
up of words, the accents are likewise determined to certain words that
usually bear Ihem, but these accents are disturbed and placed on
other words in making allusion to a meaning which has, orwhich, if
expressed, would have, words in common. And here, with this new
kind of proof in favour of our theory, and with the last subject usually
treated of in Rhetoric, we might stop the hand that has traced this
OutHne. But there remain a few remarks that could not be introduced
earlier, for which the patience of the reader is en- treated a little
longer. 226 ON RHETORIC. [CHAP. III. 13. We may
take the liberty in the first place to observe, that, with regard to
the materials of Sematology which have been con- sidered, our
theory leaves them what they were : it pretends only to show the true
basis on which they stand, and that the learned distribution of
them, is not that which accords with the actual practice of mankind.
Suppose then, (if we may suppose so much,) that our Grammars, our
Books of Logic, and our In- stitutes of Rhetoric, are to be altered in
con- formity with the views which have been opened, the changes
will not affect the detail, but the general preliminary doctrine, and
the subsequent arrangement. As to doctrine, the changes will mostly
consist of omissions. In Grammar, if we omit the common de-
finitions of the parts of speech *, and allow * God help the poor
children that are set to learn these, and other of the definitions in
elementary grammars, particularly English grammars; for the Latin
ones are a little more sensible. That jumble of a grammar that has the
name of a Lindley Mturay in the title page, after defining a verb to be
^^ a wend I SF.CT. 13.J
ON RHETORIC. 227 the tyro to learn
what they are by the parsing of sentences — that is, to ascend from
par- ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if no
other part of speech signified to be, to do, or to suffer,) — after
saying what is true enough, but cannot be under- stood by a child till he
has practically discovered it, that " common names stand for kinds
containing many sorts, or for sorts containing many individuals
under them;" — with many like things, picked up from Lowth and
others, equally fitted for the instruction of young minds; condescends to
give a few plain di- rections for knowing the parts of speech, such as
the tyro is likely to understand: but the author, as if ashamed of
having been intelligible, remarks that " the observations wliich
have been made to aid learners in distinguishing the parts of speech from
one another, may afford them some small assistance ; but it will
certainly be mucli more instructive to distinguish them by the
definitions, and an accurate knowledge of their nature" Now the
observations referred to, are, in fact, the only passages calculated to
give a just un- derstanding of the parts of speech ; the
definitions wliich the writer enhances, being founded in an es-
sentially wrong notion of the nature of grammar. It is speaking to the
purpose to tell the tyro that " a substantive may be distinguished
by its taking an article before it, or by its making sense of
itself;"^ that, " an adjective may be known by its making sense
with q2 gSS ON RHETORIC. [CHAP. III.
ticulars to generals instead of descending from generals to particulars,
— there la nothing the wortl thing, or any particular Gubstantive
;" that, " a verb may be diBtinguishcd by its making
sense with any of the personal pronoiuiB ;" that, " a
preposi- tion may be known by its admitting after it a personal
pronoun in the objective case ;" and so forth. These are not only
plain directions for the purpose professed, but they suggest the real
differences among the parts of speech; and if the compiler had
condescended throughout his book (or books, for there are appen-
dages) to adapt his explanations, in the same manner, to the minds of
those who were to be taught, he would have avoided the errors of doctrine
which he always runs into when be attempts to give, what as the
author of an elementary grammar he has never any buaiiiesa to give,
namely a philosophical or general principle. Moreover, in the arrangement
of his materials, he seems incapable of, ot at least is inattentive to,
the clearest and most necessary distinctions. Thus, (to take at
random two examples from liis book of ex- ercises,) he gives the
following as instances of bad grammar : " Ambition is so insatiable,
that it will make any sacrifices to attain its objects." (12mo.
edit, p. 128.) " When so good a man as Socrates fell a victim
to the madness of the people, truth, virtue, re- ligion, fell with
him." (Ibid 116.) The former of these sentences exemplifies the
Logical fault, non- SECT. 13.] ON RHETORIC. 229
in what remains that can be objected to : the declining of nouns,
the conjugatiiig of verbs, scquitur, and the latter will
advantageouBly receive the Rheimcal ornament polysyndeton : but to
give them as instanccB of defective Grammar, b to blind the learner
to the nature of the art he is studying. — The grammatical works wc are
referring to, seem, from the number of editions they have gone
through, to be in very general iise, or we should not have deemed
them worth so long a note. \Ve pass to a remark on another grammatical
work of very different character and value, the Greek grammar of
Matthise. This work has justly won the approbation of the learned
throughout the world; but we conceive the praise belongs to its elaborate
detail, and not to such principles as the following. " Every
proposition, even the simplest, must contain two principal ideas,
namely that of the Subject a thing or person, of which any thing is
asserted in the proposition, and that of the I'redicate, that which is
asserted of that person or thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our
objections to tliis passage is difficult, because we do not know
how the author or translator may define a propositic»i, or what
they may mean by the principal ideas in it. Perhaps they may consider no
expression a proposition which does not consist of a subject and
predicate. Wc deny that, from the nature of the thought, any commu*
nication requires these grammatical parts, {they are A
380 ON RHETOKIC. [CIIAP. III. and the other business
of the grammar-scliool, we deem, as it has always been deemed, in-
dispensable. In Logic, if we omit ail that is taught concerning ideas
independently of words ; if we omit what ia taught concerning the
two operations of the mind, Perception and Judgment distinct from
Reasoning, not because those operations do not take place, but
because every single abstract word fully understood, (and Logic begins
with words,) expresses a conclusion from a rational process as
efTectually as a syllogism ; and if we further omit (and the omission is
important) whatever is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that
remains will, on the principles we have had before us, be essentially
useful to the learner ; namely, the precepts for accurate definition
; the precepts against the assumption of un- warranted premises j
the precepts for guarding against the false conclusions to which we
are merely g^rammalical,) though the necessities of
lan- guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL 25. ; about
the middle of the Section. SECT. 13.] ON
RHETORIC. 231 liable when we reason tvith
words, and not merely by means of words; the precepts for guarding
against being led away by true con- clusions, when there may be
conclusions like- wise true and more important from other data ;
which data, with their conclusions, are, kept out of sight by the art of
the speaker, or . the blindness of the inquirer*. In Rhetoric,
there is less to be omitted than in the other branches ; but in this
department, the general views we have opened are important, because
they exhibit the art in connexion with a great and worthy end; an end
which, it should seem> has not always been thought essential to
it. * We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete
budy of ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ; but tliey
esisE not in any one system. They are more- over BO mingled with what is
erroneous hi doctrine, that the good is difficult to reach, without
imbibing a great many wrong notions that frustrate the practical benefit
How can it be otherwise, if what we have endeavoured to prove, is true,
that the principle of the Logic which all men use and all men operate
witli, has never yet been cxpIaiRvd ? j^P£ ON
RHETORIC. [CHAP. III. For as Rhetoric is an instrumental art,
we are told that it ought to be considered ab- stractedly from the
ends which the speaker or writer may propose in using it j and
Quinctilian who insists that the Orator, (that is, of course, the
consummate orator,) must be a virtuous man, lias been classed with those
whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed ioto a wrong estimate of
the art*. As we think the good old Roman schoolmaster is not quite
beside the mark in his notion on this point, we propose to inquire
wliether the placing of Rhetoric on the basis we have ascertained,
does not lead to the position he so stoutly maintains. Now, the
immediate basis of Rhetoric is Logic ; and our remarks will
therefore begin with the latter. 14. Logic as well as Rhetoric is
an in- strumental art ; but if our definition is correct, it is an
instrument for the discovery of truth, and it is then only perfect as an
instrument when it is completely adapted to that end. • See
Whately's Rhetoric : Introductiun. SECT. 14.] ON
RHETORIC. 233 A great and worthy end is
therefore essential to Logic ; and a correspondent effect will
appear in those who have made a skilful use of it. But the Logic we speak
of, is that which is applied to things, namely to Physicot and Practica
*; that is to say, which is em- ployed to ascertain the constitution of
the world in which we Uve, and of ourselves who live in it, and
thence to deduce what we ought to do: — but the examination of the
world, and of ourselves, and of our duties, is the examination of particulars
; and our Logic has recourse to universals for no other purpose
than to understand particulars the better. If there is a Logic, which,
resting in universals, confers the power of talking learnedly and
wisely, yet leaves a man to act the part of an Ignoramus and a fool in
the commonest concerns of life, this is not the Logic we have had
in view. There is indeed a learned ig- norance, aa there is an ignorance
from want of learning ; there is also an ignorance from * Cumparc
ihc Intioduction. m» ON RHETORIC.
[chap. hi. natural incapacity, and an ignorance
from superinduced insanity ; by any one of wliich tbe mind may be
prevented from reaching truth. Not that in any case whatever the
reasoning process is wrong ; but if the reasoning proceeds on wrong or
insufficient premises, which it will in any of these cases, the
conclusion will of course be wrong. Some one has said that " the
difference between a madman and a fool is, that the former reasons
justly from false data, and the latter erro- neously from just
data." This is incorrectly said : — the idiot who walks into the
water because he knows no better, is incapable of the just datum,
and therefore cannot be said to reason from it : if he knew the
datum, namely that the water would drown him, he would not walk
into it ; but he does not know this, and therefore he walks into it :
in doing which, he reasons, so far as his know- ledge goes, as
justly as the madman, who walks into it because his disturbed fancy
makes him take it for a garden. Wlien the SECT. 14.] ON
RHETORIC. 235 road to truth is blocked up by either of these
two causes, namely irabeciUty or insanity. Logic can do nothing ; but
ignorance whether from wrong learning or from want of learning, is
to be removed by the appUcation of ge- nuine Logic to P/it/ska and
Praclica. Still, independently of tlie toil to be encountered,
there are obstructions and delusions which are liable to turn the most
ardent inquirer out of the path. There may not be natural im-
becility, nor permanent insanity ; yet there may be an habitual
incapacity of judgment from the influence of prejudice, and aa
occasional insanity of judgment from the in- fluence of passion. But
among other things we learn in Pki/sica, these facts are to be
reckoned ; and the precepts which warn us of them, are among the most
important of those which belong to Praclica. In the mean time, that
we may be induced to persevere in the search after truth, till our real
interests become so plain that we cannot but embrace them, we are
not permitted to feel at ease ^6 ON HHETOItlC. [CHAP.
III. under the mists which passion and prejudice create. The
fool and the madman to whom mists are reaUties, are satisfied in their
judg- ments; but it is not so with those who see dimly through the
fog, and suspect there may be better paths than those they are
pursuing. This suspicion, as light breaks in, may at last become
conviction, strong enough to subdue even the habit or inclination by
which a wrong path is made easy, and a departure from it difficult.
True, indeed, such over- powering conviction may not reacii the ma-
jority of mankind at present: they may be compelled, as heretofore, to
wear out life in struggles between right and wrong, between
inclination and duty, between future good and present solicitation : but
are we forbidden to hope, for future generations, a gradual
alleviation of so painful a conflict, in propor- tion as what is good and
what is evil shall be made plainer to the eye of reason • P At
least > * All vice is ignorance or habit. Who would not
take the best way of being happy, if he knew it — that SECT.
H.] ON HHETORIC. S37 may we affirm, that
all learniag has, or ought to have, this consummation in view.
is, knev it to conviction — and his habits did not prevent him ?
But he may discover the best way when hia bahitE are fixed; as a
miEerable dnmkard, who drinks on to escape from utter dcepair, sees with
bitter regrel the happiness of a sober life. With a common notion
of learning and ignorance, an objector will demur to our statement ; but
such an objectot should be told, that a man may have run the circle of
the sciences aa they are commonly taught, and yet remain in ignorance
of what is most important to be known. This is s truth which not only
Christian teachers, but the wise among the heathen inculcate. In that
admirable relic of Socratic philosophy, £;EBHT02 niNAH, there are,
among the personifications, two that bear the names of naiitia and
"Htuimaihla, (Learning and Counterfeit-learning,) by the latter of
which is ligured all that, independently of the knowledge which makes
I men permanently happy, passes under the name of I learning. Now,
in that knowledge which alone ia | valuable, a man cannot be called
learned, whose coik viction is not strong enough to determine his
practice. The thirsty wight Tiho, in a state of profuse perspira*
tion, calls for a glass of iced-water, may know there is danger in the
draught : but if his knowledge is not strong enough to prevent the act,
what is its value ?— at the moment, it is even worse than useless ;
since JiJ SS8 ON RHETOIIIC. [chap.
III. 15. Such then is the aim and scope of Lo- gic in
relation to Physica and Pracika : it is may be sufficient to
disquiet the luxury of the draught, though not sufficient to subdue the
desire for it. When Macbeth, (for the case is not dissimilar,)
resolves to gratify his ambition, he is not ignorant of the danger he
runs, and the secure happiness he leaves behind him ; but he is so far
ignorant as to prefer the phantom of happiness to the reality. Yet he is
not so ignorant as his wife, and he reaps, in consequence, less
immediate gratification. Having once held the balance, with some
impartiality, between right and wrong, he is incapable, even for a
moment, of being a triumphant villain. The crooked-baek Richard, (for
having begun our examples with Shakspeare, we will continue with
him,) is not so distracted by divided data. " Securely
privileged," says Mr. Foster, " from all interference of doubt
that can linger, or hiunanity that can soften, or timidity that can
shrink, he advances with a grim con- centrated constancy through scene
after scene of atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way
through with a bloody ase.' He does not waver while he pursues his
object, nor relent when he seizes it." (Essays on Decision of
Character, &c.) Yet both he and Macbeth's wife at length get nervous in
their sleep : for so it is, that if one scruple of conscience lurk
in the soul, it will produce its effect sooner or later; and tliat effect
will begin when the bodily powers are F
SECT. 15.] ON RHETORIC. ^Q the means of discovering truth in
botli these departments. Now we assume, that the pro- weakest; and
as body and mind have a mutual in- fluence, the former -will sicken and
perpetuate the horrors of the latter, unless, as with Richard, a
violent death intervene. The three wretches vc have thus far
referred to, have this in common, that they do not embrace vice for its
own sake, but as a means of reaching the phantom of happiness that dances
before them. But there is a state of vice brought on by habit, in
which a man finds a pleasure in doing evil, and is in- capable of any
other pleasure. lago is our example — a character which, it is to be
feared, is by no means out of life. Imagine a shrewd and selfish child
per- mitted from infancy to create for himself a satis- faction in
the disquietude of others — a little worrier of defenceless creatures— a
petty tyrant indulged in his worst caprices ; — imagine such a one, as he
grows up, placed where his habits cannot be indulged but in secret,
and where those around him are such, that he must, in his own mind,
either hate them, or hate himself: imagine all this, and lago will appear
too possible a character. Some critics have objected, that there is
no sufficient motive for the mischief he brings on Othello, Desdemona,
and Cassio. Can there be, to Aim, a stronger motive, than that they arc
noble- minded, benevolent, and happy, and tacitly remind him, at
every instant, that he is in all respects a J
240 ON RHETORIC. [cHAP. IIF. per business of Rhetoric is to
make truth known when found j which assumption, if ad- mitted,
would at once establish our position ; for to suppose a consummate orator
would, in such case, be to suppose one who is too fully possessed
of truth not to be led by it himself, while acting as a guide to others.
After ad- mitting the assumption, it would signify little
■wretch? He knows and bitterly feels, tliat each " hath a
daily beauty in his life that makes him ugly-" The only pleasure
which habit has given him, in lieu of those of which it has made him
incapable, is, to torture the beings that wound his self-love to the
quick, and to destroy the happiness he cannot partake in. Such is
the power of habit. Though the means, when properly applied, of putting a
human being in train to become an angel, yet added to, and encouraging
the tendencies of his uninstructed nature, it will render him,
prematurely, a fiend. lago is utterly depraved — a be- ing incapable of
Paradise if placed in it — more odious tlian Milton has been able to
depict even Satan him- self; for that majestic bdng, (the hero of the
poem as Drydeu truly says he is,) never appears " less than
arcliangel ruined. " The " demi-devil " of the dra-
matist, excels, in mental deformity, what the epic muse has been able to
conceive of " the author of all evil. " SECT. 15.]
ON RHETORIC. 241 to object the actual
characters of those who speak and write ; for they may be
pretenders in Rhetoric j or their advance in it, though real, may
be very inconsiderable toward the perfection we are supposing. But it may
be said that the assumption begs the question, and leaves us still
to show that the office of ■ leading men to truth is essential to
Rhetoric, in contradiction to those who view it as a mere instrument
equally fitted for the purposes of truth and falsehood. Now, it must be
con- fessed, with regard to the means employed in Rhetoric, that
they frequently seem adapted to the prejudices of men, — to meet rather
than to oppose their ignorance and their passions. And if there
were any way of conveying truth at once into minds unfitted to receive it
*, the * It is a comiuoii thing to say of a person, that
he vtiU not be convinced. The fact generally stands thus : we use
arguments that convince ourselves, and presume they are fitted to
convince him, not knowing or not observing, that all argument derives its
force &om the previous knowledge in the mind to which it is
addressed ; and that our hearer may have been so 343
ON RHETORIC. [CMAP. III. use of such means would be conclusive
against an honest purpose in the speaker. But the instantaneous
communication of truth, is, un- der most circumstances, impossible ; and
there- fore we may next ask, what interest a writer or speaker can
have in an ultimate purpose to deceive. The answer will be, — to serve
one or other of those partial purposes, of which the common
business of life, whether we look into its private circles, or into the
forum or senate house, furnishes hourly examples. But may we not
describe all this as a conflict, in educated as to render convicUon
impoBsible by iuch arguments as we offer him. Suppose, however, it
be true, that our hearer mill not be convinced, — thai is to say,
does not wish to be convinced, because his par- ty perhaps, or his
profession, or the career (be it what it may) into which he has entered,
does not agree witli what is sought to be established : let us in
candour consider in such a case what a vantage ground we oc- cupy,
inasmuch as we see our own interest, temporal or eterual, coupled with
the proposition in view ; and let us condescend, by the argumeittum ad
homhiem, to give him a similar advant^e, before we expect his
conviction from the argumentum ad judicium. aECT. 16.] ON
RHETORIC. 243 which each is eager to show just so much truth
as suits the present purpose, and to veil the rest? And will not the
whole of truth be shown in this manner, as far at least as men have
discovered it, although not shown at once ? Of these skirmishers that use
the arms ufiensive and defensive of the art, each takes credit for
a certain degree of skill j but among them all, which is thg Orator? Is
it not he who soars above partial views and partial pur- poses, who
unites into one comprehensive whole what others advocate in parts,
who teaches men to postpone petty for greater ad- vantages, and to
seek the welfare of the indi- vidual in the happiness of the kind ? If,
then, the palm of eloquence is permanently his alone, who contends
for it in this manner, our chain of argument will not want many links
before we reach the conclusion, that to undertake the art on a
valid principle, we must con- sider its purpose to be that of leading
men to truth. 16. A Rhetoric growing out of the Logic
i 344 ON HHETOltrC. [^CH AP. HI of
Aristotle *, which, as we have seen, is the art of reasoning mlh words,
and not merely by means of words, may indeed well be sus- pected as
a specious and delusive art. Aim- ing at plausibility alone, it gives the
power of talking largely without requiring the know- ledge which
grows up Irom experience in particulars ; and thus we have
statesmen, who, if we listen to them, are capable of setting the
world in order, but know not how to re- gulate their households ; we have
financiers ready to accept the control of a nation's •
Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work completely to its purpose
; that is to say, fitted to make men prevailing speakers at the time in
wliich he wrote, by exhibiting comprehensively the bearings of the
ques- tions they would have to discuss, and the various kinds of
persons they would have to influence. It is indeed remarkable how little
Aristotle's other works are of a piece with his Logic ; nor is it without
some show of reason that Dugald Stewart supposes he was aware of
its empty pretensions, and was too wise to be deceived by it himself,
though lie chose to impose it on others. Sec Vol. II. of the Philosophy
of the Human Mind, Chap, III. Sect. 3. SECT. 16.] ON
RHETOUIC. 245 wealth, that have never
learaed to manage their own estates; we have lawyers, whom the
simplest questions of right and wrong would be sufficient to pei-ples * ;
and priests who, once a week, discourse " in good set terms
" to well dressed congregations, of vir- tue and of vice, of this
world and the next j but who would be incapable of oifering, from
their own stores, a single argument fitted to deter a plain thinking,
ignorant man from vice, or to stop the commission of a specific
offence by remonstrance adapted to the case. This specious
eloquence, however, like the Logic from which it springs, has almost lost
its re- putation and influence: we now require from speakers and
writers more substantial recom- mendations than the power of dwelling
on vague generalities ; and in proportion as • But perhaps,
with regard to lawyers, we are requiring knowledge, which, as matters
stand, would be an incumbrance to them. A special pleader may Bay,
" what have I to do with simple right and wrong ? My business is to
see how the letter of the law can be applied or evaded."
Mfi ON RHETORIC. [CHAP. III.
genuine Logic enlarges the empire of truth, will the necessity
appear of seeking in an en- lightened mind, and a heart kindled by
active philanthropy, for the true springs of elo- quence. Thus will
ambition be brought to side with virtue} because there will be no
way of winning distinction, but by cultivating the powers of language in
subservience to that knowledge, which gives a man the de- sire and
the faculty of beiug useful to others, and governing himself.
17. To conclude ; — the theory which, in this treatise, we have
endeavoured to establiah is this, — that we come at all our
knowledge by the use of media, which media are, chiefly, words; and
that, as the words procure the notions, the notions exist not
antecedently to language : —that when, by these means, we have
gained knowledge, and try, by similar means, to communicate it to others,
we do not, while the process is going on, represent our own
thoughts, but we set their minds a thinking iu a particular train ; that
our own SECT. 17>3 ON RHETORIC. 247
thought 13 represented by nothing short of the completely
formed word, whose parts, if any or all of them are separately dwelt
upon, are not parts of our thought, but signs of knowledge which we
and our hearers possess in common, and which, by bringing their
minds into a particular attitude, enables them to conceive our thought,
when the whde WORD that expresses it, is formed : — that i§ before
this word is formed, there are parts by which something is Communicated
not known before, yet, being communicated, it is still but a part
of the means toward knowing something not yet communicated, and
stiU, therefore, the principle holds good, that we are adding part
to part of the whole word which is to express something not yet
com- municated ; which word, even though it ex- tend to an oration,
a treatise, a poem, &c., is as completely indivisible with respect to
the meaning conveyed by it as a whole, as is a word which consists
only of a single syllable, or a single sound. If this doctrine truly
de- scribes the nature of the connexion between 248 ON
RHETORIC. [^CHAP. III. thought and language, we claim for it
the merit of a discovery, because the common theory, that is, the
theory which men are presumed to act upon, and to which all pre-
ceptive works are adapted, — not the theory which, unawares, they really
act upon, — ex- hibits that connexion in a very different light.
And, as a discovery, we are the more dis- posed to urge attention to it,
because our soundest metaphysicians have expressed them- selves as
if there 'ooas something to be dis- covered as regards the connexion we
speak of, before a system of Logic could be establisiied on a just
foundation. Locke says that when he first began his discourse on the
Under- standing, and a good while after, he thought that no
consideration of language was at all necessary to it. At the end of his
second book, he discovers, however, so close a con- nexion between
words and knowledge, that he is obliged to alter his first plan ; and
having reached his concluding chapter, he speaks as if he still
felt that he had not yet ascertained the full extent to which language is
an instru- SECT. 170 ^^ RHETORIC.
249 raent of reason. Dugald Stewart, too, from whom,
in the conclusion of our first chapter, we quoted a passage which
entirely agrees, so far as it goes, with the views we have opened,
' has the following remark in his last work, the third volume of
the Philosophy of the Human ' Mind : " If a system of rational
Logic should ever be executed by a competent hand, this ** (viz.
language as an instrument of thought) '* will form the most important
chapter." Our doctrine is, that this will not merely form the
most important chapter, but that it wtU be the only chapter strictly
belonging to Jjo^ I ^c ; and yet the theory we offer keeps deaf of
the extreme which betrayed Home Tooke, who appears to consider reason as
the result of language. We pretend, then, to have inade the
discovery which Locke felt to be necessary, and the nature of which
Stewart more than i conjectured j but oura is only " «?i Outline ;
'* and the system of rational Logic which the Scotch metaphysician
speaks of, yet remains to be "executed by a competent hand:" —
we ON RHETORIC. [CHAP. III. pretend but to have
ascertained for it the true foundation. — Something might be add-
ed on the importance which the subject de- rives from the aspect of the
times : for the most careless observer cannot but remark, how the
rapid communication of knowledge from mind to mind moulds and forms
public opinion ; and how the opinion of the many, ac- quiring, day
by day, a character and a weight that never distinguished it before,
threatens to become the law to which not only individuals, but
governments, and eventually the common- wealth of nations, must conform ;
and hence we might be led to urge that Philosophy cannot be
employed more opportunely, than in a new examination of the instrument by
which so much has been, and so much more is likely to he effected.
The consideration is, how- ever, too obvious not to have occurred to
the reader, and we therefore close our remarks.
CORRIGENDA ET ADDENDA. At page 55, the assertione,
that the words of a sen- tence, " as parts of that sentence'''', and
the sentences of a discourse, " na parts of that
discourse"", are not by themselves significant, would perhaps
sound a little less paradoxical, if, instead of each of the phrases
quo- ted, the reader were to substitute " as parts of that
completed expression ". At page 88, supply the other
parenthetical mark after " imderstanding" in line 4.
At page 196, line 6, the question is asked, whether the juryman
must go to Aristotle, and be taught to compare the middle with the
extremes ? The reader will observe that the example is already farced
into a form, namely that of a syllogism in barbara, which a juryman
untaught by Aristotle would probably never think of giving it, the other
way of speaking being by far the more obvious, viz. To kill a man maliciously
is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore A. B. is guilty of
murder. Here, instead of the Aria- totclian names major and minor, we
prefer calling the first proposition the datum, and the second, with
re- ference to the datum it is addressed to, the argument ; and the
truth of the argument having been proved by testimony, we atfirm that the
conclusion is as evident as a conclusion can be, and that the
Aristotelian formula is a needless and puerile addition to a
process already complete — a proof of what is proved : — it is a
use of language for the purpose of reasoning which does not identify
with, but goes beyond, and childishly 252
CORRIGENDA ET ADDENDA. refines upon that use of
language in which the logic of mankind at large consiets. The
doctrine of the whole work may receive some light from the following way
of stating it : — Man, in common with other animals, derives immediately
from nature the power to express hie immediate, or, as they are
commonly called, his natural wants and feelings. But he also possesses
the power of inventing or learn- ing a language which nature does not
teach ; and it is solely by the exertion of this power, which we
call reason, that he raises himself above the level of other
animals. By media such as artificial language consists of, and only by
such media, he acquires the knowledge which distinguishes him from other
creatures ; and each advance being but the step to another, he is a
being indefinitely improveable. But if words are the means of knowledge,
it is an error to describe or con- sider them in any other light ; and we
accordingly deem them not as, strictly speaking, the signs of
thought, but as the means by which we think, and set others a thinking.
This principle being admitted, ren- ders unnecessary Locke's doctrine of
ideas ; and Se- MATOLOGY Stands opposed to, and takes the place of,
what the French call Iuealogy, With respect to these addenda,
should the reader ask, whether they are to be esteemed a part of
our WORD, we answer in the affirmative. We imagined our woED
complete ;- — if, on fiirther consideration, we had supposed so, we
should not have added another SYLLABLE : {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.)
G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl, SkJnnsi Street, Londoo. Giuseppe
Capocasale. Keywords: sematologia, la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a
tear’ may be a sign of sadness – or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but
the kind of sign that an idea or conception of the soul, or ‘rivelazione’ of
the animus -- are related with are arbitrario – ad placitum -- arbitrary, not
necessarily a natural causal sign or nature. The correlation between the
segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic, arbitrary, arbitraria,
associative, associative, etc. A sign is not essentially connected with the
purpose of communication (smoke means fire, spots mean measles, a tear means
love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such – a theory of
communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the intricacies
of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because he is not
interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrima’ being
a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The
Swimming-Pool Library
Grice e Capocci – significare e santificare – il
sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo. Grice: “I like Capocci; he was a
Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely
they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the
Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da
Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a
Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo
saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce
i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre
opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de
peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply
sins beyond necessity --. Dizionario
Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con
un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two
manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale
di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, cod. 743, both of
which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum
distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris, Fratrum
Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi Neapolitani. D. AMBRASI, La
Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101...
D. GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo, “ Analecta
Augstiniana ”, XVI, 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones
Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli
Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor
Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine
christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum
Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious
attention to determining the status of theology as a science and to specifying
its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III,
q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative
science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the
end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God.
The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which
Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For
philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship
is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there
can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without
love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of
the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most
beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making
him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy
as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is
a difference, James contends, in the way in which a science based on natural
reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so:
sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which
James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the
ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The
proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest
being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers
being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or
of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for
metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology
considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p.
20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between
natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction
between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of
friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which
we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone
well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of
desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of
friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia,
friendship involves a form of community or sharing between the friends that
cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James
concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by
natural means, it is possible through the gift of grace. The particular
friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of
charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since
the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's
ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would
do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37)
and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,”
i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can
or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions:
can God add an infinite number of created species to the species already in
existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form
(Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a
substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of
a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the
first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion
of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power
add an infinite number of created species ad superius, in the
ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency.
God cannot, however, add even one additional species of reality ad
inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this
exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and
leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James
is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the
arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of
form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can
reasonably be held, because each argues from a different (and valid)
perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of
reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a
contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter
exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot
make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the
perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they
rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly
or wrongly) that making matter exist without form is among those things
exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question
James considers is whether God can make an accident subsist without a subject
or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute
accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the
remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents
exist without a subject in which they inhere, for this would entail a
contradiction. This is so because relations for James, as we will see in section
3.3 below, are modes, not things. What about absolute
accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some
quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension
and color, a view for which he attempts to provide a philosophical
justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of
existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers,
place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of
independent existence; extension, however, is and so can be made to exist
without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat
surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas
extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture,
necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that
just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too
must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which
it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is
determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not
they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is
a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to
parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and
weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in
principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question
James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem
of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully,
claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the
issue (non determinando sed investigando). The upshot of the
investigation is that although there are many good reasons (the soul's
immortality, its spirituality and its per se existence) to
say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter,
in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility
must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de
facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter,
but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something
to come to existence through generation and confer immortality upon it (James
is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to
pass that souls are produced through generation without being subject to corruption.
Likewise, although it appears inconceivable that something material could
generate something endowed with per se existence, it is not
impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an
accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God
is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas
corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not
subject to change, the ideas must be eternally present in him, although
creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course
raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of
success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas
with God's unity: since there are many species of being, there must be a
corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any
multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the
ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one
denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as
exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to
them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential
solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that
divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is
capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his
essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct
from the essences of the things God creates (De veritate, q. 2, a. 3).
One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of
James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio
in Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with
the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can
be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God
knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the
essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God.
James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's
intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and,
secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means
of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as
necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67),
“if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than
him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which
must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing
cannot be understood.” But James also thinks that the necessity of
positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence.
God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge
must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James
is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a
thing's cause. That means that God knows things through his own essence.
However, he does so by knowing his essence as a cause, and
that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”.
Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's
essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note,
as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of
this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse
essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res),
is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only
determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63,
60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from
God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did
consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be
viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine
unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was
debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all
commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either
merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name
is predicated of wholly different things, without there being any objective
basis for the application of the common name; such is the case -of equivocal
names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on
some essential resemblance between the many things to which
a particular concept applies, in which case the concept applies to these many
things by virtue of the self same ratio and is said of them
univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which
it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio),
but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related
in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this
way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which
it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia
attributionis). James believes that it is according to this sense of
analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident
(Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80).
For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures
by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first
of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of
posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a
prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason
why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is
that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only
being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the
distinction between being and essence occurs in the context of a question that
asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not
different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds
it difficult to see how one could account for creation if being and essence
were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of
the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors
does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the
views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction
is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence:
what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes
essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in
the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his
mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to
either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the
distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but
in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between
things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary
signification, it follows that essence and existence are primarily and
absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct.
Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless
James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq.
11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of
relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations,
he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such
diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12,
300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole
of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses
exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist”
solution, which was to exercise considerable influence among late
thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry
about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to
whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely
through the operation of the intellect, like second intentions (species and
genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as
Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a
work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support
of the view that relations are not real, one may point out that the intellect
is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the
relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything
real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if
so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation
involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which
relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change
taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance,
a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories
that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view
commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist
solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is
also determined by the relations those things have to each other; hence, those
relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct
from their subjects in the way in which things are distinct from each other,
assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie
somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that
relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a
certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a
thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason
“it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this
last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing,
the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a
thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of
its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation
of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and
thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are
not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that
they are modes of being of their foundations. “The mode of
being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33,
745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality,
as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being
equal to another is clearly something distinct from the number itself. The
number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James;
they are not, however, two things; they are two in the sense that
one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In
making relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James
discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21
and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment,
because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief
remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain
similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how
they fit into an overall theory of individuation.The question James faces
in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely
whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would
be numerically the same as he was before. In order to answer that question,
James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical
unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to
that question and James provides a short account of each. Some philosophers
have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to
matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally,
others have turned to form as the cause of individuation. According to James,
each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more
precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by
‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact
of something's being singular, or we can point to a thing qua “something
complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21,
227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and
form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing
on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the
“substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by
quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section
7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all
the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of
Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of
“propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and
volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of
propensities in the intellect in Section
5, and his doctrine of propensities in the will in Section
6. In this section, we present James' arguments in favor of
seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal
reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine. Although
James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including
his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian
convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II,
q. 5. The question he raises there is not so much whether there are
seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II,
q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A
seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an
inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the
discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the
first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in
matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a
“middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms
are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which
all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present
in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the
potency of matter is something distinct from matter itself.
One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the
taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency
is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is
distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct
or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter.
However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it
adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form);
second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it
lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has
the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone
is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order
for something to be in potency toward a particular form it must both lack that
form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his
views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of
the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the
aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of
potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect
toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James'
position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term
“aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help
of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain
incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James
tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things.
What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but
in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be
leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious
of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the
production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting
that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of
change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III,
q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving
subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it
results rather from an agent's making that which is in potency to be in act.
For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of
matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The
activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or
tendency to attain its completion. Generation thus requires two things
(besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an
extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion. James'
doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early
fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from
Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e.,
attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who
argued against James' distinction between the potency of matter and potency.
But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian
Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James'
doctrine of cognition must also be understood in the context of his
thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late
thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According
to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's
form or essential information from the image or representation of that thing.
The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species,
which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual
understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of
Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the
information coming in through the senses is related to a thing's accidental
properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses
produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although
James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and
believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he
had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view
of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view
that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts
the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly
the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect
because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token,
one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in
potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no
proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an
agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from
the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be
required for the cognition of all intelligibles, not just a
certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required
not only in the present life but also in the afterlife. But of course that
would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only
necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is
joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the
distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of
Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De
anima itself, though, as he would mischievously point out, it was
difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its
formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied
that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul,
but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I,
q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency,
active and passive, but one could account for its having these contrary
properties without resorting to the two intellect model. This is because
intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an
active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent
action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the
intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete
actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion,
much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both
discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary
on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was
described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific
(equally innate) propensities, the number of which was a function of the number
of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a
general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to
the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are
founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII,
q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although,
as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and
possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the
area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the
soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think
of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being
motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of
the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally
authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of
Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three
powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so
believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's,
who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural
capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality,
in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of
accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied
by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its
supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to
find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure
as Master at the University of Paris, the majority view was very much that
there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics
whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and
Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority
position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry
of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not
really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles,
and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160,
70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning
was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction
between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an
occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction
between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the
existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent
act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power,
as able to produce that act), since the power in act is really the same as the
soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really
distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of
Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on
Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not
really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are
intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized
forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the
soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance
to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will
is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus
of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers,
usually involved showing that its act is independent of the apprehension and
judgment of the intellect. Although the scholastics generally
granted that a voluntary act results from the interplay between will and
intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the
principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the
sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends
to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey
of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive
motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims
to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II,
q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can
be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl.
I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will
is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will
only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is
compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by
another. As we saw in the previous section, James believes that the soul
is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates),
which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the
soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p.
92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither
a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with
Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the
thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion:
efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing
that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion
occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved.
Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather
heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example
of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first
kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an
incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external
mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the
presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends
to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis
mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as
an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that
is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it
and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's
proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo
holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions
or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of
the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are
what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and
temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral,
partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17
James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound
Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it,
Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of
the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and
this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence,
prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral
virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is
connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl.
II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians
had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than
himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early
thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his
pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in
fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas
Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued
further that to deny man the natural capacity to love God more than himself,
while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the
operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to
the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy
it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II,
q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally
loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne
1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle
that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and,
hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of
numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain
conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates,
but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form.
But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than
the being it has by reason of something it shares with another. And given that
the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is
more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20,
p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired
thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates
nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of
the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire,
grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we
love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying
good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only
elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object
loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James
is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates
nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God,
not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural
state man loves himself more than God. James'
opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the
love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such
authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him
vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although
James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see
Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De
regimine christiano (On Christian Government), written in
1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of
France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often
compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica
potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the
most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century;
indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to
formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and
ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv).
However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to
the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De
regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing
with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for
James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the
Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and
longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the
pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II,
chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted”
by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the
spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that
spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been
two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called
“dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power
derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the
spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica
potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and
is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual
power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine
christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often
does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say
that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way
of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the
spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever
solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural
inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was
acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection
to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles
of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal
power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its
subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his
papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the
relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution
lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his
efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the
spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to
color, he explains that although “color has something of the nature of light,
(…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent
light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it
cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words,
James is telling us that although temporal power does originate in man's
natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the
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da Viterbo. L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente ARTE
L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente di Federico
Nozza|Pubblicato 02/07/2021|1 commento Nell’arte cristiana occidentale,
ma anche in quella orientale, l’elemento dell’aureola costituisce sicuramente
uno degli attributi iconografici più riconoscibili. La sua immagine
identifica subito la rappresentazione di un Santo, di Cristo stesso, ma anche
della Madonna. Può essere crocesegnata(ossia dotata di croce), per esempio
nelle rappresentazioni di Cristo, oppure semplice, come nei santi. Come
elemento figurativo, la sua origine è stata codificata iconograficamente fin
dagli albori della figuratività cristiana, ovvero nel IV secolo.
Gli esempi del Mausoleo di Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale
a Ravenna (IV e VI sec.) Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad
esempio, i due mosaici delle calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a
Roma. Si tratta di un cimelio architettonico costruito attorno alla metà del IV
secolo per la sepoltura della figlia di Costantino. Nei due mosaici,
parzialmente restaurati e tra i pochi ad essersi conservati delle volte, si
trovano due rappresentazioni di Cristo. La prima lo vede seduto sul Globo,
mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a Pietro (traditio
clavium). La seconda, invece, lo identifica giovane e apollineo mentre si
erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden, consegnando a Paolo
la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In entrambe le
rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi di
iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola
blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura
un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo
nella dimensione del trascendente. Traditio clavium (a dx) e traditio
legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a
Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i
sovrani-imperatori stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da
aureola, come negli straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della
chiesa di San Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI
secolo, raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano
e della moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata.
L’imperatrice Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due
mosaici del presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo)
Entrambi gli esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle
origini del Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae)
un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa. I
primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca
un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel
Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che
affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti
altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate
ben prima della nascita del Cristianesimo stesso. Tale scelta
figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.
Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere
rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce
funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la
natura divina. Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è
quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e
inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il
disco solare ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del
sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.
Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di
Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora
una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di
aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra.
Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o
Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è
costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi
monoteista), detto appunto Mitraismo. Nella fase imperiale soprattutto,
il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e
poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare
però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle
rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi
iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante.
Rappresentazione di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un
simbolo trasversale della divinità tra Occidente e Oriente Possono forse
essere questi i primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola?
Ben presto questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in
molte altre religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata
all’efficacia visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato
riferimento alla dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel
Cristianesimo, questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali,
trasmesso anche ad altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo.
Sotto questo profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi
secoli in cui l’iconografia cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo),
l’adozione dell’aureola come attributo iconografico si manifesta anche in
diverse rappresentazioni buddiste in area cinese. Come si spiega questo
utilizzo pressoché contemporaneo dell’aureola come attributo figurativo del
divino, in due religioni così distanti e appartenenti a mondi diversi? La
chiave di volta è costituita ancora dal Mitraismo. Reliquiario di
Bimaran, I sec. d.C. circa Il Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere
infatti la trasmissione di tali scelte figurative tra la cultura latina e
quella asiatica, occorre risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando
gli Indo-sciti (popolazioni nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo
zoroastrismo e con lui il Dio Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni
dell’Impero Kusana (originario dell’attuale Afghanistan), invasero e
conquistarono alcuni territori degli attuali Pakistan e India. Portarono
dunque con sé e trasferirono alle popolazioni conquistate alcuni tratti
della loro cultura e della loro religione, tra cui anche il Mitraismo con i
rispettivi attributi iconografico-rappresentativi. Nella latinità
mediterranea, dunque, l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente
quella cristiana. Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale,
la medesima iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni
orientali (Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le
quali anche il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come
testimonia il celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il
Pakistan), databile al primo secolo d.C. Dipinto cinese
raffigurante Buddha (al centro) Ci sono poi altre importanti manifestazioni
figurative del Buddismo, quali ad esempio alcune statue di Buddha risalenti al
II sec. d.C. e oggi conservate al Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse
pitture cinesi raffiguranti Buddha sempre con il capo circonfuso da
aureola. Insomma, dalla pur brevissima disamina effettuata, ci si rende
conto di quanto la cultura occidentale e quella orientale, dopo tutto, non
siano poi così distanti. In questo senso, le testimonianze figurative nate
dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne costituiscono un memorandum
preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola
segno naturale della santita. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690793992/in/photolist-2mKJQb5-2mKTt9f
Grice e Capodilista -- in principio era la conversazione – filosofia
fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Grice: “I like
Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to
comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to
exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his
philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione –
metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità.
Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio
nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il
ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto
fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del
rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto
all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la
convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere)
alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno
dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione
all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi --
della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella
collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la
autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la
libertà di coscienza. I etruschi sono
nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa
azione originaria. Perché in ogni fede
vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei
romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi
scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi
estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come
l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio
se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più
mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire
in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna)
del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che
abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella
sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli
intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della
sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità,
conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio
unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se
stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A
noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di
distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra
assolutezza. Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei
ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra
memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo,
cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.
La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la
lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e
abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un
pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario,
individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure.
Nessuno scrive per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero
essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà
altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in
quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora,
con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal
soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione,
in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto
che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi.
Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e
vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è
l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970) L’eco è la voce del nulla, la
parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra
parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che
non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970) Tutto ciò che pensiamo o scriviamo
è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che
il proprio nulla. (Q. 336, 1970) L’arte dello scrivere è l’arte di far
dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la
loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e
tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione,
che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità
dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un
organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del
verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la
diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità,
sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme
della frase, del discorso. (Q. 340, 1971) Forse il nostro nome è soltanto
uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il
vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto
gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di
un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà
suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una
realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. (Q. 244,
1971) Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di
formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche
verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione
dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono
relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa
ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale.
(Q. 347, 1972) Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario
Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un
parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla
propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche
la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La
coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per
affermarsi o per smentire? (Q. 347, 1972) La nostra scrittura è
geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole
esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di
originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La
parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e
perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che
vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età
dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid
al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una
metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi
alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. (Q. 355,
1973) …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile
conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza,
l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua
attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo
fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359, 1973) L’arte dello
scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa
diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli
sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la
semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e
il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975) Soltanto l’inesprimibile è degno di
un’espressione… (Q. 372, 1975) La parola è un irrazionale ed è strano che
essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la
razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha
identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero
aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni
significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero
successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il
numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie
infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è
essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q. 372, 1975) … Noi
parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio… (Q.
372, 1975) L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile…
(Q. 381, 1977) Parola L’aforisma e l’ironia sono una professione di
scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi,
la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la
scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9,
1921) Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza?
Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però
che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza;
quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come
un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929) La
quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è
inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono
scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per
l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Il caso della vendita della
Palladiana Villa Emo a un magnate straniero By Redazione - 6
febbraio 2019 SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI
CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE
AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE. La vendita della Palladiana Villa
Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata lunedì 28 gennaio. Il
consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la
proprietà dal 2004 (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo
erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino
e ha deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero. IL
PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di
credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa)
di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato
stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un
privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa
(Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di
cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla
banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione-
non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di
amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche
alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della
transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto
dal D.lgs. 42/2004 a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre
competenti autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’
come una beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter
investire nel mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i
restauri di cui gli affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più
lontana appare l’ipotesi che possa farsene carico un ente pubblico. LA
STORIA La storia recente del resto lo conferma: dopo il commissariamento
(seppur temporaneo) da parte di Bankitalia nel 2014, la fondazione
appositamente creata per la gestione della villa ha dovuto dire addio ai 325mila
euro annui che Credito Trevigiano versava. Insufficienti i proventi derivanti
da bigliettazione e affitto degli spazi. Così i bilanci in perdita, primi
licenziamenti per il personale della fondazione, le dimissioni, nell’ottobre
scorso del presidente Armando Cremasco. Poi, reciproche accuse tra parti, la
preoccupazione del sindaco, la petizione “No alla vendita di Villa Emo a
Fanzolo di Vedelago” su change.org che raggiunge in pochi giorni quota 975
firme. Tentativo inutile ma che tocca, negli intenti, un nodo fondamentale
della vicenda: i firmatari sono soci, clienti della banca e semplici cittadini
che riconoscono in Villa Emo il bene più rappresentativo della loro comunità.
Un bene acquisito da una banca strettamente legata al territorio e che su di esso
ha come stesso suo mandato quello di reinvestire. Una banca della comunità in
cui però la comunità, a seguito di questo atto, non si riconosce più. IL
CASO DI VILLA EMO Il caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti
nell’inarrestabile processo di alienazione del nostro patrimonio storico.
Perché agitarsi tanto se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi,
la magnate cinese Ada Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a
Piombino Dese (Padova) e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande?
Perché forse, per fare un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe
d’un corretto approccio, di una corretta lettura, esercitando invece proprio il
diritto a una non generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel
nostro paese sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione,
gestione strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare
sistema”. Anche il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla
cronaca locale) si presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni
filologiche in rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora
accessibile?) agli immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia
spesso apparentemente inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener
desta per un po’ l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra
solamente una sola, nuda verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a
proporre a parole soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo
stati capaci di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto
qualcosa che appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il
nuovo proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo
risolvere il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per
nulla”. – Veronica Rodenigo Wikipedia article Villa Emo is one of the
many creations conceived by Italian Renaissance architect Andrea
Palladio. It is a patrician villa located in the Veneto region of northern
Italy, near the village of Fanzolo di Vedelago, in the Province of Treviso.
The patron of this villa was Leonardo Emo and remained in the hands of the
Emo family until it was sold in 2004. Since 1996, it has been conserved as
part of the World Heritage Site »City of Vicenza and the Palladian Villas
of the Veneto«.[1] History Andrea Palladio's architectural fame is considered
to have come from the many villas he designed. The building of Villa Emo was
the culmination of a long-lasting project of the patrician Emo family of
the Republic of Venice to develop its estates at Fanzolo. In 1509, which
saw the defeat of Venice in the War of the League of Cambrai, the estate on
which the villa was to be built was bought from the Barbarigo family.[2]
Leonardo di Giovannia Emo was a well-known Venetian aristocrat. He was
born in 1538 and inherited the Fanzolo estate in 1549. This property was
dedicated to the agricultural activities that the family prospered
from. The Emo family's central interest was at first in the cultivation
of their newly acquired land. Not until two generations had passed did
Leonardo Emo commission Palladio to build a new villa in Fanzolo.
Historians unfortunately do not have firm chronology of dates on the design,
construction, or the commencement of the new building: the years 1555 or
1558 is estimated to have been when the building was designed, while the
construction was thought to have been undertaken between 1558 and 1561.
There is no evidence showing that the villa was built by 1549: however, it
has been documented to have been built by 1561. The 1560s saw the interior
decoration added and the consecration of the chapel in the west barchesse
in 1567.[1] The date of completion is put at 1565; a document which attests
to the marriage of Leonardo di Alvise with Cornelia Grimani has lasted from
that year.[3] Partial alterations were made to the Villa Emo in 1744 by Francesco
Muttoni. Arches within both wings that were close to the central build were
sealed off and additional residential areas were created. The ceilings
were altered in 1937–1940. The villa and its surrounding estate were purchased
in 2004 by an institution and further restorations were made. Since
1996, it has been conserved as part of the World Heritage Site »City of Vicenza
and the Palladian Villas of the Veneto«.[1] The villa is at the centre
of an extensive area that bears centuriation, or land divisions, and extends
northward. The landscape of Fanzolo has a continuous history since Roman
times and it has been suggested that the layout of the villa reflects the
straight lines of the Roman roads.[2] Architecture Marcok /
it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] The main building (casa dominicale). Villa Emo
was a product of Palladio's later period of architecture. It is one of the
most accomplished of the Palladian Villas, showing the benefit of 20
years of Palladio's experience in domestic architecture. It has been
praised for the simple mathematical relationships expressed in its proportions,
both in the elevation and the dimensions of the rooms. Palladio used
mathematics to create the ideal villa. These «harmonic proportions» were
a formulation of Palladio's design theory. He thought that the beauty of
architecture was not in the use of orders and ornamentation, but in architecture
devoid of ornamentation, which could still be a delight to the eye if aesthetically
pleasing portions were incorporated. In 1570, Palladio published a plan
of the villa in his treatise I quattro libri dell'architettura. Unlike some
of the other plans he included in this work, the one of Villa Emo corresponds
nearly exactly to what was built. His classical architecture has stood
the test of time and designers still look to Palladio for inspiration.[1]
Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of
the villa and its estate is strategically placed along the pre-existing
Roman grid plan. There is a long rectangular axis that runs across the estate
in a north-south direction. The agricultural crop fields and tree groves
were laid out and arranged along the long axis, as was the villa itself.[1]
The outer appearance of the Villa Emo is marked by a simple treatment of
the entire body of the building, whose structure is determined by a geometrical
rhythm. The construction consists of brick-work with a plaster finish, visible
wooden beams seen in the spaces of the piano nobile, and coffered ceilings
like that within the loggia. The central structure is an almost square residential
area.[4] The living quarters are raised above ground-level, as are all of
Palladio's other villas. Instead of the usual staircase going up to the main
front door, the building has a ramp with a gentle slope that is as wide as
the pronaos. This reveals the agricultural tradition of this complex. The
ramp, an innovation in the Palladian villas, was necessary for transportation
to the granaries by wheelbarrows loaded with food products and other goods.
The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a column portico
crowned by a gable – a temple front which Palladio applied to secular
buildings. As in the case with the Villa Badoer, the loggia does not stand
out from the core of the building as an entrance hall, but is retracted into
it. The emphasis of simplicity extends to the column order of the loggia,
for which Palladio chose the extremely plain Tuscan order.[2] Plain windows
embellish the piano nobile as well as the attic. The central building
of the villa is framed by two symmetrical long, lower colonnaded wings, or
barchesses, which originally housed agricultural facilities, like granaries,
cellars, and other service areas. This was a working villa like Villa Badoer
and a number of the other designs by Palladio. Both wings end with tall
dovecotes which are structures that house nesting holes for domesticated
pigeons. An arcade on the wings face the garden, consisting of columns
that have rectangular blocks for the bases and capitols. The west barchesse
also contains a chapel. The barchesses merge with the central residence,
forming one architectural unit. This typological format of a
villa-farm was invented by Palladio and can be found at Villa Barbaro and
Villa Baroer.[1] Andrea Palladio emphasises the usefulness of the
lay-out in his treatise. He points out that the grain stores and work areas
could be reached under cover, which was particularly important. Also, it
was necessary for the Villa Emo's size to correspond to the returns obtained
by good management. These returns must in fact have been considerable,
for the side-wings of the building are unusually long, a visible symbol
of prosperity. The Emo family introduced the cultivation of maize on
their estate (and the plant, still new in Europe, is depicted in one of
Zelotti's frescoes). In contrast to the traditional cultivation of millet,
considerably higher returns could be obtained from the maize.[5] It is not
clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the
front of the house, served a practical purpose. It seems to be a
fifteenth-century threshing floor.[6] However, Palladio advised that
threshing should not be carried out near a house. Hans A. Rosbach [CC
BY-SA 3.0] Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall
Frescoes Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The exterior is simple,
bare of any decoration. In contrast, the interior is richly decorated
with frescoes by the Veronese painter Giovanni Battista Zelotti, who also
worked on Villa Foscari and other Palladian villas. The main series of frescoes
in the villa is grouped in an area with scenes featuring Venus, the goddess
of love. Zelotti appears to have completed the work on the frescoes by
1566.[1] In the loggia, the frescoes have representations of Callisto,
Jupiter, Jupiter in the Guise of Diana, and Calisto transformed into a Bear
by June. The Great Room is filled with frescoes that were placed between
Corinthian columns that rise from high pedestals. The events in the frescoes
concentrate on humanistic ideals and Roman history alluding to marital
virtues. Exemplary scenes include Virtue portrayed in a scene from the life
of Scipio Africanus. On the left wall is the scene of Sciopio returns the
girl betrothed to Allucius and the right wall a scene showing The Killing
of Virginia. The sides of these frescoes have false niches that consist
of monochrome figures: Jupiter holding a torch, Juno and the Peacock, Neptune
with the Dolphin, and Cybele with the Lioness. These figures allude to the
four natural elements (fire, air, water, earth). Side panels contain enormous
prisoners emerging from the false architectural framework. On the south
wall of the great hall toward the vestibule is a false broken pediment that
appears above a real entrance arch. A fresco of two female figures, Prudence
with the Mirror and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at
the center of the upper part of the building contains the crest of the Emo
Family. It is carved and gilt wood, surrounded by trompe-l'œil cornices and
festoons.[1] To the left of the central chamber is the Hall of Hercules.
It contains episodes referring mainly to the mythological hero. The intent
was to emphasize the victory of virtue and reason over vice. The frescoes
are inserted in a framework of false ionic columns. The east wall contains
scenes of Hercules embracing Dejanira, Hercules throwing Lica into the
sea, and The Fame of Hercules at the center. The west wall is Hercules at
the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the
doorway that depicts a Noli me Tangere («Touch Me Not») scene.[1] To
the right of the central chamber is the Hall of Venus. This hall contains
episodes that refer to the Goddess of Love. On the west wall within false
arches are the scenes of Venus deters Adonis from Hunting and Venus aids the
Wounded Adonis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south
wall is a panel above the doorway that shows Penitent St. Jerome.[1]
The Abstinence of Scipio appears frequently in cycles of frescoes for
Venetian villas. For example, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and
Villa Cordellina in Montecchio Maggiore, built nearly 200 years later, also
use this image, fostering ideals which, had in the 15th and 16th centuries,
resulted from the renewed discussion of the depravity of town life, in
contrast to the tranquility, abundance, and freedom of artistic thought
associated with rural existence. Hence, another room in the villa is
called the Room of the Arts, featuring frescoes with allegories of individual
arts, such as astronomy, poetry or music.[7]Within the many frescoes are depictions
of different flowers and fruit, including corn, only recently introduced
into the Po Valley. Many of the frescoes are presented within false architecture,
like columns, arches and architectural framework.[1] Media Markhole
[CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org
[CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was
featured in Guide to Historic Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's
three-part six-hour production for A&E Network. The 2002 movie
Ripley's Game used the Villa Emo as a location.[9] References ^ a b c d
e f g h i j kThe City of Vicenza and The Palladian Villas in the Veneto: A
Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of
Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a
b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009).
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English and Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea
Palladio, accessed September 2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob
Vila's Guide to Historic Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News«
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Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of the City of
Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell, Stephen R. (Fall 2018). »Andrea Palladio
(1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222. Beltramini, Guido (2008).
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(1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New
York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold (2002). 'The Perfect House: A Journey
with Renaissance Master Andrea Palladio. New York: Scribner. Wundram, Manfred
(1993). Andrea Palladio 1508-1580, Architect between the Renaissance and
Baroque, Cologne, Taschen. Andrea Emo
Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la conversazione,
filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone
Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777342436/in/dateposted-public/
Grice e Capograssi – gl’eroi di Vico –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Grice: “I love
Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a
philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to
the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as
we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious
philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the
greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian
than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della
Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era
trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del
vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già
affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società
e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a
Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen
avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale,
non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa
Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale
che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione
kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi
presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si
fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione
è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p.
24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo
Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde
«il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e
aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste
(indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma,
oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività).
Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il
diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si
può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato
(e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di
Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese
lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e
l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i
suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8
pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e
potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere,
cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24.
Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura
del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa
funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza
di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del
giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su
valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle
ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale
e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del
giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare
dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che
Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI,
KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA.
Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo
giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars
destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen
tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello
stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un
saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa,
libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera,
critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars
destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e
persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i
reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il
lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così
bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che
ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e
che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più
problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono
più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è
sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e
distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con
tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere. Il diritto come concepito e teorizzato dal
Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica,
il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire
qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non
ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo
dovere non ha nulla del dovere reale. E
afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale
del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale
del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella
del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove
dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria
generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della
vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme
valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma
fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con
procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non
si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è
stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a
prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il
fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo
fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo
senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della
forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi
contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma
fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio
perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a
dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione perfetta»
tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del
diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza»,
come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie»
che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare
della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma
fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si
è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle
norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto
naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa
capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza
organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma
riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme
con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo
libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i
bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi:
non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote,
terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse
preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini
vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto,
come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal
Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi».
2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla
concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto
oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma
convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del
Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi
indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza
del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla
cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota
forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua
integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere
perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto
quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete
nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno
più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza
del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si
compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui
che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva
partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di
chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello
che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del diritto” si
legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso
che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente, perché fa il suo
cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea
viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e
particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea viva del diritto» si
forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita
stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e
determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue
molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre, soffermandosi
ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana
che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il
monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva
che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo
all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36].
In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità
dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile
separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’
“oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto
estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi,
intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura
dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che
è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati
della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39]. E
l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza
intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza
formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che
«vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli
“Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3.
– Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti
significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti
saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico”
(ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico
kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere
il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41],
si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il
linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un
elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una
«situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che
preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti
dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a
parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di
Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello
stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto
e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la sfida più radicale ed
invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del
“nichilismo giuridico” (più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”,
riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona,
“Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal “nichilismo
giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo
visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48],
risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel
merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale Severino ed
il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla
tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente»[50].
Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra
una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i
valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano
l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante
tra tutti gli ospiti»[52]. Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”,
scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e
Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il
funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende
più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza
delle procedure proprie di ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che
«la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la
volontà che regola ogni altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la
potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare
indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di
sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un
simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale
tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più
acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e
“liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso
Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma
soltanto variazioni di quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro
grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non
su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che
viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia
globale»[58], i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e
politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone
in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della
globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo»
delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di
“confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il
capitalismo mercantile[59]. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e
della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti
ineluttabili da Emanuele Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un
vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del
diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti,
poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono
pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la
disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61].
Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è
«l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e
costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano,
“capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen –
che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi
ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si
svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e
nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre
l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il
filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico,
“Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia
contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e
dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una
concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese
del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto
importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha
giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina
adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di
contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale
crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti
pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”,
come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo
autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella
sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica
di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua
produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così
la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione
servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica
diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare
alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in
questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado
quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione
della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque
molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei
sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”,
per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne,
all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici,
tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene
altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti
fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test
permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti.
E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La
politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il
diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di
valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte
tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che
senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e
può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di
lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e
degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al
formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più
significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa,
per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la
storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il
diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche
perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta,
è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto
all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del
diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che
«quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non
fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che
l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto
globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e
massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia»
e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende,
nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi
internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi
a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di
pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni
su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4,
767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General
theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr.
it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI,
Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano,
1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314.
Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo
gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della
conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di
A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale
di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e
gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che
«la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in
molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di
determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro
ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il
concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale,
lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A.
PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su
quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed
ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 =
http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm
ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale
del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10]
V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13]
V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss.
Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione
formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma
fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto
statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso
materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un
insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si
osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la
modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in
quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in
particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è,
ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione
materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl
Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno
degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della
Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione
materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e
S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e
dello Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt.
1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro
aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed
appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che
l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la
forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla
prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è
l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale
della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso
sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso
fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto;
gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la
norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema
delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto
della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in
sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi
via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non
è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare
volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con
più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi
e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più
razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p.
335). [28] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347.
[29] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351.
[30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V.
G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G.
CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con
introduzione di Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della
scienza del diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della
scienza del dirittv btg55zo, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni
su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op.cit., 354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op.cit., 354. [38] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit.,
355. [39] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense
e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità
vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde
esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della
vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza
etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno
sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente
formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di
cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle
profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive
della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della
vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la
vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della
storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre
immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci
sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47,
ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V. P. BARCELLONA, Diritto senza
società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il
salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra
diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO,
Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg.,
Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M. BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico,
Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss. [48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole,
op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel
saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale
esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo
caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di
dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura
sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non
diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione
giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello
stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al
dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo
più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49]
V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a
cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza,
frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed.
italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N.
IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari,
2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op.
cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE,
La volontà di potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E.
SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto
primo, in op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit.,
28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di
politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli
scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss.
Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su
Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura
di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57]
V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo
giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo
e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit.,
25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss.
[59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e
luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra
i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006,
p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza
del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E.
SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N.
IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in
ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N.
ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65]
V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P.
BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge
che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo
tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa),
attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e
l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia
intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la
dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la
forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
[67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti,
della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed
ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della
riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della
sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la
sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della
modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto
(1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le
regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le
classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con
introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è
il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non
debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato
opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per
il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità
del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO,
Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione
contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in
memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista
Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano,
1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968,
433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia
trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta,
in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura,
op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che
nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni
momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme
determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua
potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa
dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in
cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente
non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua
potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni
momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di
trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che,
in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di
aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia
eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la
possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per
il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta,
pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del
lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno
scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni,
interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la
via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto
l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseppe Capograssi. The
Antiquity of the Italian NationThe Cultural Origins of a Political Myth in
Modern Italy, 1796-1943 Antonino De Francesco Print publication date: 2014
ISBN: 9780199662319 Publisher: Oxford University Press Google Preview Abstract
At the beginning of the 19th century, with Italy under Napoleon, the antiquarian
topic of anti-Romanism was turned against the dominant French culture and
became a pillar of the nation-building process. The antiquity of the Italian
nation—prior to the Roman dominion—was evoked in order to support an inveterate
Italian cultural primacy and proved very useful for creating Italian
nationalism. However, this topic is completely forgotten today because, at the
end of the 19th century, Italian studies of Roman history, following the
example of Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy,
while, subsequently, Fascism openly claimed the legacy of the Roman Empire.
Italic antiquity would, however, remain alive throughout those years and it
often returned as a theme, intersecting deeply with the political and cultural
life of modern Italy. This book examines the constantly reasserted antiquity of
the Italian nation and its different uses in history, archaeology,
palaeoethnology, and anthropology, from the Napoleonic period to the collapse
of Fascism. Examining the fortunes and misfortunes of this subject, it
challenges the view of 19th-century Italian nationalism as an ethnical
movement, suggesting how deeply the image of pre-Roman Italy forged the
political and cultural sensibility of modern Italy. Page of IntroductionIntroduction
Chapter: (p.1) Introduction Source: The Antiquity of the Italian Nation
Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press
DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0001 The resumption of studies on
Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that Fascism would later
come to represent. The introduction discusses the easy notions of ethnic or
racial nationalism, questioning these categories and suggesting how complex
Italian nationalism really was. Regarding this, the theme of the antiquity of
the Italian nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country
substantiating a cultural primacy—represents an important example. An
examination of the earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian
culture, suggests how it did not have a racial or ethnic basis, its main
feature being cultural. This peculiar aspect of early Italian nationalism is
outlined in its historical perspective, and the structure of the book is
described, indicating how the topic will be followed from its birth during the
Napoleonic years to its final demise shortly after the fall of Fascism.
Keywords: Italian nationalism, Fascism, earliest Italy Sign
In Page of The historic past of the nationThe historic past
of the nation Chapter: (p.29) The historic past of the nation Source: The
Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher:
Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0002 This
chapter is devoted to the first explicitly nationalizing reading of the myth of
antiquity developed in 1806 by Vincenzo Cuoco, who, in his novel Platone in
Italia, recalled the existence at the dawn of humanity of a civilizing people,
the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for the new
Italian nation as it measured itself against the French cultural model, could
propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since ancient
times. At the end of the 19th century, Italian nationalists rediscovered
Cuoco’s thesis and saw it as the basis of modern Italian political identity.
However, the chapter underlines how this can be regarded as a predatory
operation, which overvalued the actual significance of Cuoco’s novel in the
cultural context of Italy. It also shows how Cuoco’s novel remained known
mainly for emphasizing the cultural primacy of the Italians rather than its
assertion of their ethnic uniformity. Keywords: Vincenzo
Cuoco, Platone in Italia, Etruscans, Italian nationalists Page of A
plural ItalyA plural Italy Chapter: (p.51) A plural Italy Source: The Antiquity
of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford
University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0003 This chapter
underlines how Vincenzo Cuoco’s interpretation of Italian antiquity did not
hold up against Giuseppe Micali’s Italy before the dominion of Rome. Published
in 1810, this work responded to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity
should not lead one to believe that the country’s peoples necessarily shared
common origins. The chapter shows how it was Micali’s opus rather than Cuoco’s
that came to dominate the patriotic culture of the Italians. The significant
impact that the work had is shown by the fact that, in the first half of the
19th century, Micali’s book became a subject of great interest throughout the
country, accompanying the national movement (the so-called Risorgimento) on its
progress towards the events of the 1848 revolution. Keywords:
Giuseppe Micali, Italy before the dominion of Rome, Vincenzo Cuoco,
Risorgimento, 1848 revolution Sign In Page of Unity in
diversityUnity in diversity Chapter: (p.84) (p.85) Unity in diversity Source:
The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher:
Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0004 This
chapter attempts to measure the real impact of Giuseppe Micali on the political
culture of the Risorgimento, testing the importance of his work Storia degli
antichi popoli italiani on the studies of the Italic past published in several
areas around the peninsula, especially in Lombardy (which remained the main
Italian publishing centre), Naples, and Sicily. The analysis shows the multiple
and different nationalizing uses of Micali’s works in tthese regions and
confirms how his reading of a cultural, rather than ethnic, uniformity of the
Italian people, was overwhelmingly accepted by the patriots on the eve of 1848.
Micali’s model appeared, in fact, the only one that could be followed in a
country which, though culturally united for centuries, was at the same time
deprived of any political cohesion. Keywords: Giuseppe
Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Risorgimento, Naples, Sicily,
Lombardy Sign In Page of The other ItalyThe other Italy Chapter:
(p.113) The other Italy Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s):
Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press
DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0005 This chapter suggests that
Giuseppe Micali’s model came under fire when, after the political unification
of the Italian peninsula, it became clear that the encounter between the
various parts of Italy was not a particularly harmonious one and that the
problematic area of southern Italy seemed to obstruct, rather than smooth, the
way towards a rapid process of stabilization for the newly unified state. The
chapter also casts light on how the southern regions’ difficulty in becoming an
integral part of the new unified Italy would determine the reflections on the
roots of a diversity which, at the end of the 19th century, would come home to
roost in the considerations concerning the Aryan and Mediterranean races which
had populated ancient Italy. Keywords: unified Italy,
southern Italy, Giuseppe Micali, Aryan race, Mediterranean race Sign
In Page of The anthropology of the nationThe anthropology of
the nation Chapter: (p.133) The anthropology of the nation Source: The
Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher:
Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0006 Those who
insist on the racist nature of the unified state improperly rely on Giuseppe
Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his racist tendencies
and establishing a connection between liberal Italy and Fascism. This chapter
reconstructs Sergi’s career in order to re-situate him in his specific
political and cultural context. From this point of view, his theme of racial
differences within the nation suggested the existence of two different peoples
on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern and Mediterranean.
This distinction remained popular and rapidly became a political matter,
pertaining to the left of the political spectrum rather than the right. It was
used to explain the reasons why the modernization of Italy seemed to be
grinding to a halt, as well as to help sustain the political struggle that the
radical left launched, at the end of the 19th century, against liberal
Italy. Keywords: Giuseppe Sergi, anthropology, racist
tendencies, liberal Italy, fascism Return to RomeReturn to Rome Chapter:
(p.158) (p.159) Return to Rome Source: The Antiquity of the Italian Nation
Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press
DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0007 At the end of the 19th century,
the Italian state seemed to be heading for an irreversible crisis. Faced with
this challenge, many academics were quick to reaffirm the value of the unified
state and rejected every reading of Italian identity which did not sustain the
idea of complete uniformity. This area is covered in this chapter, which deals
with the renewal of the study of Roman history through the example of the work
of Ettore Pais. A keen admirer of Micali, he soon adopted the model suggested
by Mommsen, which saw in Roman expansionism a work of political and cultural
unification of the whole of Italy. Pais’s main concern, therefore, was the
construction of the nation’s common historical identity. That is why he aligned
himself with all the political choices of the nationalist movement, from
colonialism to the interventionism of the First World War and the acceptance of
Fascism. Keywords: Ettore Pais, nationalist movement,
colonialism, Fascism The Italian Fascist Empire, racial policy and
EtruscologyThe Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology Chapter:
(p.181) The Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology Source: The
Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher:
Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0008 This last
chapter shows how Romanism did not eradicate the tradition of Italian
plurality, founded on the specific contributions of peoples of different
origins. The theme of Italic antiquity was useful during Fascism, because,
following the war in Ethiopia and the foundation of the Italian Empire, it was
used to reject the mixing of races in the name of a civilizing policy with
regard to populations held to be inferior. This theme helped to bring about a
significant return of academic interest in relation to the origins of the
ancient civilization. Basing his ideas on the example of the ancient Romans in
Africa, Massimo Pallottino was able to reread Etruscan origins as the result of
the meeting of different peoples through a cultural model that became common
property. In this way, the process turned full circle and the work of Giuseppi
Micali made a powerful comeback. Keywords: Romanism, Massimo
Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire, Giuseppe MicaliKeywords:
gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo giuridico, H. L.
A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito dell’Italia
nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica
di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il
fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in concetto di stato
come medimen, medimen medimen medimen previous drafts -- il concetto di stato com medimen --– kelsen,
positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi
d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo,
interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi,
Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51778199755/in/dateposted-public/
Grice e Caporali – Pitagora, l’italiano --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Grice: “You gotta (as we say at
Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he
dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers)
just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then
in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of
Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri –
“See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the
German obscurity of Muri!’ And right he is, too!” --
Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia
italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” –
His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating –
especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” -- Enrico
Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò
anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia
Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica. Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al
movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato
alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a
evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a
caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo. Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a
Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in
quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi
tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di
reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di
filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì le questioni
filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe
ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in
funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del
numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della
coscienza e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano
1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone
colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria,
Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo
Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole,
Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la
nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip.
Tuderte, Todi 1916. Note L'Enciclopedia
Italiana, vedi, indica il 1841 come anno di nascita. V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino
1965240. In tal senso B. Croce,
Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti
Taglialatela e Mazzarella. G.B.
Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal
Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1997, 125–136. R. Mariani, Del sommo
filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto
Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia
Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca
Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia,
Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX
secoloPersonalità del protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non
intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che
Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro
teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il
pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che
ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della
Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono
l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede
dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali,
più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua
villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il
plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse
allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi
della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora
rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della
sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è
composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano
quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125
ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in
maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali
dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero
Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica
Evoluzione;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera
zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) —
L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo Pitagorico
antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) — La
psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del
Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico
(22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica
dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La
Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere
il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della
nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 La Natura
secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità
senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto
l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr]
où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo.
Aristotele (Phys. Vili. - 8). La Sapienza Italica i La Natura secondo
Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo
rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla
restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la
sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA
Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la
Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo,
Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere
etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata Partenide.
Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo. La Pitonessa
di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto: « Avrai un
figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora, fin
dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a
Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore
della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi,
presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era
stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel
loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di
questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e principalmente versarsi
con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che
egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò in un modo originale. Egli
arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6 — questa epoca
una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e
allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, fu
condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia
accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea.
Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero, dissoluto e
crudele, ora tiranneggiava; e volle subito fuggirne. Venne in Grecia e quindi
nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di Taranto, che era,
con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che aveva attinto a sì
pure fonti di sa- pere e acquistato grande esperienza della vita, nauseato
dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei filosofi, dall'
ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a diffondersi, ebbe vi-
sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini. Onde stabilì di
fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero, non dei
politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso della
parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza per la
trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor-
rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse
ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che, non
solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a
Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e
principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si
circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché
avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi
all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su
l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore,
recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua
verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano
istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze
naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o
gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A
mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di
pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi
ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore.
Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica
generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola
quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci,
poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva
una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e
discussioni; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno
alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a
forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso,
strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella
di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle
lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai
dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si
trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto
ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di
grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione.
Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna
per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e
non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il
matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve
completamente nel pensiero del suo maestro e marito; e divenne abilissima nell'
insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e
Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie
morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di
Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare
nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di
far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in
casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto
contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari,
che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia
a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora
Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di
Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci
anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella
immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri
Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed
impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi
al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di
dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e diceva che la
virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio, perchè l'ordine
universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio solo può dare
alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrisse tre
libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante
sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i
frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli
di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di
Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed
Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che
gì' insegnò la dottrina del Numerante: ma Platone la guastò nell' intrecciarla
alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose
ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una
scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la
morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune
ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano
Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa
brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la
quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era
il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo:
fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof.
Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia
Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco,
troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare
poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto
delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali.
Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore
della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il
nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire
Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli
elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia
col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la
manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o
Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a
riunirsi ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno
dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo,
che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal
Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello
scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo
godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua
rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione
delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva
divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con ripetuti
esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde
sonore e la qualità dei suoni; indovinò per il primo che la terra è sferica e
gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento; scoprì
il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo
rettangolo; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato; in-
trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta
e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli
Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di
Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di
attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e
Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a
formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa
in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la
chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che
avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò
la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente
unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e
la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere
non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose
nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava
Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il
formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella
Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo
greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali
e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano,
distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene
dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero
poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si
allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico
Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora
che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della
filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il
Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei
bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a
brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana
grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia.
Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem,
magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia,
sui capacitatem atiingit ». La mente è la unità che si esplica nella diversità.
Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era
stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro- mossa
dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal
Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura
delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del
primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso
aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a
Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di
oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno
sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si
ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi
animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che
alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché
l'organismo è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del
Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia
come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di
vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu
dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti
di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica,
elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad
Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello
scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è
il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La
progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la
filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base
dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del
conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che
dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di
stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto
del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne
uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei
cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che
questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca
la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna
esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio
filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di
prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima
determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare
nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50
milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la
cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano
colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno.
Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza
Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così
può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo
primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la
esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile
nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore
corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per
questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa,
così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano
Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è
che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa),
sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol
sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia
può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di
volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di
abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la
filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 —
fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio
vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze
naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne
consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia
come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa
volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come
abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha
potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe
stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla
quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà
con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto
nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo
sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima
i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi
contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio
deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno;
vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed
atomi ponderali. CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino
(Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla
vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in
cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre
diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto
dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro
quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con-
tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo
infinito; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo.
Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto
esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero
punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto,
cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà.
Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo,
come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo
spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e
quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi
intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo
che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare
ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun
luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto
i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia
motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è
la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è
certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che
fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere
e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza.
Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di-
mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le
divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo
come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni.
È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il
tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se
non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra
loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità
atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini
non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto
necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare,
ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e
della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a
comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da
mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant
riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla
materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito,
vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata.
Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- «
cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e
le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è
« oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in
« relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria
non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le
ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza
pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) «
fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se
non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe
fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o
di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il
tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo
soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè
assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti, a regole certe i
moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi
come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi
energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione
delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni
e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi
fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo,
sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di
Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione
della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non
sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi
(tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per
se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali
ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una
linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di
larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli
non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola
col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con
grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un
valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una
curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma
non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito
non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si
trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono
realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto
degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità.
Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti
indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna
sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea
lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre
in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la
realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di
istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua
divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del
tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità
cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza
l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte,
come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno
vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1)
Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano
interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante del pari, sono tutti
diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di
evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria
cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma
alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè
sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le
cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni
spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari
abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto
ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle
loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità
costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che
sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati
indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano
dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di
numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d'
inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e
quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg)
che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano
soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono
circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si
toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si
toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi «
Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est
Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive
nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti
fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna
di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est
affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama
àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e
questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli
orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il
tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi-
nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non
potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia
prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera
da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale
perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale).
Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo
spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco
importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono
due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La
realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe
il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse
unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di
punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà
dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte
le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come
supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come
prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di
punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il
Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo
il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era
il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ».
La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come
non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come
crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono
Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di
materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe
una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici,
sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un
tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella «
Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la
radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come
indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto
inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano
concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le
loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici,
ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che
teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia
composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora,
quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale
o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale
mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali,
esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni
degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le
condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle
esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa
il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità.
L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la
volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla
scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna
dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere
distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di
cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e
di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e
volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso
anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La
forza « cosmica non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera,
devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in
tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di
coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa
Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le
scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma
siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini
della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva
« ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono
un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono
frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati
il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro
fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi
debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a
formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un
moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o
calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella
sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le
altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la
violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce
lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di
telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini,
fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai
più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a
tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che
manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa
pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai
essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha
lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua
saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che
arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime
molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da
varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra-
versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran
forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare
i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che
non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal
piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una goccia di acqua
non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto;
ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il
tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando
milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun
moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo,
altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con-
cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono
(benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio
Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza.
« Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione
impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la
Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva
servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici)
meri accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il senatore A.
Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri),
benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità
(Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in molti
casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno
ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo
di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di
energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una
intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano
la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o
volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato
dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è
fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e
persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto
è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof.
Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi,
sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il
quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli
Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di
energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli
scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma
con- servando il suo valore numerico: ogni Energia è potenziale rispetto a
quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci
interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha
un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli
impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il
calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è
nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia.
Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale:
non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di Thomson, ma
soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo
materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole
senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis
Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se,
elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono.
Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia
alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso
(Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze,
aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne». Una
energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un
appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai
filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius,
Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel,
Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella
sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo,
il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e
gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si
affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato
alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale
scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo,
ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling
ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal
bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa
dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa ». E Kromann, filosofo di
Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale,
non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia
termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se
non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene
l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il considerare la Fisica come
una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità
dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della
Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna
evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di
Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto
più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti
astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria,
senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci
con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le
realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale
ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando
questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro
e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi
ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se
lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza.
L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al-
l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze
attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di
formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi
sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è
negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli
atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta;
cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28
chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80
volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze
dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un
moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè
appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di-
sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un
eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una
distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non
può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente
mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la
coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di
questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto
Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia
quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande
efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si
trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli
atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti
ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori
Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto,
perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una
parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data
quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di
ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo
stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta
in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione
(magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la
elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel
diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si
elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i
metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot
provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando
passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre
maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro
scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si
estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo
non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si
lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono
elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di
elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie
opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una
macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La
elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non
allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente
passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la
corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e
questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima
fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti.
Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas,
si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai
quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici.
Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che
l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una
massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici
elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale
conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi
con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio
(raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e
sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone,
1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il prof. Abraham di
Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le
diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che
l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo
materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si
scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano
separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il
magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti
i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più
magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un
magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie
contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni.
Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi:
e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col
gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi
catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo
tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più
semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas,
urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da
vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si-
nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola
nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai
catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici
volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano
e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma
fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da
Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti
dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo)
vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie:
alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e
jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si
comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma
sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno
in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma
da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di, una fortissima macchina
elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da
se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il
quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni
negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile
rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di
scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di
quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è
teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza
magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente
elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è
uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni
fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal
magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo
diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra
un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle
ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che
l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore
erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e
nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di
Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La
elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il
sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in
joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di
Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in
ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo
negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse
cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come
quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati
passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere,
vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer
alternando lo stato magnetico permette di far segnali. — 43 — piombo
dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La
genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes
in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata
nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura,
si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi
raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte
l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura.
Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle
gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle
stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i
metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli
Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di
cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un
diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio,
Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio,
Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la
elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi
seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale
datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti.
Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia
gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o
in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti
combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli
Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi,
che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono
urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e
la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di
rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di
quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio.
Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale
di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e
Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale
(non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia,
ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i
fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La
meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una
mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro
Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito,
dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal
problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che
preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo
stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto
approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s'
introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema
conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei
moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione
impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace,
invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne
che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è
trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui
non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e
cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema
di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a
cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione
che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi
con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle
lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma
opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue
all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui:
ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che
ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887
Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato
la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per
quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo,
dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è
sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia
potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di
gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne
andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle,
pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la
vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione.
Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem-
meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio:
ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che
è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più
lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia
sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le
ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che
abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri
l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli
Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e
credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
(1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 —
Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a
dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione
ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità
energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza
a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday
commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV),
scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo
centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione
fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale
degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo
escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e
concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non
si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per
l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell'
Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che
lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che
tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la
scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli
perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale
pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata
impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la
direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma
come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I
tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la
gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero
così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago
in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono
inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto
motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia
sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora
acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in-
distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4.
— Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere,
capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in
frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro
non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N.
Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani,
unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza-
badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il
mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno
nel cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che
la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si
trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica
degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola
del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse
di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „
— Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe
di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come
Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire
che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata
come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione;
dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato
l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale»
uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400
ipotesi: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare
che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i
risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed
assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu
riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli
Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio
fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: «
Sic volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe
sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di
sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello
che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma
Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse,
come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti
si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza):
perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono
elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di
millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4.
Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati.
Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e
disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le
molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo
spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se
lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi
strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla
superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono
con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non
è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole
mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a
grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro
superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide
che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti.
— 52 — I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da
tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da
Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules
forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si
distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in
forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta
che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col
versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo
precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando
certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone
cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si
vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as-
sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una
pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli
anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso
e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori
anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di
inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce
impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo
esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi
simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che
l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare
delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che
sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline
di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti
Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi
quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non
si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di
traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e
Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa
della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi
Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1).
Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e
spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi.
Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla
piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa
vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre
(1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le
gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via,
anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono
coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un
secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di
seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei.
Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di
forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano
un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in
flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre
Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai
trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si
riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di
relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto
della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce
del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il
suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla
solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri
della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde
scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza
fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono
disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli
uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi,
disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne
la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un
moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della
ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma
tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un
senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il
molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in
tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha
luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la
meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad
associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento
degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza
all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei
gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani.
Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si
accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella
Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e
non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il
Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il
Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che
il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1'
Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto
dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della
loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino
pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà
conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag.
20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse,
come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze
incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva
affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi
Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ».
Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi
solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più
elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire
la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare
la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della
fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo
stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti
Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica
cristallina Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma
la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole,
orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la
elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a
spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la
assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per
spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere
più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica
Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai,
possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non
spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli
(Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV.
pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica
chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici.
Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba
della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga,
incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e
mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la
temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a
cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi
della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano
che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu
detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o
parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e
VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri
e spazzature: le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite
coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i
contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane
indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico,
romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare
del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare
dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli
scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il
clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni
cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti
irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il
polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche
variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei
cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano
l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si
crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle
delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole
semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di
idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè
le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si
ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano
gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però si
induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non
cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la
tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina,
tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo
stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le
sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché
assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei
minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà
ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano
nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti
cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non
lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre
sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale
omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed
alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si
formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della
loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez,
preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace
ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di
acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido
perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di
bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la
vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti
tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che
ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso
gli inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E
se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il
feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite
monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94).
II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come
nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze
valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione
e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro
vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di
ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una
vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio.
Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le
figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy,
alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si
elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati,
se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche
adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni
variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di
fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le
forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La
durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza
ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le
molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici,
da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani
sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei
Minerali. — 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di
quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una
perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i
tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle
lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si
raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi
mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi
cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col
ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse
vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati
microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano,
prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi,
inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in
qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al
bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato
(punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e
riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e
ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di
cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella
Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei
Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare
nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi-
modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre
roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili
ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro,
di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che
si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono
solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile
e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre
quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti
ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di
qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo,
perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi
avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie
Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i
medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate
nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature
elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il
Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio)
lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del
cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in
uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più,
avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli
distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia
inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti
diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri,
nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità generatrice della forma
cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti
elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a
gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei
miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali.
che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la
scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella
della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo
stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una
cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle
Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla
Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un
gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il
ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno
dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo
una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica
chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico
delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi
corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme
primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi
libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni
forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità
senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa,
non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano
distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr-
digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa
coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un
cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a
fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto
della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di
questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto
alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della
materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere,
all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa
alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento
notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi
simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero,
il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono
sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi
dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia
di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro
equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare
36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono
tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi
di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto
(il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed
il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se
non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando
i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi
tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un
decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma
unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili
brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e
conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui
atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto
secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause
meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con
l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che
vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche
che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si
combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande
volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui
l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora
nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le
combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare
dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i
suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio
(metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per
quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno,
combustibile, i suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in
aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno
formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi
delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione,
dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire
che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col
processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni
chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di
volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire
composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un
modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso;
ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di
ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e
saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le
combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può
chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu
supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a
Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che
determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il
peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il
cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno
una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e
con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette
Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong
considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione
è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la
tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di
idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è
saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre
univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La
valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione
non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi
di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre
bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi
più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di
azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca
la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel
bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il
tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si
constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni
casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido
di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le
accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono
meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i
composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi,
ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per
formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo
si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di
potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione
superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico
dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si
frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così
nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a
provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido
solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto
più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali.
Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4
Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento.
I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore:
meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per
danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada
oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai nelle sostanze
chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni
ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non
arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e
la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre
meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare
a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali
semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V
idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero,
secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non
sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente
passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua
superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una
atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e
fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di
car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con
un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, -
73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi
microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono
concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte
rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle
molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il
godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha
finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura
organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e
la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente
e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli
organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le
reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi
nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in
conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in
basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo
calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze
inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e
specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale,
penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando
la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita
non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle —
74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si
guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si
penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto
di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed
inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o
parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando
una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della
sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le
variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la
coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide,
viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più
sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne
assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3)
che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo
innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono
cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del
prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione
superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che
trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di
idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie
proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi
di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir-
costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si
studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più
viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere
osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle
cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è
sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro
di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte
le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando
così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la
Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e
vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se
fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è
formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa
granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al
nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza
sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte
le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma
rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori,
unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua
capanna; se viene guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se
di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga
materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta
dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo
distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società
cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad
accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a
riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte
le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j
assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare
(come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che
incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli
elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi
e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole
operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia-
cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle
che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le
altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella
sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua
affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una
cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le
sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre,
e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli
microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo-
sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti
granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata
Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma
(rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano,
nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate
verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e
sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre
si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto
che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte.
Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli
animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le
cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica
qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1
al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc.
Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali.
L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^
che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi
sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a
passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in uno stagno una goccia
di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non
protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che
si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga
digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la
Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura,
hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col
microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel-
lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In
questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa
la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza
all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco
a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima
che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono,
as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia
chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il
principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui
per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi,
nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello
che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono
formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose.
— 79 — Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni
innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed
arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e
seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e
germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si
differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma
in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale.
Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile,
sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica
solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda
dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene,
benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali,
prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono
organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l'
umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano,
nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad
impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più
piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni
vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano
l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o
ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la
polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti
aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno
senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni
fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e
l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua
solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente;
ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la
steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la
caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono
lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se
ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento
lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e
l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico,
alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito
di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e
la maggior parte dei bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri
ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le
terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in
azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra
le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese
Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad
altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare
la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i
trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro
quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e
fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere
facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici
non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a
quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di
sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano
la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente,
al modo Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza
unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella
cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il
sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es.
la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti,
venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la
libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a
tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei
Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore
Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai
diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte
funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la
chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare
che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni
cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi
in due) ha — 83 — una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività
nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di
carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa
celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti
verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le
piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo
pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di
amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente,
si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per
godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere
disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo
Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il
medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente
dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici
costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi
di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia
ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno.
Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/
idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale
delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e
serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe
al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi
sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora
a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si
ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline
col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di
celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della
coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar-
rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti.
Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza.
Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del
collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata
meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce
raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a
tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di
fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche
Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche
Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e
che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo
che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare
si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore
— 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose
(1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che
sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o
Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » »
Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca
Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o
Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene
montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto
in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico
Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che
deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima
crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale.
Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra
come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne
Rocciose: oppure 6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie
primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1).
Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa,
poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra-
sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli
organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi
furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima,
mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in
linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui
fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le
linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il
corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie
chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur
l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa
pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli
scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno
prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero
i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di
anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30
milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi
caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un
mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite
nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor-
rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. — 87 —
massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava
a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più
rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire,
tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice
condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa
ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe
basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le
acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che
serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia
di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati
degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di
molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa
ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti
insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in
se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come
pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge
sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più
semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi.
In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle
appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi,
produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono
nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi
composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si
crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si
moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle
Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I
due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare.
Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per
formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita)
rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli
stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale
ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una
malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con
facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in
pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide
che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere
innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si
altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò
nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di
Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri
sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col
microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a
scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste;
riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle
masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla
lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi,
rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in
Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante
femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che,
fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie
o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le
oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore,
anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine
con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni
ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la
muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che
girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene
coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire
un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in
certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far
luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri
per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde
sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi,
permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece
nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la
carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la
causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le
proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si
moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e
magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli.
Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione
alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza
nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la
riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto
proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si sono ristrette alle regioni
tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al
tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle
Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore
dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino
alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la
vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini,
mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si
svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il
Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero
dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel
Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le
Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle
prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e
sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu
ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise
in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame
(Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o
polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in
corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad
impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono
trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e
pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle
Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale
contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che
rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a
fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un
surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne
ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e
respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte
cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale,
composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine:
una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e
la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti
giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie
persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta
perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal
centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano,
poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai
Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono
senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla
radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto
risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con
fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente
nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante
(come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore.
L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della
sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn
variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le
funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria,
diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed
oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La
maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che
nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come
degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e
di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione.
L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa,
origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano
reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la
pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina,
nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e
consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto
ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive sono
sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile,
favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei
bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale
delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la
sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe
gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li
uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante
insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto,
sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una
struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche
sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante
compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce
affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più
ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo
incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro
perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che
le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il
godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In
generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le
quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind
Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti.
L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i
succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda,
potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a
talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero
di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza
sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a
sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra
fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle
punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle
foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si
abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire
l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in
piccola parte, ma assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed
inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e
quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il
gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio
in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10
O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la
pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio.
Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo
volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a
260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai
nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole
combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla
comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno
diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e
dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia
chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad
esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63
A2 O 4. Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il
carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i
corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo
lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e
dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo:
elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono
traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col
carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I
fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed
amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La
celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che
sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti
più solide delle piante C 12 H10 O i0. Le piante prendendo l'azoto non
dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle
sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici
delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra
l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano.
Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido
finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si
trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli
animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno
trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo
alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa
ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari,
nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli
stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da
queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice
(piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani-
male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa,
nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli
vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento
nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di
materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante
dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme
laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci
fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle
monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica
di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie
precedenti; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti
laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e
delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle
dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole
interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie
resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali
moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi,
nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il
trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso
svaporerebbero troppo i succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi
copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti.
Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che
impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo
sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed
(The dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come
una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la
morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno
interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle
animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle
basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà
di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto
è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in-
grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata
myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il
glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è
alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive
pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti
len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo
nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro
acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono
polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante
l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi-
danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle
sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della
veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi
ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi
è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui
germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la
papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali
quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi,
distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio,
con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si
moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal-
damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica
in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate
sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o
parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad
investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro
formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura
fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa
altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di
fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza
ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono
strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio
Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili
della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie
abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori,
all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni
». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo
abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il
contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere
l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e
giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse,
operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor
». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel
processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di
dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si
potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui
si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la
circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102 — La formazione
lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il
piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima
deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione
è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo
libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le
Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non
sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè
non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo,
il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente.
Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio,
Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa
che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono: e che ci
vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non
quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari
Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi.
Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità:
esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi,
formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e quando hanno finito di
muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano
negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli
Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle
Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte.
Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi,
o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale
assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più
facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro
psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è
Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far
Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole
composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse
funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della
medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che
lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la
disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per
svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400
specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed
altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere
invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La
vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme
minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno
evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia
dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni
vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università,
cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta
non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a
fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo,
abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per
riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie
anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si
compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella
superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a
localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato.
La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la
Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi
dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi
fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e
di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma,
dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione
del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono
certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero
animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale
combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una
funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un
organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per
farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui
rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed
incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti
geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere,
alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i
nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le
Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell'
Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di
gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse
violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in
generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va
facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira,
dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza
ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale
tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere.
La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di
tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e
li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo
averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver
imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono
centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè,
con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i
muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri
nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di
sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia
generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale
condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento
comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che
^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che
sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei
muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come
vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le
sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole
unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio,
Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia
ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco,
ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va
presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove
aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti.
Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che
si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei
cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il
lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della
Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze
particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi
acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati
coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La
selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato
ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe
molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei
sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza
alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale
sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha
mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie
si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le isolava;
cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la
prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà
coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le
specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di
imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle
relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle
scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno
avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando
erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e
bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza
sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel
ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito
(molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta
meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così
opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci,
correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in
tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di
tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime
sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno
foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per
succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi,
trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole,
sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme
di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle
zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i
seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti,
di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di
Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di
calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli
Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano
difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la
Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale
innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu
studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali
(per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi
generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale
ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della
Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione
morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le
Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati
(Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai
tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e
poi si coprirono di chitina. — 110 — Come dagli Articolati venissero i
Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai
Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a
sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi
sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede
che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora
cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di
ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore,
che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita
per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali
resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando
per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti
vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti
provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma
nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra.
Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti
i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca.
Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed
acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare
Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero
padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per
dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza
terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i
primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in
tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o
Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le
forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi
fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia
nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori
ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso
dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei
Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi
fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo
Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al
Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti,
i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili
divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava
freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per
i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili
ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole
a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza
permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel
sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi
mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in
cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne
sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda.
Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue.
Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo; essi
vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti,
avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede,
e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si
estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix
di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni
degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci
come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni.
Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto,
detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel-
lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione
che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per
cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando
il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo
modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo
succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil'
Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a
proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar,
oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri
e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma
che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle
sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si
alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il
Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del-
l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila
dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in
lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata
continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre
specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale,
regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di
sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello
delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie
pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e
laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell'
egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed
universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è
minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far
caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei
loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi
furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1)
Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre
quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli
animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si
fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli
Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati
meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si
allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte.
Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto
sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo;
così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che
impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati,
furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai
Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i
Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi
(Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori,
svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della
coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti
pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene
dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli,
digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé
nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e
nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la
digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere
i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli
Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati
sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe
cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più
alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo; per nutrirsi di
mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra
anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana
che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del
petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla
testa le corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in
mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si
abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi,
e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che
aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof.
Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni
all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo
Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a
quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente
in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio,
Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o
evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione
della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo
non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo
indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la
Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle
funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire a
funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie
fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha
fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con
perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello
sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le
volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura
che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed
intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e
famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua
nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a
pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è
sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove
funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto
può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo
nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare
l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte
Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi.
IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso
Pensiero del quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo»
disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma
in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione
naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad
ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu-
de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di
provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però
noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è
mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può
essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar
fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può
tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal
di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice
volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza
viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi
ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro
maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive:
«L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite,
succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà
questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato —
120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali,
occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ». Qui dunque lo
Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è
l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto
ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è
ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si
vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che
fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a
312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere «
oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni
distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della
divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si «
manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione
ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo radicale
delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo
lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione
che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto:
nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne
Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la
formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella
della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi
frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha
costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la
Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione
le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura
fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa
delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito
di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa
la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del
positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi
inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è
una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati
scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si
muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il
caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il
proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia)
scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè
sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere
nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla
parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250:
«L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto
all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della
« Unità e molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della
materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto
« e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato «
dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve
nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire
è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito
che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le
piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre
studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori
tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si
schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V
Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto
di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che
(a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi
combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone
che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale
dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla
motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando
gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori
hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari
YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed
intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio
il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si
riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che
l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti
come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli
Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero
fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed
epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità
generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro
di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli
animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale).
(1) Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve
dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo.
Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che
dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere
animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito
sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o
epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa
disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda,
elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i
nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai
capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici
o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle
ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con-
tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione
artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico.
Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso
Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si
compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come
quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta
poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e
riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che
dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione,
che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione
rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed
assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali, mangiando vegetali,
ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle
albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo
fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli
dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e
mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo-
logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i
vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità
organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto
dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che
assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi.
Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal
tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie
dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare
veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono
mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e
per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche
assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate
si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i
vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di
plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro
cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti,
diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già
gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e
specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali,
carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione),
si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi
ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I
globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a
vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è
diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale
organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la
psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi
debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono
clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del
giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il
sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito,
dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il
sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e
(1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si
può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e
viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè
prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. —
128 — l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La
formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità
confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed
orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti
sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che
viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia
falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e
\Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali
per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del
Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie
che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa,
che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia.
Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi,
tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie — 129 — parti
del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i
muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le
accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse
per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni
distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della
linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere
e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista
morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il
Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni
essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le
materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria
Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la
funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif-
ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere:
è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi
sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà
nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un
animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto
naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto
cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e
margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei
gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono
arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in
sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal
sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza
del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando
origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali
nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto
la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi,
né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti,
traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a
farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il
doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate.
Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi
l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di
Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo
panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col
ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra
soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare
l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare
l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in
generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo
non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare
del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca
contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la
natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi
in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli
scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati
alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie
des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof.
Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del
tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni
modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un
pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero
nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile
l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella
filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia
dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M.
il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della
divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se
non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio
informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano
prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi
nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che
determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati
dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica,
sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente
nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa,
escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si
chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina
(che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama
delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto
Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per
assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari
passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova
ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di
tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito
all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto,
assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è
affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge
lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie
sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei
sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci
diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono
l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali
superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari,
fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei
polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue
venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo
sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne
piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4,
chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può
aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli
atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze
azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la
inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che
spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze
chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in
creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la
urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo
per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo
stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di
carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non
vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta
unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite
avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le
funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono
sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto
più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato
a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel
trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di
vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le
guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da
irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per
cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e
da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi
nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni
capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione
generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori:
quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi
rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema
cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo
sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa
da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano
a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i
vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l'
inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi
o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la
sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno
dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità
generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la
Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la
somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri
della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono
in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto,
per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha
bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o
ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i
quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte
rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i
reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano
sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si
dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque,
guastare i vasomotori è guastare la salute; e la Unità disordinata da desideri
immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del
gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie;
alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli.
È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia
esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa
reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei
vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede,
speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o
paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti.
La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i
così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e
per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i
muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes-
suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni.
Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle
infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi
minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale
come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è
una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o
Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è
guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a
milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro
tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di
quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale
dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie
alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati
si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente
ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal
moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi
fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine.
Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della
irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai
guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere
liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa,
arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli
stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle
giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule
organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle,
depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe-
gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia
malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col
massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la
riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e
simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se
non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la
parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano
anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un
tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule
grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa
ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una
neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari,
che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se
l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in
pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è
penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per
espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle
quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che
formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i
tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo
incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di
concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della
fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e
negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si
organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze
vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale
vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un
cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi
contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel
secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed
oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro
paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli
organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi.
Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei
fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare
ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare
nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che
provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre
quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi-
stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della
natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza
dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London)
attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi
patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni
cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è
radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e
il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita
l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la
secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della
circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per
raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e
lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il
maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale,
o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e
quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che
lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende
più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio
muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il
mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario
solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti
gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la
secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte
le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione,
spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei
ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto si muove
conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli
stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità,
l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è
mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni
salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a
manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una
natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente,
regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne
muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo
ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il
football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono
la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non
solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la
tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy
Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i suoi
templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce
anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A
questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono
curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si
conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle
cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi
e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno
accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo
nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità
molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di
Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle
quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci
e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali
non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il
Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ).
Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare
a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova
di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e
d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and
Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la
volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor-
zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi
robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità
generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono
non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie
appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni,
quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo
scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto
l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se
la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè
ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto
nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche
guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi
medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che
questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando
questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per
guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono
le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche
passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la
Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi,
quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più
instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono
col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e
volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e
Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile
nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti,
con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o
gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei
Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa
attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in
due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti
sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella
metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa,
torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale
ed il cervello; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o
cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello
anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori.
Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei
Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale
ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale
dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si
perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina,
che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I
fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal
neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta
solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina,
cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano
nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al
principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di
trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il
12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha
che il cilindrasse e la myelina, senza fodere; è acida, con poca lecitina. La
lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con
neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima
generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che
si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di-
ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli
atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli
quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali
vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti
riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio
(1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di
psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il
nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio.
— Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate
opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste,
come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili
sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono
per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed
anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti
peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della
respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la
regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori.
(1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di
parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a
falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti della corsa
nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli
anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto
è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina,
e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I
muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la
prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati
una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non
può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza
dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti
nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la
vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi
motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran
simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le
ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o
pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo,
regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo
splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl'
intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi
dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in-
trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono
quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le
cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello
la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle
circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro;
ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta
alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia
del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera
nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti
poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una
cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino:
lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi,
fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la
Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione
delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule
grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che
fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla
negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa,
succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto
vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo,
occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della
Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli,
nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla
Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia:
mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli
struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai
Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro
colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha
quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei
centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le
due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo
ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel
cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili.
Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili
comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del
cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule
grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è
veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta
appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta
questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini.
II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa
l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto
focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla
Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è
percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le
forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a
seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si
riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli
strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule
grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei
simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano
e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno
le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme
nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento
delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di
materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni
astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le
imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo
delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte
dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite
pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece
quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose
vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della
Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce,
ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il
Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il
lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella
carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è
impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il
cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto
regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i
cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte-
rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali
ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto,
ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie,
sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello
alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati
consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello,
avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale
contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad
un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce.
Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel
Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo
quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie
carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600
nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili,
come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto
approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un
cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha
quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello
e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti
Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa.
In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora
al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma
contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non
solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi
somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi
amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V
ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si
arresta mai: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un
uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina),
i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e
si pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue
(arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una
vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto:
diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la
orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa
la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come
avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma
assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo
molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino.
Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille
intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il
sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di
zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non
consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue
arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e
poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non
avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido
carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è
l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido
lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la
creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli
orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli
gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce
quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella
che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale
sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità
intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece
la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che
erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari
detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali
ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina,
che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono
elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più.
Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti
i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e
così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la
sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una
batteria di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza
unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto
diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al
dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per
avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il
sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso
nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo
che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo
motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà
è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire
dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le
impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo
motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente,
quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici,
perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli
non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato
ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune
professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui
corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un
complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di
vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti
impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente.
Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli
equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- —
156 — tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove
circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca,
Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad
innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono
incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli
hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare,
col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche
anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola
sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà.
Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre
liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella
vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si
con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai
delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran
simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo
l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per
sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla
colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi'
intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti
dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della
Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una
interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali,
rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta
dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la
laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro
lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura
che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che
vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si
contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un
soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono,
senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare
questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note
per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni
fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il
Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è
possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze
fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa
ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e
precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad
esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare.
assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore,
bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli
altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli,
nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La
Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi
di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il
volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto
Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo
quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco.
All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie
abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non
divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte
generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso
abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di
poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere
la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i
tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1
muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere
irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei
muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso
respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita,
appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità
conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti
degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni,
della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando
gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali
più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un
esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si
riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del
passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha
avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac-
corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare —
il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola
nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è
una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa
uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o
l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto,
una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di
pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da
spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini,
escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel
ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di
volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente; ed
anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie
di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai
voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici: camminando non pensiamo al
moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al
quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza
possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui
deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo
a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo
delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese
1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e
questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in
zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale
organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E
intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non
spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante
meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il
piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e
la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più
che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la
figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea,
Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale
fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano
impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che
dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai
sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in
una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del
sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le
generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta
con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza
dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono
vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della
struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e
nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato.
Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende
tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione
della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo,
con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione
morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali
inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta
impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si
sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati,
Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un
organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda
il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei
Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si
muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà
poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra
di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei
Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che
si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una
federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori
e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi
è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il
rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono
formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle
altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa,
ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià,
non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati
dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o
parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle
Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti
segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il
gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni
nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza
di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani-
maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali
quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una
crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i
germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando
il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno
dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con
acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina
ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo
prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto
sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane,
facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei
mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida
esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa
di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di
più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori
dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i
materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle
vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi
contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano
strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel
Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a
questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale
ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle
mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e
di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di
lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene
caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle
mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli
butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si
altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il
sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le
cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione
che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline
come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro
della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il
bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono
confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai,
relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle
forze dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il
tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni
localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2
centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal
sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento
eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle
degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e
la vescica depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali.
Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta.
In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il
cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle
emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I
sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia
od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte
dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini
vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la
convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il
proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal
principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero
astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie
vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi,
le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono
suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del
sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della
saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore
sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo
nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che
le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza
muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta
nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il
dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi
ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in
condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi
scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo
di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che
la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura
la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non
danno latte. — 172 — nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa
ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del
dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso.
L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel
che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La
gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il
sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione
del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni
espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio
più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si
fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo
stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non
soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma
anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte,
di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o
l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le
teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità
sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà
maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili
animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della
innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano
piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità,
specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non
confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re-
spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può
far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato
da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per
cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da
ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel
modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette
all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia
aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la
melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa
impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli
sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La
melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni
convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica
altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e
dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è
comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie
rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani
desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed
hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia
passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che
si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che
forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare
la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro-
carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si
dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo
fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico
del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il
disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora
insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze
dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee
Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla
sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad
una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non
va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova
scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte
del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il
Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha
principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il
delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto
scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione
data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d'
Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta.
Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo
ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con-
cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la
polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava
disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor
oggi si depone e si giura il falso in giudizio); nel Napoletano, dove a questi
mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza
è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione
delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa
balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti
di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri,
il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania
riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso
riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi
diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I
sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia.
L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di
odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il
prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille?
Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi
valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria
libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché
Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue
come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il
sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno,
può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo
intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di
adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento
religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che
abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia
Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e
Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era
piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi
primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli
spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi,
nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che
tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze
naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi
che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità
uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza
di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù
selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed
entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi
propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia
centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte
che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si
trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche
se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta.
L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi,
per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli
Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha
confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel
conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come
realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari
opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece
annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene
più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si
prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è
invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la
speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per
conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si
fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il
Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei
Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto
il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull'
Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici,
primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e
nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra,
Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani,
che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del
fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole.
Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari
primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la
Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu
concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo
dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di
alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur,
dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite
degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il
riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale
per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste.
Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e
si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla
Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior
genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una
viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che
contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo
tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari
di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia,
intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la
universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a
svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla
il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente
nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe-
ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti
volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla
solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del
sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart,
«L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non
conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione
francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo
per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei
geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento,
centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non
s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla
capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The
functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la
distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi
viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne
contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a
scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere
solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione
illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che
serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito,
(1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va
infinitamente più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come
rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama
sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete,
tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto
riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale
formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema
muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di
vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è
necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere
nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la
parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli
atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per
abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per
abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non
ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo
esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è
una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and
Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la
struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi
atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che
si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza
si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si
sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che
si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica.
Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o
esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle
quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento delle
sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per
intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare
senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare,
ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni
psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e
segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei
fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e
Pensiero: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti
all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e
volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di
sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina
181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni
o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non
si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e
alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano
Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l'
Italia o si muore ». E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni
attinsero il coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti,
sentire, pensare, volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo
ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza
propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e
questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una
nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono
contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti,
come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la
Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto
altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero
fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia
allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella
di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva
trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole
quello che fac- ciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro
l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che
vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò:
e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua «
Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti
riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso,
nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e
arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività
automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire.
Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa-
rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli
antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai
moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per
necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del
diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo
delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le
malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal
punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali
teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra
dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da
valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche
all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde,
il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle
distinction ». Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento
della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale,
con le esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due
illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova
scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr.
Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero egregiamente i padroni di se
stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i
movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai
suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma
a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze
incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza
carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri
caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V
intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso;
i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili,
meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed
ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro
temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero,
versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli,
cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri
sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento,
pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico
si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento
corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore
la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente);
quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente
ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno
naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse
hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato,
i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che
Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta
imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o
linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde
ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del
sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez
classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan
osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele-
mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure
Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni
sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il
fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can-
giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono
conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare
questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la
politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento
indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie,
alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere
fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento
ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide
che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché
essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il
mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che
meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera
causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con
l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo
di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla volontà
nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura
sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la
nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e
trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e
Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra
la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che
l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto
centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una
carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno
schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere,
ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si
potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse
continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero
concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la
veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo
nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente
una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries
campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di
Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà
più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno
robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci
sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che
superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a
quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare.
Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli
concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero
divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li
attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno
nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare
alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora
scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel
Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà
mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di
rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà
nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del
Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne
estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci
colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche
notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri
cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi
non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e
mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e
mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a
scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a
saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza
nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora
come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità
irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad
una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili:
giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino
al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato
nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa
emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue,
abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà
innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di
vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli
uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca.
Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non
hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera,
e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni
ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità. INDICE Cenni storici su Pitagora e
la sua Scuola.. Pag. 5 Introduzione » 17 Capitolo I. - La prima estrinsecazione
del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) » 21 Id. IL - La seconda estrinsecazione
del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà
degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina
» 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità
assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. - Come le Unità cellulari si ac-
centrano nelle Piante per godere l'amore » -82 Id. Vili. - Origine psichica
delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »
121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. -
Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id. XII. - Come la Psiche fa il
Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche generatrice... » 158 Id. XIV. -
La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV. - La Unità Numerante nella
Volontà. » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e
dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- MARCO SAUNIER La Leggenda
dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il
Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con
una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo
(II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, —
Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli
nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita
pubblica. ALBERTO GIANOLA
LA FORTUNA DI PITAGORA PRESSO I ROMANI
dalle orìgini fino al tempo di Augusto .>^
CATANIA FRANCESCO BATTUTO — Editork
1921 PROPRIETÀ LETTERARIA
J^-^ <^^ Catania — Stab. Tip. S. Di Mattai
&. C. — 1921. A GIORGIO E GUSTAVO DEL
VECCHIO FRATERNAMENTE PREFA2IONB
La filosofia di Pitagora^ che è generalmente conosciuta appena in
alcuni dei suoi punti fondamentali^ come la metempsicosi^ Varmonia delle
sfere^ la scienza dei nu- meri^ l'astensione dai cibi carnei e dalle
fave^ era in realtà un complesso assai vasto e profondo di
dottrine^ un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,
la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic- cola parte^ sì
per la scarsità dei documenti scritti ori- ginali, dovuta alla nota
tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono
scrupolosamente, sì per le amplificazioni^ le falsificazioni e le
invenzioni che partorirono le fantasie di tardi seguaci^ di pseudo-
eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filo- sofia fu non
dilettantismo di m istici fanatici^ ma vera e ragionata
speculazione^ a cui si accompagnò^ parallela, ima conseguente e logica
ragione di vita, sì che^ men- tre da un lato potè attrarre^ seducendole
col fascino delle verità da essa chiarite e con V armonica bellezza
dei suoi insegnamenti.^ le anime di molti cui pungeva r assillante aculeo
della conoscenza., incontrò daW altro — VI —
ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate o di
volghi ignobili e sciocchi. Divulgata.^ se non creata interamente
ex novo, nel se- colo sesto a. C. per opera di Pitagora^ del quale ^
come di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^ fu
coltivata^ prima che altrove, sulle rive dell' Ionio ^ nella Magna Grecia
e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene osteggiata., nella Grecia ed
in Roma. Ricca., com'essa era., di principii che oggi si direbbero
idealistici e tra- sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a
una sua particolare armonica concezione della vita indivi- duale e
collettiva^ teorica^ insomma e pratica nello stesso tempo., essa era ben
atta ad informare di se religione e scienza., politica e morale.^
consuetudini e leggi. Essa fu da molti connessa non pure con
anteriori an- tichissime dottriìie della Grecia^ deW Egitto^ delV
India e per fin della Cina., dalle quali sarebbe in tutto o in parte
derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di somiglianza, ma altresì
con la posteriore filosofia di Pla- tone, in molte parti ricalcata sulle
sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e
tra- mandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto delle
scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo- sofi alessandrini,
quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimentò
le speculazioni della teo- sofia neoplatonica e ?ieopitagorica di
Plotino, di Porfi- rio e di altri molti, e diede origine a molteplici
scrit- ture, quali più quali meno profonde ed attendibili, in-
torno alla vita ed ai primi insegnamenti delV antico maestro. Da essa
infine tras.sero ispirazione alcuni filo- sofi della rinascenza, e
qualche sua derivazione può dirsi non del tutto spenta anche oggi.
— VII - Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque^
massime per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri-
na e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi e nei vari
paesi: poiché^ sebbene molti abbiano fatto stu- di e ricerche in
proposito — basterà ricordare^ fra tanti, i lavori del Bitter (1), dello
Zeller (2), del Gomperz (3), dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in
Italia, del Ca- pellina (6), del Cento fanti (7), del Gognetti De Martiis
(8), del Ferrari (9), del Ferri (10) -- e benché da tutti
(1) Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Ham-
burg, 1826. (2) Eduard Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage,
in Vor- tràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865
e Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P pp. 279 e segg.
(3) Theod. Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2* ed.
alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, 1904. (4) A. E. Chaignet,
Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Pa- ris, 1873. (5)
Fr. G. a. Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc- cessoribus, in
Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, 1881, pp. I-LVII.
(6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago-
rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di Scienxe di
Torino, serie II, t. XVI (Ì857), pp 37-109. (7) Silvestro
Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu- me La letteratura
greca, Firenze, Le Monnier, 1870 [Opere, voi. I, 5p. 359 e segg).
(8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.
Accad. delle Scienxe di Torino, 24 (1888-89) e nel volume Socia- lismo
antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496. (9) Sante Ferraiu, La
scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi- sta ital. di Ulosofia, 1890, I
e II. (10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni
degl'Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R.
Accademia dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547.
— VITI — questi e da altri studiosi non solo si siano
raccolte molte notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse
quistio- ni importaìitissiìne^ pure troppe cose ancora rimangono da
chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo;
e fors'anche^ riprendendone i?i esame il contenuto, ossia tenendo V
occhio alla sua sto- ria interna, che è poi, per la filosofia, la sola
importan- te, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata
dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali- damente fondata
e tale da poter resistere agli assalti del nostro più acuto
criticismo. Gli studi raccolti in questo volume furono già da
me in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli in
Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie ricerche, modificare
alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e nuovi fatti ho potuto
chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al desiderio e alle
sollecita- zioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme. Spero
che il tenue contributo chHo porto alla storia che or ora dissi esterna
del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che intorìio a queste
importantissime dot- trine non si è detto ancora tutto e che inolio
ancora si può indagare e scoprire. INTRODUZIONE
Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi
istituti religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale
con il Pitagorismo (1); ne fa meraviglia che alle dottrine di
Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e le più
antiche leggi di Roma: Numa, il sacro legislatore della città
capitolin'a, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le stesse leggi delle
dodici tavole, copiate dalle legislazioni della Magna Grecia e della
Sicilia, che alla loro volta traevano ispirazione, se non origine, dal
Pitagorismo, fu- rono altresì ricongiunte con questo. Sarebbe
indubbiamente assai utile e interessante poter determinare in che
consistessero questi legami di dipen- denza e stabilire con precisione
quali furono gl'influssi dell'antica sapienza italica sulla formazione
delle credenze e degli istituti religiosi e della fondamentale
legislazione (1) Seneca, per esempio, (Epist. ad Lueilium^
90) sull'autorità di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori
dell'Italia: «Hi non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae
ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae
et per Italiani Oraeciae ponerent ». 1. 2
— romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo
si sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter-
minazione neppure approssimativa. Ma insieme con questa azione, da
alcuni ritenuta sol- tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della
vita civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in-
flusso, determinando nel corso dei secoli, attraverso le vicende della
sua storia vasta e complessa, una corrente di pensiero sua propria,
continua o interrotta, palese o recondita? Di vera e propria
tradizione scritta non ci restano trac- ce, se non frammentarie; di una
tradizione orale abbiamo invece meno scarsi indizi e con certezza
sappiamo di non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in
Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte le
conclusioni di queste nostre ricerche, che questi inna- morati cultori di
una così riposta e difficile sapienza non furono già uomini oscuri uè
poeti o scrittori di second 'or- dine, ma cittadini illustri, grandi
poeti e celebri letterati, pensatori insigni e grandi uomini politici ;
cosicché la filo- sofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli
insegna- menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati
famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle fantasie di
poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei cuori di cittadini
nobilissimi, come Figulo, Yarrone e i Sestii, accompagnò in certo modo
passo per passo il pro- gredire della potenza e della grandezza di Roma;
finché poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva
prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e l'indole dei
Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e all'antica razionalità delle
dottrine sovrapponendosi da un lato fantasticherie e aberrazioni come
quelle di un Apol- — 3 Ionio di Tiana, e
dall'altro frammischiaudosi elementi ete- rogenei di origine greca,
orientale e forse anche cristiana, essa si ritirò di nuovo nel silenzio e
nella segretezza di qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito
di qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì per
disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe- culazioni di un
Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a
raccogliere con la maggior diligenza possìbile i ricordi, le
testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di
sé. ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let-
teratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi esaurienti
intorno al mio tema non mi è accaduto di tro- vare. Brevi cenni
riassuntivi si trovano bensì nelle opere dello Zeller, dello Chaignet,
del MuUach, nella Storia di Roma del Pais, e in storie generali e
particolari della letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare
lun- ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse
qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle mie ricerche
non consistono dunque nella novità dei ri- sultati, ma piuttosto nello
svolgimento dato a un tema fin qui appena malamente sfiorato da qualche
erudito, nella quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che
ne ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que- stione
spero anche di avere maggiormente chiarita, seb- bene, per la scarsità
dei dati sui quali era concesso co- struire, non sempre abbia potuto
giungere a conclusioni definitive. CAPITOLO
PRIMO Inìzi leggendari e storici 1. Il
Pitagorismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi- monianze G
prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e Pitagora. — 5. Le leggi
delle XII tavole nei loro rapporti col Pitagorismo. — 6. Il carme
pitagorico di A. Claudio Cieco. 1. — Che molte delle antiche
istituzioni di Roma fossero derivate dalla filosofia pitagorica fu
riconosciuto ed am- messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel
principio del quarto libro delle Tusculane (§§ 2-4) lasciò scritto
: « Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernia- navisse
mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniec- tura probabile est,
tum quibusdam etiam vestigiis indica- tur » . A conforto dunque della sua
opinione egli addusse due argomenti, uno congetturale e uno di fatto: «
Quis enim est qui putet, — così egli continua — cum fiorerei in
Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est,
in eisque primum ipsius Pythagorae, deinde postea Pythagoreorum tantum
nomen esset, nostro- rum hominum ad eorum doctissimas voces aures
olausas — 6 fuisee f Quin etiam arhitror
propter Pythagoreorum admi' rationem Niimam quoque regem pytagoreum a posteriori-
bus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et instituta cognoscerent
regisque eius aequitatem et sapien- tìam a maiorihus suis accepisseut^
aetates autem et tem pora ignorarent propter vetustatenij eum, qui
sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse » . E
questa è la congettura; la constatazione di fatto poi è, che nelle
istituzioni romane e in alcune antiche scritture vi sono molte non
indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto alle istituzioni, egli trova
materia di raffronto nell'uso dei canti e della musica : « Vestigia autem
Pythagoreorum, quamquam multa colligi possunt, paucis tamen
utemur.... Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et
praecepta quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum
intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere, gravissimus
auctor in Originibus dixit Caio morem apud maiores hunc epuìarum fuisse ^
ut deinceps^ qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes
atque virtu- tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse
discriptos vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII
tabulae declarant, condi iam tum solltum esse carmen ; quod ne licer et
fieri ad alter ius iniuriam^ lege sanxerunt. Wec vero illud non
eruditorum temporum argumentum est, quod et deorum puloinaribus et epulis
magistratuum fides praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor,
di- sciplinae » . E quanto alle antiche scritture egli ricorda un
carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo: « Mihi quidem etiam
A.ppii Cacci carmen, quod valde Panaetius laudat epistula quadam, quae
est ad Q. Tuberonem, Py- thagoreum videtur^?. E finalmente conclude:
<^ Multa etiam sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae
praetereo, 7 — ne ea, quae repperisse ipsi
putamur^ aliunde didicisse vi- deamur». È davvero un peccato che
Cicerone, per senti- mento diorgoglio nazionale — che non doveva
peraltro essere soltanto suo — e forse anche . per ragioni, se non
di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di utilità pubblica,
abbia creduto necessario di tacere intorno a queste molte altre
derivazioni d'istituti romani dal Pita- gorismo, alle quali, come si è
visto^ accenna per ben due volte; tanto piii che egli^ e per le cariche
da lui coperte, e per la conoscenza che aveva della scienza augurale
e sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda cultura
storica, letteraria e filosofica, era bene in grado di fornirci in
proposito notizie, documenti e prove certo assai interessanti. Ci è forza
dunque accontentarci di que- sta sua affermazione categorica, per quanto
generica, e vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano
va- lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò
contro la sua tesi. 2. - Che in verità i] Pitagorismo importato
nella Magna Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporihiis
isdem — come dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa triam
liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri- dionale, dove si
conservò poi per molti secoli, non dovesse rimanere ignoto ai Romani e
dovesse esercitare su di loro, presto tardi, qualche influsso notevole, è
ovvio, e le presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce
dei fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si
possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei (1)
Ibid. § 2. Cfr. 1, 16, 8, dove è detto che Pitagora venne in Italia «
Superbo regnante » . — 8 suoi primi
seguaci, come Cicerone credette, oppure, come credette Livio e con lui gli
storici moderni, se esso si sia fatto sentire soltanto, per opera di
neo-pitagòrici, dopo la conquista della Campania e della Magna Grecia,
che fu interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d' altra parte, se
questa azione sia stata così larga e profonda da dover lasciare molte
ti^acce di sé negli istituti politici e religiosi di Roma, o se si sia
esercitata solo sulle prime manife- stazioni dell'arte musicale e
letteraria e sulle prime spe- culazioni filosofico-religiose.
Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo- strino,
anzitutto, come già parecchie generazioni prima dell'Arpinate, e
precisamente fin dal secolo quarto a. C, cioè prima della conquista
dell'Italia meridionale, dovette essere convinzione di molti in Roma che
a Pitagora, alla sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto
la città. Il primo di questi fatti è che durante la guerra
sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in Roma, per volere
di Apollo, una statua, che vi rimase poi sino ai tempi di Siila (1). Ora
la guerra contro i San- niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei
quali va dal 298 al 290 a. C. ; e il Pais crede che la cosa si
debba ritenere avvenuta appunto in questi anni ; ma in realtà non
vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an- che ad uno dei due
periodi precedenti. L'altro fatto, un poco posteriore, è che dopo la
presa di Turis, di Eraclea (1) La cosa ci è attestata da
Plinio, il quale però non cita la fonte da cui ha attinto la notizia.
Dice egli infatti (JV. H. XXXIV, 26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi
in eornibus Comitii positas (statuas), cum, bello Samniti Apollo Pythius
iussisset fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra
celebri loco dicari » . Cfr. Plutaeco, Numa^ VIIL — 9
- e di Taranto (272 a. C.) e con l'arrivo nella città di
Livio Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, furono
dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno Zaleuco (1). Ora
perche mai sarebbero stati concessi a Pi- tagora due onori così distinti
e di carattere pubblico, se non si fossero riconosciute le sue
benemerenze verso la città? Evidentemente in quei tempi più antichi
l'orgoglio nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il
senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esa- minare la
possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà capitolina,
secondo le prove che ce ne dà Cicerone. 3. — I carmina convivalia^
che, ormai disusati nell'età ciceroniana, erano invece ancora in uso al
tempo della seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano,
come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui, furono certamente
anteriori alla legislazione decemvirale, che è della metà del secolo
quinto: Cicerone infatti, per dimostrare l'esistenza di canti accompagnati
da strumenti musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta
nei tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in- sieme
con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi delle dodici tavole
comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti « ad alterius
inkiriam » (2). Senonchè Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi
scritti,' (1) Vedasi il framm. 5 nei Fragni. Hist. Graec.^
II, p. 273 e Symm. ep. X, 25. (2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : «
Nostrae duodecim tabulae^ quuni perpaueas res capite sanxissent, in his
hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen
condidisset quod in- famiam faeeret fìagitiumve alteri » e vedi auche
Plinio, Nat. Hist. XXVIII, 2, 10-17. — 10 — audò
anche più oltre, ritenendoli già esistenti a) tempo del re Numa (1). Se
così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che
l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa
fosse stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi
canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione dall'analoga
costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji istituì visse, secondo la
cronologia ufficiale, a cui il nostro autore credeva, piti di cento anni
innanzi la venuta del filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito
da Cice- rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun
valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se fosse
indiscutibilmente fondata la cronologia della più an- tica storia di Roma
— , oppure ~ come è più probabile, in conformità dei risultati generali e
particolari a cui è giunta la critica storica nell'esame delle primitive
leggende romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago-
rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da rite- nere che fosse
errata la tradizione cronologica, in quanto faceva risalire al secolo
ottavo un'usanza che dovette essere posteriore al seste secolo a. C.
Quanto poi all'analogia considerata in se, in che consisteva essa?
Semplicemente (1) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam
eognatum mentibus nostris quam, numeri atque voces ; qtiibus et
excitamicr et ineendi- mur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem
et ad tristitiam saepe deducimur ; quorum Ula sumnia vis carminibus est
aptior et eantibus, non neglecta^ ut mihi videtur, a Numa rege
doctissimo maioribusque ìiostris^ ut epularum sollemnium fides ac tibiae
Sa- liorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere
cele- brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e
cioè nel Brutus^ 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche
Tacito, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce ed ivi
Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner. 11
nell'uso comune del canto e deUa musica in occasione di feste
religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte- nuto dei canti
stessi, che gli uni. cioè i Pitagorici, ado- perarono come mezzo
terapeutico e di insegnamento eso- terico, e gli altri invece, cioè i
Komani, per esaltare la memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici
erano soliti tramandare sotto il vincolo della segretezza certi
insegna- menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti
accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga meditazione, così
gli antichi Romani solevano, al principio dei banchetti, cantare al suono
delle tibie le lodi e le virtù degli eroi, ed ebbero anche l'usanza di
far precedere tanto alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti
dei ma- gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico
dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del- l'arte
musicale in Roma si ebbero per l'influsso diretto del Pitagorismo.
4. — A quel modo che si è dimostrata la possibilità che siano
derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani- festazioni dell'arte
musicale, si potrebbe anche riconoscere come verisimile — contrariamente
a ciò che ne pensava Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e
Pitagora. La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora
è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il Pais afferma
(1) che essa si deve forse far risalire ad Ari- stosseno, . Ma in tal
caso sarebbe necessario credere che questi conoscesse una cronologia
della storia romana di- versa da quella che fu poi consacrata dalla
storiografia ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di
Nu- (1) Storia di Roma, I*, p. 19 e 387.
12 ma fu anteriore di oltre un secolo a quella di
Pitagora. Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali
troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'^li- carnasso,
Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio — notano e discutono
variamente questa inconciliabilità cro- nologica, concludendo tutti
press'a poco come fa Manilio nel De re piiblica di Cicerone, che dice la
storia di queste relazioni non sufficientemente provata dai pubblici
annali e quindi da ritenersi « un errore inveterato » (l). Ora che
dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così dovesse concludersi,
è troppo naturale: data la indiscuti- bile verità della tradizione e
della relativa cronologia, non poteva esservi dubbio per loro sulla
impossibilità per parte di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma
tale im- possibilità non esiste per noi, che sappiamo come la
storia delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai
tarda, come i computi cronologici che a quella si riferi- scono siano il
risultato di una lunga elaborazione tradi- zionale, quasi interamente
destituita d'ogni fondamento di verità, e infine come molte figure della
leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso
di fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes- sivi
e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se era validissimo
per i contemporanei di Cicerone, non sus- siste più oggi che la critica
storica ha demolito l'antichis- sima cronologia di Roma, non rimane altra
obiezione che (1) Ciò. De re pubi. Il, 15, 28: «Inveteratus
ho77tinum errore. Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc.
de vlrt. et vii. p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5
sgg.; Plinio, Nat. Hist. XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di
Ovidio si veda più innanzi, al cap. IX. — 13 -«.
quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni
rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di- stanza e di lingua.
Dice egli infatti : « Auctorem doctrinae « eius [i. e. Numae]^ quia non
exstat alius, falso Samium « Pythagoram edunt, quem Servio Tullio
regnante Bomae, « centum amplius post annos, in ultima Italiae ora
circa « Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemu- « lantium
studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis, « etsi eiusdem aetatis
fuisset^ quae fama in Sabinos f « aut quo linguae commercio quemquam ad
cupiditatem « discendi excivisset f quove praesidio unus per tot
gentes « dissonas sermone moribusque pervenisset f suopte igitur «
ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor « magis instructumque
non tam peregrinis artibus quam « disciplina tetrica ac tristi veterum
Sabinorum^ quo ge- « nere nullmn quondam incorruptius fuit » (1). Ma
nel campo della storia, come giustamente osserva il De Mar- chi
(2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega- rono in antico
la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni italiche del
centro ? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una «
disciplina tetrica ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C.
non è cosa molto più problematica di quello che non sia pro- babile
l'andata di qualche sabino o romano nella Magna Grecia nel secolo sesto?
La leggenda dei rapporti fra Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer
iiostro, accet- tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di
Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo, (1)
Livio, I, 18. (2) Passi'scelti da Tito Livio ad illustrare le
istituzioni religiose^ politiche e militari di Roma antica, Milano,
Vallardi, 1907 p. 65. — 14 — il formarsi di
tutti quegli istituti di carattere religioso che la tradizione riportava
a lui, dovrebbe ritenersi posteriore almeno al tempo di Pitagora, ossia
posteriore al secolo sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in
stretto rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non
sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven- tata da
Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a questo filosofo del
quarto secolo, che parla genericamente di Romani accorsi ad ascoltar
Pitagora (1), e piii facil- mente si comprenderebbero alcuni dati della
leggenda. di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo
re, e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am- metta
la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. Raccontava ancora
la tradizione che Numa ebbe tanta venerazione per il suo maestro
Pitagora, che volle dare a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore
dell'omo- nimo figlio del filosofo (2). Che significato può avere
questo nuovo particolare ? Alcuni hanno creduto di scorgere in esso
un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far risalire in tal modo
le proprie origini al tempo di Numa. Se così fosse, noi dovremmo allora
ammettere che quando il particolare fu inserito nella leggenda, la
cronologia di questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il
tenta- tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come fu
giustamente osservato dal Mtiller (3); probabilmente il (lì
npoo'^X'9'Ov S'aùxcp (cioè Pitagora), &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog,
xal Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice
Por- firio nel Gap. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo
affermano, senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e
Giamblico {Vita Pythag, 241). Quanto al Pais, vedasi St. di Roma I^,
p. 678-679 n. e altrove. (2) Plutarco, Numa YIII, 11 ; P. Emilio
I. (3) Q. Ennius, Pietrob. 1884, p. 162 n. -^ 15
— particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con un
indizio di piii la leggenda. Un'altra notizia, a propo- sito della quale
non è veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si
riferisce alla Musa Tacita, per la quale Numa ebbe particolare
venerazione (1). Allude forse essa alla pratica del silenzio e della
segretezza, di cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È
pos- sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,
che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co- loro che
dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2), non ricorda le analoghe
facoltà magiche attribuite a Pita- gora dalla tradizione? Veramente
queste due notizie, per il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a
credere l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione
storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del saggio di Samo.
Ma un altro fatto, sulla cui verità storica non è possibile il dubbio,
sembra indurci a conclusione diversa; voglio alludere al fatto della
scoperta dei famosi libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione
di uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scopei-ta e la
inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente, di una
falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra- dizione, che questi
libri fosseì'o veramente antichi. Siano poi essi stati opera del saggio
Numa — la cui esistenza, come s'è già detto, dovrebbe necessariamente
porsi in un'epoca posteriore al sesto secolo — • o di qualche altro
sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero sempre a
dimostrare che effettivamente il Pitagorismo eser- citò una qualche
azione sull'antica civiltà capitolina. (1) Plutarco, Numa^
Vili. (2) DioN. Hauc, U, 60. — 16 —
Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi possiamo
dunque inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due
legislatori dovette essere assai difPusa ed antica, ma che altresì essa
ha un certo fondamento di vero : di guisa che se Cicerone la disse «
inveteratus ho- minum error » noi possiamo senz'altro accettarne la
vetu- stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto
un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un eccessivo
orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrisse dopo che
diversi storici avevano mosso alla leggenda le critiche accennate, potè
ben accettarla senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa
(1) e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at-
tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda- rio (3), dalla
educazione pitagorica da lui ricevuta. 5. —Anche alcune disposizioni
legislative delle dodici ta- vole — che appartengono alla metà del quinto
secolo a. C. — furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben
natu- rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti
ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia, che, alla lor
volta, com'è ben noto, si informavano ai prin- cipii di quella dottrina?
Ora questa, che sarebbe, per dirla con Cicerone, semplice coniectura, ha
poi la sua riprova nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi
dai frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo in
esse sancito s'ispirava al principio del taglione: « Si (1)
Metam-. XV, ]-8, 479-484; Fast. Ili, 151-154; Pont. Ili, 3, 41-46.
(2) Metam. XV, 479-484. (3) Fast. 1. e. —
17 — membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ tallo està », dice il
secondo frammento della ottava tavola, e questo principio, che, come
attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle leggi di Zaleuco (1), era
indubitatamente tolto dai Pitago- rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina
dei numeri. Dice infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro
conside- rata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una
pro- porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo Zeller
(3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice ; nel che essi
applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri della
giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver luogo che la
distributiva. Ora, dice il Chiappelli in un suo breve studio (4), in qual
modo si determinasse dal Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa
teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere
quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e a quali
trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto tuttavia è possibile
stabilire, sebbene solo in modo nega- tivo. Alla legge generale, nelle
dodici tavole, seguivano le leggi speciali: la prima di esse riguardava
la diversa (1) Timocr. 744 : « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo,
èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ
xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j- oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat
èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX- jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'*
xòv §va ». Le medesime parole si ritrovano in quello che 1' autore della
Grande Morale ci riferisce dei Pitagorici, il ohe è una riprova del
rapporto storico fra questi e Zaleuco. (2) Eth. Nic. Y, 8,
1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxst 5s xtat xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat
ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à
SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ». (3) [\ 360. (4)
Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni con Eraclito
e Pitagora, in Areh. giuria, voi. XXXV. 2, — 18
— misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad
uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero fatta questa
distinzione, se l'autore della Grande Morale combatte la dottrina
pitagorica del taglione, come quella che non si può applicare
incondizionatamente al servo o al libero, poiché di quanto quello cede a
questo, di tanto, se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena
cor- rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì
impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo era come il
carcere dell'anima, che vaga in una perenne trasmigrazione, e il più alto
precetto etico era l'imitazione degli dei per via della virtù,
l'osservanza delle leggi e il rispetto verso tutti gli uomini; ma era
invece possibilis- sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma,
dove così netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi.
6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse ispirato ai
principii della filosofia pitagorica il poemetto di Appio Claudio Cieco,
che, censore nel 312 e console nel 307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente
uno dei personaggi storici più importanti e, se non il primo, certo uno
dei primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il
giudizio di Cicerone non fosse errato parrebbero dimostrare a sufficienza
i pochi frammenti che di quella poesia ci sono rimasti. E in verità la
famosa sentenza «fahrum esse suae quemque fortunae » non potrebbe
esprimere meglio il fon- damento della dottrina morale di Pitagora ; e l'
altra, altis- (1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ;
« Manu fustive si os fregit libero CCC, [si] servo GL poenani subito
». (2) Magn. Mar. I, 34, 1194, a. 35: « xò Si^ TotoaTov o5x
èaxt Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv
xaOxóv » etc- — 19 — sima, come dice il Pascoli
(1), se fosse certa la lezione e r interpretazione : «amicum cum vides
obliscere miserias; inimicus sies; commentus nec libens aeque [idem
tamen teneto] »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi la
tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico "quello che tu
vedi: ebbene, pensatamente, e non volen- tieri come con l'amico, tieni lo
stesso contegno, tuttavia » , è pure strettamente conforme alla dottrina
pitagorica, che insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui
quem- que oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis
stuprique ferocia pariat » , non e certo disforme dalle pra- tiche e
dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo, che dovevano
acquistare padronanza assoluta non pure del proprio corpo, ma anche delle
proprie attività interiori, per dirigerle al bene. Non si
apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an- che intorno all'autenticità
di questo antico poema, che sarebbe una delle prime manifestazioni
letterarie di Roma, si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia
di esso era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone ha
indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti di una
falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre falsità che
andavano sotto il nome di Aristosseno intorno ai Romani scolari di
Pitagora e su Pitagora cittadino di Roma » . Ma come è ciò possibile, se
Aristosseno e Appio furono contemporanei? E se Appio visse, come è
certo, nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu-
cania^ che ragione c'è per negare che egli abbia potuto conoscere quelle
dottrine e da esse trarre ispirazione per (1) Lyra romana,
Livorno, 1895, p. XXXII. (2) St. di Roma I, 2, p. 671 n.
- 20 — il suo poemetto? E poi come dubitare con
qualche fon- damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e
un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri-
buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che
l'efficacia della filosofìa tarentina si esercitò sopra gli uomini di
stato romani « dal tempo di Appio e di Pirro » ? L' ipotesi di una
falsificazione, della quale poi non si vedrebbe neppur chiaramente la
ragione, non ci sembra dunque per nulla fondata; sì che noi
possiamo con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con-
formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione tanto sulla
più antica civiltà di Koma, a partire dal sesto secolo a. C, quanto sui
primi prodotti del pensiero e dell' arte. CAPITOLO
SECONDO Quinto Ennio e i snoì tempi 1. Ennio e
Catone. — 2. Ennio in Roma e il circolo degli Scipioni. — 3. Il sogno
degli Annali. — 4. Sua importanza per la diffusione delle dottrine
pitagoriche in Roma. — 5. L' «Epicharmus ». — 6. Ennio e il razionalismo.
— 7. I libri di Numa. — 8. Culti Bacchici e sette orfiche in Italia nel
principio del sec. II a. C. — 9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. I
comici. — 11. Caio Lucilio. 1. — Chi, più d'ogni altro,
contribuì a diffondere in Roma la conoscenza delle dottrine di Pitagora
fu senza dubbio il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della
cul- tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese
fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva studiato in
quest'ultima città, che era il centro italico, in cui si conservavano più
pure le tradizioni pitagoriche. Versato nel greco, nell'osco e nel
latino, egli diceva scher- zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò
a militare in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato
(1) Gellio, N. a., XVIII, 17. — 22 —
ai Romani, e quivi da Marco Porcio Catone, che era più giovane di
lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma. Come si spiega tale
invito ? Quali vincoli si stabilirono fra questi due giovani, destinati a
sì grandi cose, che si incon- trarono fra gli orrori di una guerra di
conquista? Furono vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune
gran- dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi già
conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone quindicenne fu in
Taranto ospito del pitagorico Nearco ? (1). Questo mi sembra più
probabile. D'altra parte la profonda scienza e il forte intelletto del
Rudino dovettero certo colpire l'animo eletto e la mente aperta di
Catone, che alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le
attitudini del poeta e dell'artista, del pensatore e del filo- sofo. In
virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire al nobile cittadino di
Roma come assai atto a cantare le antiche gesta della città; ed è forse
per questo che Ca- tone, ragionando con lui delle istorie primitive della
patria e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette
suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente scrisse, e per la
composizione di esso ojffrirsi di agevolar- gli la conoscenza dei
documenti e dei materiali storici e promettergli tutto il suo aiuto ; il
quale, e per la condi- zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva
non ap- parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro
lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di quella
sapienza che nessuno in somnis vidit priu' quam sam discere coepit
(2) (1) Plutarco, Gaio maior^ 4-5. — Cioeeone, Caio maior,
12, 39; 21, 78. (2) Annalee, VII. fr. 124 (Yalmagoi).
— 23 — dovette balenare come in uno splendore radioso
l'idea di illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al
tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono- sciuta alla città
che forse il suo spirito veggente presagiva sarebbe stata nuova fucina di
cultura e di sapere e maestra di nuova civiltà alle più lontane
generazioni! 2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per
intero l'altra metà delia sua vita, dedicandosi totalmente agli
studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventìi colta della città
l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé, a formare un circolo di
studiosi, i piti influenti e noti cittadini e da essi seppe farsi amare
ed onorare per le cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo
e l'integrità del carattere, per la modestia della vita e d6i
costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol- tarlo
accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione Nasica,^ Aulo
Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio Nobiliore, e con tali amicizie
egli seppe vivere sempre poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così
con l'ef- ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e
pra- ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la
pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio Elio Stilone
soleva dire che Ennio fece il ritratto di sé medesimo nei seguenti versi
degli Annali, che descrivono il vero amico: Haece locutus
vocat, quocum bene saepe libenter mensam sermonesque suos rerumque
suarum comiter inpartit, magnam cum lassus diei partem trivisset de
summis rebus regundis (1) Fu « decemvir sacrorum » nel 173
a. C. (Livio, XLII, 10). — 24 — 275 Consilio
indù foro lato sanctoque senatu ; quo res audacter magnas parvasque
iocumque eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu evomeretj.si
qui vellet, tutoque locaret; quocum multa volup [et] gaudia clamque
palamque, 280 ingenium quoi nulla malum sententia suadet
ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis, suavis homo,
facundus, suo contentus, beatus, scitus, secunda loquens in tempore,
commodus, verbum paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas
285 quem facit et mores veteresque novosque tenentem multorum
veterum leges divomque hominumque, prudenter qui dieta loquive tacereve
posset (1). In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero
sapiente pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor
gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza e con facondia
e tacere a tempo opportuno, che non com- mette mai il male, neppure per
leggerezza, fedele nell'a- micizia e servizievole^ contento del suo,
felice, che infine sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene
ermeti- camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle in
balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto ad
intenderle. E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal
(2), che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen- tare
i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po- trebbe dire assai
piii convenientemente quello che Macro- bio scrisse dell'Emiliano, che
cioè fosse « vir non minus (1) Gellio, N. a. XII, 47: « L.
Aelium Stilonem dicere solitum ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec
scripsisse picturamque istam morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse
». I versi sono se- condo il testo dato dal Valmaggi (= vv. 294 ss.
Mìjller = fr. 194 Baehrens). (2) Antologia latina, Milano,
1899, p. 16. — 25 — philosopMa quam virtute
praecellens » (1); e l'ipotesi tanto pili è accettabile se pensiamo che
Scipione fu forse il mi- gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe
in tanta considerazione da comporre intorno a lui un poemetto —
Scipio — e da fargli dire : A Sole exoriente supra Maeotis
paludes nemo est qui factis me aequiperare queat. Si
fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli
maxima porta patet (2). E Cicerone stesso, appunto per la sua
sapienza, oltre che per la fama delle sue imprese, non lo scelse
come protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De
Repuhlicaf 3. — Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col
quale incominciavano gli Annales e di cui ci sono rimasti ap- pena
alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di Lucrezio, di
Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4). (1) In
Somnium Seipionis^ I, 3. (2) Cicerone, Tuse. V, 49; Seneca, e/),,
108 e altri. Seneca poi, nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione:
« animus eius in eaelum^ ex quo erat^ rediisse persuadeo rtiihi ».
(3) Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902,
pp. 4-6; L. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. MDCCCLXXXV, pp. 3-5, e
nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, 1886. Vedi anche le
osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884, p. 139 e seg. e
lo studio del Valmaggi pubblicato nel Bollettino di filai, classica, III,
259 e seg. (4) Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., I, 10;
Aead, II, 16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. II, 1, 52-54; Persio, prol. 2
sg., sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Sehol. Cruq.
in Horat., Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep. IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio,
ad Aen.^ II, 274, ecc. — 26 — Questo sogno che «
levò grande rumore nel mondo ro- mano e di cui spesso si parlala, ora con
serietà filosofica, ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale
» (1), doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato
sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian- gente (3) di
Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno all'ordine dell'universo (4),
alle trasmigrazioni di ogni ani- ma umana attraverso un proprio ciclo di
vite (5) e alla sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una
forma intermedia fra l'anima e il corpo (6) e a ricordargli le
mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte del corpo, in
un pavone (7) e rinata appunto in lui, il (1) A. Pasdera, Il
sogno di Scipione^ Torino, Loescher, 1890, p. 4 nota. (2)
Persio, Prol. 1 3 : « Nec fonte labra prolui eaballino Nee in bicipiti
sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodi- rem », e Schol. ad V.
21 « tangit Ennium^ qui dicit se vidisse sommando in Parnaso Homerum sibi
dicent em quod eius anima in suo esset eorpore * . (3) La
ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di gioia per il
momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ? (4) Lucrezio,
I, 126 : « rerum naturam expandere dictis ». (5) Lucrezio, I, 113 :
« an contra nascentibus insinuetur (ani- ma) » e 116 : « a?^ pecudes
alias insinuet se ». (6) Lucrezio, 1, 120-123 : « Etsi praeterea
tamen esse Acherusia tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo
ncque perma- neant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro
modis palleniia miris » . (7) Persio, Sat. VI, 10 sg. : « Cor
iubet hoc Enni, postquam destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo
». Tertul- liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerus Ennio
som- mante » ; Hbid.^ e. 34: « perinde in pavo retunderetur
Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione^
I, G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ;
Lat- tanzio in Theb. Ili, 484. — 27 —
discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale, press'a
poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo non solo per
l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma altresì per l' accenno alle
ti-asformazioni e incarnazioni dell' anima di Omero, e per 1' affermata
parentela spiri- tuale dei due poeti. Che il pavone poi,
importato, come sembra, nel secolo sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la
patria di Pitagora, avesse nella filosofia mistica di questo iniziato
un'impor- tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —
per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stel- lato, al quale
salivano dopo ogni morte corporea le anime umane (onde l'espressione per
me simbolica del fieri pa- vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu
scelto dal poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere
l'a- nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. 4.
— Il fatto che il grande poema storico degli Annales, il quale ebbe da
parte dei Romani un culto analogo a quello che noi tributiamo alla Divina
Commedia, incomin- ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la
dif- fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ; poiché,
appunto per lo studio che del poema si fece, fin (1) Servio,
ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393. (2) MuELLER, Q. Ennius^
p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturpflanxen und Hausthiere, 2^ ediz., p.
309. (3) Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o
ad altre consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi fu
Seno- fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene
Laer- zio (YIT, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa,
se non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi
anche animale. ~ 28 — dal secondo secolo a. C.
nelle scuole di grammatica e di rettori ca (1) e per le pubbliche letture
di esso, ancora in uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2),
si dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in
Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di Pitagora, che nel
sogno si ricordava e che era poi una delle principali di detto sistema.
Difatti sono assai fre- quenti nella letteratura posteriore — e noi le
vedremo — le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del
resto fu forse introdotta in Roma anche per altro tramite, sia cioè per
mezzo dei Misteri, nei quali si insegnavano appunto dottrine per molti
rispetti somiglianti alle pita- goriche, sia per mezzo della filosofia
platonica e stoica, che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e
anteriore air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in
qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche stesse. 5.
— Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni alla filosofia
pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi e slegati frammenti che
ce ne restano : ma non è impro- babile che, a proposito di Numa, fossero
non solo notate incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa
ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e quelle del
filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la prima volta sarebbe stata
inserita in un'opera storica e letteraria latina la notizia desunta dalla
tradizione orale an- teriore, che il gran re avesse avuto a maestro
Pitagora (3). (1) SvETONio, de gramm. 2. (2)
Noetes Attieae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5. (3) MuELLBB, Q. Ennius^ p.
161 sg. — 29 — In altro scritto invece noi
sappiamo con certezza che Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche:
e precisa- mente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal
nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più valenti
seguaci della scuola italica (1). Anche in questo lavoro poetico, il
nostro scrittore finse un sogno: Nam videbar somniare med ego esse
morluum (2j e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse,
nelle regioni infernali, dottrine di filosofia naturale suU
'origine e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il
verso nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il
noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco: . . . terra corpus est,
et mentis ignis est (3). Al qual proposito Yarrone, citando, un
altro verso dello stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui
anima ac mens: qui caldor e caelo^ quod Mnc innumerahiles et
immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit: istic est
de sole sumptus isque totus mentis est (4). (1) Yahlen, 0.
e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest. epich. p. 53. Yedasi anche
lo studio del Pascal, Le opere spurie di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio
in Biv. di fìlol. e di istrux. classica^ a. XLYIl, f. P, genn. 1919 pagg.
66 sgg. (2) Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51. (3)
Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii al- l'Eneide,
YI, 724-732. (4) De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit.,
p. Ili sg. Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza
pitago- rica è quella che ricorda Cicerone {de divin.^ II, 62, 127) a
pro- posito dei sogni : « aliquot somnia vera^ inquit Ennius^ sed
omnia noenum necesse est ». — 30 -™ 6. —
Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come sì è detto, ebbero
efficacia fino al secondo secolo dopo Cristo, Ennio rivolse l'attività
dell' ingegno, trasfondendovi i tesori della sua sapienza,
all'insegnamento orale; senza dire poi che l'esempio della sua vita
intemerata spronò all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i
nobili cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Egli si stu-
diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e ad una
concezione individuale delle cose, alla quale non erano certo avvezzi i
Romani, educati sotto una disciplina ferrea. Abituando le loro
intelligenze alle bellezze ed alle sottigliezze della cultura greca,
insegnando in privato le dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di
Evemero le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti
ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in se stesso, nelle
profondità dell'anima, il fondamento del proprio valore, della propria
libertà e della propria feli- cità, diede impulso a una vera rivoluzione
razionalistica nello spirito romano (1) : sì che fra quei valorosi
soldati e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la
cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche in fatto di
fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit- tima, fondata su ciò che
l' uomo ha di più sostanziale e di proprio, cioè su l'intelligenza e
sullo spirito. Non è improbabile che appunto per questo Catone,
il quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il bene
dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva dato egli stesso
involontario impulso e perseguitasse l'A- (1) GiussANi,
Letterat. romana^ Milano, Yallardi, p. 90. Si veda anche su Ennio il
saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To- rino, Bocca,
1915). - Bl - fricano (1); tanto che questi,
avendo suscitato contro di sé molte ire violente e molte accuse
politiche, si ritirò sde- gnosamente nella sua villa di Literno, nella
Campania, dove morì nel 183 (2). 7. Proprio in questi anni,
facendosi uno scavo, furono scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per
un caso assai strano, venivano molto opportunamente a confermare
gli insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco-
perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio Emina, il
quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava come un impiegato di nome
Cneo Terenzio, facendo dei lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse
scoperta e (1) V. Livio, XXXVIII, 54. (2)
Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi C. Pascal,
Fatti e leggende di Roma antica^ p. 85-96. f3) Si veda, intorno a
questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueber die Bueeher des Numa^ negli
Atti dell' Accademia di Monaco del 1849. (4) Nat. Eist. XIII,
84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter: « Cassius B.em,ina^
vetustissimus auctor annalium,^ quarto eorum, ^ibro prodidit^ Cn.
Terentium, scribam agrum suum, in lanieulo repastinantem offendisse
arcani in qua Numa qui Romae regna- vii situs fuisset. In eadem libros
eìus repertos P. Cornelio L. f. Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad
quos a regno Numae colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta^ maiore
etiam- num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter
in re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo
ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem
fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque versus.
In eo lapide insuper libros inpositos fuisse., propterea ar- bitrarier
tineas non tetigisse: in his libris scripta erant philoso- phiae
Pythagoricae ; eosque combustos a Q. Petilio praetore quia philosophiae
scripta essent ». — 32 — scavata la tomba del re
Numa, che conteneva i libri di lui ; e, cosa di cui molti si
meravigliarono, cotesti libri di carta s'erano perfettamente conservati ;
ma, come spiegava lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al
fatto che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò
quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal- l'umidità, ed
essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi
poi contenevano scritti di filo- sofìa pitagorica, per la qual ragione
furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso
racconto fece pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Fru- gì
(1), secondo il quale però detti libri erano sette di di- ritto
pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano pure, secondo 1'
annalista C, Sempronio Tuditano (2) e contenenti i decreti di Numa.
Secondo Valerio Anziate infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici
pontificali scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e
non si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca
adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia
questi (1) Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : «
Hoc idem tradii 0. Piso censorius primo commentari or um,^ sed libros septem
iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse ». (2) Plinio l. e.
= H. R. rell. I, p, 142-143 P : « Tuditanus decimo tertio Numae
decretorum fuisse » . (3) Plinio /. e. : « libros XII fuisse ipse
Varrò Humanarum antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII
potiti fi- cales latinos^ totidem graecos praecepta philosophiae
continentes » . Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell.
I, p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e. p. CC.) che
Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio
Pisone. 33 ed altri autori (1) sono
concordi nell'affermare sia la sco- perta dei libri, durante il consolato
di P. Cornelio Cetego e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro
pronta di- struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è
possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la critica pili
recente si è affrettata ad affermare che essi dovettero essere un'abile
falsificazione di qualche scrittore, fanatico delle nuove idee
pitagoriche, in quegli anni ap- punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e
accettate da Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad
una grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non
vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la tradizione pitagorica
che base dell' insegnamento di questa dottrina era la segretezza e il
mistero ? E proprio un pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua
scuola, in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma
così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già la tradizione
ammetteva la filiazione degli istituti e delle leggi religiose di Numa
dal Pitagorismo ? Ed è poi possi- bile che fra i senatori romani, i quali
decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così
miracolosamente scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere
una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i
libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero realmente quelli
del re sapiente (2), e perchè contenevano, (1) V. ancora le
testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A- gostino {De civ. dei^
YII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto la sua narrazione
Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1, 12), di Festo (p. 173 M.
= p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 22) e del de vir. ili. 3.
(2) Livio osserva ohe questa convinzione derivò dall' opinione
diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che
8. 34 secondo la testimonianza di
Varrone^ la spiegazione degli stituiti religiosi di Numa (cur quidque in
sacris fuerlt institutum)^ fondati, come quelli di tutte le religioni,
su ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti-
colare della natura. Ora, dice assai giustamente lo Chaignet (1),
questa inter- pretazione razionale ed umana delle credenze e delle
isti- tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon-
damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta ogni
consistenza a quella religione « di stato » che, come tutte le religioni
dogmatiche, si esauriva per i più nelle pratiche del culto (le «
religiones » di cui parla Livio) esigendo, come condizione della propria
esistenza, la fede cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo
pen- sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono^ a
far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era filosoficamente
provata ed attestata 1' origine del diritto pontificale romano, cardine e
fondamento primo dello Stato, dall'occultismo pitagorico (2); se pure il
motivo di tale di- struzione non fu quello stesso per il quale^ come
abbiamo già veduto. Cicerone non volle troppo approfondire la ri-
cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e i piii antichi
istituti di Roma. Stando al racconto di Plu- egli, certo per
ragioni cronologiche, chiama un « mendacio » (XL, 29). (1)
Pythag. et laphilos. pytkag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136.
(2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago-
stino {De eivit. dei VII, 34), il quale spiega per quali ragioni «
demoniache » Numa compose i suoi libri e poi li fece seppellire nella sua
tomba, e il Senato li fece abbruciare. Né meno interes- sante è il
capitolo seguente (35 j, in cui si parla delle arti « idro- mantiche » e
delle evocazioni di Numa. ^ 35 — tarco, infine,
questi libri erano stati scritti da Numa stesso e per ordine suo sepolti
con lui; e ciò perchè, secondo la massima pitagorica, non era bene
affidare la conser- vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza
vita, an- ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E,
forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani non dovettero fare
molta opposizione alla proposta di distruggere i libri stessi, gelosi
come erano delle loro dottrine, allora, come sempre, facilmente
suscettibili di scherno e di riso, se male interpretate o fraintese
(1). 8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace-
mente per introdurre in Roma l' antica sapienza della Magna Grecia, di
qui si diffondevano per l' Italia e pe- netravano nella grande metropoli
anche i culti bacchici e le sette orfiche, intimamente legate con le
pitagoriche per gli stretti rapporti che vi erano fra le due
dottrine segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato-
consulti (2) e si istituirono tribunali (quaestiones de Bac- chanalibus
sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di- (1) Uno
scrittore israelita del secolo XYII, il Sklden, nell'intro- duzione
dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam Hebraeorum
stampata a Londra nel I6l0, volendo sostenere ch.e ogni sapienza viene
dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre volte rinnovata, di cui gli
Ebrei erano i depositari, afferma invece che Numa Pompilio era in segreto
un adoratore del vero Dio, che i libri da lui lasciati e scoperti solo
parecchi secoli dopo la sua morte erano la giustificazione della sua fede
e la glorificazione del Dio d' Israele, e che appunto per questo il
Senato ne ordinò la distruzione, perchè racchiudevano la condanna della
religione di Stato. (2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia
uno (scoperto nel 1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: *
Bacas vir ne- quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .
— 36 -- mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci
riferisce il violento discorso che il pretore Lucio Postumio
Tempsano pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-
vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religio - nidus
captas mentes » (1). E ben vero che queste asso- ciazioni misteriose —
clandestinae conmrationes ^ come dice Livio (2) — e questi culti sempre
perseguitati dall' orto- dossia romana venivano in parte dall' Etruria e
dalla Cam- pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire
diversi focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe-
cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei centri
d'origine del Pitagorismo (3). Così delle tavolette d' oro,
scoperte recentemente in tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica
Thiirium e che risalgono alcune al secolo lY e altre al principio
del sec. Ili a. C. (4), ci conservano l'eco di versi orfici che
sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita- zione di
Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « lo (1)
Livio, XXXIX, 15. (2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19. (3)
Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia
evenerat^ reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni exsecutus est cura
» e XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro- vincia Apulia evenerat^
adiecta de Bacchanalibus quaestio est : cuius residua quaedam velut
semina ex prioribus malis iam priore anno adparuerant ». (4)
Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè n. 638-642. Alcuni testi
da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli scavi^ 1880, p. 155
e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg. Cfr. anche Comparetti
Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi- renze 19lO. (5)
Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »
quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog
— 37 — sono sfuggita al cerchio delle pene e delle
tristezze (1) », grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita
tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora « implorando il
suo soccorso », s'avanza verso la regina dei luoghi sotterranei, la santa
Persefone, e verso le altre divinità dell'Ade; essa si vanta di
appartenere alla loro «razza felice», e domanda ad esse che la mandino
ora nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la pa- rola
di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale ! » In questi brani
poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere redazioni diverse d'un testo
comune piti antico. Parecchie altre tavole, che risalgono in parte alla
stessa epoca, sono state trovate nelle stesse località ; altre sono state
scoperte nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste-
riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo sotterraneo
(3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del « Libro dei Morti »
egiziano contiene una confessione ne- gativa dei peccati, che sembra 1'
amplificazione di quello che le tre tavole di Turio condensavano in poche
parole (4). In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama
con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza
YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87} ha
richiamato 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche H.
DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. l sg.
(1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri. Y.
Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, 1904, v, I, pag. 141
sg. (2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme,
Bull. de corr. héll. XYII, 121-124. (3) Y. qualche parallelo
buddico in Rhys Davids, Suddhism, p. 161. (4) Cfr. Maspéro,
Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e Brttgsoh, Steinin- schrift und Bibelwort. Y.
anche Maspero, Hist. ancienne^ p. 191. — 38 — fonda
la sua speranza in una felice immortalità. Se l' a- nima dell' Orfico
pretende di avere espiato « le azioni inique » e quindi si sa liberata
dalla sozzura che ne de- riva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le
colpe che ha saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi
fatti, dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu-
mi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di que- st'antica
confessione, in cui si vedono accanto alle colpe rituali, e ai precetti
di morale civile accolte da tutte le comunità incivilite, l'espressione
d'un sentimento morale non comune e che ci può persino sorprendere per la
sua squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non ho
allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho reso il povero
più povero!... Non ho trattenuto, l'operaio ai suo lavoro più del tempo
stabilito nel contratto !... Non sono stato negligente! Non sono stato
fiacco!... Non ho messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo
padro- ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma la
morale che scaturisce da questa confessione non si è contentata di
proibire il male; ha anche prescritto degli atti di beneficenza positiva
: « Dappertutto, grida il morto, ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva
fame, dissetato chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una
barca al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima
giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva final- mente nel
coro degli dei. « La mia impurità, grida piena di gioia, mi è tolta, e il
peccato che mi stava addosso l'ho gettato. Giungo in questa regione degli
eletti glo- riosi.... » « Yoi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta
agli dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io uno
dei vostri ! » — 39 - Nessuna meraviglia quindi
che gli scrittori del tempo di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal
mezzogiorno, fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.
Di un grande poeta comico. Stazio Cecilio, morto nel 168, che fece
parte del collegium poetarum dell'Aventino e abitò in Roma nella stessa
casa con Ennio, ci restano troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir
nulla del contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però
r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un qualche influsso sulla
formazione del suo gusto e della sua arte. Con Ennio visse
pure in Roma, sino alla più tarda età, frequentando anch'egli il circolo
degli Scipioni, il nipote Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si
ritirò poi a Taranto dopo il 140 e vi mon novantenne. Che egli
dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre che l'esplicita
dichiarazione di Pompilio : Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit
Enni^ Emiius Musar um^ Pompilius clueor^ i due frammenti del
suo Ghryses^ nel primo dei quali mostra la stessa libertà di spirito e di
parola, rispetto ai falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in
Ennio: .... nam istis^ qui linguam avium intellegunt, plusque
ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo, magis audiendum quam ausoultandum
eenseo (1) ; (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo
verso anche pr. Nonio 246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed
superstitiosi vates impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut
quibus egestas imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant
viam^ Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt », e
gli — 40 — e nel secondo esprime intorno
all'etere un concetto affatto, pitagorico, che troveremo anche in
Virgilio: v hoc vide^ circum supraque quod complexu continet
terram.... solisque exortu capessit candorem, oecasu
nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera
: quidquid est hoe^ omnia animai^ format^ alit\ auget^ creai,
sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,
indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.
mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat (1).
Istic est is lupiter' quem dìco^ quem Or acci vocant a'érem: qui ventus
est et nuhes; Ì7nber postea, atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer
denuo, kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi, quia
mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat. Il passo, dice il
Pascal {Antol. latina^ Milano, 1899, p, 30 n.) era libera traduzione del
Crisippo euripideo, del quale è rimasto il fr. 836 Nauck'; e trovò altro
traduttore in Lucrezio II, 991-1005. Se il pensiero esposto da Euripide
del Cielo o Giove nostro padre e della Terra madre risale al suo maestro
Anassagora (500-430 circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune
fra i mistici. 10. — Questi versi ed alcuni altri (2), se sono per
sé poca cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti
superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una certa continuità
di pensiero, che non può sfuggire neppure ad un esame superficiale. Così,
per lasciare in disparte i altri : « Qui sui quaestus causa
fìctas suscitant sententias » e « Omnes dant consilium vànum atque ad
voluptatem omnia ». (1) Congiunse così questi versi (citati in
diversi luoghi da Var- HONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo
concetto dell'aria poi ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :
(2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).
— 41 — versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e
che si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici greci
(1), nonché il suo concetto della virtìi (2), come non pensare alle
dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne sia stato r influsso — ,
quando leggiamo sentenze come queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a.
C), Tuna che ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei
de- siderii : Profecto ut quisque minimo contentus
fuit^ ita fortunatam vitam vixit m,axime^ ut philosopki
aiunt isti^ quibus quidvis sat est (3). e l'altra che così
definisce la difficoltà del sapere : Ita est: verum haut facile est
venire ilio uhi sita est sapientia. Spissum est iter: ajnsci haut possis
nisi cum magna miseria? (i) E se i grammatici che ci hanno
conservato i frammenti di questo poeta (200 versi appena), avessero badato
piìi al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una
raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi
(1) V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note. (2) Pascal
(p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque opes Eripere quivit^
at virtutem non quìit » e « Scin ut quem- eumque tribuit fortuna ordinem^
Numquam ulta humilitas inge- nium infirmai bonum ? » (3) pr.
Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi... isti annota :
« i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il poeta, imi- tatore di
Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo quanto si siano
burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo, di cui Gellio {N. a.
IV, il) potè scrivere: mediae comoediae pro- prium argumentum fuit Fythagoreorum
exagitatio ». (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo
spissum.. iter., che forse può intendersi in senso proprio, non
traslato. — 42 — e di idiotismi, potremmo forse
citare altri passi ugual- mente notevoli e significativi. Così
veramente notevoli sono le sentenze di comici ignoti citate dal Pascal
(1), che certo non sarebbero fuor di luogo nei carmina aurea pitagorici e
che riprendono motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del
Pita- gorismo quanto di altri sistemi posteriori: 1. Sui
quique mores fingunt fortunam hominihus, (2) 2. Non est beatus^
esse se qui non putat. (3) 3. Is minimo egei mortalis, qui minimum
cupit. 4. Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest.
(4) 5. In nullum avarus bonus est^ in se pessimus. (5).
6. Ab alio expectes alteri quod feceris. (6) 7. Beneficia in
volgus eum largiri institueris perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene.
(7) 8. .... quid ? tu non intellegis tantum te adimere
gratiae quantum morae adicis ? (S) (1) pag. 68
sg. (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens
poeta; esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni
si tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così :
suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita Att. Il,
6 ed altri, di cui il Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147. (3) pr, Seneca,
epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come dice questa sentenza,
siano proiezioni subbiettive dello spirito o non l'effetto di cause
esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe- tutamente Cfr. PuBL.
Siro I, 56, Q, 7 Meyer. (4) Questa e la precedente pr. Seneca,
epist. 108, 11. Cfr. la prima sentenza di Turpilio su citata.
(5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9. (6) pr. Lattanzio, div. inst.
I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex. Sever. 51 : « quod tibi fieri non
vis., alteri ne feceris » e nei Garm. epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab
alio speres, alteri quod feceris». (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ;
cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62: « benef acta male locata malefacta
arbitror » . (8) pr. Seneca, de benef. II, 5, 2.
— 43 — Così pare degni di nota sono i seguenti
frammenti: 1. Felicitas est quam voeant sapientiam. (1)
2. Tutare amici eausam, potis es, suscipe. Obicitur erimen eapitis^
purga fortiter. In amici causa es, imm,o certe potior es. {2}
3. Iniuriarum remedium, est oblivio. (3) Ma queste sono
quisquilie, che, se pur dimostrano una certa diffusione del pensiero pitagorico
in Roma, non pos- sono tuttavia essere prese per se come indizi di una
vera e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della
poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere che anche gli
accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine filosofiche, fossero presi
di sana pianta dalle opere che gli scrittori latini, massime i comici, o
imitavano o traduce- vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche
in opere prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave-
vano un contenuto ideale — morale specialmente — con- sono allo spirito e
ai bisogni del popolo romano, il quale, sopra ogni cosa, ebbe un profondo
senso del giusto, che poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi.
11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10 (180-103
a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita- gorismo, quale egli potè
osservarlo praticato e seguito in Roma al tempo suo, se ci restassero,
dei suoi trenta libri di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare
che si occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri-
sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-
(1) QuiNTiL. YI, 3, 97. (2) Charis. V, p. 253 P.
(3) Seneca, epist.^ 94, 28. — 44 — . nuto
che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro sistemi. Ma
disgraziatamente anche di questo poeta poco o nulla ci resta. Anch'egli,
bensì, come Ennio, ebbe mente libera dai pregiudizi volgari :
Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena vivere et esse
homines^ sic ist soinnia fèda vera putant^ credunt signis cor
inesse in ahenis (1) sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro
bellissimo frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e
nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtìi: Virtus, Albine,
est pretium persolvere rerum quis in versatnm\ quis vivimus rebus
potesse, virtus est homini seire id quod quaeque valet res ;
virtus seire homini rectum^ utile quid sit^ honestum^ quae
bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ; virtus^
quaerendae fène^n rei seire modumque ; virtus^ divitiis pretium
persolvere posse ; virtus^' id dare^ quod re ipsa debètur honori
; hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,
contra defensorem hominum morumque bonorum, magnifècare hos,
his bene velle^ his vivere amicum ; commoda praeterea patriai prima
putare^ deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)
(1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13. (1) fr. 119
del Bàhr. ■= Latt. VI, 5, 2. CAPITOLO TERZO
Sette e scuole pitagoricbe in Roma nel I secolo a. C.
1. I Qenethliaei. — 2. P. Nigìdio Figulo e la sua scuola segreta.
3. La scuola dei Sestii. 1. — Da Sant'Agostino (1) ci è
stato conservato, del- l'opera Yarroniana De gente populi romani^ un
passo per noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt
esse in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav Graeci
; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL^ ut idem corpus et eadem
anima j quae fuerint coniuncta in cor por e aliquando, eadem rursus
redeant in coniun- etionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali
credevano nella risurrezione dell'anima e della carne e ne
fissavano persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua-
ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed astrologiche, a
cui si davano anche i nomi di magi^ di caldei e di matematici. Abbastanza
numerosi in Roma nel II e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali
e l'in- (l) De civitaie dei, XXII, 28. -
46 — filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e
dal- l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi
persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello stato. Poiché,
come dice il Pascal in un suo geniale e interessante studio (1),
svolgendo in particolare la dottrina della resurrezione dei morti
(filiazione diretta della metem- psicosi pitagorica) la fecero entrare in
un sistema di loro particolari teorie, la congiunsero con predizioni
contenute nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co-
noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi umani. Essi
non partivano, come gli aruspici e gl'indovini, dal concetto che gli dei
manifestassero la volontà loro per mezzo di segni particolari, ma dal
concetto, razionalmente svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da
leggi e da rapporti immutabili nell'universo e che quindi,
all'apparire di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente
se- guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,
aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien- tifica,
tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica, della credenza
popolare che la vita di ciascun uomo fosse regolata dall' astro che lo
aveva visto nascere » . Strani davvero questi scienziati-filosofi che si
sforzano di ribadire con argomenti razionali e di ridurre a ragioni
scientifiche le superstiziose credenze del volgo! e che riescono
tanto bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec. d.
C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste- matica il loro
edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi (1) La
resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e Roma del marzo 1901
e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi- renze, 1903 pp. 186 e
segg. (2) AULO Gellio, Noet. Att. XVI, 1, riporta quasi
testualmente il discorso di Favorino. — 47 —
a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso
acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon- dano computato a
quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai Genetliaci dalla
tradizione popolare: gli argo- menti che il Pascal porta a sostegno della
sua affermazione mi inducono piuttosto a credere il contrario^ e cioè
che l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-
italico-romana (1) e da, questa passasse poi al volgo per mezzo dei
responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero e la diffusero per il
popolo (3). Di più, un'altra credenza notevolissima fu propria e del
Sibillismo e dei Genetliaci : la credenza cioè che ultimo dio del ciclo
mondano dovesse essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato
l'uni- verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini
rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm. I, 2) invocò
perchè venisse a redimere l'umanità dal peccato : Tandem venias^
precamur^ ISube candentes umeros amictus Augur Apollo.
(1) Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra
scuola di astrologi per la quale 1' estensione di tempo era molto
maggiore, e cioè di 470000 anni ! (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 :
« La Sibilla cumana ha pre- detto che dopo quattro secoli sarebbe
avvenuta la palingenesi ». (3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ;
Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.;
Persio, Sat. V, 47 sg. (4) Servio nel commento al v. 10 della IV
ecl. di Virgilio riporta il seguente passo del quarto libro de diis di P.
Nigidio Figulo : « Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus
fdistin- guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde
lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt
Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa
ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglao-
phamus^ pag. 791 sgg. — 4:« — - La rigenerazione
degli uomini e la conflagrazione del- l'universo per virtù di Apollo —
conflagrazione probabil- mente simbolica e che tuttavia potè essere
aspettata da alcuno come reale ed effettiva (1) — furono dunque due
concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più precisamente in
quelle dottrine mistiche, nelle quali sap- piamo quanta parte e che
profonda significazione avesse il mito apollineo e solare, E come può
tutto questo essere stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,
e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole attribuire al
popolo, a questo essere impersonale, così im- maginoso e così balordo,
così ricco di fantasia e così cre- denzone! Non è assai più verosimile
pensare a una genesi più elevata e razionale, a una creazione veramente
intel- lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti,
dai sapienti agi' ignoranti,, si materializza e degenera dal- l'essenza
primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto parallelo e continuo, nuovi
aspetti e nuove significazioni realistiche e concrete? In
ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane deformazioni che il
pensiero pitagorico dovette subire in Koma, uscendo dal segreto sacrario
delle scuole dei saggi e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze
d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,
aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero, come vedremo
più innanzi; oggetto di riso nel teatro po- polare, e d'altra parte si
spiega assai bene come i seguaci del Pitagorismo dell'antica maniera, per
sottrarre le loro (1) Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175
sgg., forso dell'Sl od 82 d. C, citato dal Pascal e che questi crede
composto da qualche terapeuta od esseno. — 49 --
dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti col
popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente in segreto, nel
silenzio delle loro case e delle loro scuole, per meditare, lontano dal
profanum vulgus, V antica sa- pienza loro tramandata attraverso tante generazioni.
2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo- sofìa di
Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai estinta come
complesso di teorie e d'insegnamenti pratici ben distinti da quelli di
altre scuole, fu un grande sapiente, del quale in verità ben poco
sappiamo, contemporaneo e amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel
proemio del Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.
Nigidio Figulo: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae « quidem dignae
libero essente ornatus omnibus^ tum acer « investigator et diUgens earum
rerum quae a natura invo- « lutae videntur » . E poi continuava: «
Deniqiie sic ludico « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina
exstincta « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret »
. Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro nel
59, legato in Asia nel 52 (1), e infine esiliato da C. Griulio Cesare,
forse non soltanto, come ora vedremo, per aver seguita la causa di
Pompeo, morì in esilio nel 45 (2). (1) Cicerone nel Timeo
ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia di questa sua legazione con le
parole : « qui (Nigidius), eum. me in Gilieiatn profieiscentem Ephesi
expectavisset, Romam, ex lega- tìone ipse decedens etc. ».
(2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45 a.
C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et magus in exsilio m^o- ritur ». Si
noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come nella tradizione
che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre, il Pitagorismo e la
magia. S. Agostino (De civ. dei V, 3) parlando di Nigidio, lo chiama «
mathematicus ». 4. — 50 -— Per il
suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone, e benché non ci restino
che pochi e scuciti frammenti dei suoi scritti (1), pure sappiamo che
egli scrisse molto e con profondità di ricerche « che arrivava fino
all'astruse- ria », come dice il Giussani (2), cioè oltrepassava quel
limite al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve-
dono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam- MONico, come ci
riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi mus rerum naturaUum indagator
», e lo stesso Macrobio [Sat. YI, 8) lo dice « ìiomo omnium bonàrum
artlum di- scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è
visto, lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno-
meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli studi, che
furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo, quasi sempre, forse a
torto, misconosciuti dai più. Sant'A- GOSTUso lo disse * matematico ' e
Svetonio ' pitagorico e mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse
ritenuto mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso
SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta come cosa nota
a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac- que, discutendosi in Senato
intorno alla congiura di Cati- lina, ed Ottavio, per causa appunto della
moglie partoriente, essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio,
cono- sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto,
affermò che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter-
ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto
(1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.
(2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.
(3) SvETON., Aug. 94: a quo natus est die, cuni de Catilinae co-
niuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium serius
adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta —
si- che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio (1.
XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi- dio. Apuleio a sua
volta (1) riferisce di aver letto in Varrone che un certo Fabio, avendo
smarrito una forte somma di denaro, andò da Nìgidio per consultarlo e
questi, per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi
ed incantesimi (Carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno-
tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era stata
sepolta la borsa con una parte delle monete, che le altre erano state
distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo Catone; ciò che fu
pienamente confermato dai fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro
filosofo siffatte conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante
un viaggio in oriente, fatto in gioventìi ? Non sappiamo, seb- bene
d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella Grecia imparò che la
terra si muove con la velocità della ruota di un vasaio (2).
morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù num
terrarum orbi natum ». (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini
me ajìud Varro- nem philosophum, virum accuratissime doctum atque
eruditum, eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^
cum quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum, venisse;
ab eo pueros cannine instinctos indicavisse^ ubi locorum defossa esset
crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum etiam
denarium^ ex eo numero habere Catonem philosophum^ quem se a pedissequo
in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ». (2) Ciò si
desume da una nota del Gommentum a Lucano (I, 639), dove è detto che
Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re- gressus a Oraecia dixii
se didicisse orbem ad celeritaiem rotae fi.guli torqueri »• Del
soprannome altri davano una ragione un po' diversa, in rapporto con la
famosa obiezione dei due gemelli così spesso fatta agli astrologi e di
cui fanno ricordo, fra gli altri, lo - 52 "->
Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora che usava
una dieta assai parca (1), possiamo dire che furono molte e di varia
natura: egli scrisse di filosofia, di astrologia e anche di filologia
(2). Di lui si ricorda un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel
quarto dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli
dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo accennava alla
teoria etrusca delle quattro specie di dei penati : quelli di Giove,
quelli di Nettuno, quelli degl'In- feri e quelli degli uomini (3), cioè,
probabilmente, gli spi- riti celesti, acquatici, terrestri (gli
elementari dell' oc- cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera
ci restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram-
matico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius solus
est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo- logia^ Me in
eommunihus litteriSy nam uterque utrumque scripserunt » . La luce di
Varrone dunque oscurò quella di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei
erano letti soltanto, come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della
dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43,
90), Gellio, N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e
S. Agostino 1. e. (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius :
nos ìpsi ieiunìa ien- taeulis levibus solvimus. (2) Egli
sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, ohe il linguaggio è
d'origine naturale e non convenzionale. (3) Arnob. adv. nat. Ili,
40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni- gidius) rursus in libro VI exponit
et X, disciplinas etruseas se* quens, genera esse Penatium quattuor et
esse lovis ex his alios^ alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium
hominum quartos., inexplicable nescio quid dieens » . (4) P.
NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae- stiones
nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25, —
53 — più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,
uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di Nigidio sono
ricordati anche tre scritti intorno alla divi- nazione per mezzo delle
viscere (2) e intorno ai sogni (3), una Sphaera graecanica (4) e una
Sphaera barbarica (5), un libro intorno agli animali ed altri,
interamente o quasi interamente perduti. Un'altra causa di
questa perdita è spiegata in parte da Gellio (N. a. XIX, 14, 8) il quale
ci fa sapere precisa- mente che mentre le opere di Varrone erano lette e
co- nosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde in
vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tam- quam parum utilis
derelicta est » . Dunque gli scritti di Nigidio avevano un carattere
piuttosto riservato e segreto, erano poco intellegibili ai piìi per la
loro sottigliezza. E che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è
poi ab- bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata? dai
lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle stesse
dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione delle conoscenze
pitagoriche, sempre maggiore dal tempo della morte di Figulo a quello in cui
Gellio scriveva (se- colo II d. C.) e all'infinito numero di profezie, di
predi- zioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano
l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen- siamo che fu
questa appunto l'età nella quale, pochi de- (1) Si veda,
intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port, dell'anno
1877. (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12. (3) Giov. LoR.
Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm. (4) Serv. ad
Georg. I, 43 e I, 2l8. (5) Serv. ad Qeory. I, 19.
54 cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la
nuova parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione la
strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redi- vivo, che ebbe
immagini e culto divino da parte degl'im- peratori, non può esservi alcun
dubbio : se Figulo fu costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli
amici le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte noie) ; se
lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora vedremo, i Sestii, che
furono ugualmente perseguitati; le vecchie dottrine di Pitagora andarono
tuttavia sempre più diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior
libertà di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final-
mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi- stero in cui si
chiudevano e il simbolismo oscuro di cui si servivano prima.
Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una oscura
predizione di Nigidio, che^ com'egli dice, si studiò di conoscere gli dei
e i segreti del cielo e in queste co- noscenze astrologiche fu superiore
ai sapienti dell'Egizia Menfi : At Figulus, cui cura deos
secret ac/ue caeli nosse fuit^ quem non stellarum Aegyptia Memphis
acquar et visu numerisque moventibus astra^ aut hic errata ait, ulla sine
lege per aevum mundus et incerto discurrunt sidera motu : aut, si
fata 7novent, orbi generique paratur humano matura -lues Egli
predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino flagello, proprio
come, prima di lui, avevano fatto e con lui facevano i Genetliaci. Ora,
dobbiamo noi veramente pensare, a proposito di siffatte predizioni, che
si tratti di — 55 — semplici manifestazioni
sentimentali del desiderio di tempi migliori? Certo le condizioni dei
cittadini romani e del mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e
allar- gando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai
tristi; ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise
talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane- simo, per non
dover pensare a qualche relazione, misteriosa senza dubbio e in parte
inesplicabile, ma pure innegabil- mente certa. Comunque sic^,
poiché, secondo le parole surriferite di Cicerone, con Nigidio Figulo si
iniziò in Roma un vero e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche,
vediamo ora in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento
dell'an- tica disciplina italica. Noi possiamo desumerlo da
altre testimonianze, le quali non solamente accennano a una vera e
propria scuola, a un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in
modo, che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio stesso
abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse tenuto da chi, forse
troppo tenero e non disinteressato amico del nuovo ordine di cose creato
in Roma dal trionfo di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè
vagliarle trop- po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i
fautori dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli
scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1) queste
notevolissime notizie : « Fuit autem illis temporibus « Wigidius quidam^
vir doctrina et eruditione studiorum « praestantissimus, ad quem plurimi
conveiiiebant. Haec « ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s
iacti- « tabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari
(1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.
56 «vellent», e altrove (1) si dice di un tale che €
ablit « in sodalicium sacrile^ii Nigidiani » . In casa sua dunqae
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai misteri della
filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi- cavano a pratiche
mistiche, come ci persuade la ciarlata- neria di quel Yatinio, che,
volendo farsi credere pitagorico e dottissimo, faceva evocazioni di morti
e si abbandonava a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni
finirono col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi
furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando qua e là che
quella era una setta riprovevole e sacrilega; le quali calunnie, credute
tanto più facilmente quanto mi- nore era il numero degli onesti in quei
tempi così torbidi, furono forse un ottimo pretesto per legittimare
l'allonta- namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra
repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un carattere anche
politico e che egli vagheggiasse, nella rico- stituzione del sodalizio
pitagorico e quindi nella eguaglianza sociale e nella comunanza dei beni,
il sogno della nuova felicità umana, è cosa più che probabile, ma non
certis- sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-
(1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14. (2) « Tu qui
te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni nomen tuis immanibus
et barbar is moribus praetendere.... cum inaudita ac nefaria saera
susceperis^ eum infernrum animas eli- cere, Gum puerorum extis Deos manes
rnaetare soleas » Cicesone, in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia
detto incidental- mente, che lo spiritismo non è un'invenzione
moderna! (3) V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii il
Pascal : Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv.
d'I- talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende,
Firenze, Le Monnier, 1903). — 57 — rico,
il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo stesso che ìp Roma
intercedeva per lui, allo scopo di otte- nerne il richiamo in patria,
l'amico Cicerone. Ma doveva essere davvero tenuto per uomo assai
pericoloso il sacri- lego Figulo, se, non ostante che i famigliari di
Cesare e quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione
e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo commuovere,
a favore del fiero repubblicano ! Gli è che in verità in quel momento di
trapasso dalla repubblica (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo
l'interesse dello Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di
fronte agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con- servataci,
nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato delle pratiche ch'egli
faceva indirettamente presso Cesare e delle speranze che aveva di poter
presto riuscire a otte- nergli il perdono, dice cose così interessanti e
adopera espressioni di così alta stima, che metterebbe conto
davvero che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut-
tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni omnium doctissimo et
sanctissimo et maxima quondam gratta » e suo amicissimo, e che
accingendosi a conso- (1) È la lettera 13* del quarto libro
Ad familiares, dell'anno 46 a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor
mihi prospicere pri- mum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum
ad salutem tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui
dall' a- micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del
suo ritorno ; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire
in esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares
eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,
mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem
vulgi voluntas vel potius consensus omnium » ! — 58 —
larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem fa^ cultas vel
tui vel alterius consolandi in te summa est^ si umquam in ullo fuit » ;
cosicché « eam partem^ quae ab exquisita quadam ratione et doctrina
proficiscitur, non attingam: tibi totani relinquam »; e concliiudendo
termina col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea solum memi-
neris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam, quae ipse
ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges^ et sperabis omnia optime
et quae aecident, qualiacamque erunt, sapienter feres. Sed haec tu melius
vel optime omnium » . Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue
parole si ricordano i versi citati della Farsaglia, e se si pensa
ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente ci sono rimasti
e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos- siamo formarci un'idea
approssimativa del genere di dot- trina e di conoscenze che ebbe e di cui
si fece maestro: il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la
divina- zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte
le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in un modo oscuro
e involuto, forse per via di simboli, che fu poi una delle cause
maggiori, se non la maggiore di tutte, per la quale le opere di lui
furono poco lette e a poco a poco caddero nell'oblio. 3. — E
dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi seguaci? Probabilmente non
si dispersero e continuarono a riunirsi; tanto piìi che non mancava certo
fra loro chi potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e
la sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, ci fu
in Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse continuazione di
quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi insegnamenti: voglio alludere
alla « Sextiorum nova et — 59 — romani rohoris
seda » ^ la quale però « Inter initia sua, quum magno impetu coepisset,
extincta est » (1). Decisa- mente i tempi non erano favorevoli alla
filosofìa, anzi a certa filosofia ! E in verità non potevano essere molti
quelli che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle
speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della nuova Roma
imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di- vertimenti, troppe orgie,
perchè vi fosse tempo e voglia di dedicarsi a meditazioni gravi ed
ingrate ! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto
richia- mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e
più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco
duraturi. Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca?
Le notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi-
cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru- zione, come
uomini desiderosi piii delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi,
amanti più della verità e della scienza che delle ricchezze e degli
onori; come uomini infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù,
quanto maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio.
Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente, e sempre con
parole di profonda e sentita ammirazione, il più grande dei moralisti
romani, Seneca, in quelle sue mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta
filosofica sapienza e così degne d'essere studiate e meditate più che
non siano ! In una di queste, la novantottesima, volendo egli
provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei beni che i più
desiderano come fonti di felicità, cita gli esempi di Fabrizio e di
Tuberone, e poi aggiunge che il (1) Seneca, Quaest. nat.
cap. ultimo. 60 padre Sestio, pur essendo
nato in tali condizioni da dovere un giorno governare la cosa pubblica,
rifiutò persino la carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare ;
poiché egli non annetteva alcuna importanza ai pubblici onori,
rite- nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una
rinunzia di questo genere non era certamente cosa che tutti sapessero e
volessero fare in quei tempi di sfrenate ambizioni ; e tanto meno poi per
ragioni filosofiche ! Ma tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua
persona altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento
meno visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, che
fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù, che nessuno
potesse riprendergli e che egli potesse libe- ramente trasmettere senza
pericolo di manomissioni o di latrocinii, l'ornamento insomma della
sapienza ; per la quale fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul
principio, progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo
desi- derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2). Come
degli onori, ei non fu avido neppure dolle ric- chezze; anzi si racconta
di lui che, trovandosi in Atene, ripetè quanto aveva già fatto il
filosofo Democrito, il quale, avendo previsto da certi segni astrologici
una carestia d'olio, prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza
delle olive faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a
buon (1) € Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut
rempu- hlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non
re- cepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse ».
(2) Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella
virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg èv
x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv aB
TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^
np{bzo)t, dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ».
— 61 "- mercato tutto l'olio del paese, e poi,
sopravvenuta real- mente la carestia, restituì ai primi proprietarii la
merce acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe
stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto (1). Ma che uomo
era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito, e come diverso da tanti
filosofi che scrivendo siedono in cattedra, discutono, cavillano, e non
danno all'anima alcun vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son
pa- role di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore, uno
spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti sempre una gran
fiducia in te stesso ! In qualunque stato d'animo, quando si legge il suo
libro, si sfiderebbe la fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro
qualsiasi ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur
mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non ti fa
disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto in alto, ma in luogo
accessibile a chi la voglia conqui- stare, sì che ammirandola tu speri
(2). Quale più alta lode (1) Plinio, Naturalts Historia^
XVIII, 68, 9- 10 : « Ferun Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque
curri terris caeli societatem, spernentibus hanc curam eius
opulentissimis civium, praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or
tu.... magna tum vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu
ornne oleum, mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant
in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia- rum
cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe- nitentiae,
contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet, fore. Hoc postea
Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis fecit eadem ratione
». (2) Seneca, Epistola LXIY: « Lectus est deinde liber
Quinti Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet
neget. Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i!
Hoc non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum
— 62 — per un uomo, di questa entusiastica esaltazione
fatta da Seneca ? E i suoi insegnamenti poi quanto erano
sentiti e pro- fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu
persua- dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava:
portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che vi si veda
riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a quel modo anche
l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed agitata ne sarebbe atterrito (1).
Della onestà e della virtù egli ebbe così alto e giusto concetto che
sostenne l'uomo habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt.
Instìtuu7it, dìspu- tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non
habent. Quuni legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra
hominem est, dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque
positione mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus
pro- vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere!
para- tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se
experiaiuT, ubi virtutem suam ostendat, Spumantemque davi
pecora inter inertia votis Optai aprum, aut fulvum descendere monte
leonem. Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia
exereear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet
Ubi beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet.
Seies illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn
virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres »
. (1) Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait
Sextius^ iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta
mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se, et
quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa reddebat ?
animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos- set., intuentes
nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et distortus, et tumidus.
Nunc quoque tanta deformitas eius est per ossa carnesque, et tot
impedimenta., effiuentis : quid si nudus o- stenderetur ? et e.
— 68 - onesto non per altro essere inferiore al sommo
Giove, che per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per
tutto il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice
quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi la felicità umana
e la divina differenza se non di durata. Ond'è che egji potè veramente
additare ai volonterosi il bel cammino della virtù ed esclamare : « Di
qui si monta alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^
for- tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di
popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa, persuadendo che
gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi la mano. . . . (1).
(1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextìus dicere^ «
lovem plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae
' praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-
cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re- gendi
gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque navigium est.
lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus est. Sapiens nihilo se
minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio breviore clauduntur.
Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui senior decessiti non est beatior
<?o, euius intra pauciores annos terminata virtus est : sìe Deus non
vincit sapiente ut felicitate^ etiam, si vincit aetate. Non est virtus
maior^ quae longior. lupi- ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit
habenda. Ad ipsum hie unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est:
sapiens tam aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et
hoc se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens
non vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et
clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,
secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;
admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem ad deos ire?
Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in hom.'ines venit. Nulla
sine Beo mens bona est. Semina in corpo- ribus kumanis divina dispersa
sunt; quae si bonus cultor excipit.^ 64
Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci- tatrice
di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di Sestio, di
quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo in greco con gravità
romana, e che paragonava l'uomo sapiente, cinto di tutte le buone energie
del suo animo, a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto
e pronto alla battaglia (1). Ed esercitando sui migliori
uomini di Roma, come per esempio quel Lucio Grassizio di cui parla
Svetonio (2), simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus
erta sunt^ sur- gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac
palustris^ ne- cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .
(1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxiìne lego^ virum
acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem. Movit me imago ab
ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^ ubi hostis ab omni parte
suspectus est, pugnae paratum. Idem^ inquit^ sapiens facere debet; omnes
virtutes suas undique expan- dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur,
illic parata praesidia sint^ et ad nutum regentis sine tumultu
respondeant. Qitod in exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant,
fieri videmus^ ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic
dispositae, ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat
; hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim
saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod
suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne UH meius
est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur pericula^ et
occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis terretur auxìliis.
Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus est et intentus: non si
paupertas^ non si luctus, non si ignomi- nia^ non si dolor impetu?n
faciat^ pedem referet. Interritus et contra illa ibii^ et inter illa. Nos
multa alligante multa debilitante diu in istis vitiis iacuimus ; elui
difficile est : non enim inquinati sumus, sed infecti ». (2)
Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad Q. Sextii
philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici però invece di Q.
Sextii leggono Q. Septimii. -- 65 - questa sua
efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli col vigore della sua
persuasione e con la nobiltà della sua vita, sdegnosa d'ogni viltà e
d'ogni bassezza, potè far sor- gere quella « romani rohoris seda » , di
cui abbiamo fatto già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia
dei seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria, che
fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Gelso (2), (1) Dì
lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24. Vedi anche Gellio,
èi. A., I, 8. Nella interessante epistola 108^ Seneca, parlando di se al
suo Lucilio, gii dice come oltre al- l'avere imparato ad astenersi per
sempre dalle ostriche, dai fun- ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e
ad usar materassi duri, aveva anche incominciato, da giovane, ad
astenersi dalla carne, e ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che
dimostrava la inutilità e i danni di questo cibo, valendosi, oltre che
degli argomenti di Pi- tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie.
Riporto quasi per in- tero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam
coepi Ubi ex- ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis
aeeesse- rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi
amorem Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-
siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed
uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-
posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,
aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse quam dicimus
mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua m,ersis illum
quondam hominis animum morari? Non cre- dis nihil perire in hoc mundo,
sed anulare regionem? nec tantum caelestia per eertos circuitus verti,
sed ammalia quoque per vices ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista
crediderunt viri. Ita- que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia
tibi integra serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia
est., si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?
Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere
animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi
consuetudo., sed dulcis... » (2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124: «
Scripsit non parum multa Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine
cultu ae nitore ». — 66 — Papirio Fabiano (1),
Moderato di Cadice (2) ed altri. I Sestii dei quali abbiamo notizia
furono due: il primo quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto
al tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice Se- neca^
rifiutò il laticlavio « divo lulio dante » (3), e avrebbe pure, secondo
il surriferito passo di Plinio (4) dimorato, non sappiamo quando né per
quanto tempo, in Atene; l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto,
che pro- seguì l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a
torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome di Sesto
pitagorico (5), della cui vita infine non sappiamo assolutamente
nulla. Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi,
solitari ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?
(1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle
Con- troversie^ prefaz. (2) Questo filosofo pitagorico visse
al tempo di Nerone, fu famo- so per i suoi insegnamenti intorno alla
scienza simbolica dei nu- meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco,
Quaest. Gonviv. Vili, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla
dottrina pita- gorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck;
Stefano Bi- zantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio,
Vita di Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III. (3)
Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico., che fiorì
ai tempi d'Augusto, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade 195. 1 = 1 d.
C). Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis- suto press'a poco fra
il 70' a. C. e il 5 d. C. (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.
(5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosopho- rum
graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e voi. II (1881)
pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di esse, oltre a ciò
che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.), anche l'esauriente
discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie der Qriechen^ voi. IV, III
ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota. 67
Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se, come
riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a- nima è « una certa
forza incorporea, ilìocale e inafferra- « bile, che, essendo capace senza
spazio, assorbe e contiene « il corpo » . Ma questo evidentemente è
troppo poco per determinare a che scuola essi appartennero. E ben
vero che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi-
stola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era uno
stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren- dere che in realtà Sestio
non si professava stoico. E infatti qualche altra testimonianza lo dice
pitagorico (2), e tale lo proverebbero non solo le sue conoscenze
astrologiche, dimo- strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì
alcune abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di
ogni giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai cibi
carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei seguaci del
Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima è da notare che Sestio non
la giustificava, come Pitagora, (1) De statu anirnae, II, 8
: « ... Eomanos etiam^ eosdemque philosophos testes citamus^ apud quos
Sextius pater^ Sextius fìlius propenso in exercitium sapientiae studio
apprime philosophati sufzt, atque hane super omni anima attulere
sententiatft . Incor- poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis
atque indeprehensa vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et
continet-» . (2) Y. pag. preced., nota 3. . (3) Seneca,
De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc Sextius ut consuniTnato
die^ quum se ad noeturnam qutetem. re- cepisset^ interrogaret animum suum
: Quod hodie malum tuum sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte
ntelior es? » . (4) A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di
Seneca riportata nella nota seguente, si suol citare il passo,
conservatoci da Orige- ne, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di
Cambridge), che suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene
è più conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico,
non già del nostro Sestio. — es- cori la
dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che ai Romani dovettero
parer più ragionevoli, perchè meno astrusi : « gli uomini, egli infatti
insegnava, hanno altri «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e
poi ci « si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della
«carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può « alimentar la lussuria
» e concludeva dicendo che « la « varietà dei cibi è contraria alla
salute e innaturale per « i nostri corpi » (1). Ci sembra
quindi lecito di poter affermare che i Sestii non furono ne stoici ne
pitagorici, ma ebbero un proprio sistema, eclettico quasi senza dubbio,
con prevalenza di elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu
ne inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del-
l'ultima maniera) né materialista (come l'epicureo), sibbene avvivato da
una profonda fede, illuminato da una chiara luce spirituale e fondato su
convinzioni ben salde e su opinioni precise e indubitabili; un sistema
d'ideo insomma, che non era una piìi o meno piacevole distrazione o
un'o- ziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria
forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap- punto
destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per tempo assai breve,
in quella sentina di ambizioni, di cor- ruzioni, di violenze, di
immoralità, che era divenuta la grande Roma nel trapasso dalla repubblica
all'Impero. (1) Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius)
homini satis alimen- torum eitra sanguinem esse eredebat. et
criiclelitatis eonsuetudi- nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta
laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat
bonae valetudini contraria esse alimenta varia et nostris aliena
eorporibus ». CAPITOLO QUARTO Pitagora e
le sue dottrine negli scrittori latini del primo secolo avanti
Cristo. I. Lncrezio e il poema « Della Natura »
1. Lucrezio e il poema Della Natura. — 2. Epicuro contro Pitagora a
proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. — 3. Ac- cenni
alla metempsicosi nel proemio del primo canto. Il sogno di Ennio. — 4.
Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot- trina dell'
anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la preesistenza dell'anima
e la metempsicosi. — 6. Insussistenza del timore della morte nell'ipotesi
della reincarnazione. — Riassunto e conclusione. 1. —
Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca- rono di restaurare
in Roma il culto del Pitagorismo, non sarà certo inutile indagare quali
tracce esso aveva lasciato di sé nella letteratura romana del primo
secolo avanti Cristo, siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche
o sem- plici notizie incidentali : così infatti potremo non solo
farci un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel
— 70 — tempo, ma ci si offrirà anche il modo di
esporne e chia- rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in
luce gli aspetti più notevoli. Certo, in un'età nella quale le più
svariate credenze religiose e i più diversi sistemi di filosofìa
affluendo in Koma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla
Grecia e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole
influsso e preparando cosf il terreno che doveva di lì a non molto
accogliere e far germogliare il seme della nuova fede cristiana, non è
facile sceverare e seguire uno per uno i vari indirizzi di pensiero;
massime poi quelli che, come la filosofia pitagorica, essendo molto
antichi e avendo avuto larga diffusione e gran numero di seguaci,
trasmi- sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche
posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per- metterà almeno
di raccogliere tutti quei passi di scrittori latini dell'ultimo periodo
repubblicano nei quali si fa espli- cita menzione di Pitagora, e di
esaminare altresì quei luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a
dottrine e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di Samo.
Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che fu, come tutti
sanno, il più mirabile tentativo di elabora- zione poetica in lingua
latina di un sistema filosofico greco, e precisamente del sistema
epicureo. Altri felici tentativi di esporre in versi dottrine di filosofi
greci erano bensì stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche
altro, ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio
della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer- mare con
legittimo orgoglio di essere il primo a tentare di esprimere
poeticamente, nella lingua del Lazio e del- 71
r Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla
profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le speculazioni
dei Greci. Il poema Della Natura infatti non solo espone con
ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor- no air essere
delle cose in generale, all' infinità dell'uni- verso, ai moti e alle
forme atomiche, alla natura, com- posizione e mortalità dell' anima, alle
cause delle sensa- zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del
mondo e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni
meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano piti sicuro
fondamento i principii della dottrina epicurea, le opposte e diverse
dottrine di altre scuole filosofiche, e combatte le argomentazioni
contrarie e le obiezioni pos- sibili degli avversari. Di
questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora su fondamenti nuovi, e
polemica in quanto combatte e distrugge principii vecchi o diversi, è ben
naturale che noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte
polemica, per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui
Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora. 2. — Ora,
su due punti essenzialmente il poeta discute e lotta ad oltranza contro
indirizzi di pensiero diversi dal suo : sulla teoria atomica e sulla
teoria dell' anima. E a proposito della prima combatte e confuta
esplicitamente, nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del
filosofo di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né qui ne
in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che un attento esame del poema
stesso non ci permetta di scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il
poeta pensi a combattere i principii della filosofia pitagorica,
— 72 — È ben nota, in verità, la disistima che Epicuro
ebbe per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu-
dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì, per un sistema
che aveva studiato e rappresentato sotto l'aspetto numerico il mondo, e
nel quale le ricerche ma- tematico-musicali avevano tanta parte. In
realtà però pos- siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro
te- nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola italica
nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu- dio del poema di
Lucrezio conferma senz' altro questa induzione; tanto nella parte teorica
che in quella polemica dei primi due canti, che contengono 1' esposizione
e lo svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla
materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi ac- cenno, anche
indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche. Ma queste, oltre al
mondo fisico, governato dal numero e dall' armonia, abbracciavano anche
il metafisico (anima e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche
di questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano so-
prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata, perchè esistente
ab aeterno^ essa vive, perenne e immor- tale, attraverso un ciclo
indefinito di vite terrene (me- tempsicosi). Sotto questo aspetto
pertanto la filosofia di Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche
conside- razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe-
culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce r intelicità
umana, cioè il timore della morte e quello degli dei, e se, per vincere
il primo, difese con tutte le armi della logica il principio della
materialità e della mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran
parte alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu-
lazioni stoiche intorno alla origine divina e all'immortali-
73 tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si
uniformava forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate
su- perstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffu-se
credenze religiose degli uomini ? Se Epicuro avesse avuto solo lo
scopo della costruzione teorica dei suo sistema, sarebbe stato
sufficipnte che, ac- cettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1'
appli cazione al mondo fisico, V estendesse, come fece realmente,
al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un aggregato
d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza della mortalità dell' anima
o, più precisamente, del ne- cessario dissolversi dei suoi atomi alla
morte del corpo. Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto
combat- tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,
dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e dalle favole
dei poeti e dei vati — che, morto il corpo, l'anima sopravviva. Ora, fra
le varie forme di tale cre- denza una ve n' era — largamente diffusa dalla
religione, dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e
da poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava ad
esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi corpi e ritessere
più d' una volta la trama della vita ter- rena : insomma l'antichissima
credenza nella metempsi- cosi. E per di più questa credenza, anche nei
termini strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve-
dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità del tempo e
nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli atomi materiali, era ben
lecito ammettere come possibile il ricostituirsi dell' identico
conglomerato atomico che ri- creasse di nuovo il medesimo corpo e la
medesima ani- ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende
ohe Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche — 74
— al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne
le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del- l'eternità
dell'anima e del timore della morte. Tanto ciò è vero, che Lucrezio
svolge appunto in mo- do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale
discussione polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità
dell'anima e la vanità del temere la morte. 3. Ma prima di
esaminare ed analizzare questa parte del poema che si riallaccia così
strettamente con la dot- trina pitagorica, è necessario premettere che
già al prin- cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato
proe- mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia
della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze e opinioni
intorno all' anima e dell' importanza capitale che la soluzione del
problema psicologico ha, nel sistema epicureo, in ordine alla necessità
di sradicare dall' animo umano il timore della morte. E questo
cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che ad esso si collega del
famoso sogno di Ennio, ha pure importanza per il nostro tema.
Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è dedicato — che
potrebbe dubitare, accettando la dottrina epicurea, di commettere atto di
scellerata empietà, Lu- crezio dimostra che anzi la religione fu causa
che gli uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio d*
Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che, vinto anche il
timore degli dei, può tuttavia rimaner sempre quell' altro timore, che è
alimentato dalle spaven- tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba,
da sogni e da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell'
igno- ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102-
— 75 — 126). Di qui pertanto la necessità di studiare
— insieme con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate-
ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della natura dei
sogni e delle visioni (vv. 127-135). E precisamente nei versi
112-126 si accenna in par- ticolare alle varie dottrine intorno
all'origine dell'anima e intorno alla sorte che le tocca quando muore il
corpo: 112 Ignoratur enim quae sii natura animai, nata
sit^ an cantra nascentihus insinuetur^ et simul intereat nobiscum morte
dir empia, 115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^ an
pecudes alias divinitus insinuet se, Ennius ut noster ceeinit, qui
priìnus amoeno detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per
gentis Italas kominuìu quae darà clueret\ 120 etsi praeterea tamen
esse Acherusia tempia Ennius aeternis exponit versibus edens^ quo
ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^ sed quaedam simulacra
modis pallentia miris; unde sibi exortam semper fiorentis Homeri
125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum
naturam expandere diciis (2). Quanto all' origine dell' anima,
Epicuro sosteneva che essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva
entrata già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra
(1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già
proposta dal GoBEL (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la
più ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so
ve- dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani,
con- tro il senso di permanare. (2) In questi versi, come in
quelli che citerò più innanzi, mi attengo alla lezione e alla grafìa data
dal Giussani (De rerum na- tura, Torino, Loescher, 1896-1898;.
— 76 ~ nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che
1' aspettava al morire del corpo le opinioni invece erano tre:
l'epicu- rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli
atomi corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la
popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te- nebras Orci visat
vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che passasse per virtù divina nel
corpo di altri animali (pe- cudes alias divinitus insinuet se ). Le due
ultime però non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-
punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur esponendo la teoria
pitagorica, ammise altresì 1' esistenza dell'Ade e dei templi Acherontei^
ai quali però discen- deva non già l'anima (questa passava — subito? —
in altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del- l'anima
stessa, di mirabile pallore: come quella precisa- mente che egli narrava
gli fosse apparsa nel sogno — doppio dell' anima del divino Omero — che,
piangendo a- mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose. E
dunque evidente, per questo accenno alla dottrina psicologica epicurea in
contrapposizione con quella di altri filosofi ed anche di Pitagora, che
nel terzo libro di Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo —
e lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della
metempsicosi (1). 4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra
concezione che fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio
dire della concezione dell' anima- armonia? (1) La
cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lu- crezio compose
verosimilmente questa parte del proemio del primo libro, quando già aveva
composto il terxo. Si veda in proposito la paziente e lucida analisi del
Giussani voi. II, pag. 4-5). - 77 — È un fatto
che il poeta, nel terzo canto, prima di ac- cingersi a determinare la natura
materiale - atomica del- l' anima nelle sue due distinzioni dì animus od
anima., confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-
ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne- gava una
consistenza sua propria, non pure extracorporea, ma nel corpo stesso,
concependola soltanto come una spe- cie di armonia delle funzioni
organiche : 98 sensum aniìni certa non esse in parte
lo^atuìn^ vermn habitum quendam vitalem corporis esse^
100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus vivere eum sensu^
nulla curn in parte siet ìuens : ut bona saepe valetudo eum dicitur
esse corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis, sic animi
sensum non certa parte reponunt. Ora chi, prima di Epicuro, aveva
svolto cosiffatta dot- trina, che anche ai tempi di Platone e di
Aristotile era tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la
ne- cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-
cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato e svolto il
concetto dell' anima-armonia; ma che però tale concetto non potesse avere
pei Pitagorici il senso datogli (1) Platone, Fedone^ e.
XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del- Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la
svolsero ancora, accettandola e difendendola, Aristosseno talentino
(Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e DiCEARCo di Messina (Cicerone,
ibidem^ I, 20). (2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a
Zenone d' Elea (DioG. Laerzio IX, 29): ma che debba riconoscersi anche
come propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel
suo Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico
chi la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate
pitagoreo la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).
— 78 — qui da T ucrezio e neppure quello datogli da
Simmia nel dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso
si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro della
metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza e immortalità
dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun- que dei versi
131-135: ... recide harmoniai fìomen^ ad organicos alto
delatum Heliconi — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam
trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat - quid quid id est
habeant. . — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone —
era- no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro quella
interpretazione e limitazione materialistica di essa, per cui r anima era
ridotta a semplice funzione del corpo. Ed è ben naturale che — così
limitata e interpretata — la combattessero, insieme con gl'idealisti
platonici, anche i materialisti epicurei : poiché per gli uni
rappresentava la negazione della essenza individuale e quindi della
immor- talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-
za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso- riale) onde essi
concepivano costituita (insieme con le altre tre sostanze elementari
aria, freddo e caldo) 1' anima u- mana (1). Si comprende quindi che
Lucrezio, prima di (1) Per Epicuro 1' anima è bensì nativa e
mortale, ma è però, fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica
ed è parte dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano
parte le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata
nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-
cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-
lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a cadere
tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle im-
— 79 — accingersi alla esposizione della teoria psicologica,
confu- tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una
sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi a negarne 1'
esistenza (1). 5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv.
94-416), Lu- crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto —
della sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat- tono
il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già del persistere dell'
anima dopo la morte, ma del suo pree- sistere alla nascita del corpo e
della possibile pluralità delle sue esistenze terrene (vv. 668-710,
711-738, 739-766, 774-781). Qui siamo evidentemente nel campo
della metempsicosi, e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio
di versi. Veramente non soltanto i Pitagorici — con la
dottrina della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-
stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli Stoici; e inoltre,
come ho già osservato più volte, tale dottrina non fu che la elaborazione
filosofica d' una cre- denza largamente diffusa nelle leggende popolari,
nella poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-
magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste
vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non produce
essa stessa. (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di
Dicearco, dice appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare
« nihil esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque
ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum vel animam
nec in bestia ■» {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente più sotto (31 1: «
Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum omnino animum esse dixerunt ».
— 80 — segnamenti religiosi che s' impartivano nei
Misteri. Sì che gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con
si- curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici. Ma
poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra il popolo tale
credenza, e se pure la derivò, c?ome vo- gliono, dall' Egitto, fu
veramente il primo che le diede veste filosofica, e su di essa fondò 41
suo sistema dottri- nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e
gli altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta
epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia ed a scalzare
uno dei capisaldi della filosofia pitagorica. Gli argomenti che Lucrezio
adduce contro 1' opinione della preesistenza dell'anima sono quattro,
svolti in quattro successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi
— dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat- tazione
— nella meravigliosa invettiva contro il timore della morte.
a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla mancanza in noi
di ogni ricordo dell' esistenza anteriore alla nascita (1): se la nostra
anima è esistita un'altra volta e quindi è entrata nel corpo al momento
della nascita (2), perche non siamo assolutamente in grado di
ricordarci del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-
(1) C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di
tale ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di
parti- colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e
in- controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di
ciascun uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore
esistenza dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel
Fedone ì capitoli l8-22ì. 2) E, come si vede, io svolgiiuento
di quel che ha accennato nel verso 113 del proemio al primo canto.
— 81 — membranza delle nostre azioni passate ? Dunque
l'anima ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà di
ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non differisce molto
dalla morte ; bisogna quindi concludere che r anima di prima è morta e
che quella che abbiamo in questa vita è stata creata proprio in questa
vita (1). Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della
memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le- gittima : «
dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice soltanto che — dato pure
che potesse essere material- mente esistita — il fatto di non serbar
coscienza del passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità
(personalità infatti non è altro che persistere di una me- desima
coscienza), cioè che è morta da quella che era, per diventare
un'altra. Praeterea si immortalis natura animai constai et in
corpus nascentibus insinuatur, 670 cur super ante actam aetatem
meminisse nequimus nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us
? nani si tanto operest animi mutata potestas, omnis ut actarum
exciderit retinentia rerum, non, ut opinor, id a lete iam longiter
errai; 675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante
interasse, et quae nune est nunc esse creaiam. Insomma in
questi versi non si nega la possibilità che siano preesistiti, e quindi
che esistano in eterno i com- ponenti materiali dell' anima, ma bensì si
nega il persi- fl) Su questo argomeDto della mancanza di
ogni ricordo, come vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con
un semplice cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti)
accennan- do alla possibilità della rinascita dell'anima e del
corpo. — 82 — stere in eterno della coscienza,
che, per Epicuro, deriva dai moti atomici dei quattro componenti
dell'anima. D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale
del- l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo alla
luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa — che si vede che è
cresciuta col corpo e con le membra immedesimandosi nel sangue, — ma
dovrebbe, non fusa col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora,
poiché avviene proprio il contrario — ■ e cioè 1' anima é diffusa
per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre- sce e si
sviluppa col corpo stesso — segno é che non é entrata in esso perfetta, e
che, partecipando delle vicende del corpo, nasce (e quindi anche muore)
con esso. E am- messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di
en- trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte
appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e dissolversi per
cambiar natura: insomma equivarrebbe a un morire per rinascere tosto
altra da quella di prima (vv. 677-710). b) Un altro argomento
pare al poeta di poter trarre dal fatto del formarsi dei vermi onde
pullula il cadavere in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è
costitui- ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari
dell'ani- ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa,
potendo frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette- re
— ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi si incarnino anime
preesistenti; nel qual caso, lasciando pure a parte la stranezza che
mille subentrino là di dove una è partita, o esse stesse si formano il
proprio corpo dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi
en- trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea-
- 83 — mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove
neces- sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il
ragionamento fatto precedentemente che un' anima non può entrare,
intrecciarsi ed espandersi in un corpo già formato senza snaturarsi (vv.
711-738). 720 quod si forte animus extrinsecus insinuari
vermibus et privas in corpora posse venire eredis, nec reputas cur
milia multa animarum conveniant unde una recesserit, hoc tamen est
ut quaerendum, videatur et in discrimen agendum, 725 utrum
tandem animae venentur semina quaeque vermiculorum ipsaeque sibi
fabricentur ubi sint, an quasi corporibus perfectis insinuentur .
at neque cur faciant ipsae quareve laborent dicere suppeditat, neque
enim, sine corpore cum sunt, 730 sollicitae volitant morbis alguque
fameque : corpus enim magis his vitiis adfine laborat, et
mala multa animus contage fungitur eius. sed tamen his esto quamvis
facere utile corpus cui subeant: at qua possint via nulla videtur.
735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus, nec
tamen est uiqui perfectis insinuentur corporibus: neque enim poterunt
suptiliter esse conexae, neque consensus contagia fient. c)
In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem- psicosi, perchè non
dovrebbe, nelle sue peregrinazioni, un'anima di leone, per esempio,
capitare in un cervo o quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa,
per modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e colombe
feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole specie si ereditano e
sono costanti in esse al pari dei caratteri fisici. Se l'anima immortale
mutasse solo i corpi, questa costanza non vi sarebbe o, almeno,
soffrirebbe molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che,
mu- — 84 — tando corpo, muta carattere, allora
vuol dire che essa non rimane la stessa, che cambia natura, insomma che
muore per rinascere un'altra (vv. 789-751): Dejiiqiie cur
acris violentia triste leonum 740 seminium sequitur, volpes dolus, et
fuga cervi» a patribus datur et patribus pavor incitai artus^
et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris ex ineunte aevo,
generascunt ingenìoque, si non, certa suo quia serrane seminioque
745 vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ? quod si
immortalis foret et mutare soler et corpora, permixtis anirnantes moribus
essent, eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe cornigeri incursum
cervi, tremeretque per auras 750 aeris accipiter fugiens veniente
columba, desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.
illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt immortalem animam mutato
corpore flecti : quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.
Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo entro i
limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima umana non s'incarna
successivamente in altro che in uomi- ni (1), allora si potrebbe sempre
chiedere: perchè può, di (1) Così, a mio avviso, svolse il
concetto delle trasmigrazioni deli' anima la scuola pitagorica:
limitandolo cioè entro i confini della specie umana, die se quasi tutte
le testimonianze attribui- scono ai seguaci di Pitagora 1'
interpretazione più lata a cui Lu- crezio accenna nei versi or ora
citati, tali testimonianze si può dimostrare che o sono esagerate per
amor di polemica o di satira, sono errate per confusione della
metempsicosi pitagorica con quella egiziana od orientale in genere, o, in
qualche caso, possono spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al
passaggio dell'ani- ma nel corpo di un animale. In tale categoria
rientra, per me, la testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato
degli Annali, fa- — 85 — saggia che era,
diventare sciocca, dal momento che non s' è mai visto un fanciullo
assennato né un piccolo pu- ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse
che la men- te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora
dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in tal modo la vita e
il sentimento di prima (vv. 758-766): Sin animas hominum dicent in
corpora sem,per ire humana, tamen quaerain cur e sapienti 760 stulta
qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus, 762 nec tam doctus equae
pullus quam fortis el^ui vis ? scilicet, iìi tenero tenerascere
eorpore ìnentem confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst 765
mortalem esse animam, quoniam mutata per artus tcmto opere amittit
vitam sensumque priorem. d) Infine — e siamo così alla chiusa, di
sapore umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la
preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo ridicola, dice il
poeta, che ad ogni accoppiamento e ad ogni parto di animali stiano lì
pronte delle anime, e, in numero innumerevole, immortali aspettino membra
mor- tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza riesca
a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto che chi prima arriva
a volo entri per prima e cosi non ci sia fra loro nessuna lotta violenta
(vv. 774-781) : Denique conubia ad Veneris partusque ferarum
llb esse animas praesto deridieulum esse videtur, expeetare
immortalis niortalia membra innumero numero, ceriareque
praeproperanter cendo esporre dall' anima di Omero la
dottrina di Pitagora, lo fa anche dire d'essere divenuta un pavone («
pavone » qui significa « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e
non stoica, la dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.
— 86 — inter se quae prima potissimaque insinuetur
; si non forte ita sunt animarum foedera pacta, 780 ut, quae prima
volans advenerit, insinuetur prima, neque inter se contendant
virihus hilum. 6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle
cre- denze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in
quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo- stra la vanità
del timore della morte, è formulata l' ipo- tesi della resurrezione delia
medesima anima nel mede- simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno
identificata con V analoga dottrina pitagorico-stoica della
palingenesi, dobbiamo esaminare anche questo passo.
Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della mortalità dell'anima,
il poeta ne trae subito la legittima conseguenza che la morte non ci
riguarda per nulla (v. 828- 829). Come non abbiamo sentito niente di ciò
che è acca- duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra
non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per- chè una volta
avvenuto il distacco fra corpo ed anima (e la conseguente dissoluzione di
questa) noi, che esistia- mo solo per l'intima unione di entrambi, non
esisteremo e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a
questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, come infatti,
sembra, si fermò in una prima redazione del poema, nella quale seguivano
a questa dimostrazione i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti
tardi, tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la suddetta
ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1). (1) Accetto
senz' altro le conclusioni del Giussani, sì per l' in- terpretazione dei
vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que- sto interessante brano.
Rimando perciò il lettore all'opera già ci- tata, voi. Ili, pp.
106-107. — 87 — Poiché in essa è detto anzitutto
che se pura, dopo avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di
sentire, anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, che
siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in un'esistenza unica
(vv. 841-844). La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta
staccata dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha
detto precedentemente, che non era assolutamente ammis- sibile (1),
perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste, consistendo la morte, per
lui, nel rompersi del legame tra corpo ed anima e nell'immediato
dissiparsi degli ato- mi di questa, appena rimasta priva del suo
coibente. Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di
più poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto — come la
precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi cioè di un possibile
ricrearsi materialmente identico del nostro essere, anima e corpo. Anche
in -questo caso però la morte non ci riguarderebbe affatto per l'
interruzione della coscienza personale fra le due esistenze. E tale
ipo- tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in
questo modo : (1) Il Giussani ha creduto invece di poter
sostenere che l'ipotesi, per quanto strana, non è però in contraddizione
assoluta — in a- stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue
ragioni non sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio
abbia formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina
d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi- stenza
del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal corpo, se
per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori del corpo che la
tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata l'inverosimile ipotesi
? Forse unicamente come ipotesi di transizio- ne alla successiva; se pure
non si tratta qui di un'argomentazione per absurdum. —
88 — 845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas post
ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est, atque iterum nobis fuerint
data lumina vitac, pertineat quiequam tamen ad nos id quoque
factum, interrupta semel cum, sit repetentia nostri; 850 et
nune nil ad nos de nobis attinet, ante qui fuimus, neque iain de
illis nos adficit angor, nam cum respicias immensi temporis omne
praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai multimodis quam sint, facile
hoc adcredere possis, 855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt,
ordine posta haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse
: nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente : inter enim
iectast vitai pausa, vageque deerrarunt passim m,otus ab sensibus
omnes. Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire
identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove si fa pur cenno
della interruzione della coscienza. Tanto che si è voluto da alcuno
vedere in questi versi un'allu- sione alla dottrina dei Genetliaci, i
quali credevano che nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la
mede- sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente
dalla dottrina della palingenesi universale che era propria dei
Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si tratta punto di
questo, poiché mentre in quei versi si parla del rinascere della medesima
anima in nuovi corpi, e nella dottrina dei Genetliaci si parla del
ricongiungersi dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso
e neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-
nalità), qui invece si considera il caso di una duplice (1)
Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre- zio, il
Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei XXII, 28) che
ho già riportato al principio del Gap. III. — 89 —
creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi, cioè si
considera la possibilità della rinascita d' un iden- tico aggregato
atomico corporeo-psichico nel rispetto della teoria epicurea. Che poi ciò
fosse legittimo e logico è un'altra quistione (1); ma sta di fatto che
Lucrezio for- mula r ipotesi secondo la logica del sistema di
Epicuro. 7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo
ve- duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi- nioni
intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma risulta dall' armonia
delle funzioni organiche (teoria di Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa
nasce e si distrug- ge col corpo, ma ha una propria ubicazione
nell'organi- smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi
(moto, caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-
rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade, donde può
uscire per apparire agli uomini (credenza popolare); 4^) che essa, non
solo sopravvive al corpo, ma è preesistita ad esso e può incarnarsi più
volte. E abbia- mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-
mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in modi diversi: a)
l'anima immortale passa attraverso mol- teplici esistenze, cambiando
specie animale (teoria egiziana); h) l'anima immortale passa attraverso
molteplici esistenze, ma entro i limiti della propria specie e
conservando la propria identità personale (teoria
pitagorica-platonica-stoica); e) l'anima può bensì rinascere, magari
nell'identico corpo. (1) L'ha posta con molta sottigliezza
il Giussani {op. cit. pa- gina 105-106). Ma si veda anche quello che
osserva in prop9SÌto il Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in
Luerexio » pub- blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre
1904 e ristam- pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.
90 senza però conservare la propria identità
personale (ipo- tesi (1) epicurea-lucreziana). La teoria b
poi alla sua volta fu diversamente svilup- pata, poiché vi era chi
sosteneva che l' anima potesse bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre
nuovi; chi invece che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in
atti- nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se- condo
la quale non pur l' anima e il corpo umano anda- vano soggetti a
periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni- verso si distruggeva e si
ricreava perfettamente identico (pitagorici, stoici e genetliaci).
Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza nell'Ade o
Averne come luogo di espiazione, poiché, se anche l'anima riviveva,
scendeva all' Ade un suo doppio (eidolon, simulacrum) che poteva anche
riuscirne (e ve- rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima
tornava a nuova vita terrena) (Ennio). Quanto alla teoria
pitagorica in particolare, abbiamo veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza,
in due luoghi: 1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2")
nella confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel
terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774- 781); e che non
debbono ritenersi affatto come riferi- menti a Pitagora né il cenno alla
dottrina dell' anima- armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della
rinascita, come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.
(1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in
so- stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l'
argo- mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche
a coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina,
avessero potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col
medesi- mo corpo. II. Frammenti
della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Marco Terenzio
Varrone. 1. M. Terenzio Varrone : suoi scritti pitagorici e sua
conoscenza del Pitagorismo. — 2. Frammenti della dottrina di Pitagora
de- sunti dalle opere di Varrone: a) La leoria dei numeri e sue ap-
plicazioni. 6) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi
musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia delle
sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del puerperio, f)
I numeri e la musica in relazione con le pratiche della vita. — 3. Altri
accenni alla dottrina pitagorica: i quattro aspetti delle cose e i
quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il divieto di mangiar fave. ~ 4.
Varrone e gli altri scrittori del primo secolo av. Cristo.
1. — Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia- mo con
certezza che compose Marco Terenzio Varro- ne di Rieti, il quale, nato
nel 116 av. Cr. , morì quasi nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni
campo del sa- pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio
Cesare di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi-
blioteca, specialmente di opere latine e greche ; ciò che gli diede agio
di allargare e approfondire ancor più le sue conoscenze enciclopediche, delle
quali si valse per — 92 - comporre innumerevoli
opere, trattando dei più svariati argomenti, occupandosi d' ogni genere
di ricerche, racco- gliendo con cura particolare tutte le tradizioni
sacre e profane della patria, e dettando pure^ a quel che ci ha
lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi {praecepta
sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua prodigiosa attività e di una
ricchissima messe di opere letterarie, storiche, filosofiche,
scientifiche — si ricordano di lui non meno di 74 opere in 620 libri —
non ci re- stano purtroppo che scarsi avanzi ( poco più di nove li-
bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che da Varrone
attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì che siamo quasi all'oscuro
sul contenuto della maggior parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci
resta appena appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici^ che
era- no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento
filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti- toli di alcuni,
nei quali si doveva trattare più o meno largamente di filosofia
pitagorica : tali sono 1' Attico o dei numeri (Atticus sive de nunieris)
il Tuberone o dell' ori- gine umana {Tubero seii de origine humana) il
Gallo o delle meraviglie {Gallus de admiraìidis), il libro de sae-
culis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci- samente il
contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte, ci è rimasta notizia d' un'
opera in nove libri intorno ai principii dei numeri (de principiis
numerorum), la quale, messa accanto sìiV Attico già citato e alla
testimonianza (1) intorno a Varrone si veda l'opera di
Gaston Boissier, Etude sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri
Antiquitatum rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio
dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement- band I
Heft, Leipzig, 1898. — 93 — di Gellio (Notti
Attiche 3,10), che riferisce come Varrone trattò in maniera oltremodo
compiuta del numero sette- nario ( Varrò de numero septenario scripsit
admodum conquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere
profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot- trina
fondamentale dei numeri (1). 2. — È veramente un peccato che di
tali opere non resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse
potuto trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica di Pitagora.
Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, vale a dimostrarci che larghe
e geniali applicazioni potè avere per opera del Maestro e dei suoi
seguaci la teoria stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili
scoperte nel campo delle scienze sperimentali. a) Poiché le
investigazioni matematiche dei Pitago- rici non furono soltanto rivolte
alla ricerca delle proprie- tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell'
aritmetica e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na- turali.
Una delle prime e forse la più importante scoperta di Pitagora fu
dovuta a una di quelle felici intuizioni che, in ogni tempo, sono state
il privilegio del genio; intendo parlare della determinazione matematica
degli accordi, che poi dalla musica, applicata a particolari fatti della
natura, (1) Già il Kathgeber {Orossgriechenland unti
Pythagoras^ Gotha 1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus
Reato, der aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades
Gele- genheit zur Erwàhnung dar ». 94
portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri- guardano le
due diverse specie di parto (a termine e settimino), e, applicata all'
astronomia, portò alla teorica dell' armonia delle sfere e alla
concezione dell' universo come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).
h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa di Pitagora
alla ricerca della teoria matematica degli ac- cordi musicali, la cui
determinazione, prima di lui, era affidata semplicemente all'orecchio
degl'intenditori. Pas- sando un giorno per istrada accanìo a due fabbri
che martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine, egli fu
colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar- telli : quelli acuti
dell' uno rispondevano così giustamente a quelli gravi dell' altro, che,
entrando ritmicamente nel suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo
accordo. Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno
al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e non si lasciò
sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici- natosi ai fabbri, osserva
più da presso il loro lavoro e nota i suoni che erano prodotti dai colpi
di ciascuno. Credendo che la loro diversità di tono dipendesse
dalla diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar-
telli : e si accorge che invece essa dipende da questi. Allora volse
tutta la sua attenzione a determinare con esattezza i due pesi e la loro
differenza, poi fece fare altri martelli più o meno pesanti di quei due;
ma dai loro colpi nascevano suoni diversi da quei primi e per di più
non intonati. e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni
doveva nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi, che
cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu- meri che
corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo- — 95
— ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali: prese
alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros- sezza e
lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi proporzionati a quelli di
cui aveva fatto il computo e de- terminato il rapporto coi martelli ;
fattele risuonare per mezzo della percussione, non solo trovò che le
corde tese da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una
sola di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente dalle
corde i cui pesi stavano in rapporto di 3:4 ( 5tà xeaaàptóv o èrul xpiTov
o supe?^ tertium), di 2 : 3 (5tà Tcévxe) e di 2:4 (5tà Traawv). Per
averne poi un'altra riprova, ripetè r esperienza con alcuni flauti, in
questo modo: ne fece preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza
diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8 il terzo 9 e il
quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a due trovò che il primo e il
secondo armonizzavano in accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4); il primo e
il terzo in accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) e il primo e il quarto
in accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) (1). In tal modo egli riuscì
molto genialmente alla determinazione matematica degli accordi, ciò che
permise in seguito di estendere e perfezionare la teoria della musica. E
il caso che lo con- dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello
per il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una
lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le leggi della
oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù del quale Newton, per la
caduta di un pomo, arrivò a scoprire le leggi della gravitazione
universale. Tanto è (1) Vedasi la narrazione, desunta da
scritti varroniani, in Ma- cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e
Censorino, de die natali 10,7. 96
vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre partito
dalle cose e dai fatti più semplici ! d) E una volta messosi su
questa via, che mirabile serie di investigazioni non seppe escogitare
quella pro- fonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due
fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia musicale, ma
a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto r universo ! Poiché applicando
i suoi calcoli al corso e alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti
fra il cielo e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il
corso della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano un
moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e suoni,
proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor- do, da formare una
dolcissima armonia, non però perce- pibile da orecchio umano, per la sua
forza che supera la facoltà del nostro udito. Calcolate
infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia- neta in stadi italici di
625 piedi, trovò che dalla Terra alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e
questo rappre- sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a
Mer- curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia
un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino al Sole, tre
volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il Sole quindi distava, secondo
lui, dalla Terra tre toni e mezzo, formando così con essa un accordo
diapente e dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates-
sdron. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e- guale distanza
che dalla Terra alla Luna, ossia un tono; di qui a Giove (Phaeton), la
metà, ossia un semitono; da Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un
semitono; di qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco
un mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un
FIRMAMENTO Orbita di •e
Orbita di •e Orbita di
Orbita del Saturno
Giove Mabte e-
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7. — 98 — intervallo diatessdron (di due
toni e mezzo), e dallo stesso cielo alla Terra un intervallo in accordo
diapason (di sei toni) (1). e) Per queste osservazioni e
scoperte è ben naturale che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo
tutto è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di
fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine e da una
determinata e determinabile proporzione (2). Sic- ché dalla musica e
dall' astronomia passando, per esempio, ' alla tisiologia, trov^ava nel
decórso del puerperio ancora una riprova della regolarità matematica dei
fenomeni na- turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora
fece della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso dei
processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto spiegata in una
delle opere varroniane su ricordate (Tu- bero seu de origine
humana). Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo
stu- diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di
parto, l'uno di sette (settimino) e Y altro di dieci mesi lunari (a
termine) che avvengono rispettivamente 210 e 274 giorni dopo la
concezione, e avendo determinato i. numeri corrispondenti ai giorni nei
quali, per ognuno dei due parti, si compiono i mutamenti più importanti —
del seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for- ma
umana — trovò che il parto settimino è in rapporto col numero 6 e quello
a termine col numero 7; non solo, ma che i nùmeri suddetti, tanto nell'
uno quanto nell'al- tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi
musi- cali. Ed ecco in qual modo. (1) Censorino, de
die natali, cap. 13. (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7
e 4, 14. — 99 — Nel parto di sette mesi, per i primi
sei giorni dopo la fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è
di aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto
sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto più volte, quello
precisamente che forma accordo diatessd- ron (6:8 = 3:4). Nel terzo stadio
si hanno 9 giorni, in cui comincia la trasformazione dell' umore
sanguigno in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte
(6:9 = 2: 3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot- tiene il corpo già
formato : e il rapporto di 12 con 6 forma il terzo accordo diapason (6 :
12 .^r: 1 : 2). Questi quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano
35 giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu- mero
totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia 210. Nel parto a
termine invece, con analogo ragiona- mento, il calcolo era basato sui
numeri 7, 9 1/3, 10 1/2, 14, che sommati insieme danno 40 e una frazione;
40 moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274. Vale a
dire che nel parto di dieci mesi iL mutamento del seme in umore latteo avviene
in sette giorni anziché in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta
dopo 40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè
quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo giorno
dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei giorni, onde ne restano
274. Tanto il 210 che il 274 so- no veramente due numeri pari, laddove
Pitagora dava speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere
— in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è
regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino
(1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad Bmol.
Vili, 75. — 100 — che riporta tutto questo passo
Yarroniano, egli non era qui in contraddizione con se stesso, perchè i
due dispari 209 e 273 sono bensì compiuti, ma non si compie ne il
210^ né il 274" giorno in cui il parto avviene; in con- formità
precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri- guardo alla durata
dell' anno (365 giorni più una frazione) che a quella del mese (29 giorni
più una frazione) (1). ;Non è il caso di entrare qui in merito al
valore in- trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni.
Poiché anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener conto da
un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di esperimento da oggi a
ventisei secoli or sono, e pensare dall' altro che molte delle
applicazioni della teoria dei nu- meri non dovettero neppure essere l'
opera diretta di Pi- tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi
seguaci. In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-
duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano campate nell'aria
e nelle nebulosità della metafisica, ma trovavano la loro base e la loro
ragion d' essere nell' os- servazione scientifica dei fatti naturali; sì
che fu indub- biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello
di aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione dei
tempi, non fu merito piccolo. f) Se la teoria dei numeri trovava
così mirabili ri- scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben
naturale che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica degli
uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi- steri e alle profonde
verità del Pitagorismo. Ond' é, per esempio, che un'altra testimonianza
varroniana ci ricorda (l) Censorino, de die natali 9 e 11.
Si confronti con questo il passo di Gellio, Notti attiche, III, 10,
7. - 101 -^ la particolare considerazione in cui
erano tenuti i così detti numeri cubici, ai punto che persino nello
scrivere i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan- do
di comporre in una sola volta 216 righe o versi (216i=r 6 X 6 X 6) e non
mai piìi di tre volte tanto! (1). Ora questo è uno di quei
particolari che, presi a se, prestano facilmente il fianco al riso e alla
satira; ma in verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo
ra- gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo tutto
il complesso della dottrina e della vita pitagorica ; poiché è ben
possibile che pratiche di questo genere rien- trassero nell' ambito del
sistema per puro amor dell' ordi- ne e doll'euritmia, al solo scopo di
far sottostare a una certa regola anche gli atti minimi e più
insignificanti della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi,
di esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi
insegnamenti del Maestro. Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte
quisquilie, è ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla
— quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di Pitagora,
e come egli medesimo se ne dilettasse al punto, che ogni sera prima di
addormentarsi e ogni mattina al suo svegliarsi cantava, accompagnandosi
con la cetra, per meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini
(2). 3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle
indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si- (1)
ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1. (2) Censorino, de die
natali 12, 4. (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De
Ovidiana Pytha- goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae,
MDCCCLXXXV) l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae
frag- menta continens ». stematicamente raggruppandole
intorno alla dottrina dei numeri, altre se ne trovavano nelle opere di
Yarrone, intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e
ai suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema. Così
Yarrone poneva 1' esistenza di Pitagora al tempo di Tarquinio Prisco (1)
e quindi implicitamente non ac- cettava la tradizione che Numa fosse
stato suo scolaro a Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito
di essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa- pere, e
ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire : già a questo 1' uso di
pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure accennava altrove
alla sua andata a Turio (Sibari) nella Calabria (2). E Sant' Agostino ci
ha conservato un altro passo nel quale Yarrone, da vero romano,
esprimeva la sua ammirazione perchè 1' ultima cosa che Pitagora insegnava
ai suoi discepoli, quando già fossero perfetti, sapienti e felici, era
quella del governare la cosa pubblica (3). Appartiene al
libro quinto dell' opera intorno alla lin- gua latina un brano in cui
Yarrone afferma che Pitagora insegnava « due essere i principii d' ogni
cosa, come fi- « nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno
e « notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato « e
moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove « si muove, spazio; il
quando si muove, tempo ; ciò che « vi è nel movimento, azione; e avvenire
appunto perciò « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed
eterne, « poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-
(1) S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25. (2)
Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46. (3)
S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54. — 108 — «
duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra « un moto e l' altro
— ; né moto senza spazio e senza « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò
che si muove e <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione
dove « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio « e
corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var- rone un altro
pensiero fondamentale di Pitagora, assunto poi pili tardi da Aristotile,
quello cioè che l'esistenza de- gli animali e però anche dell'uomo non ha
mai avuto principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E
parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro elementi
(terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu- nemente si suole invece
attribuire ad Empedocle di Gir- genti, vissuto un secolo dopo (3). Non
mancava neppure nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria
pita- (1) Yabro, de Lingua Latina, Y, 11 : « Pythagoras
Samius ait omnium rerum initia esse hina^ ut finitum et infinitum^
honum et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,
status et m,otus ■: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur locus;
dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare fit^ ut ideo
fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc- que unquam tempus
quin fuerit motus, eius enim intervallum tempus; ncque motus ubi non
locus et corpus, quod alter um est quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi
agitatur, non actio ihi; igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus,
tempus et actio ». (2) Vaerò, de re rustica, 1, 3 : « Sive enim
aliquod fuit prin- cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius
et Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut cre-
didii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est hu- manae
vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. Cen- SORINO, de die
natali, IV, 3. (3) ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad
Aeneid. VI, 724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e
seg. E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25. — 104 —
gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della
metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi- no le sue vite
anteriori, essendo stato prima un certo Etalide, poi Euforbo, poi il
pescatore Pirro e finalmente Ermotimo (3). Altrove ancora Yarrone
accennava alle pra- tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano
larga- mente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la
rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in un monumento
cretese, scoperto da poco, che risale ai tempo pre-omerico (1500-1400 av.
Cr.) della così detta civiltà micenea o minoica (4). È
finalmente quasi superfluo dire che Varrone non mancò di parlare del
famoso divieto pitagorico di man- giar fave, connesso con la credenza
nella metempsicosi e con la concezione che Pitagora ebbe della vita
post- mortale (5). (1) Symmaghus, Ep. I, 4.
(2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, p.
121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago- stino, de
cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13. (3)
Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,
24. (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus
divinatiò- nis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam,
et postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi
adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman- teian
graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene di
necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo I9l0) a p. 176 e
relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa Nekuia omerica del libro
XI dell'Odissea. (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio,
Nat. Hist. XVIII, 118, XXXV, 160. — 106 -
4. — Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago- rico, che
si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità delle opere superstiti
e la varietà degli autori da cui fu- rono raccolte, esse sono slegate e
frammentarie, ma tali però da farci ancora una volta rimpiangere la
perdita quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si
è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie utili e importanti
per la storia del Pitagorismo nell'anti- chità classica. Ma
poiché dei materiale già sistematicamente raccolto da Yarrone, come delle
sue speculazioni e delle sue ri- cerche storico-filosofiche debbono
essersi serviti non poco gli scrittori contemporanei o che vissero poco
dopo di lui, così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo
ri-- maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po-
tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della dottrina di
Pitagora e compiere così il quadro della co- noscenza che ne ebbero i
contemporanei di Cesare e di Augusto. 111.
Appio Olaadio Palerò - Cicerone e il « Somninm Scipionis ».
i. Appio Claudio Palerò e la seienxa augurale. — 2. Marco Tullio
Cicerone e la sua eonoscenxa del Pitagorisìno. - 3. Notixie intorno a
Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice- roniane. — 4. // «
Sogno di Scipione % : a) Suo carattere pitagorico e profetico; b)
Contenuto e materia di esso: la via lattea; vita e morte; il suicidio; le
sfere celesti e la loro armonia; la terra e le sue xone; la gloria
terrena; anima e corpo; V im- mortalità dell' anima.
1. — Fra gli amici di Marco Terenzio VarroDe è degno di essere
ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale sappiamo che fu augure,
pretore nei 57 a. C, console nel 54, censore, governatore della Cilicia e
legato in rap- porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci
restano diverse lettere a lui indirizzate. Convinto che la
scienza augurale avesse il suo fonda- mento non già nel desiderio o nel
bisogno di giovare anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii
in- teressi dello Stato — come la pensava l' altro grande augure C.
Claudio Marcello — ma che realmente fosse un dono concesso dagli dei agli
uomini, perchè questi - 108 — fossero in grado
di meglio intendere la loro volontà e di regolare, uniformandosi a
questa, la propria condotta pub- blica e privata (1), era solito far
sortilegi, oroscopi, evo- cazioni di morti (2); ne più né meno di quello
che, secondo la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e
di quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo
discepolo Pitagora, e Platone (4). Questa convinzione , suffragata dalle
dette pratiche della divinazione artificiale cui era dedito, dovette
appunto indurre Appio a scrivere quei suo « liber auguralis '> , forse
di carattere polemico, che dedicò all' amico Cicerone (5). lì quale fra T
interpre- tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la
pensavano come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen-
savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia, in questo senso :
che cioè una vera e propria scienza e arte augurale fosse già esistita in
antico, ma che di essa però non fosse più depositario, al tempo suo, il
collegio degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per r
abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era, (1)
CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio vestro
inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dis- sensio fnam
eorum ego in libros incidi), quom alteri plaeeat auspieia ista ad
utilitatem esse reipublicae composita, alteri di- sciplina vestra quasi
divinare mdeatur posse » . (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 :
< inde ea, quae meus amicus Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de
divinat. I, 10, 30 ; 58, 132. (3) Si cedano in S. Agostino,
Città di Dio, l. VII, i capitoli 34 e 35. (4) CioEE., Tuscul,
I, 16, 38 j 17, 39. (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11,
4 ; Varrone, R. R. 3, 2f 2. 109
secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per essere
fatta da un augure di tanta autorità, non è certo di lieve momento.
Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella ricerca di
quel che fosse proprio questa ra antica, come la chiamavano i greci, o
aruspicina, che tanta parte ebbe nella vita privata e pubblica degli
Elioni e degli antichi Italici; ma questa trattazione mi porterebbe
troppo lon- tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto
ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod- disfacenti ed
esaurienti, sono già state fatte in proposito (2). Basti dire pertanto
che la mantica o arte divinatoria si esercitava in forme e modi diversi —
con T osservazione del volo degli uccelli in un punto determinato del
cielo detto templum (onde trasse origine la parola contempla-
zione), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato) di animali
sacrificati a questo scopo (hostiae consultato- riae\ con la
interpretazione o ermeneutica dei sogni, con la considerazione dei
fenomeni celesti (tuono, lampo, ful- mine, ecc.), cogli oracoli, coi
pubblici e privati carmi profetici - ; e che era pure praticata da
Pitagora, il quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore,
tanto da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che
(1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,
quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate et
neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai unquam
in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse etiam nunc putat
». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70. (2) Si vedano, fra gli altri, i due
importanti lavori del Bochsen- schììtz, Sogni e cabala nelV antichità,
Berlino 1868, e del Cak- TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV
antichità, Roma 1889. (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 «
.... huic rei (cioè alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,..
tribuit, qui no naturalmente non poteva
pretendere senza dare qualche prova di virtù profetica ; e, secondo la
tradizione, egli ne diede infatti non poche. 2. — Altro
amicissimo di Varrone fu, come è noto, Marco Tullio Cicerone^ che visse
dal 106 al 43 a. C. Negli scritti che in gran numero ci restano di
lui fre- quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola e
alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una elaborazione
personale e originale, o all' approfondimento di qualche parte delle
dottrine pitagoriche. Seguace come fu di un eclettismo che stava fra 1 '
accademismo e lo stoicismo dell' ultima maniera, iniziato ai misteri
religiosi, augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore
della filosofia greca, della quale si fece divulgatore fra i Romani,
creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile tentativo poetico di
Lucrezio, la lingua filosofica, autore anche di molte opere, nelle quali,
con squisito senso di arte, trattò dei più svariati argomenti sì
metasifici che morali, Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza
ab- bastanza larga dell' antica filosofia italica, l'unica forse che
avesse già avuto in Roma insigni divulgatori e se- guaci, come Appio
Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori come Nigidio. È anche
indubitato che molto gli giovarono per tale conoscenza — oltre che 1'
assiduo studio dei filosofi gre- ci — r amicizia di Varrone e dello stesso
Nigidio Figulo, e la lettura dei loro scritti, per noi perduti. Ma non
per etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche
45, 102 : « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed
etiam hominum, quae vocant omina ■» . — Ili —
questo possiamo dire che i'Arpiuate avesse fatto parti- colari
studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se collimavano in parecchi
punti con le sue convinzioni per- sonali, tuttavia^ per il simbolismo
onde erano involute, si prestavano assai meno delle posteriori e piìi
note filo- sofie ad essere facilmente comprese dai profani e
divulgate artisticamente. 3. — In ogni modo, volendo
raccogliere dalle sue opere le notizie che si riferiscono a Pitagora e
alla sua scuola, dovrei prendere le mosse da quel passo delle
Tuscolane (libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine
pita- goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che
esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma poiché ne ho
già discusso lungamente, rimando senz'altro i lettori al primo capitolo
di questo studio. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu
disce- polo di Ferecide (1), specialmente per la sua dottrina suir
eternità dell' anima, in quanto egli insegnava 1' esi- stenza di un'
anima universale, compenetrante tutta la natura e ciascuna delle sue
manifestazioni, e la deriva- zione da essa di ogni anima umana (2). E per
ciò che riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la
distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone — (1)
De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides Syrius
primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane opìnionem
discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ». (2) De natura deorum,
I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani- mum esse per naturatn rerum omnem
intentum et eonmeantem, ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute
21, 78 : « Au- dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse,
quin ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».
— 112 — dell' anima in due parti, V una ragionevole,
in cui questi filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida
immu- tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano
origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1). Per la quale
credenza V uno e l'altro ammisero la pos- sibilità di accrescere le forze
conoscitive dello spirito, specialmente nel sonno, quando a questo l'
uomo si fosse disposto opportunamente con particolare dieta e con
una meditazione preparatoria (2) ; e credettero nella divinazione,
al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva di essere egli
stesso profeta. Cicerone seppe anche dei viaggi di quest' ultimo nelle
terre più lontane (3), del suo colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii,
in cui per la prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva
venuta in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un
(1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem
Pytkagorae pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum
in duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y
alte- rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy
id est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus
turbi- dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni
». Cfr. libro I, 17, 39. (2) De divinatione, II, 58, 119: «
Pythagoras et Plato,., quo in somnis certiora videamus, praeparatos
quodam eultu atque victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem
Pythagorei utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur
». Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De
senectule 11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent,
egissent, eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si
con- fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119. (3)
TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87. (4)
TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio, Proemio, 12,
che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo. — 113
— bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema
(1), della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3),
della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora e della morte
a Metaponto (5). Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto
prin- cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a
quello che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone
ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e il culto della
musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti e il rispetto per gli
animali, naturale e logica conseguenza del concetto pitagorico della vita
(9), il divieto del suici- dio (10) e infine la bella concezione dell'
amicizia, vera comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli
altri il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12);
oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.
(1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-
dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare una
vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue un altare. E
non ha torto. (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19,
3. (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.
(4) De senectute 7, 23. (5) De finibus V, 2, 4.
(6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo
principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago- rico
di Crotone » . (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e
Somnium Sei- pionis, 12 e 18. (8) De nat. deor., Ili, 11, 28
; Tuscul., Y, 39, 113. (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11,
19. (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5. (11) De
officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66. a2)
Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II, 24-79;
Cfr. Porfirio, V. P. 59. 8. — lU — e
cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate
di Locri, Timeo ed Acrione contem- poranei di Platone (1). Di
quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo la morte di Socrate,
prima si recò in Egitto e poi in Italia e in Sicilia per conoscere da
vicino le verità scoperte da Pitagora, e che stette molto con Archita e
Timeo e potè procurarsi i commentarli di Filolao (che esponevano per
iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino allora
trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della segretezza) ; e poiché
allora appunto era più che mai ce- lebre nella Magna Grecia il nome di
Pitagora, praticò con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che,
pre- diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre-
sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la piacevolezza e
la sottigliezza socratica con 1' oscurità del simbolismo pitagorico e nei
suoi dialoghi fece parlare il maestro in modo che, anche quando discuteva
di morale e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la
geometria e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi
(1) De finibus, V, 29, 87. (2) De re pubi., I, 10, 16
: < In Platonis libris multis locis ita loquitur Socrates, ut etiam
cum de moribus, de virtutibus denique de republica disputet, numeros
tamen et geometriam et harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum
Scipio : Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem,
So- crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-
liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,
eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum, fuisse et
Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem- pore in his locis
Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus Pythagoreis et studiis
illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee dilexisset eique omnia tribuere
voluisset , leporem Socraticum — 115 — tolse di
peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima, aggiungendovi però
di suo una spiegazione razionale (1). Un complesso dunque di notizie, o
meglio di accenni, superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a
poco il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli uomini
colti dell'età di Cicerone. 4. — Ma vi è un' opera di questo
fecondo scrittore, anzi un frammento della sua opera "più
importante, sul quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente
la nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita-
gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^ così famoso e di
tanta importanza per la storia della mi- stica, sia considerato in se
stesso sia per i commenti che ebbe ; poiché intorno ad esso si
affaticarono molti ingegni, da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero
amplissima ana- lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott,
che suMilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et
cum illa flurimarum artium gravitate contexuit » . (1) TuscuL,
I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno- sceret, in Italiam
venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque de animorum aeternitate
non solum sensisse idem quod Pytha- goram sed rationem etiam attutisse »
. Cfr. De amicitia, IV, 13 : « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec
disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire atque omnia
m>orte deieri. Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum
m>ajo- Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque
Orae- ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis
et praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo
sapien- tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in
plerisque, sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum
ex corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~
stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur » (2)
AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom- Quentarius
ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii EuLoan oratoris
almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio- nis, scripta Superio y. e.
cos. Provinciae Bizacenae. — 116 — non molti
anni addietro ne pubblicò una traduzione di- cendolo senz' altro, (non so
però con quale fondamento che non sia una semplice presunzione ipotetica)
un fram- mento dei Misteri (1). a) Mi preme tuttavia di
mettere subito in chiaro che, affermando pitagorico il contenuto di
questo sogno, non voglio con ciò asserire né che Cicerone fosse un
seguace di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee
informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché so bene che
studi fatti recentemente da valentissimi cri- tici come il Gylden (2), il
Corssen (3), il Pascal (4), hanno messo in chiaro che fonti ciceroniane
per la materia di esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed
Era- tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso
tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at- tribuiva a
Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra ancora una volta, se pur ve
ne fosse bisogno, che i filo- sofi posteriori fecero proprie e
tramandarono l'uno all'altro molte delle idee e degli insegnamenti della
scuola croto- niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare
un'espo- sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori
della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta, pitagorico per
giunta: voglio dire Ennio, del quale si é già veduto nel capitolo
secondo. (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio
considered as a fragment of the Mysteries, London, 1899. (2)
Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848. (3) De
Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp. et in Somnio
Seipionis auctore. Bonnae, 1878. (4) Di una fonte greca del «
Somnium Seipionis » di Cicerone, nei rendiconti della R. Accademia di
Archeologia, Lettere e belle Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in «
Oraecia Capta », Firenze, Le Monnier, 1905. — 117
— Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di
questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che abbiamo sentito or
ora, per bocca dello stesso Cicerone, che opinione Pitagora e i suoi
avessero intorno al sonno e alle forze conoscitive dello spirito nel
riposo e nella quiete del corpo. Questo sogno, poi, secondo
le osservazioni di Macrobio, partecipava contemporaneamente di tutte e
tre le forme principali o profetiche dei fenomeni del sonno,
oracolo, visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in
quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio Emilio Paolo e il
padre adottivo Scipione Africano Mag- giore, uomini venerandi, che
avevano anche coperto ca- riche sacerdotali, e gli predissero quello che
egli avrebbe fatto come generale e come magistrato e la sua morte a
56 anni ; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il sonno parve
all' Emiliano di essere trasportato in cielo e più precisamente nella via
lattea, — dove avrebbe poi dovuto tornare dopo morto a godervi la
felicità concessa da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù
con- templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa nelle
sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som- nium 3= ovetpo?), perchè
la profonda verità delle cose a lui dette dalla grande anima di Scipione
non poteva essere svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica
(1). Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio è di
gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re- pubblica, e non
meno lunga è la dissertazione di Eulogio, che verte specialmente intorno
alle qualità mistiche dei numeri e alla musica delle stelle.
(1) Macbobio, 1. I, e. 3. — 118 - b)
Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini che -si resero
benemeriti della patria e mostrare quale premio, dopo la morte, fosse
dato alle loro virtù, quello cioè di ritornare alla loro patria celeste,
immaginò che uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla
Repub- blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli
altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo tribuno in
Africa, fu ospite del re Massinissa, grande amico di Scipione il
Maggiore. Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell'
Emi- liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,
dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede le anime degli
eroi, tanto prima di scendere in terra a vestirsi d' umana carne, come
dopo aver fatto il loro pel- legrinaggio quaggiù (1).
Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese e della
sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua (1) Somnium 5,
13 : « Omnibus qui patriani conservaverint, adiuverinty auxerint, certuni
esse in caelo defìnitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur
Harum rectores et conservatores hinc profeeti huc revertuntur ». Al
qual proposito osserva il Cors- SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse
presa dai Pitagorici. Infatti a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV
della Odissea, in cui è detto che le anime dei Proci guidate da Hermes «
andavano alle porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel
prato degli asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati »
scrisse Por- firio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni
non sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono
raccogliersi nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli
i Pitago- rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco
(de faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni
si indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo
che chiamavano prati dell' Ade. - 119 — età
avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri e rivoluzioni del
sole e questi due numeri (ognuno dei quali, per ragioni proprie a
ciascuno di essi, era ritenuto perfetto) avessero compiuto col naturale
succedersi degli anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo —
quasi a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe
salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo, « dunque, chiede,
siete vivi tu e mio padre e gli altri che crediamo estinti ?» « E come !
gli risponde Scipione, anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai
legami corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la
vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con intensa
commozione, 1' anima del padre, chiede ad essa : « Perchè dunque, se
questa è la vera vita, debbo in- dugiarmi e vivere ancora sulla terra ? »
« Perchè, gli viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto
l'uni- verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non ti
può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini sono stati
creati per dimorare sulla terra, che occupa il centro del creato, ed è
stato dato ad essi l'animo, originario di quei fuochi eterni che chiamate
costellazioni e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati
da menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro con
prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii dovete trattenere
l'animo vostro nei legami corporei e non disertare, contro la volontà di
chi ve l'ha data, dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi
vogliate (1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei
due nume- ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI,
adducendone partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le
teorie e le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di
Eulogio. — 120 — sottrarvi al compito umano
assegnatovi da Dio (1) » . Perciò il padre lo esorta ad essere giusto ed
a coltivare la pietà, perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare
al cielo fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se-
parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2). Dalla quale poi
l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo dell' universo stellato e il
roteare dei nove cerchi o meglio globi, di cui il pili esterno, che
abbraccia gli altri, è quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso
dio su- premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,
cioè i cieli di Saturno, di Griove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio,
della Luna, nel mezzo dei quali sta, immobile, la Terra (3). E mentre
osserva i cieli roteanti, ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce,
quella cioè che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro
per- cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi, che
insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio secondo la
dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel capitolo precedente. L'
ammirazione per la grandezza e la novità delle cose che vede e ode non fa
però che Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano
(1) Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De
seneetute (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di
Pi- tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de
praesidio et statione vitae decedere ». (2) Somnium, 8, 16.
(3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di un
ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i sette
cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se- condo il
Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti e della
eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur- wissenschaft
in Miiller's Handbuch V, 1. (4) Somnium 10, 18-19. Cfr.
Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12. — 121 —
gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque e conclude
che essa è campo ben ristretto per la gloria degli uomini : onde la
vanità della gloria stessa, la quale non può neppur durare lo spazio di
uno solo dei grandi anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la
grande anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a
questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo né porre la
speranza delle tue azioni nei premi degli uomini : bisogna che la virtù per
sé stessa con le sue blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato
dallo spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi-
zioni, dai consigli uditi, l' Emiliano promette di adope- rarsi con tutta
r anima per il bene della patria e 1' avo lo conferma nel suo proposito
dichiarandogli V immorta- lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il
tuo corpo è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma
corporea fa apparire: ciascuno é ciò che é l'anima sua, non quella
parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che tu sei DÌO; se divina è
quella forza che anima, che sente, che ricorda, che prevede, che regge e
modera e muove questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo
Dio regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso Dio eterno
muove il mondo per qualche rispetto mortale, così il fragile corpo è
mosso dall' animo sempiterno » (3). (1) Della durata di
circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine dei Genetliaci, dei quali
ho accennato nel capitolo terzo. (2) Somnium, 17, 25.
(3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse te
mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista declarat :
sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae digito demonstrari
potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est deus, qui viget, qui
sentit, qui meminit, qui providet, qui tam — 122 —
« Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime sono le
cure spese per il bene della patria (1); onde l'animo che in esse si
adopera e si esercita volerà piti velocemente in questa sede e dimora
sua. Anzi tanto più presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo
saprà uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac-
carsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che si abbandonano
ai piaceri del corpo e si rendouo quasi schiavi di essi e, sotto
l'impulso dei desideri obbedienti ai piaceri, violano i diritti divini e
umani, usciti dal corpo vanno svolazzando intorno alla terra e non
ritornano a questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi-
tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi concetti
pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce. regit et
tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam kune mundum ille
princeps deus ; et ut mundum ex quadam parte mortaleni ipse deus
aeternus, sic fragile corpus animus senipiternus movet ». (1)
Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico; tanto è vero
che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai suoi discepoli quello
relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V. S. Agostino, de ordine
II, 24, 54. (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus
: sunt autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et
exer- citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.
Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit
foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime se a corpore
abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis voluptatibus dediderunt
earumque se quasi ministros praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus
oboedientium deorum et homi- num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi
circum terram ipsam volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati
saeculis rever- tuntur ». lY. Mimi — Q. Orazio
Placco — P. Virgilio Marone. l. Riflessi pitagorici nel teatro
popolare. — 2. Pitagora nella poe- sia oraziana : fave, metempsicosi,
Euforbo. — 3. Virgilio e la filosofia. — 4. La <iuarta ecloga. — 5. Le
Georgiche. — 6. La « storia dell' anima » nel sesto libro dell' Eneide. —
7. Ragioni artistiche di essa e suo valore per la determinazione del
pensiero filosofico virgiliano. 1. — Nel tempo del
quale ci stiamo occupando non è a credere che la conoscenza del
Pitagorismo avesse i suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di
poesia del genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un
pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse- gnamento
fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè la metempsicosi, e il
precetto dietetico dell'astinenza dalle fave erano così entrati, come
oggi si direbbe, nel domi- nio pubblico, da essere oggetto di satira e di
riso nel teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che
fu- rono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione di morti)
di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di Cicerone (105-43 a. C.) e del
quale Tertulliano ricorda una satirica interpretazione della metempsicosi
: « Insom- ~ 124 — ma, se qualche filosofo
affermasse, come dice Laberio secondo 1' opinione di Pitagora, che 1'
uomo si fa dal mulo e la serpe dalla donna, e in tavore di questa
opinione volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti
possibili, non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indur-
rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste- nere dalle carni
animali? Chi potrebbe esser sicuro di non comperare eventualmente del
manzo di qualche suo antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato
scherzosa- mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro
sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile pensare che
gliene abbia data occasione una situazione comica in cui fossero in
contrasto 1' ostinata cocciutag- gine d' un uomo e la velenosa malizia d'
una donna. Il commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione
dalle carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è forse
la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci rimanga intorno alla
metempsicosi pitagorica ; voglio dire i noti versi di un'elegia di
Senofane {contemporaneo di Pitagora, ma un po' più giovane di lui)
: E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,
Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò : € Cessa, ne
bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico r anima, che ravvisai,
quando 1' ho udita guair » (2). (1) Tertulliano, Apologia,
48: « Age jam, si qui philosophus adfirmet, ut ait Laherius de sententia
Pythagorae, hominem fieri ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam,
opinionem, omnia argu- m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum
movebit et fìdem, infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ?
persuasum, quis habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ?
» (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili,
36) — 125 — Anche in questi versi infatti, come
nel commento di Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi
an- che animale (per una falsa estensione però, come ho già detto),
se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri- dicolo. Di
un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer, è rimasto uno
spunto di verso, in c«i si accenna a un « dogma pitagorico », che molto
probabilmente possiamo ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1).
Finalmente Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un
terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2), del quale sarà
forse stato argomento la satira dello stesso dogma di Pitagora e dei
precetti riguardanti il vitto e 1' astensione dalle fave (3). Né è
davvero il caso di me- e prendendoli da lui, li ha citati
anche Suida (sotto la voce Xeno- phanes). Si veda a proposito di essi e
delle altre antiche testimo- nianze pitagoriche che risalgono ad
Eraclito, Empedocle, Ione, ecc. ciò che ha scritto lo Zeller nei
Siizungsber. d. preuss. Akad. 1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente
messo in dubbio che questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali
dubbi sembrano al GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati.
Ed ha per- fettamente ragione. (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679
P. e Anon. Bern. negli Anal. Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 :
« nec pythagoream dogmam docius ». (2) Cicerone, ad AH. XVI,
13 : « videsne consulatum illum no- strum, quem Curio antea apotheosin
vocabat, si hic factus erit, fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9
: o olim magna res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo
tuttavia notare che da qualcuno si è proposto di leggere ■8-aù[jia in
luogo del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in
proposito la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.
(3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,
Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere
— 126 — ravigliarsene, solo che si consideri con che
argomenti piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua-
dere della necessità di tale astensione (1). 2. — Del resto anche
Orazio (65-8 a. C.) si prese amabilmente gioco di questi due stessi punti
della dot- trina pitagorica. Che se in una delle sue satire
rievocava con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa-
gna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evi- dente che egli —
da buon epicureo — si infischiava del precetto del filosofo; non solo, ma
lo prendeva anche un po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea
di Pitagora » (2). E la prima parte della famosa ode d'
Archita non pare, per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi
filosofici in azione la parentela che esiste — secondo
Pitagora — tra la fava e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava
». Ora queste, più che opinioni del severo filosofo, furono certo
stramberie di begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio
di lui e delle suo idee, come fece Orazio, per esempio. (1)
Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk. (2)
Orazio. Sat. II, 6, 63-64: quando faba Pythagorae cognata
siwiulque XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ? Un'
altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter- preti d'
Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu pisces seu
porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru- cidare non solo
ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi che anche in queste,
come nella fava, si trovassero anime dei morti) verrebbe a prendersi un
po' in giro 1' amico Iccio — che s' occupava di filosofia — e con lui la
dottrina pitagorica della metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben
larga estensione. Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni
allusione. — 127 — che ammettono la
sopravvivenza dello spirito, sistemi quasi personificati in Archytas, per
opera del quale il Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1).
Dice infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e la
terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso il lido di Matinata
lo scarso dono di poca sabbia, e nulla ti giova aver esplorato 1' aria,
dove altri che l'uomo abita, e aver corso per la volta del cielo con
Tanimo destinato a morire. È morto anche il padre di Pelope, che
pur banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra e
sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar- cani di Giove, e
il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto (Euforbo), che scese
alF Orco un' altra volta (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora),
sebbene, con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio di
Giunone argiva in Micene) data testimonianza del tempo della guerra
trojana, non avesse concesso alla nera morte (così affermava lui) niente
più che i nervi e la pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo),
splendido mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-
Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti dobbiamo calcare
una volta sola (e non più, come tu credi) la via che conduce sotterra. Le
furie offrono alcuno gra- (1) Pascoli, Lyra romana, Livorno,
Giusti, 1895, p. 163. Per altri modi d' intendere quest' ode, che è la
28* del lib. I, si veda il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio,
Torino, Loescher, 1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1'
opuscolo dello stesso autore Uode d' Archita. Roma, 1893. (2)
habentque Tartara Panthoiden iterum Orco Demissurn, quamvis
clipeo Trojana refixo Tempora testatus nihil ultra Nervos
atque cutem morti concesserat atrae. — 128 —
dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro di morte
ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune- rali sì dei vecchi che
dei giovani, l'implacabile Proserpina non ebbe mai rispetto ad alcun capo
». E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che
tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor- tale, e
contrapponendo in particolare la sua affermazione al ricordo « di
Pitagora redivivo » , come lo chiama altra volta (1), fa doli' ironia
bella e buona alle spese del « fi- gliuolo di Panto ». 3. — E
Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual conto tenne le dottrine
pitagoriche ? Esercitarono esse qualche influsso sul suo pensiero e
lasciarono traccio vi- sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo —
per quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci hanno
tramandato i suoi biografi e commentatori — che egli ebbe grande
inclinazione agli studi filosofici e che desiderio di tutta la sua vita
fu quello di potervisi de- dicare di proposito ? Nel tempo in
cui Figulo e i Sestii tentarono di far rivivere in Roma la filosofia
pitagorica, è possibile pen- sare che uno spirito come quello di
Virgilio, colto, cu- rioso e naturalmente portato alle speculazioni
filosofiche, non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non v'
è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche (1) In
uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle varie vite di
Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant arcana renati », dove è da
notare anclie 1' allusione al carat- tere segreto e misterioso della
dottrina (arcana) Nelle Satire no- mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con
Socrate e con Platone e nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di
Ennio (II, 1, 52). — 129 — a; ì^i1^ Dicerone,
come ho già mo strato nelle precedenti credette di ravvisare nelle
pratiche e nei prin- Pitagorismo Torigine di molte delle più
antiche L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na- ;e anche
altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera giore mirò a rappresentare in un
meraviglioso r insieme le origini e lo svolgersi della potenza (1)
e che perciò fece lunghi studi intorno alle ) e alle antichità romane,
dovette proprio in modo re rivolgere la sua attenzione alla filosofia
pita- a quale per di più aveva già ispirato anche il Ennio^ la cui
opera degli Annali fu uno dei mo- i quali fu condotta 1' Eneide. Questo
mi par che i affermare con certezza, anche indipendentemente 3same
analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che procediamo a questo esame
— ancorché molto rio — non solo sarà confermata a posteriori la
induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu- )he di lui fece il
Fontano, quanda lo disse esplici- te « poeta augurale e profondo
conoscitore della la di Pitagora » (2). ne tutti sanno, agli
studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato
in essi da un ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo
chiama. r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe
(1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet
omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua tempora summatim
celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia eonfusus est ordo, etc.
». (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus »
, come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium
Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66. 9.
— 130 — anche rinunziato in gran parte alle « dolci
Muse ^ ! Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile
tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo- sofo. Filosofia
fu in lui solo in potenza : i germi latenti nel suo pensiero — che pur si
delinea abbastanza chia- ramente a chi ne mediti l' opera poetica —
sarebbero certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più
a lungo, sì che, condotta a perfezione 1' Eneide, egli avesse
potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente maturato e più volte
espresso — di poter attendere alla poesia filosofica : così noi avremmo
forse, accanto al poerna di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del
materialismo epicureo, un poema virgiliano informato ai principi
del- l' idealismo pitagorico-stoico. L' avviamento epicureo
eh' egli ebbe da Sirone, e l'ani- mirazione che sentì per la grande arte
di Lucrezio la- sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto
formale, neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle
Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta abbastanza
chiaramente un indirizzo filosofico affatto op- posto. Sulla concezione
epicurea, ma con molta libertà e larghezza di movenze, è foggiata quella
specie di teoria sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta
ecloga (vv. 31 e seguenti) ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle
un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente, col trasferirla
da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò che questi fosse epicureo ;
poiché nel campo dell' arte e della poesia sono possibili ben altre
finzioni, e 1' artista fa parlare i personaggi che sono figli della sua
fantasia secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla
stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle idee e
concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta — 131
— poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-
gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona propria, in
secondo luogo perchè il concetto che l' informa tornerà insistente e
sempre più preciso negli scritti po- steriori. Ma in verità il pensiero
di Virgilio non doveva in quegli anni essere ancora definitivamente orientato
e formato. 4. — La quarta ecloga fu composta quando il
poeta aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a. C,
allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione, console designato
per 1' anno successivo (1). Sulla inter- pretazione di questo carene, così
stranamente suggestivo, s' è tanto discusso, che non si sente davvero il
bisogno d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai
commentatori cristiani si credette di poter vedere in que- st' ecloga,
scritta in tempi così vicini all' apparizione del Cristo, qualche accenno
alla imminente venuta del Messia; anzi il fanciullo di cui si celebra la
nascita fu addirittura identificato col Nazareno. Non e' è da
meravigliarsene, che r intuizione artistica — nei grandi — giunge
tal- volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista tal
forza di significazione e un tale carattere "di univer- salità, che
essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle (1)
Oeneralraente si ritiene composta al principio del 40, anziché alla fine
del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa sul finire del 41,
ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di anno la nascita del figlio
di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo Servio, nacque appunto Pollione
eonsule designato), mi pare che non possa esservi ragione di incertezza ;
tanto più che in tal modo meglio s' intende il futuro inibii che
accompagna il te eonsule del y. 11. . — 132 —
disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero di chi
legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi proprio Virgilio abbia
consapevolmente profetizzato la venuta di Cristo per conoscenza che
avesse delle predi- zioni messianiche, questa è un' altra quistione,
risoluta dai critici in senso non del tutto negativo (1).
Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo — che si
ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio di Pollione, a cui è
dedicata l' ecloga — il poeta affermava ormai venuta 1' ultima età
(quella di Apollo) predetta dal- l' oracolo in versi della Sibilla di
Cuma, e sul punto di iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del
consolato di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni
umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor- nata sulla terra la
vergine Astrea (la giustizia) e sareb- bero tornati i beati tempi del
regno di Saturno (ossia r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe
fatta scendere (1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle
Bucoliche (Sandron, 1903) ha scritto (p. 48/ : « Non si può appunto
escludere assolu- « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che
Virgilio avesse « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche
certo « pervenuta a Eoma, e che ne traesse qualcosa per
tratteggiare « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli
ef- « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio
si acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per ha quale fu
sollevato alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si
veda il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p.
133 e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di
questa poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto
secolo. Si vedano anche i lavori di C. Pascal : Il culto rf' Apollo in
Roma nel secolo di Augusto e La questione delV Ecloga IV di
Virgilio (Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes
vergilianae (Palermo, R. Sandron, 1903). — 133 —
una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro- genies caelo
demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora nascente, avrebbe visto
scomparire del tutto la « gens ferrea » e crescere insieme con lui la «
gens aurea » e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla
terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con loro: nella
giovinezza avrebbe veduto ancora — residui delle colpe delle età
trascorse (e in pari tempo condizione necessaria al ripetersi delle
vicende umane) — nuove spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove
guerre, come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto a
pieno la felice pace della nuova età, della quale già si allietavano e
cielo e terra e mare. Come si vede da questo accenno, siamo lontani
le mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce- zione
d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro- fondo entusiasmo
poetico ? Pura finzione del suo spirito? No, senza dubbio. Una predizione
dei carmi sibillini pro- metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo
dei grandi periodi della vita universale — il rinnovamento del
mondo e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filoso-
fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri- cordare,
ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico dell' universo e il
ripetersi perfettamente identico dei me- desimi eventi e il ritorno alla
vita degli stessi corpi e delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e
dei genetliaci). Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col
co- minciare dell'anno 40 si iniziasse l'ultima età mondana
designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare che non se ne
possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere se queir < altro Tifi » ,
quell' « altra nave Argo che tra- sporterà ancora gli eroici compagni »,
« le altre guerre » — 134 — che si rinnoveranno
e « il grande Achille », che ancora « sarà mandato a Troja», indichino
l'identico ripetersi di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della
vita universale, oppure indichino soltanto una generica legge dei
ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi- cino ai tempi
del poeta, non seppe decidere: potendo quei nomi simboleggiare
genericamente il ritorno di eventi simili, ma non proprio gli stessi.
"Certo però che, asse- gnando Virgilio alla seconda età dell' oro
già imminente quei medesimi, identici caratteri che la tradizione
dotta e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-
dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato e
rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua arte divina, l'
avverarsi della teoria pitagorico-stoica della palingenesi. E ancora :
parlando della <^ nova progenies », la quale « eaelo demittitur alto »
, a che cosa ebbe pre- cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla
sua immaginazione come un flusso di anime emananti dal- l'anima
universale all' inizio del nuovo anno o periodo mondano posto sotto 1'
egida di Apollo ? (1). L' anima del fanciullo — nel pensiero del
poeta — non v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie
spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum suboles, magnum
lovis mcrementum » (v. 49), non par- rebbe che si dovesse intendere
altrimenti che la sua anima è emanata pura e semplice direttamente da
Giove, e Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio dell'Olimpo
pagano, quel principio divino che è l' anima (1) Mi pare,
non ostante il diverso parere di qualche commen- tatore (p, es. del
Pestalozza), che si debba precisamente dare al- l' espressione il suo
senso proprio e letterale. — 135 ~
dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an- cora
riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e che doveva svolgere
più compiutamente là dove, dall'ani- ma di Auchise, fa esporre ad Enea,
giù negli Elisii, la famosa « storia dell' anima ». Vero è
che, come ho già rilevato, bisogna andar molto cauti nella
interpretazione di siffatti motivi poetici e nel- r inferire da essi il
pensiero filosofico animatore operante neir artista; che questi può,
indipendentemente dai pro- cessi logici normali, assurgere per pura
intuizione alla visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso
nostro il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale
com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno ad essa
reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi nuovi di pura
elaborazione fantastica; ed espressioni poe- tiche di tale natura sono
per sé indeterminate e male si prestano ad essere analizzate e misurate
con le rigide seste della logica. Non potevamo però non tenerne
conto, almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,
che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc- cessivi momenti
dell' attività poetica del nostro autore. 5. — Da ispirazioni così
diverse e lontane come quelle della sesta e quarta ecloga appar probabile
dunque che prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora
definiti- vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non
lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal 37 al 30 —
compose le Georgiche ; poiché in queste si osservano ancora da un lato
somiglianze di pensiero e di forma con il poema lucreziano, e dall'altro
si incontrano immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti
ricordare, per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro
(219- ~ 136 — 227), nei quali il poeta accenna,
senza ancora accettarla come propria, ma con evidente simpatia, la
concezione panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e
degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri viventi non è
che una parte, più o meno grande, dello spirito divino che, suscitando in
mille forme la vita, per- vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto
ritorna. His quidam signis atque kaec exempla secuti 220 esse
apibus partem divinae mentis et haustus aetherios dixere : deum
namque ire per omnia, terrasque traefusque maris eaelumque
profundum. Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^
quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ; 225 seilieet hue reddi
deinde ae resoluta referri omnia, nec morti esse locum, sed viva volare
\ sideris in numerum atque alto succedere eaelo. Il filosofo,
esponendo il pensiero come di altri (quidam... dixere)^ fa ancora le sue
riserve; ma il poeta evidente- mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte
ci dice la profon- dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il
fatto che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo, ma
Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga (v. 31), lega
idealmente questa col passo delle Georgiche. L' animo di Yirgilio
ha dunque ondeggiato certo a lungo prima di aderire a quelle idee contro
le quali ave- vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di
Lucrezio; ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che via
via si vennero elaborando in lui col maturare degli anni e degli studi
dovettero riportarvelo fatalmente ; sic- ché quando, iniziati gli studi
per 1' Eneide, immergendosi tutto nelle ricerche intorno alle origini e
alle antichità romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la
leg- — 137 — genda collegava colla sacra figura
del re Numa, che aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in
que- gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do- vette
sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi- larle ancora più
profondamente, tanto che ad esse volle poi dare anche più precisa e più
degna espressione là pro- prio dove il poema attinge la più alta romanità
e acquista nel medesimo tempo carattere di universalità. 6.
-- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si riteneva generalmente
dagli antichi contenesse la più pro- fonda dottrina virgiliana, Servio
credette di dover premet- tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di
scienza, nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la
parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del canto XI dell'
Odissea). Alcune cose sono dette semplice- mente (cioè senza allegoria),
molte sono prese dalla storia, molte provengono dall'alta sapienza dei
filosofi e teologi egizi; talché parecchi hanno scritto interi trattati
su cia- scuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di que-
sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno quello, certo
assai interessante dal punto di vista del nostro tema, che scrisse
Macrobio, 1' erudito grammatico del quinto secolo ; poiché dei suoi
Saturnali, che pure ci restano in buona parte, è andata perduta proprio
quella parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico
dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,
(1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei
Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come ci fa
sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V) ; anzi, per la superiorità della
filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione di
Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto
— 138 — come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii
ele- menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del
quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium Scipionis (I, 6, 44)
il terque quaterque beati, riconosce neir espressione la dottrina
pitagorica dei numeri (1). Non è certo il caso di andar cercando,
come qualche antico ha fatto (2), in ogni espressione, in ogni
parola di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante
Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie, e di
immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel comporlo. Ma sopra un
punto in particolare, che è come la chiave di volta di questo canto e che
indubbiamente è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta
sa- pienza dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra
attenzione. ♦ Enea, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso
al- l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,
attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime dei neonati, dei
condannati a morte ingiustamente, dei suicidi) e ai campi dolorosi (dove
sono i morti per causa d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra
il Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro
seguente è mu- tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli
scrittori cri- stiani, e si deve far risalire al tempo in cui questi
tendevano ad accentuare il carattere profetico-cristiano di
Virgilio. (1) Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni
genere di sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al
Somnntm lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum
om- nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :
omnium diseiplinarum peritus. (2j Per esempio Elio Donato, il quale
attribuiva a Virgilio un sapere straordinario e cercò nei suoi versi
dottrine risposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva
pensato mai. — 139 — (dove subiscouo. le pene
più orribili le anime di tutti co- loro che in qualche modo hanno violato
le Jeggi umane e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure
che sono il felicissimo regno dei beati locos laetos et
amoena mrecta 630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.
Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante, le anime dei
beati (eroi morti per la patria, sacerdoti, poeti, filosofi ed artisti,
benemeriti della umanità) trascor- rono la vita su colli ameni e per
valli, in prati ed in bo- schetti, sulle rive di ameni ruscelli,
continuando le loro abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo,
al quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre per
guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad osservare con attenzione
le anime che si trovavano chiuse nel fondo di una valle verdeggiante,
destinate a ritornare alla vita terrena, passando in rassegna fra esse
quelle che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono-
scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future. At
pater Anchises penitus eonvalle virenti 680 inclusas animas superumque ad
lumen ituras lustrabat studio recolens omnemque suorum forte
recensebai numeruni carosque nepotes fataque fortunasque virum 7noresque
manusque. Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-
tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un bosco appartato e
cespugli pieni di suoni e il fiume Lete (il fiume dell' oblio) che
lambisce quelle placide sedi e intorno a questo una infinita moltitudine
di anime svo- lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro
sus- — 140 — surro, simile al ronzio che fanno
pei prati, nei sereni meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni
sorta di fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L'
eroe, stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia
quello, e che uomini quelli che si affollano così nume- rosi sulle sue
rive. E il padre subito gli risponde : « Le anime alle quali è dovuto per
destino un altro corpo, bevono alle onde del fiume Lete le acque che
sigilleranno in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e
della vita trascorsa »: animae, quibus altera fato
corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm 715 seeuros latices et longa
oblivia potant. Queste anime appunto egli si accinge a
mostrargli, enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-
scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da Silvio a Marcello
il giovane) perchè s' allieti con lui di essere finalmente giunto alle
spiaggie d' Italia. Ed Enea subito gli chiede : « padre, si deve dunque
credere che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-
tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual mai assurdo
desiderio della vita terrena hanno le infe- lici ? » : pater,
anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est 720 sublimis animas
iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira
cupido ? (1) Nella concezione orfica pare che le anime
destinate alla pa- lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione
della similitudine (Sabbadini). — 141 — Ed
ecco subito Anchise esporgli quella eh* io ho chia- mata la storia
dell'anima : « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il
cielo, la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un'
intelli- genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra la
gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani- mali che vivono
sulla terra, che volano per 1' aria^ che si muovono negli abissi del mare
: essi, particelle dell'a- nima universale disseminate nello spazio,
hanno vigore etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa
la lue corporea e le membra terrene e periture li ottun- dono. Oud'
è che essi vanno soggetti a timori e desideri, a gioie e dolori e, chiuse
nelle tenebre e in cieco car- cere, le anime disconoscono il cielo onde
derivano. Tanto che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona
la vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né le
lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle quali anzi;
avendole profondamente intaccate, devono ne- cessariamente crescere nel
loro intimo per lungo tempo in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte
a pene e pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui
infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo- ste all' azione
dei venti, altre immerse in un profondo abisso d' acqua (negli abissi
oceanici ?), altre bruciando nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra
espiazione, dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi
sol- tanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo
volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le traccio d'ogni
sozzura contratta nel corpo e lascia puro il senso etereo e il fuoco
della semplice aura. Tutte queste invece, quando son volti mille anni,
sono chiamate da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori
— 142 — del passato, rivedano la volta del cielo e
comincino a sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi
v. « Principio caelum ac terras camposque liquentis 725
lucentemque globum lunae Titanìaque astra spiritus intus alit
totamque infusa per artus mens agitai molem et magno se corpore
miscet. inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum
et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus. 730 igneus est
oUis vigor et caelestis origo seminibus, quantum non noxia corpora
tardant terrenique liebetant artus moribundaque membra.
hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras
dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. 735 quin et supremo
cum lumino vita reliquit, non tamen omne malum miseris nec funditus
omnes corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est
multa diu concreta modis inolescere miris. ergo exercentur
poenis veterumque malorum 740 supplicia expendunt. aliae panduntur
inanes suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto
infectum elicitur scelus aut exuritur igni ; quisque suos
patimur manis ; exinde per amplum mittimur Elysium ; et pauci laeta
arva tenemus, 745 donec longa dies, perfecto temporis orbo,
concretam exemit labem purumque relinquit aetherìum sensum
atque aurai simpliois ignem. has omnis, iibi mille rotam volvere
per annos, Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, 750
scilicet immemores supera ut convexa revisant rursus et incipiant
in corpora velie reverti ». Qui non siamo più di fronte
evidentemente a concetti vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e
solenne di una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto (vv.
725- 729) il concetto di uno spirito immanente nell' universo, di
carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri —
143 — animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;
cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel quarto delle
G-eorgiche, e perfettamente identico a quello che Cicerone, come s' è
visto, attribuiva a Ferecide, mae- stro di Pitagora (1). Di piti la forza
spirituale, di origine divina ed eterea, che è nell' uomo e negli
animali, e concepita in perfetta antitesi con la materia del loro
corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe- dimento, e che è
la causa degli errori, delle passioni, delle colpe, dei traviamenti.
Sicché la vita è un male (vv. 730-734). Anche questo concetto di un
dualismo o antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-
partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come s' è pure
veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti, per i malvagi e per i
buoni, tutti, dopo la morte, deb- bono purificarsi delle infezioni
corporee. La purificazione infatti avviene per mezzo di pene e di
tormenti, non però eterni, che debbono subirsi per il tempo
necessario all' espiazione perfetta. Ne sono mezzi i tre
elementi dell' aria, dell' acqua e del fuoco (quelli stessi che si
adoperavano appunto nelle cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1'
espiazione pu- rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo
di beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che furono
in terra i migliori, rimangono a godere una serena felicità, anche questa
non eterna, ma che dura fintantoché non sia compiuto il tempo prescritto
— tempo assai lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e
scom- paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-
Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78. (2)
Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove. — 144 —
cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi la primitiva
natura eterea e spirituale e di nuovo dis- solversi in seno all' anima
universale. Le altre invece, e sono la gran maggioranza, trascorsi mille
anni in una delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono
chiamate da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete r
oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi. Non s' intende
peraltro, poiché Anchise non lo dice, se queste ultime anime, destinate a
nuova vita, quando ri- torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e
conse- guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno
tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o se parte di
esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra. Nel primo caso il numero
delle esistenze terrene sarebbe limitato ad un massimo di due — una con
prevalenza del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-
finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resur- rezione è
assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo- mento in cui r anima si
stacca dallo spirito universale fino al momento in cui si ricongiunge ad
esso, è perfet- tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il
processo di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-
nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu- tamente. Né si
può dubitare che anche 1' ultima parte che si riferisce alle pene e ai
premi d'oltretomba (vv. 735- 747) e che espone la dottrina della
metempsicosi (vv. 748- 751), sia, come le prime, foggiata secondo i
principi del- l' Orficismo e del Pitagorismo. (1)
Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio le
occupazioni a cui attendevano sulla terra. — 145 —
7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere questi principii
fino alle ultime conseguenze logiche, e chiederci, per esempio, se in
tale concezione il processo di emanazione delle anime dallo spirito
universale avve- nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.
Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una volta tanto (perchè
in tal caso, col ritornare continuo delle anime individuali in seno all'
anima universa, ne sarebbe seguita in un determinato momento la
scom- parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche
in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il numero dei cattivi
che non quello dei buoni, a un certo punto sarebbe prevalso
irrimediabilmente sulla terra il male), ma dovendo considerarsi come
avverantesi ad in- tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si
ricolle- gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-
dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema- nano non solo
quelle degli uomini, ma anche quelle dei bruti, ci si potrebbe chiedere
che cosa dovesse avvenire di queste, alla morte dei loro corpi. E si
vedrebbe come, dal modo in cui dovette esser risolto questo problema
da qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi
(1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era
diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto il
particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,
filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-
nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni stessi
era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se- coli ; e in
ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre identico di
emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e si ripetevano gli
stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto più su (§ 4) parlando
della quarta ecloga. 10. — 146 —
unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi- cosi anche
animale (1). Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci
por- terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o
potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima con tutta la
rappresentazione precedente dell' anti-inferno e del Tartaro ? È evidente
che una contraddizione fon- damentale esiste : che 1' esistenza delle anime
nel prein- feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono
quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare con le pene
temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic- ché noi siamo indotti a
pensare che nella rappresentazione virgiliana dell' oltre tomba si debba
forse vedere un ten- tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione
ultima del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio — di
fondere insieme quella che era rappresentazione po- polare e il concetto
o rappresentazione filosofica del poeta. E poiché, considerata in
sé stessa, questa storia sug- gestiva e profonda ha un senso compiuto e
perfetto, e d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide
a pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe la voglia
di credere che essa sia stata scritta a parte, fors' anche
indipendentemente e in tempo anteriore a quello della composizione del
poema, e poi opportuna- mente inserita in questo, allorché il poeta —
artista, fi- (1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le
incarnazioni del- l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo
umano, ma anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei,
secondo che le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che
nel- r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò
rappresentato uno stato di vita intermedio fra due vite umane.
— 147 — losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì
l'idea di valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la
rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot- trina della
metempsicosi, antichissima e largamente dif- fusa e conforme alle
credenze religiose dei suoi concit- tadini e già consacrata dall' arte di
Ennio ? Anzi non mi parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse
proprio vedere in essa un brano di quel poema della Natura al quale
Virgilio già pensava quando finì il se- condo canto delle Georgiche (vv,
475-494), e forse ad- dirittura il principio del poema stesso o 1' idea
madre eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo
prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve- duto, si
iniziavano appunto con 1' esposizione della dot- trina della metempsicosi
(1). In tale, ipotesi dunque la teoria messa in bocca ad Anchise non
sarebbe soltanto una finzione poetica, un mezzo artisticamente
perfetto per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-
sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con- cezione di
Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to (1) Molti
raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI dei Saturnali; ma,
per dire la verità, non vi è cenno alcuno di rapporti formali o
sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea e quella di Omero ad
Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne parlasse in quella parte dei
Saturnali che è andata perduta e nella quale appunto si conteneva 1'
esame del valore filosofico dell'opera virgiliana fatto da Eustazio. D'
altra parte però è indubitabile una effettiva somiglianza di contenuto
fra i due squarci poetici, come sono indubbie alcune analogie di pensiero
fra i due poeti. E gli arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai)
potrebbero essere un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il
Pascal (Gom- mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio
ha derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli
Annales. — 148 — a cui abbiamo accennato fra l'
idealismo pitagorico-stoico e il materialismo epicureo, sarebbe insomma
il suo testa- mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che
la- sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e
sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii albori del
pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra- smessa di generazione in
generazione da una civiltà al- l' altra, dall' Oriente all' Occidente,
custodita con cura gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la
verità più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,
come già nei miti immortali di Platone, alla luce della poesia e dell'
arte. V. Pitagora e U sne dottrine nella poesia di
Ovidio. 1. La tradizione di Numa scolaro di Pitagora in Ovidio. —
2. Na- • tura, estensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici
secondo il canto XV delle Metamorfosi ; vegetarianismo ; metempsicosi ;
flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so- ciali;
Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. — 3. Ovidio e il
Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della esposizione ovidiana. — 5.
Conclusione. 1. — Ho già parlato nel cap. I della tradizione,
se- condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco- laro di
Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze di questa tradizione, ho
anche accennato a quella che ne fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel
quindicesimo e ultimo canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha
una importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-
ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi- zione stessa il
poeta si vale per fare un'esposizione, se non profonda, tuttavia molto
estesa — la più estesa e la pili organica che ci rimanga nella
letteratura romana — 150 della tìlosofia
pitagorica, specialmente in attinenza a due punti fondamentali di essa:
l'astensione dai cibi carnei e la metempsicosi. Dice dunque
Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo, si cercò subito chi potesse
addossarsi un peso tanto grave com'era il governo di Roma, succedendo a
un tal re, e che una fama non menzognera designò all'impero Numa,
già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so- pratutto, per
la sua sapienza: che, non solo conosceva a perfezione i riti della sua
gente, la gente Sabina, ma, abbracciando con la vasta anima più larghi
concepimenti ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi
della natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato a
Crotone : Quaeritur interea qui tantae pondera niolis
Sustineat, tantoque queat succedere regi. Destinai imperio elarum
praenuntia veri Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae 5
Oentis habet ritus : animo maiora capaci Goncipit, et quae sit
rerum naiura requirit. Iluius amor curae, patria Guribusque
relictis, Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.
Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi 60-478,
l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che or ora esamineremo —
e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo di che ritornò in paCria e prese le
redini del governo di Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti
sacrificali e le arti della pace: Talibus atque aliis instructo
pectore dictis 480 tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum
Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas: Goniuge qui felix
nym^pha ducibusque Gamenis — 151 — Sacrificos
docuit ritus, gentemque feroci Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.
Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non solo accetta senza
discuterla, come cosa ovvia e risaputa^ la tradizione che faceva di Numa
un discepolo di Pita- gora, ma vien pure in certo modo a mettere in
connes- sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a
Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per quanto con
l'accennata collaborazione della ninfa Egeria e delle Camene la leggenda
abbia certamente voluto rap- presentare la parte che ebbe l'elemento
indigeno nella creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico
pe- riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei dubbi
e delle critiche messe innanzi da qualche erudito, preferì seguire
senz'altro la tradizione leggendaria, che pur Cicerone aveva chiamata
inveteratus hominum ei-ror; e ciò non tanto perchè siffatta tradizione
gli offriva mi- rabilmente il modo di esporre quella dottrina della
me- tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe- ma
come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil- mente, la tradizione
era più che mai viva nella coscienza dei contemporanei, per i quali il
poeta scriveva (2), mas- sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo
in Roma. (1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast. Ili,
151-154) accenna alla possibilità che la riforma del calendario sia stata
ispirata a Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses
sen- sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci
Nos putat, Egeria sive monente sua ». (2) Un ultimo accenno
alla medesima tradizione si legge nella terza elegia dei terzo libro
delle Pontiche, dove il poeta, immagi- nando di parlare in sogno all'
Amore di cui si professa maestro, lo rimprovera di essersi comportato
verso di lui ben altrimenti da quello che fecero altri discepoli verso i
loro maestri : Eumolpo verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso
Pitagora., ecc. : — 152 - 2. — In Crotone teneva
dunque scuola Pitagora; il quale, nativo dell'isola di Samo, aveva
abbandonato spon- taneamente la patria, mal sopportando la tirannide
onde era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia. Per
virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente, per quanto fossero
lontani nella immensità dello spazio celeste, fino agli dei e scrutare
con gli occhi dell'intel- letto ciò che la natura ha negato alla vista
degli uomini»: 60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat
una Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul Sponte
erat. Isque^ licet caeli regione remotos^ Mente deos adiit et quae natura
nogabat Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit. Ecco
subito, in questi magnifici versi, messo in evi- denza Pitagora, e
determinata con molta precisione e con grande efiìcacia rappresentativa
la natura del suo misti- cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo
dell'intelletto e la profonda intensità del meditare, per giungere alla
vi- sione e alla comprensione delle più alte verità. 65
Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura In medium discenda
dahat, coetusque silentum Dictaque mirantum magni primordia mundi
Et rerum causas et, quid natura, docebat : Quid deus, unde nives^ quae
fulminis esset origo, 70 luppiter an venti discussa nube
tonarent^ Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent, Ed
quodcumque latet. At non Chionides Eumolpus in Orphea talis
; In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ; Praemia nec
Chiron ab Achilli talia eepit, Pythagor aeque ferunt noti nocuisse
Numam. Nomina neu referam longutn collecta per aevum, Discipulo
perii solus ab ipse meo. — 153 — E in questi
altri versi ecco parimenti accennata con grande chiarezza la vastità e
larghezza degl'insegnamenti, che il filosofo impartiva all'attonita e
silenziosa schiera dei discepoli e che abbracciavano « le origini
primordiali dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della
na- tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine, del
tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il corso degli astri:
insomma, tutti i problemi più reconditi della filosofia naturale e della
scienza » (1). Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di
ci- barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con molta
dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva- zione :
Primusque anitnalia mensis Arguii imponi : primus quuni talibus
ora Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis. Ed ecco
appunto il filosofo combattere, in prima per- sona, l'uso delle carni
(vv. 75-95) e descrivere l'età del- l'oro, quando gli uomini non
conoscevano ancora tale uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalLi divinità,
eccolo ac- cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare
questioni più ardue e a svelare più riposti misteri : Et
quoniam deus ora movet, sequar ora moventem Rite deum, Delphosque meos ipsumque
recludarn 145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.
Magna, nee ingeniis evestigata priorum, Quaeque diu latuere, canam.
luvat ire per alta il) I vv. 67-71, cke riassumono la
supposta fisica pitagorica, sono manifestamente ispirati da Lucrezio,
dice il Lafaye, Les mé- tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs,
Paris, Alcan, 1904, p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii
dello stoicismo. — L54 — Astra \ iuoat terris et
inerti sede relieta Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^
150 Palantesque homines passim ac rationis egentes Despectare
procul^ trepidosque obitur/ique timentes Sic exhortari, seriemque
evoltere fati. « E poiché sento di parlarvi per ispirazione
divina, seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il
rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi schiuderò gli
oracoli fin qui nascosti nel profondo della mia mente. Vi canterò cose
grandi, né mai scrutate dalle menti dei padri, e che per lungo tempo
restarono occulte. Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace
abban- donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-
tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso Atlante e guardare
da lontano gli uomini sparsi qua e là e ancora irragionevoli, e ad essi,
che aspettano con trepido timore la morte, infondere coraggio e
schiudere la visione del loro destino con queste parole... »
Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono- scenza
appunto deve distruggere negli uomini il timore della morte :
genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis ! Quid Styga, quid
tenebras et nonnina vana timetis, 155 Materieni vatum^ falsique perieula
mundi? (1) Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas
Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^ Morte careni
animae; semperque priore relieta Sede novis domibus vivunt habitantque
reeeptae. (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi
versi delie Georgiche (II, 490-492) : Felix, qui potuit rerum
eognoscere caussas, Atque metus omnis et inexorabile fatum Subiecit
pedibus strepitumque Acherontis avari, — 155 — «
schiatta attonita per lo spavento della fredda morte ! Che temete lo
Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan- tasie di poeti e pericoli d'un
mondo inesistente? Non crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo
con la sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire
mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e sempre,
abbandonata una sede, vivono e abitano in di- more che nuovamente le accolgono
». E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es-
sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel corpo d' Euforbo.
Poi segue, piìi specificatamente chiarita ed espressa, la dottrina della
metempsicosi animale, vol- garmente attribuita a Pitagora :
165 Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne Hue
venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus Spiritus: eque feris humana
in corpora transita Inque feras noster, nec tempore deperii ullo, ■
Utque novis facilis signatur cera figuris, 170 Nec manet ut fuerat^
nec formas servai easdem, Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic
semper eandem Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras. «
Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er- rando e si muove di là
a qui, di qui a là, e s'incarna nel corpo che si presceglie; e dalle
fiere passa nei cor- pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la
molle che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i
filosofi dunque giun- gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità
del timore della morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1'
uno, cioè Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione,
o passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea;
l'al- tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento
to- tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli
atomi onde l'anima si compone. 156
cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando quale era
prima e non conservando le stesse forme, tut- tavia è sempre la stessa,
così vi dico che l'anima ò sem- pre la medesima, senonchò passa sotto
varii aspetti » (1). Da ciò un nuovo argomento per astenersi
dall'usar carne (vv. 173-175). A questo punto la trattazione
di Pitagora si allarga, e il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione
perpetua e il divenire incessante di tutto il creato : Et
quoniam magno feror aequore plenaque ventis Vela dedi : nihil est tato,
quod perstet, in orbe. Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur
imago. « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto
mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto l'universo. Tutto
fluisce, e si foggia incessantemente ogni mutevole aspetto ».
E questa nuova proposizione illustra con una lunga serie di esempi,
tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen- darsi delle stagioni, dalla
vita dell'uomo e dalle vicissi- tudini degli elementi (vv.
179-251). Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di
muta- menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-
versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor- ganici e negli
organici trasformazioni impreviste, che i saggi osservano con curiosità,
ma di cui essi ignorano le cause : questi fenomeni straordinari — spesso
elencati e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate
(1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto
proba- bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui
si è già visto. — 157 — Paradoxa — Ovidio
li fa esporre da Pitagora, non sen- za qualche anacronismo, nei vv.
252-417 (i vv. 307-336 riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^
mirabiiia fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-
452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società umane, sino al
glorioso principaio d'Augusto, predetto già da un oracolo fin dal tempo
della caduta di Troia : Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere
Rotnam^ Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis Mole sub
ingenti rerum fundamina pomi. Haec igitur forviam crescendo mutata et
olim 435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates
Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor, Dixerat Aeneae^
cum res Troia?ia labaret^ Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis :
(1) « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae 440 Mentis
habes^ non tota cadet te sospite Troia. fiamma libi ferrumque
dabunt iter: ibis, et una Pergama rapta feres, donec Troiaeque
tibique Externum patria contingat am,ieius arvum, Urbem etiam cerno
Phrygios debere nepotes, 445 Quanta nec est nec erit nec visa
prioribus annis. Hanc aia proceres per saecula longa
potentem^ Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli Efficiet. Quo
cum tellus erit u>sa, fruentur Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus
illi ». Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae Mente mem,or
refero, cognataque moenia laetor Crescer e, et utiliter Phry gibus
vieisse Pelasgos. Così Pitagora è fatto profeta della divina e
fatale po- tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel
(1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di
Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,
306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98). —
.158 -^ poema virgiliano la dottrina pitagorica della
metempsicosi è assunta quale mezzo artistico per la predizione della
futura grandezza di Rom3. Nei pochi versi che seguono (453-478)
Pitagora final- mente ritorna al punto di partenza e conchiude : «
Poi- ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra anima
passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia- mo le bestie; chi può
sapere se, uccidendole non faccia- mo scorrere il sangue di nostri
congiunti ? » . 3. — Analizzato così il contenuto della
esposizione ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale
sia stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.
Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do- manda noi
possiamo rispondere negativamente senz' om- bra di esitazione : la vita e
l'operosità poetica di Ovidio, anche nel periodo posteriore alla composizione
delle Me- tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con
gl'inse- gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare
pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a quelle dottrine ; d'
altra parte Ovidio non ebbe certo tem- pra di filosofo né eccessivo amore
per le ricerche e spe- culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o
almeno una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia ci
sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua maggiore le ha
fatto così larga parte, con una esposizio- ne quasi sistematica, ma altre
volte ancora accenna ad essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni
versi delle Tristezze (1). (1) ìrist,, III, .3,
59-64: Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^
Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. — 159 —
E quasi certamente poi questa predilezione del poeta si deve
ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo, che era stata operata
in Roma da Nigidio nella prima metà del secolo (onde abbiamo già visto
quan te e quali traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di
Ci- cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta fece
sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne notizia sia
dalle opere degli scrittori che appartenevano alla generazione precedente
alla sua, sia dalla viva voce e dagli scritti di qualcuno dei nuovi
seguaci. 4. — Gli studiosi infatti che, proponendosi la
questio- ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi-
tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi determinare il
valore storico della trattazione stessa, hanno riconosciuto in sostanza
che tali fonti debbono essere state le opere varroniane (le Antiquitates
rerum divi- narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)
Nam si morte carens vacua volai altus in aura Spiritus, et
Samii sunt rata dieta senis, Inter Sarmaiicas Romana vagabitur
umbras^ Ferque feros manes kospita semper erit. Il poeta si
augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col corpo morta fanno »
e che nessuna parte del suo essere sfugga alle fiamme del rogo, poiché
diversamente, egli dice, « se lo spi- rito, immortale, vola alto nelle
vuote regioni dell' aria e sono veri gì' insegnamenti del vecchio di
Samo, 1' ombra di un Romano sarà costretta a vagare fra le ombre dei
Sarmati e sarà sempre un'e- stranea tra feroci anime di morti ». Il passo
è importante, perchè mostra che, di fronte al pensiero della morte, il
poeta era in so- stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli
che affer- mavano la immortalità dell'anima. — 160
— oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei
loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1). Sicché, qualunque si
accetti delle ipotesi messe innanzi, sta di fatto che le fonti a cui
Ovidio ha attinto non sono moìto anteriori a lui. D'altra
parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio, più poeta che filosofo,
non intese certo di trattar l'argo- mento con rigore di metodo
scientifico e filosofico, atte- nendosi scrupolosamente a questo o a
quell'autore ; ma che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e
che (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre che dei
ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se- guito soprattutto il
suo sentimento artistico, giovandosi della materia dogmatica nella forma
genuina soltanto nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera
sua e non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando di sua
propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo- strare, per esempio, che
certe intrusioni nel sistema pi- tagorico di principii appartenenti ad
altri sistemi — come a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono
affatto imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute negli
scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi- (1) Si
vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De Pythagora omdiano
\ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag. 100-107); A. ScHMEKKL, De
omdiana Pythagoreae doctrinae adum- hratione, Gryphiswad, 1885 e Die
Philosophie der mìttleren Stoa, Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove
sono modificate in parte le conclusioni dell'opera precedente); G.
Lafaye, op. cit., cap. X. (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La
dottrina pitagorica e la eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova,
1909 ripubblicato nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920,
p. 207; e per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^
Firen- ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. — 161
— zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore
di documento storico, in quanto che, supplendo in parte alla deficienza
delle nostre cognizioni m proposito, dovuta alla perdita delle opere di
Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^ ci mostra molto approssimativamente in
che consistesse il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti
Cristo. 5. — L'esame che abbiamo così compiuto della lettera-
tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua maggior
fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pita- gorismo fu nelle varie
età di Roma abbastanza largamente conosciuto, ma che d'ispirazione
pitagorica sono alcune delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci
hanno tra- mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione e
il sesto canto dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere che nelle idee
che quel sistema svolse era implicita una grande e mirabile virtìi di
esaltazione poetica ed artistica. Se riflettiamo d'altra parte che quelle
idee esercitarono notevole influsso nel sorgere delle più antiche
istituzioni romane, e che contro di esse mossero guerra invano
l'arte titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la
forza politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so-
dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo tenere per
certo che in esse fosse insita una grande forza di resistenza e quella
specie di malìa fascinatrice che su- scita le pili alte energie morali.
Se le idee tanto piii val- gono quanto maggiore è il sentimento che le
accompagna e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita
degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche, venute da sì
lontane scaturigini e assurte a così varie, molteplici, alte
manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo- li. — 162
— ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore
altissimo. Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro
tema, pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al
loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis- situdini
del pensiero, ai loro successivo e alterno rina- scere con sempre
rinnovato vigore nei momenti di più intensa attività spirituale — nella
Magna Grecia con Pi- tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi
teosofi neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co-
stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul- timo
rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo che oggi ancora esse
vivono nell' Oriente asiatico, ope- ranti con la forza della fede in
milioni di coscienze, e che accennano per diversi segni, in questa nuova
prima- vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden-
tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse non furono
apparizione fugace ed effimera d'un pensiero individuale, ma parole di
quel linguaggio eterno che sgorga perenne dalle più profonde radici
dell'anima umana. (1) Si veda, per esempio, tanto per citare
un magnifico libro di scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della
vita (Genova, Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel
Giornale del Mattino di Bologna del 7 marzo 1912.
APPENDICI I. p: U P H O R B o
s. Pubblicato nella Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed
Arti^ a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova. 1.
La figura di Eùphorbos nell' Iliade. — 2. Pitagora rincaraazione di Eùphorbos.
— 3. Altre incarnazioni di Pitagora. 1. — Y'è forse alcuno
per il quale, meglio che per Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi
il famoso ver- so dell'antico commediografo, che il Leopardi
tradusse « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-
ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni sotto le mura
della sua Troja per mano del divino Me- nelao, dopo aver ferito, primo
fra i Trojani, il fortissimo Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo
di una spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma
di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato per sempre al
ricordo di un grande pensiero e di una più grande vita : al pensiero e
alla vi+a di Pitagora. Fusa nel vivo indistruttibile metallo della
poesia d' 0- mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel
racconto dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione
guer- resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più
grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata del combattimento
presso alle navi, Patroclo, indossate le armi dell'amico e ricondotti i
Mirmidoni alla battaglia, — 166 — verso l'ora
del tramonto si trova coi suoi di fronte ad Ettore, che Apollo protegge :
in tre assalti egli ha uccisi « tre volte nove » nemici, ma al quarto
assalto un colpo del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto
cadere lo scudo, slacciata la corazza: II. XVI, 805 Smarrito
il cor, fiaccate le valide membra, fermossi e titubò. Di dietro allor con
la punta de l'asta infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un
trojano, il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali con la
lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi, 810 ed anche
allor, venuto appena sul carro, sbalzati venti nemici avea, di guerra già
prode campione. Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga
; ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia, tratta
fuor da le carni la lancia di frassino; incontro 815 Patroclo,
ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1). Patroclo allor,
stordito dall'urto di Febo e da l'asta, anco a 1' amiche schiere traeva,
fuggendo la morte. Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi
Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia, 820 presso gli
venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse sotto a r addome : fuori
n' uscì da l'opposto la punta. Quei con fragor giù cadde, e grave fu il
lutto de' Danai. (1) I versi 814-815 trovo segnati come
spurii nella quinta edi- zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia,
1890), sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi
pare ohe sia proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi,
così ome- rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati :
prima la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle
carni di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore
in- nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito
colpo del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di
Pa- troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere
an- cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla
fe- rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a
Patroclo, — 167 — Suir eroe atterrato Ettore si
vanta e lo schernisce, ma il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando
che la vitto- ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo
hanno ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,
Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano d'Achille, muore e
rimane supino in mezzo al campo di battaglia, mentre Ettore insegue
Automedonte, che cerca di portare in salvo il cocchio d'Achille.
A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A- tride
Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti al morto, in sua
difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer- mo d'uccidere chiuncfue osi
accostarsi. Ed ecco ancora Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno
dei piìi begli episodi della battaglia : II. XVII, 9 Pronto
di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide ch'era atterrato
Patroclo, e fattosi subito innanzi che, pur ferito e spoglio
della difesa delle armi, era sempre un troppo temibile nemico, anche per
un più esperto guerriero che non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto
certo rappresen- tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che
vile il figlio di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con
Mene- lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle
pa- role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo
passo: Anzi dal corpo ricovrando il ferro Si fuggi
pauroso, e nella turba Si confuse il fellon, che di Patroclo
Benché piagato e già dell'armi ignudo Non sostenne la vista.
{IL XVI, 1146-1150) (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso :
infatti già il poeta ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei «
con la lancia » (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo
(XVI, 806 e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo
di Menelao (XVIi, 43-45). 168 disse al
figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao : « Menelao, divino germoglio,
signor di gran genti, vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie
cruento (1). Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri
alleati, 15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la
mischia: lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra'
Trojani, che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».
Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo : « Bello davver, gran
Giove, con tanta insolenza vantarsi ! 20 Certo mai fu sì grande '1
furor di pantera o leone di cignal feroce, a cui nel fiorissimo
petto gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza, qual
de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria ! Ne ad Iperènor tuo,
rettor di cavalli, già valse 25 di giovinezza il fiore, allor che
sprezzante affrontommi e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero
! Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato, ad
allietar ritorna la cara consorte e i parenti ! Così la tua baldanza, se
pur d'affrontarmi tu ardisci, 30 rintuzzerò. Ma io ancor ti
consiglio a ritrarti dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede
l'evento ». Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :
« Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta pel fratel eh'
uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando - 35 e nel segreto
talamo tu n'hai vedovata la sposa, e i genitor nel lutto e in muto
cordoglio gittasti ! Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una
tregua, se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja, fra
le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide! 40 Ma non più a
lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi s' io m' abbia saldo il
core o pieno di vile paura ». Detto così, die un colpo nel tondo perfetto
suo scudo, ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta
nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta (1) Le
armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, giacevano in
terra poco lungi dal cadavere. ~ 169 — 45
l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre, e, mentre quei s'
arretra, il coglie a la fossa del collo; dentro spinge con forza calcando
la mano pesante, e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.
Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ; 50 s'
insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1) i capelli
ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento. Come talora un florido
arbusto d'ulivo si nutre in solitario loco, allor che molt' acqua vi
sgorghi, bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio
55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2; ma
piombando improvviso un vento con turbine grande dalla fossa lo schianta
e a terra disteso lo abbatte; tale di Panto il figlio, esperto ne l'
asta, Eiiforbo l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,
60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti * da
pascolante gregge rapì la giovenca più bella, (1) Cioè
ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co- me ha
interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin- daro
Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun- ghi ricci
spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let- teratura
dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro, fr. XIII neìV
Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda in proposito quello
-che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire a Micillo : questi, fra
le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e « mi sembra che Omero per
questo abbia detto le tue chiome si- « mili alle Grazie, perchè « avvinte
eran d'oro e d' argento »: in- « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo
con esso apparivano, evi- « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili
» (XIII). (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti »
la sta- gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le
piante s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della
loro fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla
prima fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine
schian- ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del
giovinet- to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze
che già s' intesseva intorno al suo capo. — 170
— cui la cervice infranse tenendola forte co' denti, poi,
facendola a brani, le viscere ingolla col sangue — intorno a lui, da
lunge, si nnuovon con grande frastuono 65 cani, villan, pastori, ma
farglisi presso ad alcuno non regge il cor, che tutti li fa scolorir la
paura; così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita, eh'
osi affrontar da presso la forza del gran Menelao, E questi
agevolmente porterebbe via le splendide armi di Eùphorbos, se non glielo impedisse
Febo Apollo, il quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente,
lo consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli
d'Achille e ad accorrere invece là dove or Menelao frattanto, il
figlio pugnace d'Atreo, 89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior
de' Trojani, il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.
Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede r uno che
toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in terra e il sangue che
sgorga dalla ferita, irrompe fulmi- neo con orribili grida, e Menelao,
riconosciutolo subito, non osando da solo tenergli testa, lascia a
malincuore il corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per
chiamare qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure portar
via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura; della quale tuttavia
dovette certo impadronirsi più tardi, quando i Trojani sconfitti furono
costretti a rinchiudersi entro le mura. E non sarà stato quello il meno
glorioso trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.
2. — Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo- rificato già
dalla divina arte d' Omero, non rinacque per avventura, dopo quattro
secoli, a nuova vita e ad opere non meno belle e gloriose?
— 171 — Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno
traman- dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola
italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi- cosi, «
nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di « bronzo, disse che quello
portava e gli era stat^ tolto « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli
Argivi, « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome «
d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero (//. XVII, 28) e così
altri, fra gli antichi scrittori, ricor- dano accennano la cosa. Chi non
rammenta infatti, tanto per citare i piìi noti, quella famosa ode
d'Archita, dove Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia,
che « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso «
all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece « staccare, data
testimonianza dei tempi della guerra troja- « na, non avesse concesso
alla nera morte niente più che « i nervi e la pelle? » (1) Il buon
Orazio, tra scettico ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella
me- tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)
Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi fa esporre da
Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli- cito ricordo della
tradizione, facendo dire al filosofo : Ben io — sì lo rammento —
nei dì della guerra di Troja ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui
stette nel petto (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :
habentque Tartara Panthoiden iterum Orco Demissum,
quamvis clipeo Trojana refixo Tempora testatus, nihil ultra
Nervos atque cutem morti concesserat atrae. (2J Id. Epod. VI, 21: «
nec te Pythagorae fallant arcana renati » 172
la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,
Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne, or non è
molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1) E ancora due
secoli dopo il filosofo neo-platonico Por- firio^ raccogliendo in una
breve biografia molte notizie intorno a Pitagora, lasciò scritto che
questi « ricordava « a molti di quelli che si recavano da lui la
precedente « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-
« ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso « rivelò con
prove indubitabili d'essere stato Euphorbos « figlio di Panto. E dei
versi omerici cantava, accompa- « gnandosi mirabilmente con la lira,
quelli di preferenza: 50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva
a le Grazie, i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e
d'argento. Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre in solitario
loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di rigoglio, e poi,
come 1' agita il soffio 55 di tutti i venti, un velo di candidi
fior lo ricopre, ma piombando improvviso un vento con turbine
grand® dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ; tale
di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo r Atride Menelao uccise
e spogliava de l'armi. < Poiché quel che si racconta dello scudo
di questo « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino
(1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164: Ipse ego — nam
memini — Trojani tempore belli Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore
quondam Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae. Cognovi
clipeum, laevae gestamina nostrae, Nuper Abanteis tempio lunonis in
Argis, — 173 — « trojano dedicato a Giunone
Argiva, lo passo sotto si- « lenzio come cosa ben nota » (1).
La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi. Ora quale
ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e semplice ? Potrebbe anche
essere; nel qual caso dovrem- mo evidentemente pensare a qualche
discepolo o seguace del Maestro, il quale, per confermarne meglio la
dottrina della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la
storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne autore lo
stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da quel che abbiamo udito or
ora narrare da Porfirio, che il filosofo, appassionato lettore d' Omero,
recitava e can- tava spesso i delicati e soavi versi della morte d'
Eùphor- bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più
semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan- tasticando in
ipotesi — credere senz'altro alla concorde testimonianza degli antichi.
Vi è forse nella cosa alcun- ché che trascenda i limiti della credibilità
e della vero- simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla
metempsi- cosi, e non era anzi questo il pernio della sua
psicologia e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-
culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi seguaci ? Dunque
e ben possibile che egli, il quale aveva virtù taumaturgiche (tanto che
nella sua vita il meravi- glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^
egli, che tante profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi
viaggi in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche
magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-
(1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei
Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo, questi
si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».
— 174 — ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni
dal corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere nel suo
passato la storia della propria anima e ne desse notizia ~ se non proprio
alle turbe — agi' iniziati della sua scuola, . agi' intimi, ai più
perfetti, da qualcuno dei quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma
per me r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-
tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite anteriori non
ha nulla di inammissibile e di men che credibile : lo zelo dei seguaci
avrà forse potuto aggiunge- re qualcosa, inventare qualche nuovo
particolare o ma- gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l'
origine prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo
stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e naturalmente anche
credere — poiché non é ammissibile la malafede in un uomo di tanta
autorità, la cui vita fu tutta un apostolato di verità e di bene — di
essere stato Eùphorbos. Ma in tal modo — si potrebbe
osservare — se noi accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde
ci ha tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di
essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di conseguenza
che egli avrebbe anche creduto nella realtà storica d' Eùphorbos, non già
iato dalla feconda fantasia d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che
per que- sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —
per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette nella
realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza di Agamennone, di
Achille, di Menelao, di Ulisse, di Ettore, di tutta la bella schiera
degli eroi dell' Iliade e dell' Odissea? Né la critica storica
demolitrice, né la qui- stione omerica erano nate ancora, e Federico
Augusto — 175 — Wolf doveva tardare ancora
ventiquattro secoli a nascere e a lanciare pel mondo la stupefacente
teutonica mostruo- sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1)
3. — Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre incarnazioni,
anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por- firio, un poco più innanzi
: « Affermava di essere già vis- « suto precedentemente, dicendo d'
essere stato prima Eù- « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo,
poi Pirro « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è «
immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi « dell'antica sua
vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha conservato in proposito una
testimonianza — che risali- rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di
Platone, Speu- sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella
di Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-
carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma anche perchè
riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione), anziché a Pitagora, 1'
episodio dello scudo, che sarebbe (1) Veramente si é
incominciato già da qualche tempo ~ anche in Germania — ad essere un po'
meno radicali in fatto di nega- zioni. E a quel modo che il Beloch, per
esempio, ammise come possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati
nelle diverse parti del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà
una volta si mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il
Drerup {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere
in Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e in
altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli
rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione contro
Troja (p. 231 e seg.). (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche
gli scrittori cristiani, come Tertulliano (de anima 28, 31, 34),
Lattanzio {Epit. Instit. dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).
— 176 ~ inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,
e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio : « Dice
Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di « se d' esser già stato
Etalide e ritenuto figlio di Her- « raes (1). E che Hermes gli disse di
scegliere quel che « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il
dono « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti « gli
eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto, « e dopo che fu morto
conservò egualmente la memoria. « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu
ferito da Me- te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un
tempo « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor- « dava
le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute, « e attraverso quali
piante ed animali fosse passata, e « che cosa l'anima avesse sofferto
nell'Ade, e qual sorte « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos
morì « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta, «
volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran- « chidas ed entrato
nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo « che Menelao vi aveva appeso,
ormai imputridito, re- « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che
quan- ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da
Hermes, il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora
alle dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo
vedere in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di
Pitagora un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio
mistico fraintese. (2) Pausania, nella descrizione che ci ha
lasciata dell' Heraion di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del
tempio, a destra, dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in
voto uno scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ».
(De- scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania
descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi
— 177 - « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo
; « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima «
Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E « che quando Pirro
morì, rinacque Pitagora e si ricorda- « va di tutto quel che s' è detto »
(1). Non solo, ma a sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco
— vis- suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-
bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre volte, come
Pirandro, come Calliclea e finalmente come una bella etera chiamata Alce
(2). E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-
e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le più varie
condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver compiuto il ciclo
assegnatole dal suo proprio destino -— tornata a dissolversi nel gran
mare dell' anima univer- sale ? (3) o non avrà continuato ancora a
vestirsi d'uma- na carne, indefinitamente, secondo la favola di
Luciano? (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann
alla scoperta delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli
veduto quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo
fattane fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti
del tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e
testimonianza dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo
visse nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo. (1)
Diogene Laerzio, Vili, 4-5. (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 :
«... . Pythagoram vero « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum
fuisse, dictitasse; ita « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et
Dicaearchus memo- « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde
Callicleam, « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen
fuerat « Alce ». (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto
dal Pitagorismo i principii a cui informa la teoria delle pene d'
oltretomba nel De republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso
ingiu- 12. — 178 - « Lungo sarebbe a
dire — così parla il suo gallo fìlo- « sofo (Pitagora redivivo anche
questo!) — in qual forma « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed
entrasse « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...
« Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi « ucciso da
Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare « in Pitagora ; ma fra 1' un
tempo e V altro non ebbi « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi
apparecchiasse « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di
Pitagora « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di
« Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo « Aspasia qual
uomo o qual nuova donna diventasti? — « Grate, cinico. — figliuolo di
Giove, qual differenza! « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi
un po- « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-
« chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte. « Ma sopra
tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le stizia verso un
altro doveva subire dieci volte quella medesima ingiustizia e occorreva
quindi lo spazio di dieci vite per scontare le colpe della prima —
bisognerebbe veramente ammettere (s' in tende bene, dal punto di vista di
Pitagora e della sua dottrina) almeno altre due vite. — - Per il luogo
platonico e le relazioni che esso può avere avuto con il dogma cristiano
della resurrezione si veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna
Contemporanea del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^
II, pa- gina 199). (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui
Luciano sorvola sul- le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove
{Vera Historia^ II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne
(nella città di « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che
allora aveva « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite,
compiuti i sette « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato
destro. Fu de- « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva
se chia- « marlo Pitagora od Euforbo ». — 179 —
« altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove- « relli,
a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa- « gnia, facendomi beffe
cotidianamente di te, che ti que- « reli della tua povertà, e piangi e
ammiri i ricchi perchè « non sai i mali che comportano... » (1).
E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu- dere questa
singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto, il quale fu veramente
molto caro ai celesti. (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo
(secondo la traduzione di Ga- sparo Gozzi). Si legga tutto questo
piacevolissimo dialogo. Il no- stro autore del resto scherza in parecchi
altri luoghi su Eùphor- bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere
un qualunque indice delle opere di Luciano. II.
IL SODALIZIO PITAGORICO DI CROTONE. Edito nel
1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto e pubblicato in
The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII, n. 219-20 (nov.-dic.
1905). 1. Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o
formazione del So- dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. —
4. Sua du- rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura
degl'insegnamenti che vi si impartivano. — 7. Conclusione.
L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel- r antichità anche
prima dell' apparizione del neo-pitagori- smo, narra che il filosofo di
Samo, dopo aver viaggiato nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella
Babilonia, in Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-
gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se- grete che i
saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio nello stesso tempo in cui
fiorivano nella Cina Lao-Tse (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho
(560-480) (1) venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città
della Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di
ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap- punto intendo ora
di esporre le origini, la durata e la costituzione, valendomi delle
notizie abbastanza numerose e particolareggiate, perchè possiamo farcene
un' idea esatta. (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap.
I dello studio di G. De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari,
Laterza, 1904, 22 ediz. 1919). — 184 — che
ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1), Porfirio (2),
GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4), nonché, incidentalmente, gli
scrittori classici maggiori, delle quali poi si servirono, in misura piii
o meno larga, con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni
del- la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico in
particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen- tofanti, lo
Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6) ed altri. 2. —
Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con- corde narra che
verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o poco dopo (7) Pitagora, giunto a
Crotone, forse accom- pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono
da Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da
conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in gran numero
ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che (1) Vitae et
placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I. (2) De vita
Pythagorae. (3) De pythagorica vita. (4) Stromat.
libri, passim. (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum
conditae scopo politico commentano^ Gotting, 1831. (6) Les
Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari, Laterza, 1905).
Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192. (7) Variano dal 529 al
540 le date proposte relativamente all' anno della sua partenza da Samo;
la prima data è ammessa dall' Ueberweg, Qrundr. I, 16, 1' altra è in
Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p. I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande
Orèee) sta pel 532. Quanto all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che
nel 540 Pitagora vi si trovasse già. (8) GlAMBL. 29.
(9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e
Cfr. GlAMBL. l. e. 30. ^ 185 — predicava verità
non mai udite prima d'allora in quella regione e da quegli uomini.
Accolto con molta deferenza tanto dal popolo quanto dalla parte
aristocratica, che al- lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo
su- scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira- tori
un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion od uditorio comune (1) —
nel quale egli potesse inse- gnare comodamente le sue dottrine ed essi
ridursi a vi- vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la
troviamo presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-
colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai giovani che vi
si trovavano suscitandone l' ammirazione (2), del che venuti a conoscenza
i magistrati e i senatori avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo
anch' essi ; ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi
ottenne tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico il
suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron- tamente, mossi
dalla fama, subito dilBFusa per tutto il paese, della grande austerità d'
aspetto, della dolce soavità d'eloquio, della profonda novità di
ragionamenti del fo- restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo
che egli potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi
(1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con
quella che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa
cristiana. (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di
questo di- scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento
esso- terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito
dallo Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi
pare sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso
ri- ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato
dal secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo
co- nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».
186 si allargò, diffondendosi nei paesi vicini
della Magna Gre- cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a
Ca- tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle tribù
italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed anche da Roma (1)
vennero a lui discepoli di ambo' i sessi ; e piìi celebri legislatori di
quelle regioni, Zaleuco, Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per
maestro (2), sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti
dovunque r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo
modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea- lizzare
l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione nazionale^ sotto l'
egemonia di Crotone, non ostante la diffeirenza di razze degli Elleni
italioti » ; il che peraltro ò inesatto, poiché, come vedremo,
l'intendimento di Pi- tagora nella sua azione e nella sua predicazione
non fu politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-
giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco- glienza avuta
dal filosofo ed al successo da lui riportato, una persona con la quale
egli doveva essersi trovato in rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre
medico ero- tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze
personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone e l'entusiasmo
da lui suscitato in tutta la Magna Grecia (1) DiOG. VITI,
15; PoEF. 22 ecc. (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog.
Vili, 16; Forf. 21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili,
17 ; Diod. XII, 20. (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54;
Giambl. 33, 50, 132, 214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554;
Giustino XX, 4; Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos.
I, 11, p. 776. (4) Op. ciL, V. I, p. 75, (5) Cognetti
De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465. — 187
— furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-
che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al- tro della
disposizione e attitudine di quelle genti a in- tenderlo ed apprezzarlo.
Poiché il misticismo ed ogni moto idealistico trovò sempre fra loro un
generale e pron- to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi
più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder- na (1). In
queste attitudini dei popoli del mezzogiorno sta la ragione del rapido
diffondersi delle dottrine pita- goriche, che furono accettate quasi
universalmente : tanto che molti (2), i migliori per intelligenza e per
elevatezza morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del
Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare più addentro
nella conoscenza del suo sistema filosofico, di cui intravvidero ed
intuirono la vastità e la compren- sione, si ridussero a poco a poco a
vivere con lui, atti- rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da
quella spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al- tri
tutti i grandi apostoli dell' umanità. Così fu formato il
Sodalizio, del quale fu poi aperto (1) Così p. es. l'idea
religiosa di cui si fece poi paladino e ca- valiere S. Francesco, partì
appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac- chino da Fiore (V. Tocco
L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II). Del resto il Pitagorismo si mantenne
sempre vivo nell' Italia Me- ridionale, (di dove penetrò in Roma con
Ennio) e vi sorse a nuo- vo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola
di Bernardino Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella
e il Bru- no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124
sgg. (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila
cit- tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e
vis- sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti
dati loro dal filosofo, che veneravano come un Dio. —
188 — l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e
alla sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-
dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del- l' Oriente e
dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato, egli aveva probabilmente
preso conoscenza dei Misteri. L'istituto divenne ad un tempo un collegio
d'educazione, un'accademia scientifica e una piccola città modello,
sot- to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della
teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle arti, vi si
giungeva lentamente a quella scienza delle scienze, a queir armonia
magica dell' anima e dell' intel- letto con l'universo, che i Pitagorici
consideravano come l'arcano della filosofia e della religione. La scuola
pita- gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu il
piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an- ticipata dell'
ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il frutto della scienza sull'albero
della vita, e conobbe quin- di quell'attuazione interna e viva della
verità che sola può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma
d'im- portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio
(2). 3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno
all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita- gorica alle
forme e agli effetti esteriori di essa, diverso (1) Sulle
donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno studio, che darebbe
certo gran luce su molti fatti. Ad esse era impartito un insegnamento
particolare ed avevano iniziazioni pa- rallele, adattate ai doveri del
loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267, dà i nomi di 17, tutte chiarissime—
-Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo. Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche
Schure, op. cit. pa- gine 379 sgg. (2) ScHURÈ op. cit. p.
314. 189 fu il criterio che gli studiosi
portarono nel giudicare per quali intendimenti il filosofo avesse voluto
creare questo Sodalizio. Alcuni non ne videro che l'intento politico;
così, se- condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo di
restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto degli ottimati
e, subordinati a questo, due altri scopi, uno morale e l'altro di
coltura: di rendere cioè i suoi mem- bri buoni ed onesti, affinchè, se
fossero chiamati al reg- gimento della cosa pubblica, non abusassero del
loro po- tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo che
si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al suo stato ; e di far
studiare la filosofia a coloro che si accingessero al governo dello
Stato, perchè non si può aspettare un governo buono e sapiente se non da
chi sia colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-
perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito del nostro
studio. Gli intenti del riformatore non furono politici soltanto, ma
anche morali, filosofici e religiosi ; né il suo insegnamento voleva
mirare solo a Crotone, o alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ;
il con- tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una
parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema scientifico e
filosofico, che abbracciava tutto lo scibile. Altrimenti, nota
giustamente lo Zeller, non si spieghe- (1) l. e. p 101 —
Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc. etc. V. II, p. ]85 e
quello molto strano del Mommsen, St. di Roma antica^ Roma-Torino 1903, v.
I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze « oligarchiche informavano la lega
solidaria degli « Amici » (?), « fregiata del nome di Pitagora ; essa
ingiungeva di venerare la « classe dominatrice come divina, di trattare
come bestie quei « della classe servile ecc. » ! — 190
— rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-
rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno a Pitagora ci
mostrano in lui più che l'uomo di Stato, il teurgo, il profeta, il
sapiente e il riformatore morale (1). In realtà egli mirava ad elevare
nello spirito e nei costu- mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una
cultura e una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la
più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con questo egli
otteneva anche lo scopo, eminentemente civile e umanitario, di migliorare
via via sempre più facilmente e largamente i cittadini e gli uomini
tutti, poiché ogni discepolo portava poi necessariamente fuori della
scuola, nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-
trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e con l'esempio tra
i famigliari, i parenti, gli amici. E in conseguenza di ciò dovette
compiersi a poco a poco un mutamento anche nel governo della città, per
il fatto che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove
dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi direttamente,
se ne facevano parte, o indirettamente, se erano privati cittadini,
dovettero portare nel governo un nuovo indirizzo razionale e una più
rigorosa moralità. L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e
l'aristocrazia, come osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma
l'effetto dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i
migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co- me un'
associazione politica, ciò è vero a patto che non vogliamo anche affermare
che il suo indirizzo religioso, etico e scientifico sia stato una
conseguenza della posi- ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6;
Erodoto IV, 95 — Zeller, D. PhiL d, Oriech. P p. 328.
191 zione che i pitagorici presero nel campo politico
; perchè invece fu proprio il contrario. Assai diversamente
giudicò la natura della società pi- tagorica il Grote (1), che la disse
di carattere religioso ed esclusivo, e ad un tempo attivo e
spadroneggiante, poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio
di influire nel governo e sul governo, mentre i contempla- tivi
attendevano agli studi; proprio come nella organizza- zione dei Gesuiti
coi quali, dice, i Pitagorici presentano una notevole somiglianza.
Secondo lui insomma i seguaci del filosofo non furono che « un privato e
scelto nucleo d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie
reli- giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !) d'
una idea scientifica e manifestarono la loro adesione con particolari
osservanze e riti ». In tutto questo vi è appena qualche ombra di vero;
1' esagerazione ha tolto la mano all'autore. Il concetto religioso ci fu
senza dubbio in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l'
in- segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-
vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non si trattò punto
di fantasie più o meno strane e irrazio- nali ch'egli volesse dare ad ii\
tendere ai suoi seguaci, sì bene di quella stessa dottrina religiosa che
in Egitto, in Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle
scuole filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa nelle
forme e nei simboli esteriori — perché dovunque derivata dalla stessa
tradizione, e, per quanto mistica, fondata tuttavia saldamente sopra una
verace e controlla- bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio
stesso alla (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr.
Ritter, Oeseh. d, Phi- los, I, p. 365 sgg. 192
setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-
tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi- rito che
informava quell' antichissimo istituto ; è un giu- dicarlo dalle sole
apparenze esteriori, un disconoscerne gì' intenti non settarii, ma
plrofondamente umani, uno svi- sare infine l'opera di uno dei pili grandi
pensatori e apo- stoli che r umanità abbia avuto. Più vicino
al vero è il giudizio del Lenormant, in quan- to egli seppe vedere sotto
le fo'^m^ della religione l' in- tendimento morale di Pitagora (1); ma
ancora più giusto e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto
la- sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede uno
storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So- « ci età modello,
la quale, se intendeva a migliorare le « condizioni della civiltà comune
e aspirava ad occupare « una parte nobilissima e meritata nel governo
della cosa « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo
« morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per- « fezionamento
del vivere secondo un' idea tanto larga « quanto è la virtualità delV
umana natura » (2). Con lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3)
e lo Zel- ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte
le associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog- giato
su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu- cazione e di
istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris- se con molta verità che
Pitagora fu « non solo il Maestro « d' una nuova sapienza, ma altresì il
predicatore di una (1) Op. Git. l, p. 83. (2)
Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi- renze, Le
Monnier), Opere^ p. 401 sg. (3) Pythagore et la philos. pythag. I,
p. 98. (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.
— 193 ~ « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il
bandi- « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va
intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come ho detto sopra,
il fondo esoterico della dottrina aveva ori- gini assai remote.
4. — Se tale era dunque l' intento della Società pita- gorica, se
al di sopra di ogni altra considerazione il grande di Samo pose quella di
riformare interiormente gli uomini e con ciò di modificare anche —
necessariamente — le condizioni esterne della vita individuale e sociale,
se egli mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-
teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali ben raramente
ed in pochi corrisponde un'adeguata cono- scenza e persuasione, e che
perciò acquistano un valore di mera superstizione e di vuoto formalismo
dogmatico, era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-
scitare i timori degli elementi conservatori della società crotouese ed
italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari- stocratici ignoranti che ne
erano stati esclusi per deficien- za intellettuale e morale, e dei
sacerdoti che vedevano allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi
sfuggire al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della
gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge- re, dovevano
purtroppo trovare, come sempre, facile cre- dulità nel volgo e pronto
aiuto in tutti coloro che dalle nuove idee vedevano lesi o minacciati i
loro interessi per- sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo
mo- vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi- co e
sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de- (5)
Qeseh. d, Alter. VI, p. 636. 13. — 194 —
bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti e
fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre partito,
mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove dottrine. Ma di questo
noTi è fatto ricordo da nessun au- tore. È fatto invoce espresso ricordo
di un tal Cilene, aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la
sua inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-
dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co- minciò a
brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun- niose, a mettere in
cattiva luce le cerimonie e 1' azione segreta della Società, continuando
la lotta con quell'a- sprezza e quella tenacia che gli veniva
dall'orgoglio gra- vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato
da molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla sua
elevata condizione sociale e dalle idee democratiche, allora penetrate
nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil- mente trarre vantaggio, potò
creare nel Consiglio Sovrano dei Mille una forte opposizione, che,
allargandosi e diffon- dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle
apparen- ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che
mistero, dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro il
filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C. circa). Così che, se il moto fu
effettivamente moto di popolo contro il reggi- mento arivStocratico,
l'ispirazione tuttavia venne dalla parte meno buona dell' aristocrazia e
dal sacerdozio ufficiale (1). Un decreto di proscrizione bandì senz'
altro Pitagora, die, dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a
Locri, fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do- po ;
ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- (1)
V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti, op. cit. p.
4l6 sgg. — 195 — rici, parte uccisi e parte
cacciati anch' essi in bando e profughi nelle terre vicine.
La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non pili che
quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna- mento pitagorico
durò per lungo tempo attraverso i se- coli (1) e la sua fiamma non si
spense mai, conservata religiosamente e religiosamente trasmessa di
generazione in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il
sa- cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-
che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic- cola parte
poterono conoscerle. 5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi
di adepti; quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-
poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici uditori
(acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro volta in varie
classi, forse in corrispondenza coi diversi gradi, (pitagorici,
pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e discepoli diretti del
Maestro, era fatto l'insegnamento eso- terico segreto; gli altri potevano
assistere solo alle le- ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente
morale (3), e (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che
\q sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel
suo secolo; certo per la congiunzione loro coi posteriori istituti
pitagorici. V. Cen- TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis,
op. cit. p. 466. (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e
noli' Italia me- dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento
filosofico. La repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella
ripro- ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente
praticato neir istituto Crotonese. !3; V. Clem. Stromat. V.
575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ; PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87
sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil- LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno
scrittore dal quale attinse 19t) non
erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come dice la tradizione, lo
sentivano, talvolta, parlare da die- tro un velario che lo nascondeva ai
loro occhi. Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi
d'i- niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove ed
esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non ogni legno era adatto
per farne un Mercurio »; anzitut- to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un
esame fisionomico che attestasse della buona disposizione morale e
delle attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame
era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla moralità e
vita anteriore erano soddisfacenti, egli era ammesso senz'altro e gli era
prescritto un determinato periodo di silenzio (echemythia), che variava,
secondo gli individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non
gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri, senza mai
chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In questo come nel lungo
meditare e nella piìi rigorosa e severa disciplina delle passioni e dei
desideri praticata per mezzo di prove assai difficili, prese
dall'iniziazione egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui
erano Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in
Sebastici, politici, matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e
lo stesso scrittore aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano
chiamati pitago- rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici
o novizi pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823
sg., 966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola
pitagorica erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed
a ra- gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi
o discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di
pri- mo grado. (1) Noci. Att. I, 9. (2) OmaiNE fa
Pitagora inventore della « fisionomica ». — 197 —
sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato, col lungo
tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol- tare e il tacer e,
erano ammessi fra i matematici (1) e allora soltanto potevano parlare e
domandare, ed anche scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo
liberamen- te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad
accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro sapienza si
faceva a grado a grado più elevata e più va- sta, sino a giungere
all'intelligenza deìV Essere assoluto, immanente neil' universo e nell'
uomo : chi arrivava a questa che era la più alta cima della speculazione
filo- sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-
terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia- zione
epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve nerahile
(sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza nomo. L'
obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era quello del silenzio
(2) e della segretezza verso gli altri, senza eccezione per parenti o per
amici. Tanto che per- sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare
qualche cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-
tenere alla Società e considerati come morti dagli altri confratelli, che
innalzavano ad essi nell' interno dell' isti- (Ij Così
chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo- tnetria^ la
gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine superiore, per mezzo
delle quali si elevavano alle più sublimi ed eccelse vette della scienza
umana e divina. - Sulla medicina v. E- LiANO, Var. Hist. IX, 22.
(2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II, 15;
Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel. 71 sg., 94;
cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct. 3; Plut, De curios.
p. 309. — 198 — tuto un cenoiafio (1). È rimasta
famosa e proverbiale quindi la fermezza con la quale i Pitagorici
sapevano cu- stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola
(2). Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur avendo dato
buone speranze di sé e della sua elevatezza spirituale, finiva col
mostrarsi inferiore al concetto che aveva fatto nascere dalla sua
capacità. Tali casi però, ò bene notarlo, dovettero essere assai rari,
poiché la lun- ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio
da un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere
impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de- lusioni.
L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta
iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica. Molti anzi, o
per la loro condizione sociale o perchè non sapessero rinunziare
interamente al mondo o per altre (1) A questo proposito
sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D), che riferisce una tradizione ben
nota, come Ipparco, a causa ap- punto dell' avere fatto conoscere la
dottrina segreta del Maestro con un suo famoso scritto in tre libri, del
quale ci parlano anche Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu
cacciato dalla Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p.
67 Can- tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2. (2)
V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1; PSEUDO Liside
pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg., 246 sg. (ViLLOisoN,
Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr. Menagio in DioG. VIII, 50.
Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma- zione di Neante su Empedocle e
Filolao, e il racconto dello stesso scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl.
189 sg.) secondo il quale Myl- lia e Timycha sopportarono i più crudeli
tormenti e 1' ultima si tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a
Dionigi il vecchio la ra- gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo
(pr. Diog. Vili, 54) af- ferma che Empedocle e Platone furono esclusi
dall' insegnamento pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».
- 199 — ragioni, continuavano la loro vita ordinaria,
che natural- mente informavano ai principii morali e alle
conoscenze acquisite, diffondendo così con la pratica e con la
parola il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano questi i
membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo- nianze; gli altri
invece, gli speculativi^ vivevano sempre nell'Istituto, dove, in perfetto
accordo con tutte le altre pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le
quali miravano so- pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e
di orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione di
beni. E non è poi così strano da doversene negare la verità (1), che
uomini dati a speculazioni filosofiche e re- ligiose e a pratiche morali,
e che vivevano insieme' per uno scopo unico, mettessero in comune i loro
beni, per il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle
loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^ non legati più
dai vincoli del mondo, da questa comu- nione di beni ? E quanto agli
esterni, non è naturale pensare che, per la virtù della fratellanza e
dell'amore acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse
spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me- (1)
Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. Diog. X, Il
e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche, secondo Fozio (Lex.
y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu- nità dei beni fra gli
abitanti della Magna Grecia sono troppo re- centi. Ma cfr. anche gli
Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e le testimonianze che troviamo in
Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol. Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl.
30, 72, 168, 257 ecc. — Il Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di
questa tradizione sia stata una falsa (?) interpretazione della nota
massima « le cose degli amici sono comuni »; il che mi pare ben poco
fondato, se si pensi che non è neppur corto che questa massima
appartenesse in modo particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8,
1168 b 0). - 200 — desimo a disposizione dei
suoi confratelli ? (1). Ed infatti noi sappiamo che i Pitagorici usavano
particolari segni di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo
gno- mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-
stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per conoscersi ed
aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni sia per essere accolti, fuori
di Crotone, dagli adepti di altre scuole consimili, numerose così nella
Magna Grecia come nella Grecia e nell'Oriente (6). La vita
che si conduceva nell' istituto da quei disce- poli che vi rimanevano in
permanenza ci e sufficiente- mente nota per le narrazioni dei
neo-pitagorici e per le notizie sparse qua e là nelle opere dei più
antichi autori. Tutto era ordinato con norme precise che nessuno
tra- sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen- si
che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio- nale e che, salvo
alcune rigorosamente prescritte, erano (1) V. DioD. Siculo
Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21. (2) GiAMBL. 238.
^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.
(4) Krische l. e. p. 44. (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.
(6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-
dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato da
alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri tempi.
V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de biogr. génér.^
Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les souvenirs de
collège formaient sans doute pour les pythagoriciens ce lien sacre qu' on
a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle société de Roseeroix ou de
Francs-ma^ons ». (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene
(autore d' un libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.
— 201 — date più in forma di redola o di consiglio,
che di vero e proprio comando (1). Di buon mattino, dopo Ja
levata del sole, i cenobiti si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli
e silen- ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno
pri- ma di avere ben disposto il loro animo con la medita- zione ed
il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi in luoghi simili, ad
imparare e ad insegnare — poi- ché ciascuno era e maestro e discepolo (2)
— e pratica- vano continuamente particolari esercizi per acquistare
la padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup- pando
in modo speciale la volontà e la memoria e le fa- coltà superiori e più
riposte dello spirito. Non si trat- tava peraltro né di mortificazione
della carne e rinun- zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia
vita, ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-
tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado di assoggettare il
corpo allo spirito, per modo che que- sto fosse libero nelle sue
operazioni e nel suo svolgi- mento interiore : ma il corpo doveva essere
mantenuto sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-
mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin- nastici d'
ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri- zioni minuziose intorno
all' igiene e specialmente ai cibi e alle bevande. In generale i pasti
erano assai parchi, (1) Il rispetto alia libertà individuale
era una delle caratteristi- che, e forse la più bella del metodo
pedagogico pitagoreo. V. su tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo
educaverit atque insti- siuerit (1833). (2) Anche questa era
una sapiente e razionale disposizione, abi- tuando i discepoli alla virtù
attiva. — 202 — ridotti al puro necessario,
eJiminaudo tutto ciò che potes- se offuscare la serena funzione dello
spirito ed aggravare inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino,
erbe cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità ed
animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera durantB il secondo
pasto (1), il quale doveva essere ter- minato prima del tramonto, ed era
preceduto da passeg- giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,
■ e dal bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno
alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a discorrere
piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia- no prescriveva, di poesia
e di prosa, e ad ascoltare della buona musica che disponeva gli animi
alla gioia e ad una dolce armonia interiore. Poiché « la musica,
onde tutte le parti del corpo sono composte a costante unità di
vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo- rale, e però
compieva i suoi effetti nell'anima perfetta- I
(1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle
carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria- no,
come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV a. C.) pr.
Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer- mare che tale dieta fosse
assolutamente obbhgatoria per tutti : al- trimenti non potremmo spiegarci
come mai alcune testimonianze parlino di certe qualità di carne
rigorosamente proibite. Probabil- mente P astinenza dalle carni e dal
vino ( quella delle fave pare fosse prescritta nel modo più formale e
categorico) fu un semplice uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di
manteaer sempre sve- glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur
conservandolo sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina
della trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto
; poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da
quel- lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della
sua derivazione dall' Egitto. — 203 —
mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man- cavano
iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri- monie religiose, piii
precisamente simboliche, che servi- vano a mantenere sempre vivo e
presente in ognuno il culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui
emanava e a cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del
Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun individuo
umano. Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla
cac- cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).
Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller, non solo non ò
dato da alcuna testimonianza (4), ma è contrario anzi a quelle molte che
ci parlano di Teano, moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto
piìi figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-
(1) Cento FANTI, op. cit. p. 390. i2) GiAMBL. 100, 149
che desunse forse la notizia da Nicomaco cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5
sg., 47). Aristosseno, da cui è forse presa — mediatamente — la notizia
contenuta nel § lOO, non parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V.
Apul. De Magia e 56; Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI.
32. (3) FlLOSTR. l. C. (4) Egli cita veramente Clem.
Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili, 19 ; ma nel primo di questi luoghi è
detto solo . che da alcuni si affermava i^he i Pitagorci « si tenevano
lontani dall'amore carna- le »; ciò che non significa punto che l'amore
stesso fosse loro proibito : anche qui probabilmente si trattava di una
semplice pra- tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo
luogo ci- tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che
si abbandonasse a pratiche sessuali » . (5) Ermesianatte pr.
Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf. 19 ; GiAMBL. 132, 146, 265;
Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204; Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug.
praec. 31, p. 142 ; Stob. Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii.
Monac. 268-270 (Stob. Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi.
12. — 204 — guardo al tempo più opportuno per
dedicarsi all'amore (1); e contrario poi — ciò che è piìi importante —
allo spirito della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era
sa- cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta
precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto alle donne.
Anche il celibato insomma non dovette essere che una pratica dei piìi
ferventi discepoli, i quali, dediti interamente alle speculazioni
filosofiche ed agli studi, cre- dettero forse di trovare nei vincoli di
famiglia un osta- colo alla libertà dei loro studi e delle loro
meditazioni. 6. — Queste, in breve le notizie che ci restano
della storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.
Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab- biamo dunque
veduto che esso era duplice e che per essere ammessi a quello chiuso o
segreto era necessario aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di
esserne de- gni e di avere tutte le attitudini necessarie a
riceverlo. Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto
del- l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim- bolismo
e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente morale. Abbiamo
anche accennato che i discepoli esote- rici erano iniziati gradatamente a
forme sempre piìi ele- vate di conoscenze — teoriche e pratiche — ,
nascoste sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da
ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio che, conosciute
dai profani, non rivelavano per nulla il loro senso riposto e metaforico
(2). Con ciò si voleva evi- I (1) DioG.
vili, 9. (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo (sec. XIII-XIV),
uno dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di
Cor- — 205 — tare il pericolo che conoscenze
d'ordine superiore fossero date in balia a menti inette a comprenderle,
le quali, appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,
limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza inadeguata e
così nascesse il discredito e il ridicolo sulle dottrine fondamentali e
su tutto l'insegnamento. Il cri- terio usato neir impartirle era dunque
che « non si do- vesse dir tutto a tutti » e tale criterio —
aristocratico nel senso più ampio e più bello della parola — del
pro- porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non può
certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e di orgoglio
intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni tempo che dottrine
intrinsecamente buone abbiano via via perduto, col troppo diffondersi, gran
parte della loro per- fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare
sog- gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od
anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale, pur conservando
le manifestazioni esterne e i segni for- mali di esso ; in secondo luogo
non essendo mai chiesto all'individuo più di quello che le sue facoltà
naturali e le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo
svol- gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella
progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo i gradi della
superiorità loro nell' ordinata ed armonica conformazione della persona
umana, non veniva ad esse- re turbato in nessun momento quell'
equilibrio, nel quale sì conteniperano in armonia perfetta le varie
attitudini di ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una
pace indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava
NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.
simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. — 206
— mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la
vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si- stematica e
c(mtiuua, e delle attitudini individuali face- vano uno studio diligente,
coscienzioso ed incessante quelli che erano piti in alto nell' ascesa
verso la perfezione. Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli
altri uomi- ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava
sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi- derose di attuare
quant' ò possibile in questa vita quel- l'ideale di giustizia che è,
attraverso i secoli, la perenne aspirazione di tutti i buoni. Nella
scuola e nell' insegna- mento invece era il principio autoritario che
prevaleva ; principio razionale e giusto quando corrisponda a una
vera gradazione di merito e di valore individuale, e per nulla
insopportabile, quando l'insegnamento sia animato vivificato dall' amore
reciproco fra discepoli e maestri, e quelli abbiano in questi fiducia e
stima illimitata. Chi si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare
all'ac- quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre
nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara, finche non sia
giunto a comprenderne per intero l'ordine necessario ; e le verità stesse,
imparate che siano, non sono mai sufficienti a costituire il sapere, se
non vi si unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché
non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es- sere intese da
tutti pienamente e ciò non di meno era necessaria la loro conoscenza,
anteriore a quella delle lo- ro ragioni intrinseche ed ideali, non era
possibile l'inse- gnamento di esse senza il principio d'autorità. E
d'altro lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-
rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse accompagnata
anche la persuasione, nata dal riconosci- 207
mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese, era
giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento teorico ed il
pratico. Oud' è che gli adepti accettavano volentieri e senza discutere
le dottrine che gli iniziati superiori insegnavano in forma di precetti
brevi, sempli- ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate
dall'auto- rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè
gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo per verificarle
praticamente da se medesimo. Uipse dixit era pertanto, come dice
benissimo il Centofanti (1), « la parola dell'autorità razionale verso la
classe non ancora condizionata alla visione delle verità più alte e non
par- tecipante al sacramento della Società », mentre poi il vedere
in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini- ziazione
all'arcano della Società e della scienza ». 7. — Resterebbe ora da dire
in che cosa consisteva l'insegnamento impartito con un metodo così
rigoroso e prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò
fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere tante nobili
intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a quale spirito era informato un.
sistema educativo, che non solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva
tanto po- tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-
zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri- na pitagorica
è già stata fatta da molti (2), basti qui il dire che eèsa, riprendendo
ed ampliando il pensiero reli- (1) Op. cit. p 405.
(2) Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori del Cento-
fanti e dello ScHURÈ ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte il
necessario corredo di prove e di testimonianze. — 208
— gioso che la tradizioDe leggendaria personificò in Orfeo,
coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e compiuto, e che,
essendo fondata su un sapere sperimen- tale e accompagnata da un
ordinamento razionale di tutta la vita, mirava a perfezionare gli
individui, non solo con l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze
teoriche, ma anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado
la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot- tenuto con lunghe
e pazienti pratiche (1) — delle facoltà latenti del riposto ego divino,
principio sostanziale di ogni attività dell* uomo. (1)
Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le scuole
mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e solo per i
profani, i limiti della natura ; e chi abbia una cono- scenza anche
superficiale di questi studi sa bene che la magia non era altro che
un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi particolari e
s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra- tiche V. Plut.
Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23 sgg., 34 sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg.,
142, dove sì parla di « antichi scrittori degni di fede ». Cfr. anche
Ippol. Refut. I, 2, p. 10 , Euseb. pr. ev. X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano
II, 26 e lY, 17 ecc. NDICE DEL VOLUME
'ag VII » 1 »
5 » 21 Prefazione
........ Introduzione Capitolo peimo : Inizii
leggendarii e storici . » secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi
. ■» TERZO : Sette e scuole pitagoriciie in Rojna nel I
secolo a. C >> 45 » QUARTO : Pitagora e le sue dottrine negli
scrit- tori latini del primo secolo a. C. . . » 69 I. —
Lucrezio e il poema « Delia Natura », » ivi II. — . Frammenti della
dottrina di Pitagora de- sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone . »
91 III. — Appio Claudio Pulcro — Cicerone e il «
Somnium Scipionis » .... » 107 IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P.
Virgilio Marone ........ 123 V. — Pitagora e le sue
dottrine nella poesia di Ovidio , » 149 Appendici
I. — Eitphorhos . . . . . . • . . » 163 II. — Il Sodalizio
pitagorico di Crotone ...» 181 ERRATA-CORRIGE
tg. 6 rigs i 2
pytagoreum pythagoreum » 8
» ultima Turis Turio
-> 15 » !3 fatto
fatta » 16 >
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26 » 27 permaneant
permanont » 34 * 34
stituiti istituti » 40
» 16-21 Queste 6 righe sono
rimaste inter nel testo, mentre
andavano in i pie di pagina
• » 44 » 6
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53 » 15 intellegibili
intelligibili » » »
ultima Geory. Georg. » 61
» 19 ferun ferunt
» » » 22 prae vista
praevisa » 63 »
26 aequo aeque » »
» 27 ilUis illis
» 65 » 18 maior
maiore » 66 9
32 Mullach V. Mullach (v. »
» » ultima Leipzg
Leipzig » 67 » 3?
« (Centra ( « Centra •» 70
» 7 a poco a poco a poco
» 72 » 3 senza
altro senz'altro B Gianola, Alberto
21^ La fort-una de Pitagora G5 presso i Romani dalle
origini fino al tempo di Augusto Enrico Caporali.
Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe
sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica
di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di
metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e
Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689844459/in/photolist-2mPsXiB-2mKDXUP
Grice e Cappelletti – entellechia – izzing
and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is
into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which
is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se,
and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures
are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’
When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he
found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico!
Cappelletti knows it all, and it shows!” --
Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.
Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in
filosofia. Nel 1967, consegue la libera docenza in storia della scienza che,
dal 1968 al 1971, insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972,
all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue l'ordinariato; ha successivamente
insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è
andato in quiescenza. Nel 1956, inizia a
collaborare con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a
diventarne, nel 1969, vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo,
direttore generale, carica che manterrà fino al 1992. Questo periodo, vedrà una
progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale
dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché
l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali. Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e
direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni
trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino
di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore
della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives
Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista
della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché
presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì
Letterari". Dal 1970 al, è
presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società
Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al,
dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario
straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal
2006 al, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca.
Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli anni 80' e
90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale "C.
Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e
Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI dal 1996 al. Dottore honoris causa dell'El Salvador e di
Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di
Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze
umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito, nel 2003, della
medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due
volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli
sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia
della scienza. La sua attività
scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle
scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie
psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia
analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui
l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su
aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e
dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista Morgagni, Emil Du Bois-Reymond,
Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente
approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e
naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la
sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che
epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con
particolare riguardo alle scienze umane.
Pubblicazioni principali Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo,
Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958.
Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C.
Sansoni, 1965. Opere di Hermann von Helmholtz, Torino, POMBA, 1967 (2ª ed.,
1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo vitalismo, Roma-bari, Editori Laterza,
1969. L'interpretazione dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il
Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura,
Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973. Freud. Struttura della
metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia
clinica e storia della scienza medica (), 5 voll. (IV e V curati da V.
Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche E. Cossidente,
1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium, 1978. Saggi
di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa
Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma,
PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della "philosophia
anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De sedibus, et causis.
Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le
nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro, 1992. Le scienze umane nella
cultura e nella società odierne, Edizioni Studium, 1993. Etnia e Stato,
localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium, 1995. Introduzione a Freud,
Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia
come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con
Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,. L'Università e la
sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,.
Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,.
Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per
uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte —
Roma, 28 novembre 1992 Note Notizie
bio-bibliografiche sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero.
Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino (9-48),
Appendice (247-252). Cfr. V.
Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,
315-329. La maggior parte delle
notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore
scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e
""). Istituto Italiano di
Studi germaniciHome page Società europea
di CulturaHome page Guido Cimino,
CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti
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Cappelletti Vincenzo Cappelletti, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Vincenzo
Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio,
documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della
scienza italiani 1930 2 agosto 21 maggio
Roma Roma. Il termine entelechia (entelechìa,
dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua
particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la
meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di una
pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1] È
noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare
pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa
Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il
compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo
stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I
neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui
la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo
platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione
dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore
al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione
aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la
natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio
fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta
comune da una stessa universale Anima del mondo. Anche Leibniz conciliò
l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà
essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di
svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non
riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso
unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade
suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per
conto proprio ma sincronizzati tra di loro. Goethe in seguito designò
come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo
vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo
esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali
in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal
filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta
immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle
teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele
ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II,
412, a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi
delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di
Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di
filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN)
Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica
su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia
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Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza.
entelechia Termine usato da Aristotele in
contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il
pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare
la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.
Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il
principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il
termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica
ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea
della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.
3: Energeia and Entelecheia Entelecheia 9 possible to
transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely
ruined” or destr oyed: “even death is by a transference of meaning called
an end, because both are extremes, and the end for the sake of which
something is is an extreme” ( Met. V.16 1021b21-30).
27 Thus, telos is not determined by its being opposed to
something; it is not logically or ontologically dependent on its opposite.
Rather, the opposite is borrows its meaning from the telos . It is not
defined as the endpoint of a sequence, rather, the sequence is derived from it
by positing an opposite. Aristotle argues for the primacy of an ongoing
condition of telos over telos as endpoint in his
discussion of happiness in a complete life ( NE I.10). The primacy of the
completion-related sense over the sequence-related sense is reinforced by
Aristotle’s use of telos to mean source ( archē
). The completion-related sense is evident in the phrase hoi
en telei , which refers to a governor or magistrate; so telos
suggests “origin ( archē )”: a source of action, events, or being
that directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the
identification of telos with archē in
Met. IX.8 and XI.1: to be a telos is primarily to be
that for the sake of which, which is different than (though not exclusive of)
being an endpoint of change ( Met. IX.8 1050a6-8, XI.1
1059a35-7). When we speak of teleology today, we do not mean Aristotle’s
concept of telos ; we mean the Scholastic idea of teleology, that is, an
assimilation of the Aristotelian idea to the Christian historical concept of Divine
Providence. It thus takes on the sense, for us, of a kind of goal set for a
creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive.
By contrast, at minimum, telos in Aristotle means the
inherent completeness or wholeness of a thing, a completeness that can
coincide with, and be the thing itself. “ Telos ,” for
Aristotle, does not primarily mean “ end ed,” or
“ finished .” It means “ complete ,” “ fully
there ,” “ whole ,” “ entire ;” and here it
means “having its complete sense.” Its finality is akin to what makes us
say “ at last ,” as in “at last we find water.”
Echein The word echein means “to have” or
“to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in
charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related
sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can
mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell”
there. The relationship of telos to being is the reason the
word echei , “have,” is im portant to entelecheia.
Aristotle uses echein to say: “Those things are said to be complete
[ teleia ] for which a good telos initiates activity from
within [ huparchei ], since it is by having the telos that they are
complete ” ( Met . V.16 1021b23). 28 A thing is
complete ( teleia ) by having or holding onto telos . “Having,” then,
stands in for the term “initiate from within” ( huparchei ), a word often translated
as “belong to” or “be present.” Echein, then, is another way to
express the inherence of the telos . The most revelatory sense of
echein for our current context, perhaps, is that in ordinary Greek
the verb can substitute for “be”: in response to a greeting, kalōs
echei means “it is well.” 29 Now3: Energeia and Entelecheia
Energeia and Entelecheia in the Proof of Change 10 “having,” “holding
on,” and “sustaining” are ongoing conditio ns or activities. Using
echein as a synonym for being, then suggests that being is not static or
passive, but a continual accomplishment. Translation Based on
these considerations, it seems clear that the standard practice, which
translates both energeia and entelecheia with the
word “actuality,” should be abandoned. Energeia should be
rendered “being -at- work” or “activity,” but could also be translated “being
insofar as it works.” Entelecheia can only be rendered by a range
of nearly-equivalent renderings. To recap: en- literally
makes the word mean ‘being in the telos, ’ telos
is not conceived horizontally as “at the end of a sequence” or “finished
off,” but vertically, as fulfillment, completion, or accomplishment,
while echein means ongoing activity, but also is a word for being.
In general, entelecheia should be rendered by “being -
complete,” with the word “being” a translation of “having” ( echein ), and
understood as an ongoing accomplishment. Less versatile translations are
“staying - fulfilled,” “holding o nto completion,” “holding itself in
completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and
other such formulae. Energeia and
Entelecheia in the Proof of Change Now that we have examined the
words energeia and entelecheia themselves in general,
we need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to
resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete (
entelecheia ) to define incomplete motion. I shall argue that
energeia applies to individuals, while entelecheia applies to
composites, a broader class of things that includes individuals. In the proof
for the existence of change, energeia and entelecheia
are used differently: being- built ( oikodomeitai ) is the
being-at-work ( energeia ) of what is built ( oi kodomēton ), while building (
oikodomēsis ) is change ( kinēsis ) and the being-in-completion ( entelecheia )
of what is built as built: being-complete ( entelecheia ) change
building being-at-work ( energeia ) of agent being-at-work ( energeia )
of what is worked-on builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient
( oikodomēton ) requires buildable requires builder Energeia as
being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle
origini della filosofia antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita
– Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza
– storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.
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