Grice e Cerroni – Eduardo Gaus e il
sistema di diritto romano -- i hegeliani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lodi).
Filosofo. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other philosopher –
surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of Italian
identity? But his more general philosophical explorations may interest the
Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic and
Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a
‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is
about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like
Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia
del diritto. Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e
l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine
politiche all'Lecce. Divenne professore di ruolo di Filosofia della
politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà
di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre
all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore
emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze
politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura
dell'U.R.S.S.” (Milano: Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il
sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento
giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma: Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione
giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti
studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei
movimenti contadini in Russia nei secoli 17. e 18.” (Milano: Movimento
Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale: A cura della sezione
giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma:
Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale
dell'URSS / Umberto Cerroni.S.l. (Bologna: STEB) Poeti sovietici d'oggi, Roma: Tip.
Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna:
STEB); Diritto ed economia: rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una
teoria positiva del diritto / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Idealismo e
statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano: Giuffrè); Individuo e
persona nella democrazia / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); “Il problema
politico nello Stato moderno / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Diritto e
sociologia / Umberto Cerroni. Kelsen e Marx / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè);
L'etica dei solitari / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Lenin e il problema
della democrazia moderna: saggi e studi (Roma: NAVA) Parlamento e società /
Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo
/ K. Marx, F. Engels, V.I. Lenin Roma: Editori Riuniti); Ritorno di Jhering:
Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello: Unione arti grafiche) Sulla
storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Milano:
Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico /
Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La filosofia politica di Giovanni Gentile /
Umberto Cerroni. (Novara: Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale
sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione
normativa e concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l.:
Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto
Cerroni.Milano: Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica /
Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); Teorie sovietiche del diritto / Stucka...(et al.); Umberto
Cerroni.Milano: Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma: Samonà e Savelli); Il diritto e la storia / Umberto Cerroni. Le
origini del socialismo in Russia / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il
pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti, 1966 Un ouvrage recent sur Marx et le droit: Umberto Cerroni,
Marx e il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris]: Sirey); Che cos'è
la proprietà?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo: prima
memoria, Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia, Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Considerazioni
sullo stato delle scienze sociali: relazioni sugli aspetti generali / Umberto
Cerroni.[Milano: Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, (Milano: Tipografia Ferrari) La funzione
rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino: Einaudi); Il pensiero
politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori Riuniti); La
rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau” (Bari:
Laterza); La libertà dei moderni” (Bari: De Donato); Metodologia e scienza
sociale” (Lecce: Milella); Problemi della legalità socialista nelle recenti
discussioni sovietiche / Umberto Cerroni.Milano: A. Giuffrè); “Sulla natura
della politica: utopia e compromesso” (Milano: Giuffrè); Considerazioni sullo
stato delle scienze sociali”; Il metodo dell'analisi sociale di Lenin” (Bari:
Adriatica); Il pensiero giuridico sovietico” (Roma: Editori Riuniti); La questione ebraica” (Roma: Editori Riuniti);
La società industriale e la condizione dell'uomo” (Lecce: ITES); “Sul metodo
delle scienze sociali: una risposta” (Milano: Giuffrè); Principi di politica /
Benjamin Constant; Roma: Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma: Newton
Compton); Tecnica e libertà: conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova:
Grafiche Erredici) Tecnica e libertà / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Lavoro
salariato e capitale / Appunti sul salario e appendice di F. Engels;
Introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton
italiana,La societa industriale e le trasformazioni della famiglia / U.
Cerroni.Milano: Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione
di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I.
Lenin; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton italiana); Teoria
della crisi sociale in Marx: Una reinterpretazione / Umberto Cerroni.Bari: De
Donato); Strade per la libertà / Bertrand Russell; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma: Newton compton italiana); Discorso sull'economia politica e
frammenti politici / Rousseau; traduzione di Celestino E. Spada; prefazione di
Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V.
I. Lenin; prefazione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Kant e la
fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La
libertà dei moderni / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Marx e il diritto
moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx /
Antologia Umberto Cerroni, con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria
Nassisi.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri
giorni / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa
e il Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin; introduzione di
Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti
/ Antonio Labriola; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels; introduzione
di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); La libertà dei moderni / Umberto
Cerroni.2. ed.Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma); Il
pensiero di Marx / antologia Umberto Cerroni; con la collaborazione di Oreste e
Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma: Editori Riuniti); Teoria della crisi sociale in
Marx: una reinterpretazione (Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo” (Roma:
Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e
appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma:
Newton Compton); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / Umberto Cerroni. Politica ed
economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari: De Donato); Salario,
prezzo e profitto” (Karl Marx” (Roma: Newton Compton italiana); Il lavoro di un
anno: almanacco, Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Il pensiero di Marx / Karl
Marx; Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico: dalle origini ai nostri
giorni” (Roma: Editori Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese,
ed.Roma: Ed. Riuniti); Scienza e potere / scritti di U. Cerroni... <et al.>.Milano:
Feltrinelli); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma: Newton Compton); Lo
sviluppo del capitalismo in Russia” (Roma: Editori Riuniti); La teoria generale
del diritto e il marxismo / Evgenij Bronislavovic Pasukanis; con un saggio
introduttivo di Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Introduzione alla scienza
sociale, Roma: Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con
appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note
filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton, Materialismo storico e
scienza / Umberto Cerroni.Lecce: Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta
borghese / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto /
Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Sulla
storicità dell'eros: note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco);
Crisi ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Scritti economici / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori
Riuniti); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin; introduzione di Umberto
Cerroni.- Roma: Newton Compton); Carte della crisi: taccuino
politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Crisi del
marxismo? / Umberto Cerroni; intervista di Roberto Romani.Roma: Editori
Riuniti); Critica al programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al
socialismo / Karl Marx; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Due tattiche
della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica / V. I. Lenin; Umberto
Cerroni.Roma: Editori Riuniti, In memoria del manifesto / Antonio Labriola;
introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma: Newton Compton Editori); Che cos'è
la proprietà?: o ricerche sul principio del diritto e del governo: prima
memoria, Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia, biografia Umberto
Cerroni. 3. ed.Roma; Bari: Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx;
con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione... di Umberto
Cerroni.Roma: Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin;
Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti
giovanili / Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); Saggio
sui privilegi: che cosa e il terzo stato? Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione
di Umberto Cerroni: traduzione di Roberto Giannotti.Roma: Editori Riuniti, Strade
per la liberta, Bertrand Russell; introduzione di Umberto Cerroni; traduzione
di Pietro Stampa.Roma: Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma: Editori
Riuniti, I giovani e il socialismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin, A. Gramsci;
Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma;
Storia del marxismo / Predrag Vranicki; introduzione di Umberto Cerroni.Roma:
Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti;
prefazione di Umberto Cerroni” (Milano; Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi?
Milano); “Logica e società: pensare dopo Marx” (Milano: Bompiani, La democrazia
come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma: Editori
Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma:
Editori Riuniti); Il pensiero di Marx: antologia, con la collaborazione di
Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.III. ed. Roma: Editori Riuniti, Scritti
economici” (Roma: Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma:
Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma: Editori riuniti, Politica:
metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie / Umberto
Cerroni.Roma: NIS); La politica post-classica: studi sulle teorie contemporanee”
(Taviano: Lit. Graphosette) Urss e Cina: le riforme economiche” Centro studi
paesi socialisti della Fondazione Gramsci.Milano: F. Angeli, stampa, Che cosa è
il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma: Editori Riuniti, Democrazia
e riforma della politica: Lo Statuto del nuovo PCI / Umberto Cerroni.Roma: Partito
Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia: stato di diritto, stato
sociale, stato di cultura” Roma: Ed. Riuniti, La cultura della democrazia /
Umberto Cerroni.Chieti: Metis, Che cosa e il Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph
Sieyes; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, La rivoluzione giacobina /
Maximilien Robespierre; Umberto Cerroni; traduzione di Fabrizio Fabbrini;
apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone: Studio Tesi, Manifesto
del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di
Antonio Labriola; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio
Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: TEN, Nazione/regione: i contributi regionali alla
costruzione dell'identità nazionale / Andrea Battistini, Umberto Cerroni,
Michele Prospero.Cesena: Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e cultura
umanistica: seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni; A. Albanesi, M.
Maggi e L. Sisti.Roma: Anpa, [Novecento: almanacco del ventesimo secolo, Cesena:
Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano / Umberto Cerroni.Roma: Newton
Compton, Il pensiero politico del Novecento / Umberto Cerroni.Roma: Tascabili
economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma: Editori Riuniti,
1996 Regole e valori nella democrazia: Stato di diritto, Stato sociale, Stato
di cultura / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, L'identità civile degli
italiani / Umberto Cerroni.Lecce: Manni, L'ulivo al governo: come cambia
l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos, stampa Politica
/ Umberto Cerroni.Roma: Seam, Confronto italiano: atti degli incontri di
Cetona, Giovanni Bechelloni, Umberto Cerroni.Firenze: Ed. Regione Toscana,
stampa (Firenze: Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile degli italiani”
(Lecce: Manni, Lo Stato democratico di diritto: modernità e politica / Umberto
Cerroni.Roma: Philos, stampa, Habeas mentem: Scuola e vita civile:Umberto
Cerroni.Rionero in Vulture (Pz): Calice, Conoscenza e societa complessa: per
una teoria generale del sensibile” (Roma: Philos, Ricordo di Marisa De Luca
Cerroni / scritti di Umberto Cerroni... et al.Lecce, stampa Confronto italiano:
atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze: Ed. Regione
Toscana, stampa (Centro Stampa Giunta
Regionale) Taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Philos, Precocità
e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità
italiana, Roma: Meltemi, Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.Lecce:
Manni, Le radici culturali dell'Europa, Umberto Cerroni.Lecce:Manni, Radici
della civiltà europea, Lecce: Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce: Manni,
Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico Umberto
Cerroni.San Cesario di Lecce: Manni, L'eretico della sinistra: Bruno Rizzi elitista
democratico” (Milano: F. Angeli, Taccuino
politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di
Umberto Cerroni / Cosimo Perrotta; con la collaborazione di Mariarosa Greco” (San
Cesario di Lecce: Manni, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich
Engels; nella traduzione di Antonio Labriola; seguito da In memoria del
Manifesto dei comunisti di Antonio Labriola” (Roma: Newton & Compton, Dialettica
dei sentimenti: dialoghi di psicosociologia / Umberto Cerroni, Alberta
Rinaldi.San Cesario di Lecce: Manni, [Taccuino politico-filosofico, Umberto
Cerroni.[San Cesario di Lecce]: Manni, Ricordi e riflessioni: un dialogo con
Giuseppe Vagaggini / Umberto Cerroni.Montepulciano: Le Balze. ùUe fonti
del dritto Bonumo. r 'SeUieae il dritto ocHisiderato astrattamente
abbia uoa brigioe ed nn priocipio onìoo ed assolato, pure quando sf
attna come dritto d' au' epoea e d' un popolo , per- chè dipènde da tatte
le condizioni storidie dell' uno e dell' altra, emana per 4^rgani'i
diversi, e prende forme e msuiifestazioni varie e conformi allo spirito
di esse. Per questo intigno rapporto fra la vita intima d' un po^
polo ed il dritlo positivo di esso, fra questo e gli or- gani estemi onde
si manifesta, i più ingegnosi ed in* telligrati che si fecero a trattare
del dritto Romano, crederono essenziale investigarne avanti tutto le
fonti e gli organi, per ì quali ebbe vita e realtà. Una tale
investigazione non riesce difficile quantunque volte vi abbia unità di
poteri, o sieno questi armonicamente distinti , sicché Ja storia di essi
succedendosi pacata- mente ed uniformemente è facile intraviNlere V
origine ed il principio di ciascuna legge : ma nella storia Ro-
mana in cui la moltiplioità e la lotta dei partiti , il tumulto, che non
si scompagna da una vita agitata e guerriera, ed i cambiamenti rapidi e
violenti , onde si avvicenda la storia di Roma, rendono oltrQmodo
dif-^ iicilè e malagevole lo studio della genesi e^el pro- cesso
d'ogni fatto storico in generale e di quelli del dritto in particolare.
Per questo studio però non vi ha difetto di materiali né di testimonianze
storiche. Quan- do al tumulto della esistenza pubblica tenne dietro
il silenzio e la quiete della vita privata , quella stessa forza
che fece il sublime degli eroi Romani , e rese invincibili le schiere
dello repnblica, dettò i libri e le sentenze dei più grandi
giureconsulti, che ricordi la storia. E questi non lasciano nulla a
desiderare di te- stimonianze e prnove storiche nella ricerca delle
fonti del dritto Romano (*). È ormai indubitato , in che A\i-
(^) §. 0. r. l r. ì. 7. fi. dt jmt. H}ì0^V. i.) Cicero^ Té. Digitized
by LjOOQIC BELLE ISTlTOZfOia M CAJO. 13
ferissero il Jus genimn dal Jus civile^ quale impcnr* tanza ed
es0i:essìone avesse il dritto Pretorio nella stoi» ria del dritto Roioaào
, qpaale processo tenevasi nelle determiliazioni popolari , da qaal
momento ebbero forza legislativa. Ciascuno di questi fatti è si
intimamente incarnato nella storia di Roma, cbe ne forma im eie-,
mento , ed accenna ad uno dei periodi di essa. Non havvi però la medesima
certezza suUa importante qui* stione dà qual tempo i Senatoconsulti ebbero
forza le- gislativa : e le opinioni dei moderni (*) furono diverse,
come pure discordanti sono a tal proposito le testimo- nianze degli
antichi scrittori ; giacché alcuni ritengono per indubitato (^) , che i
Senatoconsulti non abbiano avuta forza legislativa prima del tempo di
Tiberio , abbisognandovi avanti tutto che fossero confermati nei
Gomizii perchè valessero come altrettante leggi ; mentre altri (')
sostengono l'opinione contraria, ed avvisano (Ae i Senatoconsulti furono
una fonte di dritto anche al tem- po della repubblica , giacché molto
prima di Tibe- rio occorrono SenatòccHisulti sulle materie di dritto
pri- vato, e particolarmente il S. L* Sileniarmm. È neces- sario
avanti tutto far considerazione , che in una ta- le quistione importa
moltissimo il distinguere quello che intendesi investigare, se i
Senatoconsulti cioè sie» no slati semplice fonte del dritto al tempo
della re- publica, o abbiano avuto anche forza di le^e. Di quanta
importanza sia una tale distinzione basta a pruovarlo il dritto Pretorio.
A tutti è noto qual parte essenziale questo rappresenti nella storia del
dritto Romano^ co- pica y cap. 5. -^ TheopkUtis , ad U e. L />• de m^.
juris f ( I- 2. )• {') Hugo , SU^ia id driUo , p. 293.
— Bach. , Histar. jurù p. 203. (") Dion. D'JUcamis. lib.
VII- p. 448 — Polibio , lib. Vf. p. &62. — Tacili, Ajffr^ i. 15. «
^um primum e campo comi- Ita ad paires tramlata sunt ». Dian. Canio ^
lib. 52 , p485. (') Cicero , Topica, e. 5« « Vi si quis jus civile
dicat id esse^ quod in kgibìés , senatuicmiultis rebtis judìcaiis ,
jurisperitorwn auctoritate , ediclis magistralum eie. consistat » —
Theophilus , ad I. i. 11. §. 5. — Pomponius^ l % § 9. de origin.
jum.— Oratiu$ , Ep, ì. i6. Digiti
izedby Google ]| . WLIA SCOYBftTA
«sprima relemmU) umanitario in opposiziose dell' eleneuto civile
Romano, sia l' anellp, per il quale il dritto RcHuano si connette con
quello dell' umanità, di'esso in fine pone le basi del dritto posteriore
Roma- no; e pure non ebbe per se stesso ed immediatamente forza di
legge. Sicché quando si dimanda , se i Sena- toconsulti sìeno stati una
fonte del dritto al tempo del- la republica non potrebbesi affermare il
contrario ; la loro ezistenza islessa e Y importanza del Senato ne
fa nruova. Ma da qual tempo ebbero forza legislativa? Non vi ha
alcuna legge che riconosca loro un tale ca- rattere , mentre per
contrario ne' plebisciti è detto : e et ita factum est , ut inter
plebiscita et legem spe^ cies constituendi interessent , potestas autem
eadem e^/ i ; e certamente non sarebbesi mancato di affermare il
medesimo dei Senatoconsulti, quando ciò fosse stato^ Un tal cambiamento
dovette avvenire nei tempi poste- riori alla republica ; quando più difficili
e rari addiven- nero i Gomizii , che confermavano le determinazioni
del Senato : a quia difficile plebs convenire coepitj pch pulus certo
multo diffìcilius in tanta turba homimm ne* ces&itas ipsa curam
reipublica^ ad Senatum dedimit » • ' Questa opinione è conferorota
dalle seguenti parole di Gajo* Comm. I. g. 4. e
Senatusconsultum est , quod Senatus Jubet at- que oonsisterit , idque
legis vicem oòtinet , quamvis fuit quaesitum ». E perchè le
ultime parole quamvis fuit quaesitum non accennano alla lotta dei partiti
ma alle diverse opinioni delle due scuole dei Sabiniani e dei
Procu- lejani, ne segue, che anche al tempo di queste la con-
suetudine per la quale in difetto di legge espressa i Senatoconsulti
prendevano forza legislativa, non era ancora addivenuta un fatto certo ed
indubitato. Sul/t/^ hanorarium e particolarmente V antica
qui- stione, se Y Edictum perpetunm costituisse sotto Adria ^ Mo un
Codice, che fosse coi precedenti Editti Prete- rii nel medesimo rapporto
che le Pandette cogli scritti dei giuristi , o pure fosse un semplice
lavoro privato Digiti izedby Google
BELLE ISTITCZIONI * M CkJO^ i 5 BB&wiiìb dall'
Imperadore senza ehe arrestasse il mo- vimento della legislazione
Pretoria (^) , sembra de- cisa a favore di quest' ultima opinione colle
parole : «r Jus mttem edicendi habent magistratus popvM Mo^ mani
'^-^ Qu(wst<^res non mittuntur : id Edicium m pt'omnciis non
proponitur ». Le nostre conoscenze per contrario non si avvantag^
giano in menomo modo ooUa scoverta delle Istituzioni di Gajo sulle
quistioni, che riguardano i responsi^ prui^ dentum , la distinzione del
jus scripium e non scri- ptum^ ohe ritenevasi commùnemente. di origine
Gre- ca (^) \ senza che un tal difetto fosse un gran ^aniio ^
giacché le notizie e le conoscenze , che ci vennero a tal proposito per
altri scrittori, sodisf ano abbastanza ai bisogni della scienza. Umberto
Cerroni. Keywords: Hegel and Roman law -- i hegeliani, categoria giuridica,
Trasimacco, Kelsen, Eduardo Gaus, Hegel, sistema di diritto romano. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773615049/in/dateposted-public/
Grice e Certani – il sacrificio –
filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna).
Filosofo. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew at
school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice:
“Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a
Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia,
Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele”
(Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè
Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche
dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e
nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi
del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota
Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso;
cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il
Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche,
e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare
Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo
Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe”
(Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese
Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani
Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli
eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel
suo museo Cospiano al fol.117 e la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia
Regnante parte III lib. II, pag. 118 ove parla di Questo soggetto. Oltre i
sopraccennati ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec. Marco Curzio Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il dipinto attribuito al
Bacchiacca, vedi Marco Curzio (dipinto). Marco Curzio è un personaggio
leggendario della Roma antica, appartenente alla gens Curtia.
Benjamin Haydon, Marco Curzio si getta nella voragine, National Gallery
of Victoria. La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una
voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un
segno di sventura, predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad
inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più
prezioso ogni cittadino romano possedeva. Il giovane patrizio Marco
Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell'esercito romano, convinto che il
bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella
fenditura armato e a cavallo, facendo così cessare l'estendersi della
voragine. Questo autosacrificio agli dei inferi (Mani) era detto devotio.
Il luogo dove si formò la voragine rimase nella leggenda con il nome di Lacus
Curtius. La leggenda è narrata da Tito Livio nei suoi Annali (VII,6). Una
statua equestre della tarda latinità - in grandezza ridotta rispetto al
naturale - rappresentante Marco Curzio si trova a Carrara, inserita nelle mura
Albericiane in corrispondenza della Porta cittadina. Il grande attore
Antonio de Curtis, in arte Totò, sosteneva che la sua famiglia discendesse da
questo personaggio leggendario. Altri progettiModifica Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Mevio
Curzio Collegamenti esterniModifica Cùrzio, Marco, su sapere.it, De Agostini.
Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Curzio, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàVIAF (
EN ) 296493509 · CERLcnp02068621 · GND ( DE ) 1031330887 ·BNF ( FR )
cb14953648p (data) · WorldCat Identities ( EN ) viaf-296493509
Portale Antica Roma Portale Biografie Portale
Mitologia Ultima modifica 2 anni fa di 151.61.63.10 PAGINE CORRELATE Gens
Curtia famiglie romane che condividevano il nomen Curtius Lacus Curtius
Punto d'interesse nel Foro romano Marco Curzio (dipinto) dipinto
attribuito al Bacchiacca Wikipedia IlGiacomo Cerretani. Jacopo
Certani. Giacomo Certani. Keywords: il sacrificio, Marco Curzio, devozione -- Il cavaliere penitente; ossia, la chiave del
paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity, Percival, The Holy Grail,
the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Certani”
– The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773839345/in/dateposted-public/
Grice e Ceruti – Niso ed Eurialo; ovvero,
dell’altruismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo. Grice: “Ceruti is a good one – he has philosophised on solidarity –
and previously on altruism – these are VERY different concepts, as he notes –
but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for what I’m into! – “A Griceian at
heart!” -- Grice: “Only one T!”. Tra i
filosofi protagonisti dell'elaborazione del pensiero complesso, è uno dei
pionieri della ricerca contemporanea inter- e trans-disciplinare sui sistemi
complessi. La sua filosofia si produce all'intersezione di una pluralità
di domini di ricerca: epistemologia (filosofia e storia della scienza, storia
delle idee, noologia…), scienze della natura (fisica, biologia, cosmologia…),
scienze dell'uomo (antropologia, sociologia, psicologia, storia…), scienze
dell'organizzazione e del management. Si laurea in filosofia della scienza
con Geymonat con “L'epistemologia genetica di Piaget” nella quale, attraverso
l'analisi dell'epistemologia viene posto il problema del ruolo della biologia e
delle scienze del vivente, nelle varie articolazioni disciplinari, come
decisiva interfaccia fra le scienze fisico-chimiche e le scienze umane, in
grado di favorire processi di circolazione concettuale e di traduzione
reciproca fra vari e multiformi campi del sapere. Nei suoi studi ha affrontato
le questioni del significato filosofico ed epistemologico delle maggiori
rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività,
teoria dei sistemi, biologia molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi
del cambiamento stilistico e delle relazioni fra stile e contenuto nella storia
delle idee, nonché dello statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi
alle rivoluzioni scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta
nell'opera Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica di
Piaget. Assunto da Ginevra, presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione
fondata da Piaget, in qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro
coordinato da Munari. In questo periodo approfondisce le relazioni che
connettono l'opera di Piaget a vari modelli e approcci del contesto scientifico
a lui contemporaneo: alla termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle
ricerche sul concetto e sui processi di auto-organizzazione e autopoiesi,
all'embriologia di Waddington, ai nascenti dibattiti sul significato delle
ricerche della biologia molecolare. Il tema chiave di queste convergenze
disciplinari è la possibile delineazione di modelli generali del cambiamento,
nonché del ruolo della discontinuità in questi modelli. L'approfondimento dei
singoli filoni disciplinari gli consente di interrogarsi più estensivamente sul
significato profondo e complessivo dei cambiamenti paradigmatici delle scienze
alla fine del ventesimo secolo: dalla convergenza di varie discipline emerge la
prospettiva di una scienza nuova, caratterizzata da precise assunzioni
relativamente alla natura del cambiamento, alla relazione fra soggetto e mondo,
al ruolo del tempo, della storia e della narrazione negli approcci scientifici.
La nozione di complessità costituisce un'utile maniera sintetica di rapportarsi
con tali assunzioni. Per ricostruire queste novità del contesto scientifico,
imposta un programma di ricerca attorno al tema della epistemologia della
complessità, parte integrante del quale è stata a partire l'organizzazione di
convegni internazionali e di seminari, e la pubblicazione del volume La sfida
della complessità. Ricercatore associato presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires,
Sociolgie, Anthropologie, Politique diretto da Morin, centro di ricerca
associato al CNRS e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi,
presso il quale dirige l'unità di ricerca di filosofia della scienza. In quegli
anni approfondisce le problematiche dell'epistemologia genetica e della
cibernetica, pubblicando Il vincolo e la possibilità e La danza che crea.
Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato dalle scienze evolutive e dalla
teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana nel più generale mutamento di
prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche del contesto scientifico,
focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e filosofiche dei modelli di
cambiamento e delle relazioni fra continuità e discontinuità conseguenti alla
teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge, ai dibattiti sulle
estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche, alle nuove forme di
collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni fra approcci
storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva una serie di
ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema del
cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e
della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un
ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il
tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della
contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi
all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva,
cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli
interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle
società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni
sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le
ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte
all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali sul
comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di
filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni
novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in
relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista
della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda
linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo
studio dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione
dell'evoluzione e della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle
varie specie ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo
sapiens. A partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro
la pulizia etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia
delle scienze biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e
sulle identità nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione
evolutiva di tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica
costruttivistica, e convergente con i presupposti epistemologici,
costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica
darwiniana. In queste ricerche, viene affrontata anche la questione del
significato della rivoluzione darwiniana nell'intera storia della tradizione
scientifica occidentale. Un ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il
volume Educazione e globalizzazione, che traccia un bilancio epistemologico
degli intrecci disciplinari fra storia, geografia, antropologia, scienze
evolutive e naturali per comprendere il ruolo della diversità culturale nella
storia della specie umana e le radici profonde degli attuali processi di
globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo e a Milano,
dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore del Dipartimento di
Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia delle
Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università
degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà di Scienze della
Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca sull'Antropologia e
l'Epistemologia della Complessità che comprendeva la Scuola di dottorato in
Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo. Principali
tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica
costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità;
Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive;
Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione
Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato,
dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della
Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la
Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla
fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea
costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione
incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori. Alle elezioni politiche
italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste
del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente
(Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della
Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato
alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della
complessità” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium,
Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare
l'altruismo” (Laterza, Roma-Bari); “Una e molteplice: ripensare l'Europa”
(Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini
di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli,
Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello
Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della
scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le
radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno
Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità
umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari);
“Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello
Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà,
Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa
nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un
nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che
cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione
nell'epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco
Varela, Lazlo E., Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget.
Aspetti teorici e prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di
pensare postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro
Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano Bocchi G., Ceruti
M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di
Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:
La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina
Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del
Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni
Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio
dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Rome’s national epic
displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus
and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative
of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions
and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus
on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their
relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the
pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of
ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them
as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels
with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that
take as their starting point the erotic nature of their relationship see Gordon
Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp. 228-9, 235-6, and Hardie, 23-34).
Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that
Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses
thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA
L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E
PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI,
COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites
Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19,
89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles
of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans
has, of course, various thematic functions and will have resonated in various
ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative,
namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced
in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma
insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First
came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh
yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing
footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in
first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then
deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may
come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus
amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he!
(The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in
that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to
refer to a bull’s mate at Georgics 3 227. Indeed, Servius, ad Aen. 5 334,
writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact,
observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE
PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT.
Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because
AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the
description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for
Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from
Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy
lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors,
ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his
companion, who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s
body. The episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae
custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix
iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior
alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans
intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. 9
176-82. Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior,
swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to
accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s
followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at
the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love,
and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the
emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard
on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE
and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and
is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, pp. 229. For their
INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO.
Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS.
237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS
OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6: Likewise the question that Nisus asks Euryalus
when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC
ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9
184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO,
compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s
desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who
put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire
(dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a
desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire
could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s
depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the
enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s
intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat
Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me,
me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil
iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum
infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his
mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain,
Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me,
Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he
could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the
only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short,
good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is
described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been
UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers
in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their
eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme …
figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski
p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar?
Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO
observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas
loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the
story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas
and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. 761B.
Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl. Smp.
178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s
lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated
eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum
morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam
memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet
imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9). Then he hurdled
himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at
last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no
day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of
Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman
father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould
hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac
union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA
DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT
BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who
wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we
find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife
as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint
tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA
RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC
IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece
quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA
MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words,
although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed
with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him
to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his
older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the
pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s
epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence
for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused
with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather
elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of
the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and
the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially
strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to
Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching
details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily
killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret
references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical
model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later
Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck –
from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n.
49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself,
while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the
two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See
further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96,
Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’
Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen,
cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships
in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two
peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and
who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race.
Cf. Turnus’s rhetoric at 9.128-58 based on sharp distinctions among the
Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and
June at 12.808-40, where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE
RACE. Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their
people’s orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a
cultural context in which same-se relationships were universally condemned or
deeply problematized. But is it still not the case that, since Nisus and
Euryalus are freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly,
though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed
love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a
MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of
Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the
epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of
stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even
glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos
stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has
significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and
Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY
CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and
Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of
the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization
of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of
Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male
relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female
relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The
issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first
glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since
Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above
all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira,
her involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the
moral framework poposed by the text in a way that the relationship between
Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the
relative degrees of problematization of the two types of relationships in the
cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any
power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the
house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as
the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of
an adulterous couple ina Roman epic!” Mauro Ceruti. Keywords: Niso ed Eurialo;
ovvero, dell’altruismo, dal semplice al complesso, complesso proposizionale,
discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex,
solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema
semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta:
il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore
proprio, amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love,
benevolence, organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e
diverso, unico e multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773575194/in/dateposted-public/
Grice e Cerutti – il leviatano –
organicismo politico – il corpo politico nella costituzione italiana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “Cerutti is into politics,
like Hobbes, and it’s not surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the
Italians call it – and represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La
globalizzazione dei diritti umani dovrebbe avere il suo culmine con il
riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano alla sopravvivenza» Insegna a Firenze. La sua filosofia verte
principalmente sul marxismo occidentale e la "teoria critica" propria
della Scuola di Francoforte da cui, tra l'altro proviene. Lavora sulla
filosofia politica delle relazioni internazionali ed affari globali, seguendo
due diverse tematiche: la teoria delle sfide globali (armi nucleari e
riscaldamento globale), e la questione dell'identità “politica” (non sociale o
culturale) degli europei in relazione con la legittimazione dell'unione europea.
Da ricordare la sua amicizia con Bobbio del quale Cerutti stesso si ritiene
allievo. Altre opere: “Storia e coscienza di classe” (Milano); “Totalità,
bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo e politica. Saggi e interventi,
Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva
interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide globali per il Leviatano. Una
filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento globale” (Milano,
Vita e pensiero). Che cosa significa "Corpi
politici"? Organismi che possono essere bersaglio di una condotta
oltraggiosa ex art. 342 in ragione della funzione politica dagli stessi svolti
e dal cui novero risultano esclusi il Governo, il Senato, la Camera dei
Deputati e le Assemblee regionali, rispetto ai quali la tutela penale viene
offerta dall'art. 290. Articoli correlati a "Corpi politici" Art. 338
Codice Penale - Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o
giudiziario o ai suoi singoli componenti Art. 342 Codice Penale - Oltraggio
a un Corpo politico, amministrativo o giudiziarioFurio Cerutti.
Keywords: il leviatano, il corpo politico, l’organismo politico, lotta di
classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale,
identita politica, corpi politici, I corpi politici, brunetto latini, aquino,
Egidio romano, Dante Banquet, Marsiglio di Padua, Pegula. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772091232/in/dateposted-public/
Cervi
Cesa
Grice e Cesarini – filosofia italiana–
Luigi Speranza (Genzano
di Roma). Filosofo. Grice: “Cesarini was more of a warrior than a philosopher,
but I also fought in the North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He
wrote a philosophical story of the war of Velletri – and liked to dress up as
one of his ducal ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with
the name Sforza Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto
sostenitore del nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti
nel suo palazzo. Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che
vennero loro restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma,
reso possibile dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in
veste di consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every
Englishman loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the
Pope!” – Grice: “Sforza Cesarini should never be confused with the philosopher Cesarini
Sforza: Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential
philosopher, is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza
Cesarini. Francesco Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords:
“Letters of my father, kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria,
patriotism, nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta
Pia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772077672/in/dateposted-public/
Grice e Cherchi – implicatura sarda –
filosofia sarda – filosofia italiana – Luigi Speranza (Oschiri).
Filosofo. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a philosopher is
from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he! Cherchi is from
‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is very fun! My
favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it relates to Vinci’s
‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a Cagliari. Placido
Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese,
interessandosi contemporaneamente di studi e problemi etno-antropologici e
storico artistici. Come autore di importanti lavori sul pensiero di Ernesto De
Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda, fu un membro attivo
della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla presenza all'Cagliari di
maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese, come pure di loro allievi
quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo stesso Cherchi. Morì nel
all'età di 74 anni a causa di un'emorragia cerebrale. Altre opere: “Paul
Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi materici, Stef, Cagliari); “Pittura
e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); “Placido
Cherci, Ernesto De Martino: dalla crisi
della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite:
tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli); “Il peso
dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema
dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento
e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto
della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei
circoli, organizzazione non-partitica dei sardi, coautori Francesco Masala ed
Eliseo Spiga, Zonza, Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia
all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune
pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse.
Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche
risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera,
Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel
mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe: Giulio Angioni, Una scuola sarda di
antropologia?, in (Luciano Marrocu,
Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi,
processi culturali, Roma, Donzelli,, 649-663
Addio a Placido Cherchi, il ricordo di Giulio Angioni: "Fu ideologo
del neo sardismo" Archiviato il 2 ottobre
in. Notizie.tiscali È morto
Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia
Fondazionesardinia.eu Scuola
antropologica di Cagliari Ernesto de Martino
Giulio Angioni, In morte di Placido Cherchi, sito "il manifesto
sardo".il 6 ottobre. Roberto Carta, Che cosa è Placido Cherchi? Due o tre
cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a Placido CherchiEnrico
Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di Placido
Cherchi. La colonizzazione e la penetrazione
ro- mana nell'isola furono oltremodo intense e furono facilitate da
affinità di razza, per cui si può dire che lo spirito latino g-iunse
nell'intimo dell'anima del popolo sardo. (I) Pinza,
IMonuineiiti prUìiHivi della Sardegna in Monumenti Antichi, pubblicati per
cura della Reale Accademia dei Lincei, pag. 6. Il Taramelli, nel recente
lavoro sulla questione nu- ragica (Arch. Stor. Sardo, ITI 119071 p. 217),
ritiene che il carattere prevalentemente guerresco della schiatta sarda,
l'accanimento delle lotte interne dapprima, poi con lo straniero
invasore, abbiano nuociuto allo sviluppo artistico, che in germe aveva la
stessa disposizione che presso altre genti del Mediterraneo.
i6 STORIA' DP:LL'ARTE in SARDEGNA
Quando le legioni romane, in seguito alle fiere lotte sostenute contro i
montanari Olaesi o Iliesi ebbero assoluta padronanza dell'intera
isola, l'arte sarda scomparì con questa che può definirsi l'ultima
ribellione dell'antica civiltà nuragica, e di essa non rimasero che vaghe
re- miniscenze presso gli artefici più umili, le quali perdurarono
attraverso il medio evo fino ai nostri giorni. Nel periodo
glorioso dell'impero romano la fusione fra l'elemento latino ed indigeno
fu così intima da potersi asserire che le nostre sono
manifestazioni della civiltà derivante da Roma; le grandi opere pubbliche
mostrano una regione che assurse ad alto grado di fiorimento civile
ed economico; non v'è paese, né plaga nell'isola che non abbiano
traccia dell'opera meravigliosa svolta dai Romani. Nelle regioni più
inaccessibili, in quella stessa Barbagia che raccolse gli ultimi
difensori della civiltà indigena, e che mostrossi .Statuetta
preistorica 1 Museo di Casa;! i a sempre indomita e
ribelle ad ogni forma di potere, sono strade, ponti, ed altri
segni palesanti ima florida colonizzazione romana, tanto intensa da
perdiu-are in molte manifestazioni e iiello stesso linguaggio
, attraverso secoli di bar- barie e di dominazione.
Oreficeria punica nel Museo di Cagliari. MONUMENTI PREISTORICI
E CLASSICI 17 gran parte
Nello sfasciarsi della romana potenza lo spirito conservatore delle
genti sarde custodì gelosamente la bella tradizione latina. Mentre nel
tempo che segnò il passaggio dall'evo antico all'evo medio, d'Italia,
come scrisse il vSolmi, soggiacque a una lunga, trasformativa dominazione
germanica, la Sardegna fu invece fra le scarse regioni italiane che
ne restarono quasi pienamente immuni, dando così un nuovo, singolare
atteggiamento alla sua storia, che fu lenta e spontanea elaborazione degli
elementi indigeni e latini •'•. La furia distruggitrice della
conquista vanda- lica, assai breve e poco estesa, non lasciò
traccia alcuna d'arte e di vita e paralizzò quell'ascensione alle
più nobili conquiste, che la Sardegna avea iniziato con la signoria di
Roma. Una completa oscurità avvolge in questo fu- nesto
periodo ogni azione isolana, che non siano le fasi di quelle guerre che
dilaniarono l'isola. Tur- bini di barbarie la dovettero ridurre in un
vasto campo funebre e quando cessarono le irruenze degli invasori,
l'opera degli architetti e degli ar- tisti si svolse come se nel
naufragio delle romanità questi avessero perduto la memoria d'ogni
bella forma. La conquista di Belisario ed il
riordinamento amministrativo di Giustiniano, assicurando la Sar-
degna al dominio degli imperatori d'Oriente, con- sentirono lo spontaneo
sviluppo degli elementi latini. Artehci che trassero la loro
arte da Bisanzio svolsero nell'isola quell'architettura, che derivò
da armonica fusione di forme orientali e di bellezze
classiche, sparse quest'ultime con profusione nella terra che vide
erigere l'Acropoli e scolpire la X'enere di Milo. Furono greci gli
artisti che scol- Statuetta ienicia nel Museo di
Cagliari. fase. (i) Arrigo Solmi, La
Sardegna e gli studi storici wnW Arcìiivio Storico Sarda, voi. I, 1-2,
Cagliari, Tip. G. Dessi, 1905. STORIA DPXL'ARTE IN
SARDEGNA pirone bassorilievi, iscrizioni ed altre forme
ornamentali, che recenti indagini hanno messo in evidenza e che
sistematiche ricerche renderanno indubbiamente tanto copiose da darci
modo di determinare entro limiti detiniti l'influenza artistica che
Bisanzio svolse nell'isola dandole carattere e forme stilisticamente
rilevanti. ■ampacla cristiana rinv Chic
a di S. Giovanili tli Siiiis in territorio di Cabras nell'antica Tarros.
CAPITOLO II. CHIESE PRKRO.MAMCHK — S. GIOVANNI
DI SINIS — S. GIOVANNI D'ASSEMINI FRAMMENTI DECORATIVI E ISCRIZIONI
BIZANTINE. L'arte romana per opera di greci artefici divenne
arte bizantina, la (jLiale rappresenta non un nuovo stile, ma ima
trasformazione dello spirito latino a contatto delle forme orientali. F.d
in Ravenna, in Grado, in Sicilia, nelle Puglie sorsero quelli edifici,
rudi e disadorni all'esterno, che inter- namente brillano di ricchi
mosaici, in cui l'oro e le gemme preziose sfaccettano in mille raggi la
tenue luce diffondentesi dalle arcuate finestre. Anche nella nostra
isola dovettero svolgersi queste forme architet- toniche giacché dal
primo trentennio del secolo VI e per non breve corso di tempo la Sardegna
fu una provincia dell'impero di Bisanzio. Xè questa signoria fu
solo nominale, ma tanto si compenetrò nella vita e nelle istituzioni che
l'infiuenza greca nel linguaggio, nella diplo- matica, nel dritto
apparisce evidente anche nel secolo XI, quando la Sardegna erasi già
sottratta di nome e di fatto al dominio degli impe- ratori di Oriente e
ne reggevano le sorti da più che un secolo i regoli o giudici
nazionali. La nostra cattedrale conserva in una sua cappella una
Madonna, STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA
splendente d'oro e di bellezza. Intorno ad essa fiorisce una fine e
pia les^genda, comune del resto a molti altri antichi simulacri
d'Italia. Vuoisi che la vaga madonnina sia stata scolpita da S.
Luca e da Costantinopoli trasportata a cura del Cagliaritano Eusebio,
vescovo di Vercelli, alla città di Cagliari, con nave guidata da una
corte di angeli e di cherubini. Il simulacro è indubbiamente opera del
XIV secolo, ma la tenue leggenda può interpretarsi come un poetico
simbolo del tra- Stele puniclie nel Museo di
Cagliari. piantarsi dell'ellenismo nell'isola, perpetuato
dal nostro popolo attraverso gli oggetti suoi pili cari. Ed
infatti molti frammenti decorativi ed epigrafici nonché parecchi edifici
attestano dell'inlluenza dei costruttori bizantini neh' architettura
dell'alto medio evo in Sardegna. Tale è la Chiesa di S. Giovanni di
Sinis, nell'agro di Cabras in vicinanza ad Oristano e presso le rovine
dell'antica e fiorente città di artp: preromanica
Tarros. Le origini e le vicende di questa chiesa ci sono
ignote; si volle veder in essa la cattedrale di Tarros cristiana,
ma ciò non è che una congettura, giacché nessun documento veramente
ineccepi- bile ci dice quando la città venne abbandonata e se essa
perdurò fino al- l'epoca che gli elementi costruttivi e stilistici
permettono d'assegnare all'an- tico tempio. L'aver i presuli
d'Oristano assunto il titolo di abate di S. Giovanni di Sinis fa
presumere che a questa chiesa originariamente fosse annesso un
monastero. Essa presentemente è a tre navate
Testa di irrito rin\enuta in Cagliari Punica. coperta da
volta a botte e comuni- cante per mezzo di arcate poggianti su
massicci pilastri. Anche i due muri |jerimetrali e laterali hanno la
strut- tura a pilastri ed archi, chiusi questi ultimi
posteriormente. Il prospetto, sormontato da im frontone che
segue l'andamento della volta a botte, non ha ornamentazione alcuna
e la porta che in esso è aperta è rettangolare, semplicemente con-
tornata da una fascia di marmo. La navata centrale è
terminata da un'abside circolare e sopra le ul-
JNIaschera rinvenuta in Tarros Punica. D. SCANO — storia
dell' Ai le in Sardegna. STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA
time quattro pilastrate si svolge il tamburo, sostenente la
piccola volta a bacino, costituente la cupola. La forma di
questa chiesa è basilicale e non differenzia da quelle di tante altre chiese
medioevali sarde, del XI o XII secolo, se non che alcune forme
costruttive come la cupola e la volta a botte indu- cono a ritenere che
originariamente dovea avere tutt' altra struttura. Mancando ogni
qualsiasi elemento decorativo, giacché la chiesa ha le pareti nude senza
frammenti di pittura, di scultura o di semplice orna- mentazione, che di
solito guidano lo studioso nei riscontri stilistici, pro- cedetti
per identificare le forme primitive ad un esame tecnico delle parti
architettoniche. I risultati confermarono la prima
impressione, giacché potei ri- scontrare: 1°) La volta che
copre la navata centrale è relativamente mo- derna; 2°)
I muri della navata cen- trale e delle navatelle furono eretti
posteriormente al nucleo centrale, su cui poggia il cupolino.
3") Della struttura originaria della Chiesa non resta che
detto nucleo centrale e le braccia tra- sversali.
Ridotte in tal modo le parti originarie ed eliminate le aggiunte
posteriori è facile completare l'ico- nografia primitiva, partita in
quattro braccia a modo di croce, che s'in- tersecano secondo quattro
piloni sostenenti il tamburo su cui poggia la cupola per mezzo di quattro
pennacchi. Di più i piloni hanno gli angoli rientranti in modo da
permettere il collocamento in dette pilastrate di quattro colonne, che
ora più non esistono. Questa particolarità co- struttiva è degna di nota,
giacche la ritroveremo in altra chiesa, colla quale S. Giovanni di Sinis
presenta molte affinità. Nei muri terminali delle braccia trasversali
della croce sono aperte i nnvc-mita 111 Cai^l
influenza greca). iri l'ui ARTE
PREROMANICA due finestre bifore, in cui la colonnina è
sostituita da un semplice pila- strino in pietra da taglio senza
capitello e senza base. Abbiamo la forma iniziale di quelle bifore, che
posteriormente vennero rese più eleganti e più svelte dalle colonnine col
pulvino, permettente agli archi un'imposta corrispondente allo spessore
della muraglia. Questa forma arcaica con- ferma l'origine preromanica di
S. Giovanni di Sinis. Alle forme costruttive di
questa chiesa dovettero infiuire le catacombe di S. Salvatore, le
quali ne distano circa quattro chilo- metri. Queste catacombe
poste presso ad alcune ro- vine romane, malgrado non siano state
ancora ne stu- diate, né menzionate, sono interessantissime e
costitui- scono il più pregevole ed interessante monumento
isolano dei primi tempi del cristianesimo. La chiesetta
sopra- suolo è relativamente mo- derna e non presenta niente
d' interessante . Ai sotter- ranei s'accede mediante una gradinata
svolgentesi in uno stretto passaggio coperto da un voltino a
botte. In quell'andito sono aperte due porte, una di fronte all'altra,
per le quali si perviene a due camere rettangolari di m. 4,30 X 3,26
ciascuna, coperte ancor esse con volte a botte. Lo stretto passaggio fa
capo ad un vano circolare, coperto da volta a bacino ed illuminato
dall'alto, che costituisce il nucleo centrale delle catacombe,
comunicando esso con altre due camere laterali terminate da absidi e con
altra circolare, che è l'ultima Busto di
a rinveiiutu in Tarros Punica influenza jj;reca).
24 STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA dell'edificio sotterraneo. Si
ha una disposizione planimetrica, che ricorda i più antichi edifici cristiani:
la struttura è prettamente romana con mu- ratura di laterizi
opportunamente collegata con altra di pietrame informe.
^&^ Ceramica punica nel Museo di
Cai;liari. Le pareti delle diverse camere sono intonacate a stucco
lucido, const'i- vante tutt'ora traccia di antiche pitture. Più che
pitture sono schi/zi, Sarcofago romano nel Museo di
Cagliari. figure eseguite a caso, alcune abilmente, altre con
tecnica ed arte infan- tili. In ima parete di una camera absidale sono
traccie di un gruppo interessantissimo rappresentante una lotta fra un
leone ed un uomo dalle ARTE PREROMANICA
forme erculee. Nelle altre i)areti e; nell'abside della stessa camera
sono schizzate alcune nax'i, due leoni, un Eros e diverse figure di donne
de- lineate con maestria dal tipo classicamente pagano. Esse vennero
eseguite al di là di (iualun<[ue preoccu[)azione mistica e sono di
gentile arte, piene di grazia voluttuosa e di vita. L'na di esse dalle
linee formose, che rievoca la Venus (ìcnitri.w solleva con ima mano i
veli che le coprono i turgidi seni e le belle forme. l'"ra ([uesti
schizzi e queste figure di donne ri- corre sjx'sso il mouogramiua RI e
sono intercalate frasi scritte in greco corsivo, la di cui esatta interpretazione
potrà portare non lieve luce sulle origini di (|ueste forme pittoriche.
Non un simbolo cristiano, non il monogramma di Cristo che attestino la
fede di chi rese nelle pareti, con .Sarcofajj:o romano nel
Museo di Ca.sjliari. decise linee, figure \oluttuose di
belle donne. D'altra parte l'iconografia dei sotterranei segue la
disposizione delle prime chiesette cristiane special- mente nelle forme
absidali delle due cappelle laterali e della camera termi- nale. E vero
che nelle costruzioni cimiteriali più antiche le tetre muraglie
coprivansi di scene tratte dalla vita reale e molto spesso dalla
mitologia pagana tanto che nelle catacombe di Pri.scilla e di Domitilla,
nelle quali meglio che altrove si possono studiare le origini della pittura
primitiva cristiana, cjuesta è stranamente impregnata di paganesimo; ma
se la tra- dizione è pagana, nell'antica forma l'arte si penetra di
spirito cristiano. Qui no, forma e spirito sono schiettamente inspirate
al paganesimo più libero e più licenzioso. 26 STORIA
DELL'ARTE IN SARDEGNA Statua di Bacco rinvenuta In Cagliari
nel 1904. ARTE PREROMANICA 27
Queste contradizioni non permettono ora di poter dare un
sicuro o^iudizio su questo interessantissimo monumento: forse l'ipotesi
che più concilia ((ueste forme cozzanti tra loro è quella dell'orij^i'ine
pagana dei sotterranei, costrutti ed usati come carceri e poscia serviti
come rifugio nei primi tempi del cristianesimo. Con ciò si spiegherebbero
la disposi- zione a celle, poste sotto il livello del suolo e gli schizzi
delineati da (jualche artista, che nel tedio della prigionia volle
rievocare senza una direttiva pittorica immagini impure e dar forma
d'arte a sogni libertini. Oualun([ue sia l'origine di queste, che vengono
chiamate catacombe. è certo che esse furono nei primi
secoli, forse nel IV^ secolo, adibite al culto cristiano. Non
ritengo la costruzione cimiteriale, mancando qualsiasi indizio di loculo
o di pittura funeraria. Nel nucleo centrale è un pozzo, poco
profondo, in cui è perenne una fresca lama d'acqua. Questo può spiegare
la destinazione che dai primi cristiani venne data a questi sotterranei,
qualunque sia la loro origine. A mio parere essi dovettero servire di
battistero in tempi di per- secuzione. Infatti non è spiegabile con
l'ordinario uso degli edifici di culto la presenza del pozzo nella parte
centrale della chiesa sotterranea. 28
STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA Inoltre la poca
profondità del fondo, la presenza ininterrotta di una fresca lama d'acqua
e le traccie di alcuni fori, per cui mediante tavole potevano i
convertiti scender s^nù nell'acqua, rendono attendibile questa
destinazione, la quale ha molti riscontri e molte analogie colle
prime forme battisteriali. Ai primi tempi del cristianesimo
non aveasi altri battisteri che le rive dei fiumi e le fontane. Ancor
oggi nella prigione Mamertina a Roma ARTE PREROMANICA
29 esiste il [)ozzo miracoloso, in cui, secondo
un'antica tradizione, S. Pietro e S. I^iolo battezzarono i loro
(guardiani. In alcuni battisteri ])riniiti\'i rac(iua era fornita da
pozzi come nelle catacomlje di S. balena o da sor- benti naturali come in
([uelle di Priscilla e di Callista. I*\i solo colla cessa/ione
delle persecuzioni al tempo di Costantino che si commciò a costrurre
battisteri snò dio, editici s[)eciali, che non differivano dalle chiese
propriamente dette se non per la loro desti- nazione. La
cripta di S. .Sahatore forse in oriu-ine ebbe altra inxocazione, oiacchè
era fre([uente dedicare i battisteri al precursore di Cristo. Ad
Avanzi di \ille romane in Cagliari. ot^ni modo ciò che non
|)U() essere messo in dul)bio si è che i sotter- ranei di S. Salvatore,
per le forme costruttive, i)er le pitture e per le iscrizioni costituiscono
un monumento d'arte cristiana di ^rrancle interesse e merita uno studio
ampio e speciale più di (pianto io abbia fatto in questi cenni brevi e
riassuntivi. L'oratorio di S. Giovanni d'Assemini fu ancor
esso elevato con forme costruttive bizantine, come può desumersi da
un'attenta disamina. La più antica memoria riflettente questa
chiesetta si conserva in un 30 STORIA
DELL'ARTP: in SARDEGNA diploma dell'archivio Capitolare
della Chiesa di S. Lorenzo di Genova, con cui Trogotorio di Gunale,
giudice di Cagliari, e suo figlio Costan- tino concedono nel 1108 alla
Cattedrale di Genova la Chiesa di S. Gio- vanni e rinnovano la promessa
annua di una libra d'oro: Ego Indice Trogotori de Giinali cinti, filio
meo doninu Costantini .... fazo dista carta prò S. Ioaiinc de Arseiuin,
qui dabo ad sancto Lanreìizio de lamia prò Deus et prò anima mca
ecc. ecc ''•. La facciata non ha niente di notevole ed è posteriore
alla fonda- zione della Chiesa. Nell'interno due navate larghe m. 2,00 disimpegnano
Idinha di Atilia Pnmptilla in Cagliari. per mezzo
d'arcate quattro cappelle. All'incrocio delle due strette navate formanti
una croce greca a braccia eguali s'imposta sopra un tamburo a sezione quadrata
una piccola volta a bacino. Anche in questa chiesa dobbiamo
distinguere il nucleo originario dalle posteriori costruzioni; queste
sono costituite dalle quattro cappelle, che, coperte da un rozzo tetto a
vista, sono appiccicature evidenti e per la diversa struttura muraria e
per non essere collegate organicamente ai muri antichi.
(i) ToLA, Cod. Dipi., voi. 1, pag. 180. ARTE
PREROMANICA Eliminando queste aggiunte risultano in
modestissime proporzioni le stesse forme bizantine della chiesa di S.
Giovanni di Sinis e di S. Sa- turnino in Cagliari.
Nell'altare è murata un'iscrizione in caratteri greci, che porta
imo sprazzo di luce sulla chiesetta. E contornata da una doppia fascia
di perline in rilievo, che attesta come facesse parte di qualche
monumento, probabilmente sepolcrale, dedicato alle persone in essa
ricordate. Tra- scrivo l'interpretazione fattane dal Prof.
Taramelli: Anlìteatro romano in Ca.uliari. O
Signore, abbi pietà del tuo servo Torcotorio, arconte di Sardegna e della
serva Gè ti '.''. Lo Spano ed il Martini ritennero — erroneamente
come vedremo in appresso — trattarsi del Torcotorio, che governò il
giudicato di Ca- gliari dal 1108 al II 29 e che donò la chiesa di S.
Giovanni d'Assemini al Duomo di Genova. A pochi metri
dell'oratorio di S. Giovanni sorge la Chiesa Parroc- chiale di S. Pietro,
che contiene fra le sue mura alcuni frammenti deco- rativi bizantini e
sulla soglia ha incisa la seguente inscrizione in carat- (i)
A. Taramelli, Iscrizioni Bizantine della Chiesa di S. Giovanni e della Chiesa
Par- rocchiale d' Assemini in Notizie degli Scavi, a. 1906, fase.
3. STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA teri
greci, la quale ricorda probabilmente l'erezione e la dedicazione di
detta chiesa, che è ancora oggi sotto l'invocazione di S.
Pietro: In nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo,
io Nispella Ochote (?) (co- strusse il tempio) in onore dei Santi
corifei gli apostoli Pietro e Paolo e S. Giovanni Battista e della
l^ergine martire Barbara, affinchè per le loro preghiere dia a me
il Signore la, liberazione dei peccati. Anche quest'
iscrizione venne dallo Spano attribuita al Torcotorio del XI se-
Erma bacchica di fronte. In un mio studio sulla chiesa
di S. Saturnino di Cagliari '■* trattando ac- cidentalmente di
queste epigrafi, le ri- tenni anteriori al mille. Infatti le
lettere, elegantemente incise, ed i pochi motivi ornamentali sono
sufficienti a determinare forme stilistiche molto più antiche delle
romaniche del mille e dei secoli susse- guenti. Inoltre la carica di
protospatha- riìis, che si riscontra in un'altra iscrizione coeva
di Villasor, indica ancora una sog- gezione alla corte di Bisanzio non
con- cepibile nel Torcotorio della seconda metà del XI secolo, che nei
suoi atti ed in ispecial modo nella donazione fatta ai
Testa di Sileno. (i| 1). SCANO, Im Cliicsa di S.
Satuvìiiuo in Ihillrltiìio /ìiò/ioorajìco Sardo, \-o\. Ili, pag. 146,
Cagliari, Tip. Unione Sarda. ARTE PREROMANICA
33 monaci di Monte Cassino esercita la sua podestà
come CJiudice e Re libero da ogni ingerenza anche nominale dell'impero.
Un'altra consi- derazione distrugge l'attribuzione dello Spano e cioè il
Torcotorio men- zionato nell'iscrizione d'Assemini avea per moglie
Nispella, mentre quello del mille avea per consorte Vera, la pia donna,
che indusse prima il marito e poscia il figlio suo Costantino a larghe e
ricche concessioni verso gli ordini monastici ed in isj)ecial modo verso
i monaci di S. Vit- tore di Marsiglia: Eoo iìidigi Trocodori de Ugnnali
C(im imiliei'i mia Doìnia \ 'era et cnui filin uieiL noìiìiii
Costaiitìjm '■'. Queste conclusioni vennero confermate di
recente dagli studi dei Professori Solmi e Tarameli i, che
pervennero a risultati interes- santissimi per la storia medioevale
della Sardegna. Negli scavi eseguiti venti anni or sono dal
Vivanet presso l'antica chiesa di S. Nicolò di Donori insieme ad
interessanti resti di ma- teriale epigrafico d'età romana, vennero
fuori frammenti decorativi ed iscrizioni greche, che furono oggetto
di un recente ed interes- sante studio del Taramelli, che at-
tribuì queste ultime ad iscrizioni funerarie assai eleganti, di
persone elevate, probabilmente del IX o X secolo. In
una casa privata di Mara sono due bassorilievi marmorei, recanti croci
greche incluse in cerchi, di fattura l)izantina, e nel fianco della
chiesa parrocchiale è murata una piccola scultura marmorea molto cor-
rosa, rappresentante una figura d'uomo vestite; di lunga tunica manicata,
figura che per quanto rovinata accenna ad epoche ed a forme bizantine.
Le iscrizioni della distrutta Chiesa di S. Sofia fra Decimoputzu e
Erma di Bacco \i.sta di fianco. (I) ToLA, Cud.
Dipi. Sardo, voi. I, pag. 154. 34 STORIA
DELL'ARTE IN SARDEGNA Villasor presentano grande analogia
coi frammenti di S. Giovanni di Assemini e per la forma delle lettere e
per la decorazione a perline. Faccio mie senz'altro le
considerazioni esposte dal Taramelli nello studio sovradetto: « Due delle
iscrizioni sono sopra una coppia di mensole « decorate da un ramoscello
di fiori a voluta, alla loro estremità; l'altra « più lunga è incisa
sopra due robusti listelli di marmo, decorati da una « doppia fascia di
perline e nodetti, i quali come quello della iscrizione di « S. Giovanni
d'Assemini potevano far parte o della decorazione della « porta o
di un ambone « o d'altro monumento « eretto in quella chiesa
« dalle persone ricordate « dall'iscrizione e per il « motivo
decorativo co- « me per lo stile ricor- « dano il fregio
dell'am- « bone del Duomo di « Torcello, riferito al se- «
colo X circa, alla quale « età può convenire la '< grafia
dell'epigrafe, « elegante ma alquanto « incerta » •". Trascrivo,
tradotte, queste iscrizioni: O Signore, abbi pietà dei
servi di Dio, Torco- torio, reale protospatario, e di Satusio,
uobilissi)}ii arconti nostri, così sia. Ricordati anche o Signore del tuo
servo Ozzoccorre. Signore abbi pietà del tico servo Unnspete e
della consorte di Ini Soreca. È d'aggiungersi infine a questo bel nucleo
di documenti epigrafici e decorativi di carattere bizantino la seguente
iscrizione, conservantesi nell'altare della chiesa parrocchiale di S.
Antioco: O Signore abbi pietà del tuo servo Torcotorio, protospatario e
di Salusio arconte e della moglie ("ì) Ni spella.
Sarcufago romano nel Museo di Cajj;liari. (i) A.
Taramelli, Iscrizioni Bizantine ecc. ecc., pag. 132. ARTE
PREROMANICA 35 In una parete esterna
della chiesa è murato un bassorilievo, che reca una porzione di figura
umana, vista di fronte, con lunsj^a tunica a maniche, con colletto ornato
e con larga fascia al petto (i). Da (|uest() non
indifferente materiale epigrafico rinvenuto in una ristretta porzione dell'isola
il Prof. Solmi pervenne col suo fine discerni- mento di storico e di
critico a congetture, che sono sprazzi di luce nel buio che avvolge
l'ori- gine dei giudicati '^l, Fiondandosi
nell'avvicenda- mento del nome di Torcotorio a quello di Salusio.
il Solmi distingue il nome personale del giudice dal lìome pubblico
o di governo. Mentre ([uesto è sem- pre identico, Torcotorio o
Sa- lusio, invece, il nome personale, che talora si identifica col
nome di governo, può essere qualche volta da cjuesto
essenzialmente diverso. E questo avvicendamento dei due
nomi , (qualunque sia quello privato che abbia il giu- dice,
permette insieme al conte- nuto delle iscrizioni bizantine
d'integrare la serie dei giudici, iniziandola col Torcotorio, im-
periale protospatario e arconte di Sardegna, ricordato nell'iscrizione di
S. Giovanni d'Assemini. A questi, che ebbe per moglie Geti e che regnò
probabilmente intorno alla metà del X secolo succedette il figlio
Salusio, già aggregato, come risulta dalle iscrizioni di S. Sofia al
trono del padre, ed Testa di Bacco. |i)
A. Taramelli, Iscrizioni nizantìne ecc. ecc., pag. 137. (2) A.
Solmi, Le carte volgari dell' Arcliivio Arcivescovile di Canliari, I-'irenze,
Tip. Ga lileiana, pag. 69. 36
STORIA DELL'ARTE IN SARDECxNA erede poi dei suoi
titoli e del suo potere. Sulla fine del X secolo e nei primi decenni del
seguente governò il giudicato di Cagliari il Torcotorio della lapide di
S. Antioco, marito a Sinispella e contemporaneo di S. Giorgio di Snelli,
Con Mariano Salusio, menzionato in una carta greca di S. Vittore di
Marsiglia, s'inizia la serie dei giudici precedentemente ac-
certati dagli storici sardi. Questi risultati confermano il
lento ed amichevole distacco dalla Sardegna dalla dominazione di
Oriente. L'ultimo ricordo di un'effettiva di- pendenza da
Bisanzio appartiene all'anno 687 e mostra l'esarca residente in
Ceuta, ancora a capo di un « Africauìis excr- citìts » e di im
exercitiis de Sardinia, costituito come corpo distinto entro l'e-
sarcato africano. « Caduta Cartagine e Ceuta, scrive « il
Solmi, agli ultimi del VII secolo e « mancati così gli ultimi centri
dell'an- « tico esarcato d'Africa, l'impero Greco « lasciò in pieno
abbandono anche l'i- « sola, che n'era parte, separata ormai « da
un ampio mare, che divenne il « campo pericoloso delle imprese
sara- « cene; ne più la flotta greca varcò oltre « le coste della
Sicilia, dove si accentrò « l'estrema punta occidentale del do- «
minio bizantino. Il duca di Cagliari « restò a capo deWe.rerciins
Sardiniae « sotto la signoria nominale dell'impero f. greco; si
vestì forse dei pomposi titoli « delle alte magistrature bizantine, ma in
realtà divenuta la soggezione « vuota apparenza, resa ereditaria la
carica, ogni rapporto coll'impero « bizantino venne ad essere
illanguidito e sui primi anni del secolo VIII « la Sardegna sembra
restare esclusa dall'organizzazione tematica Orien- « tale e interamente
libera da o^ni dominazione di Bisanzio ». Madonna detta
di nel Duomo di C; ARTI': PREROMANICA
37 Onesto per i ris^r.ardi storici; dal punto di vista
dell'arte i numerosi tVainnieiui l)i/antini. ai ([uali fino ad ora non si
dette importanza alcuna, le Chiese di S. Ciio\anni di Sinis, di S.
Giovanni d'Assemini. di S. Sofia r-
w m ij',.-i.
Chiesa di S. Ciiovaimi di Sinis (tìanci)!. di
\'iilas()r, di S. Stefano di Maracala^-onis, di S. Antioco di Sulcis, di
S. Saturnino di Cagliari, sfui^i^ite alle indai:rini de-^ii studiosi, attestano
un Chiesa di S. (Giovanni di Sinis i abside).
periodo architettonico bizantino, che _<^ià si presenta intenso e che
lo sarà ma}j^_t(iormente, quando con indai^ini sistematiche si procederà
allo studio di tante strutture ora nascoste sotto gl'intonaci e gli
stucchi seicentisti •". I Altri franinienti bizantini rinvenni
nel paramento della chiesa inedioevale di .S. Gemi- nano in
Saniassi. D. ScANo — storia dell'Arte in Sardegna.
38 STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA Né poteva esser
altrimenti e le conclusioni storiche che traggonsi dalle iscrizioni
bizantine e le congetture che su di esse e su altre prove poterono
formarsi, rendono attendibile quest'influsso e questo fiorimento d'arte
bizantina nell'isola, che non poteva sottrarsi alle manifestazioni di
vita dell'impero che la congiungeva al mondo latino. Queste forme
greche perdurarono anche (juando venne a mancare la effettiva, se non
nominale, dipendenza agli imperatori d'Oriente. Discendenti dagli
arconti o patrizi della corte di Bisanzio, i giudici conservarono negli
atti ufficiali colle cariche bizantine le forme diploma- tiche e la
lingua greca; e come queste forme si mantennero fino al XI secolo, così
anche gli allievi ed i discendenti degli artefici greci conser- varono le
norme costruttive bizantine, fino a quando si dischiuse per la Sardegna
una nuova fase col rinnovamento, che prorompe nel XI secolo al contatto
delle fresche energie delle civiltà di Pisa e di Genova. Placido
Cherchi. Keywords: implicature sarda, filosofia sarda, etnos, etnicicita
italiana, sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cerchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773531279/in/dateposted-public/
Grice e Chiappelli – academici – Cicerone
e il segno di Marte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia).
Filosofo. Grice: “One of my most recent reflections is on the distinction and
striking parallelisms I draw between the Athenian dialectic – best represented
in Raffaello’s “La scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but
represented in those reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or
better, my Saturday mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us
with a most brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting –
Strawson tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the
rest of the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del
fisiologo Francesco Chiappelli, zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e
filosofia all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria
a Napoli, dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e
incaricato dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha
inoltre insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro
della Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle
scienze di Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere
comunale a Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli
archivi e biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro
della commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e
delle opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone,
Firenze: Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia
moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica
letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma,
Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta
Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le
Monnier); “Giacomo Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Società editrice
Dante Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e
scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul
cristianesimo antico, Firenze: succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina,
Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine
di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, 2 voll.,
Ancona, G. Puccini e figli). Dizionario biografico degli italiani. Crusca. Cicerone affronta e sviluppa la problematica
semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere
di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se gni divinatori. Se
prendiamo in considerazione il primo di questo ambi to, possiamo osservare che
l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da
una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere
oratorum che affrontano una problematica a carattere so cio-politico, volta a
definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la
sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste
opere tut to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come
un vasto campo di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto
diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazio ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com
pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in
generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio,
che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso
non trova un'adegu�ta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato)
come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli
indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi noso
(anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la
tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da
Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap pare
infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione), cioè
del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare
una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco
gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera 210 9.
RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo
do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non
viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to:
"Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla
comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia
esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone
mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello
doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente
all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che
Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al s�meion aristotelico. 9.2.
1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di Cicerone, nella quale la
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si
sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa mente
latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati 212 9. RETORICA
LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi
nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere"
vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma
assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari
pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod
sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum
est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio� � � �--- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto
quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in
questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono
dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s
aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta
propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è dimostrato
anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla
nozione di fdion s�meion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la
caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i
leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per
le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di necessità e
si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono,
poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9. RETORICA LATINA
vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti,
imbarazzo, alterazione del colorito, discor so contraddittorio, tremore [...],
gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni
delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39).
Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di
''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa
anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e
dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono
chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae
propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà
questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei
primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa
corrisponda alla cate goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekm�ria
quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i s�mefa da un punto di vista
episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico noscerne
l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40).
Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero niana nelle
Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte
cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il
fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti
non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe
viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali
e altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · 9.2
CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse
proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.:
'"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra
prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche corrisponde la
distinzione tra di vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla
con gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole micamente
rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati
in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di
verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine
giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di
vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali della sua
epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a fondamento
razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato st��so; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza
prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà
di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le
interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén�), non
è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217
Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere
paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti
nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche
gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli
eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono
però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et
notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II, 100), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia
spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al
corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è
in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente
carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non
siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le
tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi;
ma, mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia
che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è
motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div., II, 74). ON DIVINATION. [Cicero
composed this treatise immediately after
that on the Nature of the Gods;
the two subjects being indeed very
closely connected In the first book
all kinds of Divination are represented
as maintained by his brother Quintus,
on the principles of the Stoics.]
I. IT is an old opinion, derived
as far back as from the heroic
times, and confirmed by the unanimous
agreement of the Roman people, and
indeed of all nations, that there is
a species of divination in existence
among men, which the Greeks call
/xarrt/c^, that is to say, a
presentiment, and fore knowledge of future
events. A truly splendid and service
able gift, if it only exists in
reality; and one by which our mortal
nature makes its nearest approach to
the power of the Gods. Therefore, as
we have done many other things better
than the Greeks, so, most especially
have we excelled them in giving a
name to this most admirable endowment,
since our nation derives the name which
it gives to it, Divination, from the
Gods (Divis), while the Greeks derived
the title which they gave it, namely,
juavn/cr/, from madness (juai'ia). For that
is Plato's interpretation of the word.
Now, as far as I know, there
is no nation whatever1, how ever
polished and learned, or however barbarous
and un civilized, which does not
believe it possible that future events
may be indicated, and understood, and
predicted by certain persons. In the
first place the Assyrians, that I may
trace back the authority for this belief
to the most remote ages and
countries, as a natural consequence of
the champaign country in which they
lived, and of the vast extent of
their territories, which led them to
observe the heavens which lay open to
their view in every direction, began
to take notice also of the paths
and motions of the stars; and having
taken these observations for some time,
they handed down to their posterity
informa tion as to what was indicated
by their various positions and 14:2
ON DIVINATION. revolutions. And
among the Assyrians, the Chaldaeans, a
tribe who had this name not from
any art which they professe, but from
the district which they inhabited, by
a very long course of observation of
the stars are considered to have
established a complete science, so that
it became possible to predict what
would happen to each individual, and
with what destiny each separate person
was born. The Egyptians also are
believed to -have acquired the knowledge of
the same art by a continued practice
of it extending through countless ages.
But the nature of the Cilicians and
Pisidians, and the Pamphylians, who border
on them, nations which we ourselves
have had under our government,1 think
that future events are pointed out by
the flight and voices of birds as
the surest of all indications. And
when was there ever an instance of
Greece sending any colony into yEolia,
Ionia, Asia, Sicily or Italy, without
consulting the Pythian or Dodonrean oracle,
or that of Jupiter Hammon? or when
did that nation ever undertake a war
without first asking counsel of the
Gods 1 II. Nor is there only
one kind of divination celebrated both
in public and private. For, (to say
nothing of the practice of other
nations.) how many different kinds have
been adopted by our own people. In
the first place, the founder of this
city, Romulus, is said not only to
have founded the city in obedience to
the auspices; but also to have been
himself an augur of the highest
reputation. After him the other kings
also had recourse to soothsayers ; and
after the kings were driven out, no
public business was ever transacted, either
at home or in war, without reference
to the auspices. And as there
appeared to be great power and
usefulness in the system of the
soothsayers (haruspices),2 in reference to
the people's succeeding in their objects,
and consulting the Gods, and arriving
at an understanding of the meaning of
prodigies and averting evil omens, they
introduced the whole of their science
from Etruria, to prevent the appearance
1 Cicero had been proconsul of
Cilicia, and had gained a very high
reputation by the integrity and energy which
he displayed in that government. 2
Aruspex is derived from the Greek
word Ifptiv, and specio, to behold,
because the Aruspex prophesied from the
omens which he drew from an
inspection of the entrails of the
victims. Augur, from avis, and
garrio, to chatter ; because the omens
were drawn from the noise made by
the birds in their flight ON
DIVINATION. 143 of allowing any
kind of divination to be neglected.
And as men's minds were often seen
to be excited in two manners, without
any rules of reason or science, by
their own mere uncontrolled and free
motion, being sometimes under the influence
of frenzy, and at others under that
of dreams, our ancestors, thinking that
the divination which proceeded from frenzy
was contained chiefly in verses of
the Sibyl, ordained that there should
be ten citizens chosen as interpreters
o± these compositions. And in the
same spirit they have also, at times,
thought the frantic predictions of
conjurors and prophets worth, attending to
; as they did in the Octavian l
war in the case of Cornelius
Culleolus. Nor indeed have men of the
greatest wisdom thought it beneath them
to attend to the warnings of
important dreams, if at any time any
such appeared to have reference to
the interests of the republic. Moreover,
even in our own time, Lucius Junius,
who was consul, as colleague of
Publius Rutilius, was ordered by a
vote of the senate to erect a
temple to Juno Sospita, in compliance
with a dream seen by Csecilia, the
daughter of Balearicus.2 III. And, as
I apprehend, our ancestors were induced
to establish this custom more because
they had been warned, by the events
which they saw, to do so, than
from any previous conclusion of reason.
But some exquisite arguments of philo
sophers have been collected to prove
why divination may well be a true
science. Now of these philosophers, to
go back to the most ancient ones,
Xenophanes the Colophonian appears to have
been the only one who admitted the
existence of Gods, and yet utterly
denied the efficacy of divination. But
every other philosopher except Epicurus,
who talks so childishly about the
nature of the Gods, has sanctioned a
belief in divination ; though they have not
all spoken in the same manner. For,
though Socrates, and all his followers,
and Zeno, and all those of his
school, adhered to the opinion of the
ancient philosophers, and the Old Academy
and the 1 This was the civil
war in the consulship of Cinna and
Octavius, A.U.O. 666, which ended in
Octavius being put to death by the
orders of Cinna and Mariu?. 2
This was Quintus Caecilius Metellua (the
eldest son of Metellus Macedonians), who
was consul, B.C. 123, with T.
Quinctius Flamininus: in which consulship
he cleared the Balearic Isles of
pirates, and founded several cities in
the islands. 144 ON DIVINATION.
Peripatetics agreed with them; and though
Pythagoras, who lived some time before
these men; had added a great weight
of authority to this belief — and indeed
he himself wished to acquire the
skill of an augur, — and though that
most im portant authority, Democritus, had
in very many passages of his writings
sanctioned a belief in the foreknowledge
of future events ; yet Dicsearchus the
Peripatetic, on the other hand, denied
all other kinds of divination, and
left none except those which proceed
from frenzy or from dreams. And my
own friend Cratippus, whom I consider
equal to the most ancient among the
Peripatetics, confined his belief to the
same matters, and denied the correctness
of any other kind of divination.
But as the Stoics defended nearly
every kind, because Zeno in his
Commentaries had scattered some seeds of
such a belief, and Cleanthes had
amplified and extended his predecessor's
observations ; Chrysippus succeeded them, a
man of the most acute and vivid
genius; who discussed the whole belief
in, and question about divination in
two books on that subject, and a
third on oracles, and a fourth on
dreams. And he was followed by
Diogenes the Babylonian, a pupil of
his OATH, who published one treatise
on the same subject; by Antipater,
who wrote two books, and our friend
Posidonius, who wrote five. But Pantetius,
the tutor of Posidonius and pupil of
Antipater, has degenerated in some degree
from the Stoics, or at least from
the most eminent men of that school;
and yet he did not dare absolutelyto
deny that there was a power of
divina tion, but said that he had
doubts on the subject. Now if he,
aStoic, was allowed to express a
doubt on a matter very much against
the inclination of the rest of that
school, shall we not obtain leave
from the Stoics to behave in a
similar manner with respect to other
subjects'? especially when that very
question which is a matter of doubt
to Paneetius, is generally considered a
thing as clear as day to the
other philosophers of that sect. However,
this praise of the Academy has been
confirmed by the testimony and deliberate
judgment of a most admirable philosopher.
IV. Indeed, since we are ourselves
inquiring what we are to think of
divination, because Carneades maintained a
very long argument against the Stoics
with great acuteness and variety of
resource, and as we wish to be
on our guard against ON
DIVINATION. 145 admitting rashly any
assertion which is incorrect, or the
truth of which is riot sufficiently
ascertained, it appears neces sary for
us to compare over and over again
the arguments on one side with those
on the other, as we have done
in the three books which we have
written on the Nature of the Gods.
For, as in every discussion, rashness
in assenting to propositions of others,
and error in asserting such ourselves,
is very discreditable, so above all
is it in a discussion where the
question for our decision is how much
weight we are to attribute to
auspices, and to divine ceremonies, and
to religion. For there is danger
lest, if we neglect these things, we
may become involved in the guilt of
blasphemous impiety, or if we embrace
them, we may become liable to the
reproach of old women's superstition. V.
Now these topics I have often
discussed, and I did so lately with
more than usual minuteness, when I
was with my brother Quintus, in my
villa at Tusculum. For when, for the
purpose of taking walking exercise, we
had come into the Lyceum, (for that
is the name of the upper Gymnasium) —
I read, said he, a little while
ago your third book on the Nature
of the Gods; in which, although the
arguments of Cotta have not wholly changed
my previous opinions, they have undoubtedly
a good deal shaken them. You are
very right to say so, I replied;
for, indeed, Cotta himself ai'gues rather
with a view to confute the arguments
of the Stoics, than to eradicate
religion from men's minds. Then, said
Quintus, that is what Cotta himself
says, and indeed he repeats it very
often ; I imagine, because he does
not wish to seem to depart from
the ordinary opinions ; but still the
zeal with which he argues against the
Stoics seems to cany him on to
the extent of wholly denying the
existence of the Gods. I do not
indeed think it necessary to reply to
all he says, for religion has been
sufficiently defended in your second book
by Lucilius; whose arguments, as you
say at the end of the third
book, appear to you yourself to be
much nearer to the truth. But with
reference to the point which has been
passed over in those books, because,
I presume, you con sidered that the
inquiry into it could be carried on,
and an argument held upon it with
more convenience if it were taken
separately, I mean Divination — which is a
foreknowledge and A foretelling of those
events which arc usually considered
DE NAT. ETC. L 146
ON DIVINATION. fortuitous, — I should
like very much at this moment, if
you please, to examine what power
that science really has, and what its
character is. For my own opinion is
this ; that if those kinds of
divination which we have been in the
habit of hearing of and respecting,
are real, then there are Gods; and
on the other hand that, if there
really are Gods, then there certainly
are men who are possessed of the art
of divination. VI. You are defending,
I reply, the very citadel of the
Stoics, 0 Quintus, by asserting the
reciprocal dependence of these two
conditions on one another ; so that
if there be such an art as
divination, then there are Gods, and
if there be such beings as Gods,
then there is such an art as
divination. But neither of these points
is admitted as easily as you imagine.
For future events may possibly be
indicated by nature without the
intervention of any God; and, even
although there may be such beings as
Gods, still it is pos sible that
no such art as divination may be
given by them to the human race.
He replied, — But to me it is
quite proof enough, both that there
are Gods and that they have a
regard for the welfare of mankind,
that I perceive that there are
manifest and undeni able kinds of
divination. With respect to which, I
will, if you please, recount to you
my own sentiments, provided at least
that you have leisure and inclination
to hear me, and have nothing which
you would like in preference to this
discussion. But I, said I, my dear
Quintus, have always leisure for
philosophical discussion ; but at this
moment, when I have actually nothing
whatever which I wish to do, I
shall be all the more glad to
hear your sentiments on divination.
You will hear, said he, nothing
new from me, nor do I entertain
any ideas on the subject different
from the rest of the world. For the
opinion which I follow is not only
the most ancient, but that which has
been sanctioned by the unanimous consent
of all nations and countries. For
there are two methods of divining;
one dependent on art, the other on
nature. Be.!; what nation is there,
or what state, which is not
influenced by the omens derived from
the entrails of victims, or by the
predictions of those who interpret pro
digies, or strange lights, or of
augurs, or astrologers, or by those
who expound lots (for these are about
what come under the head of art) ;
or, again, by the prophecies derived
from ON DIVINATION. 147
dreams, or soothsayers (for these two
are considered natural kinds of divination)
? And I think it more desirable
to examine into the results of these
things than into the causes. For
there is a certain power and nature,
which, by means of indications which
have been observed a long time, and
also by some instinct and divine
inspiration, pronounces a judg ment on
future events. VII. So that Carneades
may well give up pressing what
Pansetius used also to insist upon,
when he asked whether it was Jupiter
who had ordained the crow to croak
on the right- hand, or the raven
on the left. For these
occurrences have been observed for an
immense series of time, and have been
remarked and noted from the signification
given to them by subsequent events.
But there is nothing which a
great length of time may not effect
and establish by the use of memory
retaining the different events, and handing
them down in durable monuments.
We may wonder at the way in
which the different kinds of herbs
and roots have been observed by
physicians as good for the bites of
beasts, for complaints of the eyes,
and for wounds, the power and nature
of which reason has never explained,
but yet both the art and inventor
of these medicines have gained iiniversal
approval from their utility. Let
us also look at those things which,
though of another kind, still have a
resemblance to divination. And often,
too, the agitated sea Gives certain
tokens of impending storms, When
through the deep with sudden rage it
swells, And the fierce rocks, white
with the briny foam, Vie with
hoarse Neptune in their sullen roar,
While the sad whistlins o'er the
mountain's brow Adds horror to the
crash of the iron coast. VIII.
And all your prognostics are full of
presentiments derived from occurrences of
this sort. Who, then, can
trace back the causes of these
presentiments 1 Though, indeed, I
am aware that Boethus the Stoic has
endeavoured to do so. And indeed he
has done some good to this extent,
that he has explained the principle
of those occurrences which take place
iu the sea, or in the heaven.
But still, who has ever explained,
with any appearance of probability, why
they take place at all 1 And
the white gull, uprising from the
waves, With horrid scream foretells th'
impending storm, Straining its trembling
throat in ceaseless cry. Oft, too,
the woodlark from his chest pours
forth L2 ±48 ON DIVINATIOX.
Notes of unusual sadness, wnking up
The morn with grievous fear and
endless plaint. When first Aurora routs
the nightly dew, Sometimes the dusky
crow runs o'er the shore, Dipping its
head beneath the rising surf.1 IX.
And we see that these signs of
the weather scarcely ever deceive us,
though we certainly do not understand
why they are so correct. You
too perceive the signs of future
times, Children of sweetest waters ;
and prepare To utter warnings loud
and salutary, Rousing the springs and
marshes with your cries. Yet who
could ever have suspected frogs of
having such per ception 1
However, there is in rivulets, and
in frogs too, a certain nature
indicating something which is clear enough
by itself, but more obscure to the
knowledge of men. And cloven-footed oxen
gazing up To heaven's expense, have
often inhaled the air Laden with
moisture I do not
inquire why all this
takes place, since I
am acquainted with the fact that it
does take place — The mastic, ever green
and ever laden With its rich fruit,
which thrice in every year Doth swell
to ripeness, by its triple crop
Points out three times when men
should till the earth. Here too,
again, I do not ask why this
one tree should bloom three times a
year-, or why it should adapt the
proper season for ploughing the land
to the token given by its bloom.
I am content with this, that, even
if I do not know how everything
is done, I nevertheless do know what
is done. And so in respect
of every kind of divination I will
answer as I have done in the
cases which I have already mentioned.
X. Now I know what effect the
root of the scamniony has as a purgative,
and what the efficacy of the
aristolochia is in the case of bites
of serpents, (and this herb has
derived its name from its discoverer,
who discovered it in consequence o a
dream.) and that knowledge is quite
emnigh. I do not know
why these herbs are so efficacious;
and in the same way I do not
know on what principle the omens
which we draw from the signs
furnished to us by the winds and
storms proceed ; but I do know, and
arn certain of, and thankful for
their power, and the results which
flow from it. Again, in
1 All these predictions are
translated by Cicero from Aratus. OX
DIVINATION. 149 the same way I
know what is indicated by a fissure
in the entrails of a victim, or
by the appearance of the fibres ; but
what the cause is that these
appearances have this meaning I know
not. And life is full of such things
; for nearly every one has recourse
to the entrails of animals. Need I
say more 1 Is it possible for
any one to doubt about the power
of thunder-storms ? Is not this too
one of the most marvel lous of
marvellous things ? When Summanus,1 which
was a figure made of clay, standing
on the top of the temple of the
all-powerful and all-good Jupiter, was
struck by lightning, and the head of
the statue could not be found
anywhere, the soothsayers said that it
had been thrown down into the Tiber,
and it was found in that very
place which had been pointed out by
the soothsayers. XL But who is
there to whom I may more fitly
appeal as an authority and as a witness
than you yourself? For I have learnt
the verses, and that with great
pleasure, which the muse Urania pronounces
in the second book of your "
Con sulship " — See how almighty
Jnve, inflamed and bright, With heavenly
fire fills the spacious world, And
lights up heaven and earth with
wondrous rays Of his divine
intelligence and mind ; Which pierces
all the inmost sense of men,
And vivifies their souls, hold fast
within The boundless caverns of
eternal air. And would you know
the high sublimest paths And ever
revolving orbits of the stars, And
in what constellations they abide, —
Stars which the Greeks erratic
falsely call, For certain order and
fixed laws direct Their onward course
; then shall you learn that all
Is by divinest wisdom fitly ruled. For
when you ruled the state, a consul
wise, You noted, and with victims
due approach'd, Propitiating the rapid
stars, and strange Concurrence of the
fiery constellations. Then, when you
purified the Alban 2 mount, And celebrated
the great Latin feast, Bringing pure
milk, meet offering for the gods,
You saw fierce comets bright and
quivering With light unheard of.
In the sky you saw 1 This
is usually understood to have been a
statue of Pluto. 2 The new
consuls used to celebrate the
Ferioe Latinaj on the Albanus
Mons. 150 ON DIVINATION.
Fierce wars and dread nocturnal massacre
; J That Latin feast on
mournful days did fall, When the pale
moon with di m and muffled
light Conceal'd her head, and fled,
and in the midst Of starry night
became invisible. Why should I say
how Phoebus' fiery beam, Sure herald
of sad war, in mid-day set, Hastening
at undue season to its rest, Or
how a citizen struck with th' awful
bolt, Hurl'd by high Jove from out
a cloudless sky, Left the glad light
of life ; or how the earth Quaked
with affright and shook in every part
? Then dreadful forms, strange visions
stalk d abroad, Scarce shrouded by
the darkness of the night,And wam'd
the nations and the land of war.
Then many an oracle and augury,
Pregnant with evil fate, the soothsayers
Pour'd from their agitated breasts.
And e'en The Father of the Gods
fill'd heaven and earth With signs,
and tokens, and presages sure Of all
the things which have befallen us
since. XII. So now the year
when you are at the helm, Collects
upon itself each omen dire, Which
when Torquatus, with his colleague Gotta,
Sat in the curule chairs, the Lydian
seer Of Tuscan blood breathed to
affrighted Borne. For the great Father
of the Gods, whose home Is on
Olympus' height, with glowing hand Himself
attack'd his sacred shrines and temples,
And hurl'd his darts against the
Capitol. Then fell the brazen statue,
honour'd long, Of noble Natta ; then
fell down the laws Graved on the
sacred tablets ; while the bolts Spared
not the images of the immortal gods.
Here was that noble nurse o' the
Roman name, The Wolf of Mars, who
from her kindly breast Fed the
immortal children of her god With the
life-giving dew of sweetest milk. E'en
her the lightning spared not ; down she
fell. Bearing the royal babes in her
descent, Leaving her footmarks on the
pedestal.1 1 Great interest is
attached to this passage by antiquaries,
from the fact of there being a
bronze statue still at Home of a wolf
suckling two children, with manifest marks
of lightning on it, which is believed
to be the very statue here mentioned
by Cicero, and also in his third
Oration asrainst Catiline, c. viii. ; it
is described by Virgil too : —
Fecerat et viridi foetam Mavorf is
in antro Procubuisse lupam ; geminos huic
ubcra circum [Ludere ON DIVINATION.
151 And who, unfolding records of
old time, Has found no words of
sad prediction In the dark pages of
Etruscan books ] — All men, all
writings, all events combined, To warn
the citizens of freeborn race Ludere
pendentes pueros, et lambere matrem
Impavidos; ilhun tereti cervice reflexam
Mulcere alternos et corpora fingere linguiL
— jEn. viii. 630. The cave of
Mars was dress'd with mossy greens ;
There by the wolf were laid the
martial twins ; . ' Intrepid,
on her swelling dugs they hung,
The foster-dam loll'd out her fawning
tongue ; They suck'd secure, while
bending back her head, She lick'd
their tender limbs, and form'd them
as they fed. Dryden, ^En. viii.
835. The statue in its present state
is beautifully described by Byron : —
• LXXXVIII. And thou the
thunder-stricken nurse of Rome, She-wolf !
whose brazen imaged dugs impart The
milk of conquest yet within the dome,
Where, as a monument of antique art,
Thou standest, mother of the mighty
heart, Which the great founder suck'd
from thy wild teat, Scorch'd by the
Roman Jove's ethereal dart, And thy
limbs black with lightning, — dost thou yet
Guard thy immortal cubs, nor thy fond
charge forget] LXXXIX. Thou dost— but
all thy foster-babes are dead, The
men of iron ; and the world
hath rear'd Cities from out their
sepulchres. —Childe Harold, book iv. It may
not be out of place here, to
set before the reader the beautiful
description, in the first Georgic, of
the prodigies which happened at Rome
on the death of Cresar : — Denique
quid vesper serus vehat. unde serenas
Ventus agat nubes, quid cogitet
humidus Auster, Sol tibi signa dabit
: Solem quis dicere falsum Audeat?
ille etiam csecos instare tumultus
Saspe monet, fraudemque, et aperta
tumescere bella ; Ille etiam extincto
miseratus Caesare Romam Cum caput
obscurS, nitidum ferrugine texit Impiaque
rcternam timuerunt sajcula noctem, Tempore
quanquam illo tellus quoque et aequora
ponti, Obsccenique canes, importunaeque
volucres Signa dabant : quoties Cyclopum
effervere in auras Vidimus undantem
rnptis fornacibus ^Etnam, Flammarumque
globos liquef'actaque volvere saxa. Armorum
sonitus toto Germania coe'.o Audiit;
insolitis tremuerunt motibus Alpes. [Vox
152 ON DIVINATION. To dread
impending wars of civil strife, And
wicked bloodshed ; when the laws
should fall In one dark rain,
trampled and o'erthrown: Then men were
warn'd to save their holy shrines,
The statues of the irods, their city
and lands, Vox quoque per lucos
vulgo exaudita recentes Ingens, ei
simulacra rnodis pallentia miris Visa
sub obscurum noctis ; pecudesque locutae,
Infandum ! sistunt amnes terrseque
dehiscunt Et moestum illacryinat templis
ebur, oeraque sudant : Proluit insano
contorquens vertice sylvas Pluviorum Rex
Eridanus ; camposque per omnes Cum
stabulis armenta trahit ; nee tempore eodcm
Tristibus aut extis fibrae apparere
minaces Aut puteis manare cruor
cessavit, et alte Per noctcm resonare
lupis ululautibus urbe? ; Non alias
coilo cecidcruut plura sereno Fulgura,
nee diri toties arsere cometae ;
Ergo, etc. — Virgil, Georg. i. 488.
Which is translated by Dryden : —
The Sun reveals the secrets of
the sky, And who dares give the
source of light the lie? The change
of empires he oft declares, Fierce
tumults, hidden treasons, open wars; He
first the fate of Caesar did
foretell, And pitied Rome when Rome
in Caesar fell : In iron clouds
conceal'd the public light, And impious
mortals fear'd eternal night. Nor was
the fact foretold by him alone,
Nature her-elf stood forth and seconded
the Sun. Earth, air, and seas with
prodigies were sign'd, And birds obscene
and howlin g dogs divin'd. What rocks
did ^Etna's bellowing mouth expire From
her torn entrails, and what floods of
fire ! What clanks were heard in
German skies afar, Of arms and armies
rushing to the war ! Dire earthquakes
rent the solid Alps below, And from
their summits shook th' eternal snow ;
Pale spectres in the close of night
were seen, And voices heard of more
than mortal men. In silent groves
dumb sheep and oxen spoke ; And
streams ran backward, and their beds
forsook ; The yawning earth disclosed
th' abyss of hell, The weeping
statues did the wars foretell, And
holy sweat from brazen idols fell.
Then rising in his might the king
of floods Uush'd through the forests,
tore the lofty woods; And rolling
onward with a sweepy sway, Bore
houses, herds, and labouring hinds away.
Blood ON DIVINATION. 153
From slaughter and destruction, and
preserve Their ancient customs unimpair'd
and free. And this kind hint of
safety was subjoin'd, That when a
splendid statue of great Jove,1 In
godlike beauty, on its base was
raised, With eyes directed to Sol's
eastern gate ; Then both the senate
and the people's bands, Duly forewarn'd,
should see the secret plots Of wicked
men, and disappoint their spite. This
statue, slowly form'd and long delay 'd,
At length by you, when consul, has
been placed Upon its holy pedestal ; — 'tis
now That the great sceptred Jupiter
has graced His column, on a
well-appointed hour : And at the
self-same moment faction's crimes Blood
sprang from wells; wolves howl'd in
towns by night; And boding victims
did the priests affright. Such peals
of thunder never pour'd from high,
Nor forky lightnings flash'd from such
a sullen sky : Red meteors ran
across the ethereal space ; Stars disappear'd,
and comets took their place. Which
Shakspeare has imitated with reference to
the same event : — Cal. Caesar, I
never stood on ceremonies, Yet now
they fright me : there is one within,
Besides the things that we have
heard and seen, Recounts most horrid
sights seen by the watch : A
lioness hath whelped in the streets,
And graves have yawn'd and yielded
up their dead. Fierce, fiery warriors
fight upon the clouds, In ranks and
squadrons and right form of war,
Which drizzled blood upon the Capitol
: The noise of battle hurtled
in the air; Horses did neigh,
and dying men did groan; And
ghosts did shriek and squeak t the
streets. O Caesar, these things are
beyond all use, And I do fear
them When beggars die there are
no comets seen ; The heavens
themselves blaze forth the death of
princes. Cats. What say the augurers?
Serv. They would not have you
to stir forth to-day. Plucking the
entrails of an offering forth, They
could not find a heart within the
beast. 1 This refers to the
column meant to serve as a pedestal
for the statue of Jupiter, mentioned
in the second book of this treatise,
and also in the second oration
against Catiline, as having been ordered
in the consulship of Torquatus and
Cotta, but not completed till the
year of Cicero's consulship. 154 ON
DIVINATION. Were by the loyal
Gauls reveal'd and shown To the
astonish'd multitude and senate. XIII.
Well then did ancient men, whose
monuments You keep among you, — they who
will maintain Virtue and moderation ; by
these arts Ruling the lands an<l
people subject to them : Well, too,
your holy sires, whose spotless faith,
And piety, and deep sagacity Have far
surpass'd the men of other lands,
Worshipp'd in every age the mighty
Gods. They with sagacious care these
things foresaw, Spending in virtuous
studies all their leisure, And in the
shady Academic groves, And fair Lyceum :
where they well pour'd forth The
treasures of their pure and learned
hearts. And, like them, you have been
by virtue placed, To save your
country, in the imminent, breach ; Still
with philosophy you soothe your cares,
With prudent care dividing all your
hours Between the Muses and your
country's claims. Will you then be
able to persuade your mind to speak
against the arguments which I adduce
on the subject of divination, you
being a man who have performed such
exploits as you have done, and who
have so admirably com posed those
verses which I have just recited 1
What — do you ask me, Carneades, why
these things take place in this
manner, or by what art it is
possible for them to be brought about
? I confess that I do not know
; but that they do happen, I
assert that you yourself are a
witness. Yes, they happen by chance,
you say. Is it so 1 Can
anything be done by chance which has
in itself all the features of reality
? Four dice when thrown may by
chance come up sixes. Do you think
that if you were to throw four
hundred dice it would be possible for
them all to come up sixes by
any chance in the world 1 Paints
scattered at random on a canvass
may by chance represent the features
of a human face ; but do you
think that you could by any chance
scat tering of colours represent the
beauty of the Coan Venus'?1 Suppose a
pig by burrowing in the ground with
his snout were to make the letter
A, would you on that account think
it possible that the animal should by
chance write out the Andromache of
Ennius 1 Carneades used to tell a
story that 1 This refers to the
celebrated picture of Venus Anadyomene,
painted by Apelles, who was a native
of Cos. ON DIVINATION. 155
in cutting stones in the stone-
quarries at Chios, there was once
discovered a natural head of a Pan.
I dare say there may have been
a figure not wholly unlike such a
head, but still certainly it was not
such that you could fancy it wrought
by Scopns.1 For this is the nature
of things, that chance can never
imitate reality to perfection. XIV.
But, you will say, things which have
been predicted sometimes fail to happen.
What act is not liable to this
observation 1 I mean of those acts
which proceed on con jecture, and are
founded on opinion. Is not medicine
to be considered a real art ?
And yet how often is it deceived
! Need I say more 1 Are not
pilots of ships often deceived ? Did
not the army of the Greeks, and
the captains of all that numerous
fleet, depart from Troy, as Pacuvius says
— So glad at their departure,
that they gazed In idle mirth upon
the wanton fish, And never ceased
from laughing at their gambols ;
Meanwhile at sunset the vast sea grows
rough, The darkness lowers, black night
and clouds surround them. Did, however,
the shipwreck of so many illustrious
generals and sovereigns prove that there
was no such art as naviga tion
? Or is the science of
generals good for nothing because a
most illustrious general was lately put
to flight, after the total loss of
his army 1 Or are we to
say that there is no room for
the display of sound principles of
politics, or wis dom in the
administration of affairs of state, because
Cnseus Ponipeius was often .deceived, and
even Cato and you your self have
been deceived in more instances than
one ? The same rule applies
to the answers of soothsayers, and to
all divination which rests on opinion
: for it depends wholly on
conjecture, and has no means of
advancing further. And that perhaps
sometimes deceives us, but still it
more fre quently directs us to the
truth. For it is traced back
to all eternity. And as in the
infinite duration of time, things have
happened in an almost countless number
of ways with the self-same indications
preceding each occurrence, an art has
1 Scopas was a Parian, nourishing
about 360 B.C. He was one of
the greatest architects and sculptors of
antiquity, and is mentioned as such
by Horace, who says: — Divite me
scilicet artium Quas aut Parrhasius
protulit aut Scopas, Hie saxo, liquidis
ille colorilius Solera nunc hominem nonere
mmr. TV « •• • 156 ON
DIVIXATION. been concocted and
reduced to rules from a frequent
obser vation and notice of the same
circumstances. XV. But your auspices,
how clear — how sure they are ! which
at this time are known nothing of
by the Roman augurs, (excuse me for
saying this so plainly,) though they
are main tained by the Cilicians, Pamphylians,
Pisidians, and Lycians. For why should
I mention that man connected with us
in ties of hospitality, that most
illustrious and excellent ^man, king
Deiotarus 1 He never does anything
whatever without taking the auspices. And
it happened once that he had started
on a journey which he had arranged
and determined some time before; but, being
warned by the flight of an eagle,
he returned back again, and the very
next night the house in which he
would have been lodging if he had
per sisted in his journey, fell to
the ground. And he was so moved
by this occurrence, that, as he
himself used to tell me, he often
turned back in the same way in
a journey, even when he had advanced
many days on it. And what
is most remarkable in his conduct
is, that after he had been deprived
by Csesar of his tetrarchy, his
kingdom, and his property, he still
asserted that he did not repent of
obeying those auspices which had promised
success to him when he was setting
out to join Pompey: for he considered
that the authority of the senate, and
the liberty of the Roman people, and
the dignity of the empire had been
upheld by his arms; and that those
birds had taken good care of his
honour and real interests, inasmuch as
they had been his counsellors in
adhering to the claims of good faith
and duty ; for that character was a
thing dearer to him than his
possessions. . And in saying this he
seems to me to form a very just
estimate. For our magis trates at
times use compulsion. For it is quite
impossible, if a cake is thrown down
before a chicken, but what some
crumbs must fall out of his mouth
when he feeds. And as you have
it set down in your books that
a tripudium takes place if any of
the food falls on the ground, so
you also call this compulsory augury
which I have spoken of tripudium
solistimum.1 And so, as that wise
Cato complains, owing to i
"Tripudium, from terripavium (see Cic
Div. ii 34), a stamping on the
ground In divination, tripudium, or
tripudium solistimum, when- the birds
(pulli) ate so greedily that the food
fell from their mouths, and so
rebounded on the ground, which was
regarded as a good omen." — Riddle
and Arnold, Lat. Diet. ON
DIVIXATIOX. 157 the negligence of the
college, many auguries and many auspices
have been wholly lost and abandoned.
XVI. Formerly there was, I may
almost say, no ariair of importance,
not even if it only related to
private business, which was transacted
\vithout taking the auspices. And this
is proved even now by the Auspices
Nuptiarum, who, though the custom has
fallen into disuse, still preserve the
name. For just as we now consult
the entrails of victims, though even
that very practice is observed less
now than it used to be, so in
ancient times, before all transactions of
importance, men used to consult birds ;
and, therefore, from want of paying
proper regard to ill omens, we often
run into alarming and destructive dangers :
— as Publius Claudius, the son of
Appius Csecus, and his colleague Lucius
Junius, lost a fine fleet, because
they had put to sea in defiance
of the omens. And, indeed, something
of the same kind befel Agamemnon; for
he, when the Grecians had begun
To murmur loudly, and with open
scorn T' asperse the skill of th'
holy soothsayers, Bade the crew bend
the sails and put to sea, Choosing
the people's voice before the omens.
But why need we look for old
examples of this 1 We have ourselves
seen what happened to Marcus Crassus,
because he neglected the notice which
was given to him that the omens
were unfavourable. On which occasion,
Appius, your col league, a good
augur, as I have often heard you
say, branded, when he was censor, an
excellent man and a most illustrious
citizen, Caius Ateius, without sufficient
consideration, because he had cooperated in
falsifying the auspices. However, let that
pass. It may have been the duty
of the censor to do so, if he
thought that the auspices were falsified.
But it certainly was not the duty
of an augur to set down in the
books that this was the cause of
a fearful calamity befalling the Roman
people. For even if that was the
cause of the calamity, still the
fault was not in the man who
announced the state of the auspices,
but in him who disregarded the
announcement. For that the announcement
wTas a correct one, as the same
augur and censor bears witness, was
proved by the event; for if the
announcement had been false, it could
not possibly have caused any calamity
at all. In truth, 158 ON
DIVINATION. prognostics of calamity,
like other auspices, and omens, and
tokens, do not produce causes why
anything should happen, but merely give
notice of what will happen unless you
pro vide against it. It was not,
therefore, the announcement of unfavourable
omens, made by Ateius, which was the
cause of calamity; all that he did
was, by declaring to him what signs
had been seen, to warn him what
would happen if he did not take
precautions against it. Accordingly, either
that announcement had no effect at
all, or else if, as Appius thinks,
it had an effect, the effect was
this, that guilt was attached, not to
the man who gave the warning, but
to him who did not attend to
it. XVII. What shall I say more
1 From whence have you received that
staff (lituus) of yours, which is the
most cele brated ensign of your
augurship ? That is the staff with
which Komulus parted out the several
districts, when he founded the city.
And that staff of Romulus, (that is
to say, a stick curved and slightly
bent forward at the top, which has
derived its name from its resemblance
to the trumpet (lituus) used in
sounding signals,) having been laid up
in the meeting-house of the Salii,
which was in the Pala tine-hill, when
that house was burnt to the ground,
was found unhurt. What more need I
say 1 Who of the ancient authors
is there who does not relate what
an arrangement of the districts of
the city was made, many years after
the time of Romulus, in the reign
of Tarqninius Priscus, by Attius Xavius,
who employed his staff in this manner
? And it is said that he, when
a boy, was forced through poverty to
act as a swineherd; and one day,
having lost one of his pigs, he
made a vow that if he recovered
it, he would give the god the
finest grape which there was in the
whole vineyard. Accordingly, when he had
found the pig, he placed himself in
the middle of the vineyard, with his
eyes directed towards the south; and
after he had divided the vineyard
into four divisions, and had been
directed by the birds to disregard three
of the portions, in the fourth
division, which remained, he found a
grape of most wonderful size, as we
find recorded in our books. And when
this fact became known, all the
neighbours used to consult him on all
their affairs, until he. gained a
great name and reputation ; in consequence
of which kin<r Priscus sent for
him. ON DIVINATION. 159 And
when he had come to the king,
he, wishing to make proof of his
skill in augury, told him that he
was thinking of something, and asked
him whether it could possibly be
done. He, having taken an auguiy,
answered that it could. But Tarquin
said that he had been thinking that
it was possible that a whetstone
might be cut through by a razor.
On this Attius bade him try ; and
accordingly a whetstone was brought into
the assembly, and, in the sight of
king and people, cut through with a
razor. And in consequence of this, it
happened that Tarquinius always consulted
Attius Navius as an augur, and that
the people also were used to refer
their private affairs to him. And we
are told that that whetstone and that
razor were buried in the comitium,
and that the puteal was built over
it. Let us deny everything; let
us burn our annals; let us say
that all these statements are false ;
let us, in short, confess everything
rather than that the Gods regard the
affairs of mankind. What 1 do not
even your writings about Tiberius Gracchus
sanction the theories df augurs ami
haruspices 1 For when he had
unintentionally erected a tent to take
the auspices informally, because he had
crossed the pomcerium without taking the
auspices, he held there the comitia
for the election of the consuls. (The
matter is one of notoriety, and
committed to writing by you yourself.)
However, Tiberius Gracchus, who was himself
an augur, ratified the authority of
the auspices by a confession of his
error, and added great authority to
the sj'steui of the harus pices ;
who, having at the recent comitia
been introduced into the senate, asserted
that the person who proposed the
candi dates to the comitia had no
right to do so. XVIII. I
therefore agree with those authors who
have asserted that there are two
kinds of divination; one par taking
of art, and the other wholly devoid
of it. For art is visible in
those persons who pursue anything new
by conjec ture, and have learnt to
judge of what is old by observation.
But those men, on the other hand,
are devoid of art, who give way
to presentiments of future events, not
proceeding by reason or conjecture, nor
on the observation and considera tion
of particular signs, but yielding to
some excitement of mind, or to some
unknown influence subject to no precise
rules or restraint, (as is often the
case with men who dream, 1GO
ON DIVINATIOy. and sometimes with
those who deliver predictions in n
frenzied manner,) as Bacis' of Boeotia,
Epimenides2 the Cretan, and the Erythrean
Sib}'!. And under this head we ought
also to rank oracles; not those which
are drawn by lot, but those which
are uttered under the influence of
some divine instinct and inspiration.
Although even lots are not to be
despised where they are sanctioned by
the authority of antiquity, like those
which we are told used to rise
out of the earth ; which, however,
are drawn in such a manner as
to be apposite to the subject under
consideration, which, indeed, is a thing
that I conceive to be very possible
by divine management. The interpreters of
all of which appear to me to
come very near to the divining power
of those whose interpreters they are
(just as those grammarians do who are
the interpreters of poets). What proof of
sagacity is it, then, to wish to
disparage things sanctioned by antiquity,
by vile calumnies ? I admit that
I cannot discover the cause. Perhaps
it lies hid, involved in the
obscurity of nature. For God has not
int nded me to understand these
matters, but only to use them. I
will use them, then ; nor will I
be persuaded to think, either that
all Etruria is mad on the subject
of the entrails of victims, or that
the same nation is all wrong about
lightnings, or that it interprets prodigies
fallaciously, when it has often happened
that sub terranean noises and crashes,
often that earthquakes, have predicted,
with terrible truth, many of the
evils which have befallen our own
republic and other states. Why should
I say more ? The fact of a
mule having brought forth is much
ridiculed by some people ; but because
this parturition did take place in
the case of an animal of natural
barrenness, was there not an incredible
crop of evils predicted by the soothsayers
1 Need I go further 1 Did not
Tiberius Gracchus, the. son of Publius
Gracchus, who had been twice consul
and censor, and who was also an
augur of the 1 Bacis was
believed to have lived and prophesied
at Heleon, in Bceotia, being inspired
by the nymphs of the Corycian cave.
Some of hjs prophecies are
given us by Herodotus, viii. 20, 77;
ix. 43. (See also Aristophanes, Eq.
123; Pax, 1009.) 2 Epimenides was
a poet and prophet of Crete, who
lived about 590 B. c. He
was sent for by the Athenians to
purify Athens when it • was visited
by a plague, in consequence of the
sacrilege of Cylon. He is said to
have lived to a great age. ON
DIVINATION. 161 highest skill and
reputation, and a wise man, and a
most virtuous citizen, — did not he (as Caius
Gracchus, his son, has left recorded
in his writings), when two snakes
were caught in his house, convoke the
soothsayers ? And the answer which
they gave him was, that if he
let the male escape, his wife would die
in a short time ; but if he let
the female escape, he would die
himself: on which he thought it more
becoming to encounter an early death
himself, than to expose the youthful
daughter of Publius Africanus to it.
Accordingly, he released the female snake,
and died himself a few days
afterwards. XIX. Let us, after this,
laugh at the soothsayers; let us call
them useless and triflers, and despise
those men whose principles the wisest men,
and subsequent events and occur rences,
have often proved. Let us despise
also the Baby lonians, and those who
on mount Caucasus observe the stars
of heaven, and follow all their
revolutions in regular number and motion.
Let us, say I, condemn all those
people for folly, or vanity, or
impudence, who, as they themselves assert,
have exact records for four hundred
and seventy thousand years carefully noted
down, and let us decide that they
are telling lies, and have no regard
as to what the judgment of future
ages concerning them will be. Come,
then, you vain and deceitful barbarians,
has the history of the Greeks
likewise spoken falsely? Who is ignorant
of the answer (that I may speak
at present of natural divination) which
the Pythian Apollo gave to Croesus,
to the Athenians, the Lacedaemonians, the
Tegeans, the Argives, and the Corinthians
? Chrysippus has collected a countless
list of oracles — not one without a
witness and authority of sufficient weight;
but as they are known to you, I
will pass them over. This one I
will mention and defend. Would that
oracle at Delphi have ever been so
celebrated and illustrious, and so loaded
with such splendid gifts from all nations
and kings, if all ages had not
had experience of the truth of its
predic tions 1 At present, you will
say, it has no such reputation.
Granted, then, that it has a lower
reputation now, because the truth of oracles
is less notorious ; still I affirm
that it would not have had such
a reputation then, if it had not
been distinguished for extraordinary accuracy.
But it is possible that that power
in the earth, which excited the mind
of the Pythian priestess by divine
inspiration, may have DE NAT. ETC.
M IQ2 ON DIVINATION.
disappeared through old age, just as
we know that some rivers have dried
up, or become changed and diverted
into another channel. However, let it
be owing to whatever you please ; for
it is a great question : only let
this fact remain —which cannot be
denied, unless we will overthrow all
his tory—that that oracle told the
truth for many ages. XX. However,
let us pass over the oracles ; let
us come to dreams. And Chrysippus
discussing them, after collecting many
minute instances, does the same that
Antipater does when he investigates this
subject, and those dreams which were
explained according to the interpretation
of Antipho, which indeed prove the
acuteness of the interpreter, but still
are not examples of such importance
as to have been worthy of being
brought forward. The mother of Dionysius—
of that Dionysius, I mean, who was
the tyrant of Syracuse, as it is
recorded by Philistus, a man of
learning and diligence, and who was a
contem porary of the tyrant— when she
was pregnant with this very Dionysius,
dreamt that she had become the mother
of a little Satyr. The interpreters
of prodigies, who at that time were
in Sicily called Galeotse, gave her
for answer when she con sulted them
about it, (according to the story
told by Philistus,) that the child
whom she was about to bring forth
would be the most illustrious man of
Greece, with very lasting good fortune.
Am I recalling you to the fables
of the Greek poets and those of
our country ? For the Vestal Virgin,
in Ennius, says — The agitated dame
with trembling limbs Brings in a
lamp, and with unbridled tears,
Starting from broken sleep, pours
forth these words :— • 0 daughter
of the fair Eurydice, You whom
rny father loved, see strength and
life Desert my limbs, and leave me
helpless all. 1 thought I saw a
man of handsome form Seize me,
and bear me through the willow
groves, Along the river banks and
places yet unknown. And then alone, — T
tell you true, my sister, — I seem'd
to wander, and with tardy steps To
seek to trace you, but my efforts
fail'd ; While no clear path did guide
my doubtful feet. And then, I
thought, my father thus address'd me,
With evil-boding voice : — Alas ! my
daughter, What numerous woes by you
must be endured ; Though fortune
shall in after times arise OX
DIVINATION. 163 From out of the
waters of this river here. Thus,
sister, spake my father, and then
vanish'd • 2STor, though much wish'd
for, did he once return! In vain,
with many tears, I raised my hands
Up to the azure vault of the
highest heaven, And with caressing voice
invoked his name, Or seem'd to do
so. And 'twas long ere sleep,
Freighted with such sad dreams, did
quit my breast. XXI. Now these
accounts, though they perhaps may be
the mere inventions of the poets,
still are not inconsistent with the
general character of dreams. We
may grant that that is a fictitious
one by which Priam is represented to
have been disturbed : — Queen Hecuba
dream'd — an ominous dream of fate- That
she did bear no human child of
flesh, But a fierce blazing torch.
Priam, alarm'd, Ponder'd with anxious
fear the fatal dream ; And sought
the gods with smoking sacrifice. Then
the diviner's aid he did entreat,
With many a prayer to the prophetic
god, If haply he might learn the
dream's intent. Thus spake Apollo with
all-knowing mind :— " The queen
shall have a son, who, if he
grow To man's estate, shall set ajl
Troy in flames— The ruin of his
city and his land." Let us
grant, then, that these dreams are,
as I have said, merely poetic
fictions, and let us add the dream
of ^Eneas, which Numerius Fabius Pictor
relates in his Annals, as one of
the same kind; in which ^Eneas is
represented as foreseeing, in his trance,
all his future exploits and adventures.
XXII. But let us come nearer
home. What kind of dream was that
of Tarquin the Proud, which the poet
Accius, m his Tragedy of Brutus, puts
into the mouth of Tarquin himself? —
Sleep closed my weary eyelids, when
a shepherd Brought me two rams.
The one 1 sacrificed ; The other
rushing at me with wild force Hurl'd
me upon the ground. Prostrate
I gazed Upon the heavens, when a new
prodigy Dazzled my eyes. The
flashing orb of day Took a new
course, diverging to the right, With
all his kindling beams strangely
transversed. Of this dream the
diviners gave the following interpretation
Dreams are in general reflex images
Of things that men in waking hours
have known ; But sometimes dreams of loftier
character M2 164 ON DIVINATION.
Rise in the tranced soul, inspired
by Jove, Prophetic of the future.
Then beware Of him, whom
thou dost think as stupid as
The ram thou dreamest of.
For in his breast Dwells
manliest wisdom. He may yet
expel Thee from thy kingdom.
Mark the prophecy : That change
in the sun's course thou didst
behold, Betoken'd revolution in the
state, And as the sun did turn
from left to right, we predict
So shall that revolution meet
success. XXIII. Let us again return
to foreign events. Heraclides of Pontus,
an intelligent man, who was one of
Plato's disciples and followers, writes
that the mother of Phalaris fancied
that she saw in a drearn the
statues of the gods whom Phalaris had
consecrated in his house. Among them it
appeared to her that Mercury held a
cup in his right hand, from which
he poured blood, which as soon as
it touched the earth gushed forth
like a fresh fountain, and filled the
house with streaming gore. The dream
of the mother was too fatally
realized by the cruelty of the son.
Why need I also relate, out of
the history of Persia by Dinon, the
interpretations which the Magi gave to
the cele brated prince, Cyrus? For he
dreamed that beholding the sun at his
feet, he thrice endeavoured to grasp
it in his hands, but the sun
rolled away and departed, and escaped
from him. The Magi (who were
accounted sages and teachers in Persia)
thus interpreted the dream, saying, that
the three attempts of Cyrus to catch
the sun in his hands, signified that
he would reign thirty years ; and
what they predicted really came to pass
; for he was forty years old
when he began to reign, and he
reached the age of seventy. Among all
barbarous nations, indeed, we meet with
proof that they likewise possess the
gift of divination and presentiment. The
Indian Calanus, when led to execution,
said, while ascending the funeral pile,
" 0 what a glorious departure
from life ! when, as happened to
Hercules , after niy body has been
consumed by fire, my soul shall
depart to a world of light." And
when Alexander asked him if he had
anything to say to him ; "
Yes," replied he, ".we shall soon
meet again ;" and this prophecy
was soon fulfilled, for a few days
afterwards Alexander died in Babylon.'
I will quit the subject of
dreams for awhile, and return to them
presently. On the very night that
Olympias was ON DIVINATION. 165
delivered of Alexander, the temple of
Diana of the Ephesiaus was burned ;
and when the morning dawned, the Magi
declared that the ruin and destroyer
of Asia had been born that night.
So much for the Magi and the
Indians. Now let us return to dreams.
XXIV. Ccelius relates that Hannibal,
wishing to remove a golden column
from the temple of Juno Lacinia, and
not knowing whether it was solid gold
or merely gilt, bored a hole in it
; and as he had found it solid,
he determined to take it away. But
the following night Juno appeai-ed to him
in a dream, and warned him against
doing so, and threatened him that if
he did, she would take care that
he should lose an eye with which
he could see well. He was too
prudent a man to neglect this threat
; and therefore, of the gold which
had been abstracted from the column
in boring it, he made a little heifer,
which he fixed on the capital.
And the same story is told in
the Grecian history of Silenus, whom
Ccelius follows. And he was an author
who was particularly diligent in relating
the exploits of Hannibal. He says
that when Hannibal had taken Saguntum,
he dreamed in his sleep that he
was summoned to a council of the
gods, and that when he arrived at
it, Jupiter commanded him to carry
the war into Italy, and one of
the deities in council was appointed
to be his conductor in the
enterprise. He therefore began his march
under the direction of this divine
protector, who enjoined him not to
look behind him . Hannibal, however,
could not long keep in his obedience,
but yielded to a great desire to
look back, when he immediately beheld
a huge and terrible monster, surrounded
with ser pents, which, wherever it
advanced, destroyed all the trees, and
shrubs, and buildings. He then, marvelling
at this, inquired of the god what
this monster might mean ; and the
god replied, that it signified the
desolation of Italy ; and com manded
him to advance without delay, and not
to concern himself with the evils
that lay behind him and in his
rear. In the history of Agathocles
it is said, that Hamilcar the
Carthaginian, when he was besieging
Syracuse, dreamed that he heard a
voice announcing to him, that he -should
sup on the succeeding day in
Syracuse. When the morning dawned a
great sedition arose in his camp
between the Carthaginian and Sicilian
soldiers. And when the Syracusans found
this 166 ON DIVINATION. out,
they made a vigorous sally and
attacked the camp un expectedly, and
succeeded in making Hamilcar prisoner while
alive, and thus his dream was
verified. All history is full of
similar accounts; and the experience of real
life is equally rich in them.
That illustrious man, Publius Decius,
the son of Quintus Decius, the first
of the Decii who was a consul,
being a military tribune in the
consulship of Marcus Valerius and Aulus
Cornelius, when our army was sorely
pressed by the Samnites, and being
accustomed to expose himself to great
personal danger in battle, was warned
to take greater care of himself; on
which he replied (as our annals report),
that he had had a dream, which
informed him that he should die with
the greatest glory, while engaged in
the midst of the enemy. For that
time he succeeded in happily rescuing
our army from the perils that surrounded
it. But three years after, when he
was consul, he devoted himself to
death for his country, and threw
himself armed among the ranks of the
Latins; by which gallant action the
Latins were defeated and destroyed : and
his death was so glorious that his
son desired a similar fate. XXV.
But let us now come, if you
please, to the dreams of philosophers.
We i-ead in Plato that Socrates, when
he was in the public prison at
Athens, said to his friend Crito that
he should die in three days, for
that he had seen in a dream a
woman of extreme beauty who called
him by his name, and quoted in
his presence this verse of Homer —
On the third day you'll reach
the fruitful Phthia." 1 And it
is said that it happened just as
it had been foretold. Again, what
a man, and how great a man, is
Xenophon the pupil of Socrates ! He,
too, in his account of that war
in which he accompanied the younger
Cyrus, relates the dreams which he
saw, the accomplishment of which was
marvellous. Shall we then say that
Xenophon was a liar or dotard ?
What shall we say, too, of Aristotle,
a man of singular and almost divine
genius? Was he deceived himself, or
does he wish others to be deceived,
when he informs us that Eudemus of
Cyprus, his own intimate friend, on
his way to Macedonia, came to Pherae,
a celebrated city of Thessaly, 1
Horn. II. ix. 363 :— "Hfjari
Kfv rpirdrca $0ii)v tpi$ta\ov IKO(U.TIV.
ON DIVINATION. 167 which was
then under the cruel sway of the
tyrant Alexander. In that town he was
seized with a severe illness, so that
he was given over by all the
physicians, when he beheld in a dream
a young man of extreme beauty, who
informed him that in a short time
he should recover, and also the
tyrant Alexander would die in a few
days; and that Eudemus himself would,
after five years' absence, at length
return home. Aristotle relates that the
first two predictions of this dream
were immediately accomplished ; for Eudemus
speedily recovered, and the tyrant perished
at the hands of his wife's brother
; and that towards the end of
the fifth year, when, in consequence
of that dream, there was a hope
that he would return into Cyprus from
Sicily, they heard that he had been
slain in a battle near Syracuse ;
from which it appeared that his dream
was susceptible of being interpreted as
meaning, that when the soul of
Eudemus had quitted his body, it
would then appear to have signified
the return home. To the philosophers
we may add the testimony of Scpho-
cles, a most learned man, and as
a poet quite divine, who, when a
golden goblet of great weight had
been stolen from the temple of
Hercules, saw in a dream the god
himself appearing to him, and declaring
who was the robber. Sopho cles paid
no attention to this vision, though
it was repeated more than once. When
it had presented itself to him
several times, he proceeded up to the
court of Areopagus, and laid the
matter before them. On this, the
judges issued an order for the arrest
of the offender nominated by Sophocles.
On the application of the torture the
criminal confessed his guilt, and restored
the goblet ; from which event this
temple of Hercules was afterwards called
the temple of Hercules the Indicate .
XXVI. But why do I continue to
cite the Greeks? when, somehow or
other, I feel more interest in the
examples of my ellow-countrymen. All our
historians, — the Fabii, the Gellii, and, more
recently, Ccelius, bear witness to similar
facts. In the Latin war, when they
first celebrated the votive games in
honour of the gods, the city was
suddenly roused to arms, and the
games being thus interrupted, it was
necessary to appoint new ones. Before
their commencement, however, just as the
people had taken their places in the
circus, a slave who had been beaten
with rods was led through the circus,
168 OX DIVINATION. bearing a
gibbet. After this event, a certain
Roman rustic had a dream, in which
an apparition informed him that he
had been displeased with the president
of the games, and the rustic was
ordered to apprise the senate of that
fact. He, however, did not dare to
do so; on which the apparition
appeared a second time, and warned
him not to provoke him to exert
his power. Even then he could not
summon courage to obey, and presently
his son died. After this, the same
admonition was repeated in his dreams
for the third time. Then the peasant
himself became extremely ill, and related
the cause of his trouble to his
friends, by whose advice he was
carried on a litter to the senate-house
; and as soon as he had related
his dreams to the senate, he
recovered his health and strength, and
returned home on foot perfectly cured.
Thereupon, the truth of his dreams
being admitted by the senate, it is
related that these games were repeated
a second time. It is recorded
in the history of the same Crelius,
that Caius Gracchus informed many persons
that during the time that he was
soliciting the qusestorship, his brother
Tiberius Gracchus appeared to him in
a dream, and said to him, that
he might delay as much as he
pleased, but that nevertheless he was
fated to die by the same death
which he himself had suffered. Coclius
asserts that he heard this fact, and
related it to many persons, before
Caius Gracchus had become tribune of
the people. And what can be more
certain than such a dream as this
1 XXVII. Who, again, can despise
those two dreams, which are so
frequently dwelt upon by the Stoics? — one
concerning Simonides, who, having found the
dead body of a man who was a
stranger to him lying in the road,
buried it. Having performed this office,
he was about to embark in a
ship, when the man whom he had
buried appeared to him in a dream
at night, and warned him not to
undertake the voyage, for that if he
did he would perish by shipwreck.
Therefore, he returned home again, but
all the other people who sailed in
that vessel were lost. The other
dream, which is a very celebrated
one, is related in the following
manner : — Two Arcadians, who were in
timate friends, were travelling together,
and arriving at Megara, one of them
took up his quarters at an inn,
the ON DIVINATIOX. 169 other
at a friend's house. After supper,
when they had both gone to bed,
the Arcadian, who was staying at his
friend's house, saw an apparition of
his fellow-traveller at the inn, who
prayed him to come to his assistance
immediately, as the innkeeper was going
to murder him. Alarmed at this intimation,
he started from his sleep; but on
recollection, thinking it nothing but an
idle dream, he lay down again.
Presently, the apparition appeared to him
again in his sleep, and entreated
him, though he would not come to
his as sistance while yet alive, at
least not to leave his death
unavenged. He told him further, that
the innkeeper had first murdered him,
and then cast him into a dungcart,
where he lay covered with filth ; and
begged him to go early to the
gate of the town, before any cart
could leave the town. Much excited by
this second vision, he went early
next morning to the gate of the
town, and met with the driver of the
cart, and asked him what he had
in his waggon. The driver, upon this
question, ran away in a fright. The
dead body was then discovered, and
the innkeeper, the evidence being clear
against him, was brought to punishment.
XXVIII. What can be more akin
to divination than such a dream as
this ? But why do I relate
any more ancient instances of similar
things, when such dreams have occurred
to ourselves? for I have often told
you mine, and I have as often
heard you talk of yours. When I
was proconsul in Asia, it appeared to
me as I slept, that I saw you
riding on horseback till you reached
the banks of a great river, and
that you were suddenly thrown off and
precipitated into the waters, and so
disappeared. At this I trembled exceedingly,
being overcome with fear and apprehension.
But suddenly you reappeared before me
with a joyful countenance, and, with
the same horse, ascended the opposite
bank, and then we embraced each
other. It is easy to conjecture the
signification of such a dream as this
; and hence the learned inten
<reters of Asia predicted to me
that those events would take place
which afterwards did come to pass.
I now come to your own dream,
which I have sometimes heard from
yourself, but more often from our
friend Sallust. He used to say, that
in that flight and exile of yours,
which was 170 ON DIVINATION.
so glorious for you, so calamitous
for our country, you stayed awhile in
a certain villa of the territory of
Atina, when, having sat up a great
part of the night, you fell into
a deep and heavy slumber towards the
morning. And from this slumber your
attendants would not awake you, as
you had given orders that you were
not to be disturbed, though your
journey was sufficiently urgent. When
at length you awoke about the second
hour of the day, you related to
Sallust the following dream : — That it
had seemed to you that, as you
were wandering sorrowfully through some
solitary district, Caius Marius appeared to
you with his fasces covered with
laurel, and that he asked you why
you were afflicted. And when you
informed him that you had been driven
from your country by the violence of
the disaffected, he seized your right
hand, and urged you to be of
good cheer, and ordered the lictor
nearest to him to lead you to
his monument, saying, that there you
should find security. Sallust told me,
that upon hearing this dream, he
himself exclaimed at once that your
return would be speedy and glorious;
and that you also appeared to be de
lighted with your dream. A short time
afterwards I was informed, as you
well know, that it was in the
monument of Marius that, on the
instance of that excellent and famous
consul Lentulus, that most honourable decree
of the senate was passed for your
recal, which was applauded with shouts
of incredible exultation in a very
full assembly; so that, as you
yourself observed, no dream could have
a higher character of divination than this
which occurred to you at Atina.
XXIX. But you will say that
there are likewise many false dreams.
No doubt there are some which are
perhaps obscure to us ; but, even
allow that there are some which are
actually false, what argument is that
against those which are true ? — of
which, indeed, there would be a great
many more if we went to bed in
perfect health ; but as it is, from
our being over charged with wine and
luxuries, all our perceptions become
troubled and confused. Consider what
Socrates, in the Republic of Plato,
says on this subject. "
When," says he, " that part
of the soul which is capable of
intelligence and reason is subdued and
reduced to languor, then that part in
which there is a species of ferocity
and OX DIVINATION. 171 uncivilized
savageness being excited by immoderate
eating and drinking, exults in our
sleep and wantons about unre strainedly ;
and therefore all kinds of visions
present them selves to it, such as
are destitute of all sense or reason,
in which we appear to be giving
ourselves up to incest and all kinds
of bestiality, or to be committing
bloody murders, and massacres, and all
kinds of execrable deeds, with a
triumphant defiance of all prudence and
decency. But in the case of a
man who is accustomed to a sober
and regular life, when he commits
himself to sleep, then that part of
his soul which is the seat of
intellect and reason is still active
and awake, being replenished with a
banquet of virtuous thoughts ; and that
portion which is nourished by pleasure,
is neither destroyed by exhaustion nor
swollen by satiety, either of which
is accustomed to impair the vigour of
the soul, whether nature is deficient
in anything, or super abundant or
overstocked; and that third division also,
ill which the vehemence of anger is
situated, is lulled and restrained; so,
consequently, it happens, that owing to
the due regulation of the two more
violent portions of the soul, the
third, or intellectual part, shines forth
conspicuously, and is fresh and active
for the admission of dreams; and
therefore the visions of sleep which
present themselves before it are tranquil
and true." XXX. Such are the
very words of Plato. Shall we, then,
prefer listening to the doctrine of
Epicurus on this point ? As for
Carneades, he sometimes says one thing
and sometimes another, from his mere
fondness for discussion. And yet, what
are the sentiments which he utters ?
At all events, they are never
expressed either with elegance or
propriety. And will you prefer such a
man as this to Plato and Socrates
1 men who, even if they were to
give no reason for their tenets,
should, by the mere authority of
their names, outweigh these minute
philosophers. Plato then asserts that
we should bring our bodies into such
a disposition before we go to sleep
as to leave nothing which may occasion
error or perturbation in our dreams.
For this reason, perhaps, Pythagoras laid
it down as a rule, that his
disciples should not eat beans, because
this food is very flatulent, and
contrary to that tranquillity of mind
which a truth-seeking spirit should
possess. 172 ON DIVINATION.
When, therefore, the mind is thus
separated from the society and contagion
of the body, it recollects things
past, examines things present, and anticipates
things to come. For the body of
one who is asleep lies like that
of one who is dead, -while the
spirit is full of vitality and
vigour. And it will be yet more
so after death, when it will have
got rid of the body altogether; and
therefore we _ see that even on the
approach of death it becomes much
more divine. For it often happens
that those who are attacked by a
severe and mortal malady, foresee that
their death is at hand. And in
this state they often behold ghosts
and phantoms of the dead. Then they
are more than ever anxious about
their reputations; and they who have
lived otherwise than as they ought,
then most especially repent of their
sins. And that the dying are
often possessed of the gift of divi
nation, Posidonius confirms by that notorious
example of a certain Rhodian who,
being on his death-bed, named six of
his contemporaries, saying which of them
would die first, which second, which,
next to him, and so on. There
are, he imagines, besides this, three
ways in which men dream under the
immediate impulse of the Gods : one,
when the mind intuitively perceives things
by the relation which it bears to
the Gods ; the second, arising from
the fact of the air being full
of immortal spirits, in whom all the
signs of truth are, as it were,
stamped and visible ; the third, when
the Gods themselves converse with sleepers, —
and that, as I have said before,
takes place more especially at the
approach of death, enabling the minds
of the dying to anti cipate future
events. An instance of this is the
prediction of Calanus, of whom I have
already spoken. Another is that of
Hector, in Homer, who, when dying
himself, foretels the approaching death of
Achilles. XXXI. If there were no
such thing as divination, Plautus would
not have been so much applauded for
the following line : — My mind
presaged (prcesagibat), when I first went
out, That I was going on a
fruitless journey : — for the verb
sagio means, to feel shrewdly. Hence
old women are sometimes called sagce
(witches), because they are ambi tious
of knowing many things ; and dogs are
called sagacioiis. Whoever, therefore, say
it (knows) before the event has come
ON DIVINATION. 173 to pass,
is said prcesagire (to have the power
of knowing the future beforehand).
There exists, therefore, in the mind
a presentiment, which strikes the soul
from without, and which is enclosed
in the soul by divine operation. If
this becomes very vivid, it is termed
frenzy, as happens when the soul,
being abstracted from the body, is
stirred up by a divine inspiration. •
What sudden transport fires my virgin soul
! Jly mother, oh, my mother ! —
dearest name Of all dear names !
But oh, my breast is full
Of divination and impending fates, While
dread Apollo with his mighty impulse
Urges me onward. Sisters, my
sweet sisters ! I grieve to
anticipate the coming fate Of our
most royal parents. You are
all More filial and more dutiful than
I. I only am enjoin'd this cruel
task, To utter imminent ruin.
You do serve them ; I injure
them ; and your obedience Shines well,
set-off by my disloyal rage.1 0
what a tender, moral, and
delicate poem ! though the beauty
of it does not affect the question.
What I wish to prove is,
that that frenzy often predicts what
is true and real. I see the
blazing torch of Troy's last doom,
Fire, and massacre, and death. Arm,
citizens ! Bring aid and quench the
flames. In the following lines, it
is not so much Cassandra who speaks,
as the Deity enclosed in human form :
— Already is the fleet prepared
to sail ; It bears destruction — rapidly it
speeds : A dreadful army traverses the
shores, Destined to slaughter. 1 seem
to be doing nothing but
quoting tragedies and fables. XXXII.
I would mention a story I have
heard from your self, and that not an
imaginary, but a real circumstance, and
closely related to our present discussion.
Caius Coponius, a skilful general, and
a man of the highest character for
learn ing and wisdom, who commanded
the fleet of the Rhodians, with the
appointment of praetor, came to you
at Dyrrha- chium, and informed, you
that a certain sailor in a Khodiau
galley had predicted that, in less
than a month, Greece would 1
This is a quotation from Pacuvius's play
of Hercules ; the speaker is Cassandra.
174 ON DIVINATION. be deluged
with blood, that Dyrrhachium would be
pillaged, and that the people would
flee and take to their ships ; that,
looking back in their flight, they
would see a terrible con flagration.
He added, moreover, that the fleet of
the lihodians would soon return, and
retire to Rhodes. You told me that
you yourself were surprised at this
intelligence, and that Marcus Varro and
Marcus Cato, both men of great
learning, who were with you, were
exceedingly alarmed. A few days afterwards,
Labienus, having escaped from the battle
of Phar- salia, arrived and brought
an account of the defeat of the army
: and the rest of the prediction
was soon accomplished ; for the corn
was dragged out of the granaries, and
strewed about all the streets and
alleys, and destroyed. Yoxi all embarked
on board the ships in haste and
alarm; and at night, when you looked
back towai-ds the town, you beheld
the barges on fire, which were burned
by the soldiers because they would
not follow. At last you were deserted
by the fleet of the Rhodians, and
then you found that the prophet had
been a true one. I have
explained as concisely as possible the
fore warnings of dreams and frenzy,
with which I said that art had
nothing to do ; for both these kinds
of prediction arise from the same
cause, which our friend Cratippus adopts
as the true explana tion — namely,
that the souls of men are partly
inspired and agitated from without. By
which he meant to say, that there
is in the exterior world a sort
of divine soul, whence the human soul
is derived ; and that that portion of
the human soul which is the fountain
of sensation, motion, and appetite, is
not separate from the action of the body
; but that portion which partakes of
reason and intelligence is then most
ener getic, when it is most
completely abstracted from the body.
Therefore, after having recounted veritable
instances of presentiments and dreams, Cratippus
used to sum up his conclusions in
this manner :-— " If," he would say,
"the exist ence of the eyes is
necessary to the existence and operation
of the function of sight, though the
eyes may not be always exercising
that function, still he who has once
made use of his eyes so as to
see correctly, is possessed of eyes
capable of the sensation of correct sight
: just so if the function and
gift of divination cannot exist without
the exercise of divination, and yet a
man who has this gift may sometimes
err in its ON DIVI.VATION. 175
exercise, and not foresee correctly ;
then it is sufficient to prove the
existence of divination, that some event
should have been once so correctly
divined that none of its circum
stances appear to have happened
fortuitously. And as a multitude of
such events have occurred, the existence
of divination ought not to be doubted.
XXXIII. But as to those divinations
which are explained by conjecture, or
by the observation of events; these,
as I have said before, are not
of the natural, but artificial order ;
in which artificial class are the
haruspices, and augurs, and interpreters.
These are discredited by the Peripatetics,
and defended by the Stoics. Some of
them are established by certain monuments
and systems, as is evident from the
ritual books of the ancient Etruscans
respecting electrical interpre tation of
the omens conveyed by the entrails of
victims and by lightning, and by our
own books on the discipline of the
augurs Other divinations are explained at
once by con jecture, without reference
to any written authorities; such as
the prophecy of Calchas in Homer,
who, by a certain num ber of
flying sparrows, predicted the number of
years which would be occupied in the
siege of Troy; and as an event
which we read recorded in the history
of Sylla, which hap pened under your
own eyes. For when Sylla was in
the territory of Nola, and was
sacrificing in front of his tent, a
serpent suddenly glided out from beneath
the altar; and when, upon this, the
soothsayer Posthumius exhorted him to give
orders for the immediate march of the
army, Sylla obeyed the injunction, and
entirely defeated the Samnites, who lay before
Nola, and took possession of their
richly- provided camp. It was by
this kind of conjectural divination that
the fortune of the tyrant Dionysius
was announced a little before the
commencement of his reign ; for when
he was travelling through the territory
of Leontini, he dismounted and drove
his horse into a river ; but the
horse was carried away by the
current, and Dionysius, not being able
with all his efforts to extricate
him, departed, as Philistus reports,
lamenting his loss. Some time afterwards,
as he was journeying further down the
river, he suddenly heard a neighing,
and to his great joy found his
horse in very comfortable condition, with
a swarm of bees hanging on his
mane. And this prodigy 176 OX
DIVINATION. intimated the event which
took place a few days after this,
when Dionysius was called to the
throne. XXXIV. Need I say more 1
Ho\v many intimations were given
to the Lacedaemonians a short time
before the disaster of Leuctra, when
arms rattled in the temple of
Hercules, and his statue streamed with
profuse sweat ! At the same
time, at Thebes (as Callisthenes relates),
the folding-doors in the temple of
Hercules, which were closed with bars,
opened of their own accord, and the
armour which was suspended on the
walls was found fallen to the ground.
And at the same period, at
Lebadia, where divine rites were being
performed in honour of Trophonius, all
the cocks in the neighbourhood began
to crow so incessantly as never to
leave off at all ; and the Boeotian
augurs affirmed that this was a sign
of victory to the Thebans. because
these birds crow only on occasions of
victory, and maintain silence in case
of defeat. Many other signs, at
this time, announced to the Spartans
the calamities of the battle of
Leuctra; for, at Delphi, on the head
of the statue of Lysander, who was the
most famous of the Lacedaemonians, there
suddenly appeared a garland of wild
prickly herbs. And the golden stars
which the Lacedae monians had set up
as symbols of Castor and Pollux, in
the temple of Delphi, after the
famous naval victory of Lysander, in
which the power of Athens was broken,
because those divinities were reported to
have appeared in the Lacedaj- monian
fleet during that engagement, fell down,
and were seen no more. And the
greatest of all the prodigies which
were sent as warnings to those same
Lacedaemonians, happened when they sent to
consult the oracle of Jupiter at
Dodona on the success of the combat;
and when the ambassadors had cast
their questions into the urn from
which the responses were to be drawn,
an ape, whom the king of Molossus kept
as a pet, dis turbed and confounded
all the lots, and everything else
which had been prepared for the
purpose of giving a reply in due
form. Upon which the priestess who
presided at the oracular rites, declared
that the Lacedaemonians must rather look
to their safety than expect a
victory. XXXV. Must I say more
1 In the second Punic war,
when Flaminius, being consul for the
second time, despised the signs of
future events, did he not by such
conduct occasion OX D1VIXATION. 177
great disasters to the state ?
For when, after, having reviewed the
troops, he was moving his camp
towards Arezzo, and leading his legions
against Hannibal, his horse suddenly fell
with him before the statue of Jupiter
Stator, without any apparent cause. But though
those who were skilful in divina tion
declared it was an evident sign from
the Gods that he should not engage in
battle, he paid no attention to it.
After wards, when it was proposed to
consult the auspices by the consecrated
chickens, the augur indicated the propriety
of deferring the battle. Flaminius asked
him what was to be done the
next day, if the chickens still
refused to feed ? He replied that
in that case he must still rest
quiet. " Fine auspices, indeed,"
replied Flaminius, " if we may
only fight when the chickens are
hungry, but must do nothing if they
are full." And so he commanded
the standards to be moved forward,
and the army to follow him ; on
which occasion, the standard-bearer of the
first battalion could not extricate his
standard from the ground in which it
was pitched, and several soldiers who
endeavoured to assist him were foiled
in the attempt. Flaminius, to whom
they related this incident, despised the
warning, as was usual with him ; and
in the course of three hours from
that time, the whole of his army
was routed, and he himself slain. And
it is a wonderful story, too, that
is told by Coelius, as having
happened at this very time, that such
great earth quakes took place in
Liguria, Gallia, and many of the
islands, and throughout all Italy, that
many cities were destrojred, and the
earth was broken into chasms in many
places, and rivers rolled backwards, while
the waters of the sea rushed into
their channels. XXXVI. Skilful diviners
can certainly derive correct pre sentiments
from slight circumstances. When Midas, who
be came king of Phrygia, was yet
an infant, some ants crammed some
grains of wheat into his mouth while
he was sleep ing. On this the
diviners predicted that he would become
exceedingly rich, as indeed afterwards
happened. While Plato was an infant
in his cradle, a swarm of bees
settled on his lips during his slumbers
; and the diviners answered that he
would become extremely eloquent ; and this
prediction of his future eloquence was
made before he even knew how to
speak. DE NAT. ETC. N 178
ON DIVINATION. Why should I
speak of your dear and delightful
friend, Roscius 1 Did he tell lies himself,
or did the whole city of Lanuvium
tell lies for him ? When he was
in his cradle at Solonium, where he
was being brought up, — (a place which
belongs to the Lanuvian territory.) — the
story goes, that one night, there
being a light in the room, his
nurse arose and found a serpent
coiled around him, and in her alarm
at this sight she made a great
outcry. The father of Roscius related
the circumstance to the soothsayers, and
they answered that the child would
become preeminently distinguished and illus
trious. This adventure was afterwards
engraved by Praxiteles in silver, and
our friend Archias celebrated it in
verse. What, then, are we waiting
for 1 Are we to wait till the
Gods are conversant with us and our
affairs, while we are in the forum,
and on our journeys, and when we
are at home? yet though they do
not openly discover themselves to us, they
diffuse their divine influence far and wide
— an influence which they not only
inclose in the caverns of the earth,
but sometimes extend to the constitutions
of men. For it was this divine
influence of the earth which inspired
the Pythia at Delphi, while the Sibyl
received her power of divination from
nature. Why should we wonder at this
1 Do we not see how various are
the species and specific properties of
earths 1 — of which some parts are
injurious, as the earth of Amp-
sanctus in Hirpinum, and the Plutonian
land in Asia : and some portions of
the soil of the fields are
pestilential, others salubrious ; some spots
produce acute capacities, others heavy
characters. All which things depend on
the varieties of atmosphere, and are
inequalities of the exhalations of the
different soils. It likewise often
happens that minds are affected more
or less powerfully by certain expressions
of countenance, and certain tones of
voice and modulations, — often also by fits
of anxiety and terror — a condition indicated
in these lines of the poet : —
Madden'd in heart, and weeping like
as one By the mysterious rites of
Bacchus wrought Into wild ecstasy, she
wanders lone Amid the tombs, and
mourns her Teucer lost. XXXVII. And
this state of excitement also proves
that there is a divine energy in
human souls. And so Democritus ON
DIVINATION. 17!) asserts, that
without something of this ecstasy no
man can become a great poet ; and
Plato utters the same sentiment : and
he may call this poetic inspiration
an ecstasy or madness as much as
he pleases, so long as he eulogizes
it as eloquently as he does in
his Phecdon. What is your art
of oratory in pleading causes 1 What
is your action ? Can it be
forcible, commanding, and copious, unless
your mind and heart are in some
degree animated by a kind of
inspiration 1 I have often beheld in
yourself, and, to descend to a less
dignified example, even in your friend
ufEsop, such fire and splendour of expression
and action, that it seemed as if
some potent inspiration had altogether ab
stracted him from all present sensation
and thought. Besides this, forms
often come across us which have no
real existence, but which nevertheless have
a distinct appear ance. Such an
apparition is said to have occurred
to Bren- ims, and to his Gallic
troops, when he was waging an impious
war upon the temple of Apollo at
Delphi. For on that occa sion it
is reported that the Pythian priestess
pronounced these words : — " I and
the white virgins will provide for
the future." In accordance with which,
it happened that the Gauls fancied
that they saw white virgins bearing
arms against them, and that their
entire army was overwhelmed in the
snow. Aristotle thinks that those who
become ecstatic or furious through some
disease, especially melancholy persons, possess
a divine gift of presentiment in
their minds. XXXVIII. But I know
not whether it is right to attribute
anything of this kind to men with diseases
of the stomach, or to persons in
a frenzy, for time divination rather
appertains to a sound mind than to
a sick body. The Stoics attempt
to prove the reality of divination in
this way: — If there are Gods, and
they do not intimate future events to
men, they either do not love men,
or they are ignorant of the future ;
or else they conceive that know ledge
of the future can be of no
service to men ; or they con ceive that
it does not become their majesty to
condescend to intimate beforehand what must
be hereafter; or lastly, we must say
that even the Gods themselves cannot
tell how to forewarn us of them.
But it is not true that the
Gods do not love men, for they
N2 180 ON DIVINATION.
are essentially benevolent and philanthropic
; and they cannot be ignorant of
those events which take place by
their own direction and appointment. Again,
it cannot be a matter of indifference
to us to be apprised of what is
about to happen, for we shall become
more cautious if we do know such
things. Nor do they think it beneath
their dignity to give such inti
mations, for nothing is more excellent
than beneficence. And lastly, the Gods
cannot be ignorant of future events.
There fore there are no Gods, and
they do not give intimations of the
future. But there are Gods : so
therefore they do give such intimations ;
and if they do give such intimations,
they must have given us the means
of understanding them, or else they
would give their information to no
purpose. And if they do give us
such means, divination must needs exist;
therefore divination does exist. XXXIX.
Such is the argument in favour of
divination by which Chrysippus, Diogenes,
and Antipater endeavour to demonstrate
their side of the question. Why,
then, should any doubt be entertained
that the arguments that I have
advanced are entirely true? If both
reason and fact are on my side, — if
whole nations and peoples, Greeks and
barbarians, and our own ancestors also,
confirm all my assertions, — if also it
has always been maintained by the
greatest philosophers and poets, and by
the wisest legislators who have framed
constitutions and founded cities, must we
wait till the very animals give their
verdict? and may not we be content
with the unanimous authority of all
mankind1? Nor indeed is any other
argument brought forward to prove that
all these kinds of divination which I
uphold have no existe nce, than
that it appears difficult to explain
what are the different principles and
causes of each kind of divination.
For what reason can the soothsayer
allege why an injury in the lungs
of otherwise favourable entrails should
compel us to alter a day previously
appointed, and defer au enterprise? How
can an augur ex plain why the
croak of a raven on the right
hand, and a crow on the left,
should be reckoned a good omen? What can
an astrologer say by way of
explaining why a conjunction of the
planet Jupiter or Venus with the moon
is propitious at the birth of a
child, and why the conjunction of
Saturn or Mars is injurious? or why
God should warn us during sleep, and
neglect us when we are awake ?
or lastly, what is the reason
ON DIVINATION. 181 why the
frantic Cassandra could foresee future
events, while the sage Priam remained
ignorant of them? Do you ask
why everything takes place as it
does? Very right; but that is not
the question now; what we are trying
to find out is whether such is
the case or not. As, if I were
to assert that the magnet is a
kind of stone which attracts and
draws iron to itself, but were unable
to give the reason why that is the
case, would you deny the fact
altogether ? And you treat the
subject of divination in the same
way, though we see it, and hear
of it, and read of it, and have
received it as a tradition from our
ancestors. Nor did the world in
general ever doubt of it before the
introduction of that philosophy which has
recently been invented, and even since
the appearance of philosophy, no
philosopher who was of any authority
at all has been of a contrary
opinion. I have already quoted in its
favour Pythagoras, Democritus, and Socrates.
There is no exception but Xenophanes
among the ancients. I have likewise
added the old Academicians, the
Peripatetics, and the Stoics : all
supported divination ; Epi curus alone was
of the opposite opinion. But what can
be more shameless than such a man
as he, who asserted that there was
no gratuitous and disinterested virtue in
the world? XL. But what man is
there who is not moved by the
testi mony and declarations of antiquity?
Homer writes that Cal- chas was a
most excellent augur, and that he
conducted the fleet of the Greeks to
Troy, — more, I imagine, by his know
ledge of the auspices than of the
country. Amphilochus and Mopsus were kings
of the Argives, and also augurs, and
built the Greek cities on the coast
of Cilicia. And before them lived
Amphiaraus and Tiresias, men of no
lowly rank or ob scure fame, not
like those men of whom Ennius says
—They hire out their prophecies for
gold : no ; they were renowned
and first rate men, who predicted the
future by means of the knowledge
which they derived from birds and
omens; and Homer, speaking of the
latter even in the infernal regions,
says that he alone was con sistently
wise, while others were wandering about
like shadows. As to Amphiaraus, he
was so honoured by the general praise
of all Greece, that he was accounted
a god, and oracles were established at
the spot where he was buried.
182 ON DIVINATION. Why need I
speak of Priam king of Asia? had
not he two children possessed of this
gift of divination, namely a son
named Helenus, and a daughter named
Cassandra, who both prophesied, one by
means of auspices, the other through
an excited state of mind and divine
inspiration1? of which de scription
likewise were two brothers of the
noble family of the Marcii, who are
recorded as having lived in the days
of our ancestors. Does not Homer
inform us, too, that Polyidus the Corinthian
predicted the various fates of many
persons, and the death of his son
when he was going to the siege
of Troy? And as a general rule,
among the ancients, those who were
possessed of authority \asually also possessed
the know ledge of auguries; for, as
they thought wisdom a regal attri
bute, so also did they esteem
divination. And of this our state of
Rome is an instance, in which several
of our kings were also augurs, and
afterwards even private persons, endued
with the same sacerdotal office, ruled
the commonwealth by the authority of
religion. XLI. And this kind of
divination has not been neglected even
by barbarous nations ; for the Druids
in Gaul are diviners, among whom I
myself have been acquainted with Divitiacus
vEduus, your own friend and panegyrist, who
pretends to the science of nature
which the Greeks call physiology, and
who asserts that, partly by auguries
and partly by conjecture, he foresees
future events. Among the Persians they
have augurs and diviners, called magi,
who at certain seasons all assemble
in a temple for mutual conference and
consultation ; as your college also used
once to do on the nones of the
month. And no man can become a
king of Persia who is not previously
initiated in the doctrine of the
magi. There are even whole families
and nations devoted to divina tion.
The entire city of Telmessus in Caria
is such. Likewise in Elis, a city
of Peloponnesus, there are two families,
called lamidse and ClutidoD, distinguished
for their proficiency in divination. And
in Syria the Chaldeans have become
famous for their astrological predictions,
and the subtlety of their genius.
Etruria is especially famous for possessing
an inti mate acquaintance with omens
connected with thunderbolts and things of
that kind, and the art of explaining
the signi fication of prodigies and
portents. This is the reason why our
ancestors, during the flourishing days of
the empire, ON DIVINATION. 183
enacted that six of the children
of the principal senators should be
sent, one to each of the Etrurian
tribes, to be instructed in the
divination of the Etrurians, in order
that this science of divination, so
intimately connected with reli gion, might
not, owing to the poverty of its
professors, be cultivated for merely
mercenary motives, and falsified by
bribery. The Phrygians, the Pisidians,
the Cilicians, and Arabians are accustomed
to regulate many of their affairs by
the omens which they derive from
birds. And the Umbrians do the same,
according to report. XLII. It appears
to me that the different characteristics
of divination have originated in the
nature of the localities themselves in
which they have been cultivated. For
as the Egyptians and Babylonians, who
reside in vast plains, where no mountains
obstruct their view of the entire
hemisphere, have applied themselves principally
to that kind of divination called
astrology, the Etrurians, on the other
hand, because they, as men more
devoted to the rites of religion,
were used to sacrifice victims with
more zeal and frequency, have espe
cially applied themselves to the
examination of the entrails of animals;
and as, from the character of their
climate and the denseness of their
atmosphere, they are accustomed to witness
many meteorological phenomena, and because
for the same reason many singular
prodigies take place among them, arising
alike from heaven or from earth, and
even from the concep tions or
offspring of men or cattle, they have
become won derfully skilful in the interpretation
of such curiosities, the force of
which, as you often say, is clearly
declared by the very names given to
them by our ancestors, for because
they point out (ostendunt}, portend, show
(monstrant), and predict, they are called
ostents, portents, monsters, and prodigies.
Again, the Arabians, the Phrygians,
and Cilicians, because they rear large herds
of cattle, and, both in summer and
winter, traverse the plains and mountainous
districts, have on that account taken
especial notice of the songs and
flight of birds. The Pisidians, and
in our country the Umbrians, have
applied themselves to the same art
for the same reason. The whole nation
of the Carians, and most especially
the Telmessians, who reside in the
most productive and fertile plains, in
which the exuberance of nature gives
birth to many extraordinary 184 ON
DIVINATION. productions, have been
very careful in the observation of
prodigies. XL1II. But who can shut
his eyes to the fact that in
every well constituted state auspices, and
other kinds of divi nation, have been
much esteemed? What monarch or what
people has ever neglected to make use
of them in the trans actions of
peace, and still more especially in
time of war, when the safety or
welfare of the commonwealth is implicated
in a greater degree? I do not
speak merely of our own countrymen, — who
have never undertaken any martial enter
prise without inspection of the entrails,
and who never con duct the affairs
of the city without consulting the
auspices, — I rather allude to foreign nations.
The Athenians, for ex ample, always
consulted certain divining priests, (whom
they called yaavrei?,) when they convoked
their public assemblies. The Spartans
always appointed an augur as the
assessor of their king, and also they
ordained that an augur should be
present at the council of their
Elders, which was the name they gave
to their public council; and in every
important transaction they invariably consulted
the oracle of Apollo at Delphi, or
that of Jupiter Harnmon, or that of
Dodona. Lycurgus, who formed the
Lacedaemonian commonwealth, desired that his
code of laws should receive confirmation
from the authority of Apollo at Delphi
; and when Lysander sought to change
them, the same authority forbade his
innovations. Moreovei', the Spartan magistrates,
not content with a careful superintendence
of the state affairs, went occasionally
to spend a night in the temple
of Pasiphae, which is in the country
in the neighbourhood of their city,
for the sake of dreaming there,
because they considered the oracles
received in sleep to be true.
But I return to the divination
of the Eomans. How often has our
senate enjoined the decemvirs to consult
the books of the Sibyls ! For
instance, when two suns had been
seen, or when three moons had
appeared, and when flames of fire
were noticed in the sky ; or on
that other occasion, when the sun was
beheld in the night, when noises were
heard in the sky, and the heaven itself
seemed to burst open, and strange
globes were remarked in it. Again,
information was laid before the senate,
that a portion of the territory of
Privernum had been swallowed up, and
that the land had sunk down to
ON DIVINATION. 185 an incredible
depth, and that Apulia had been
convulsed by terrific earthquakes; which
portentous events announced to the Romans
terrible wars and disastrous seditions. On
all these occasions the diviners and their
auspices were in perfect accordance with
the prophetic verses of the Sibyl.
Again, when the statue of Apollo
at Cuma was covered with a miraculous
sweat, and that of Victory was found
in the same condition at Capua, and
when the hermaphrodite was born, — were not
these things significant of horrible dis
asters? Or again, when the Tiber was
discoloured writh blood, or when, as
has often happened, showers of stones,
or sometimes of blood, or of mud,
or of milk, have fallen, — when the
thunder bolt fell on the Centaur of
the Capitol, and struck the gates of
Mount Aventine, and slew some of the
inhabitants; or again, when it struck
the temple of Castor and Pollux at
Tusculum, and the temple of Piety at
Rome, — did not the soothsayers in reply
announce the events which subsequently took
place, and were not similar predictions
found in the Sibylline volumes'? XLIV.
How often has the senate commanded
the decemvirs to consult the Sibylline
books! In what important affairs, and
how often has it not been guided
wholly by the answers of the soothsayers
! In the Marsic war, not long
ago, the temple of Juno the
Protectress was restored by the senate,
which was excited to this holy act
by a dream of Csccilia, the daughter
of Quintus Metellus. But after Sisenna,
who men tions this dream, had related
the wonderful correspondence of the event
with the prediction, he nevertheless (being
influ enced, I suppose, by some
Epicurean) proceeded to argue that dreams
should never be trusted : however, he
states nothing against the credit of
the prodigies wrhich took place, and
which he reports, at the beginning of
the Marsic war1, when the images of
the gods were seen to sweat, and
blood flowed in the streams, and the
heavens opened, and voices were heard
from secret places, which foretold the
dangers of the combat; and at Lanuvium
the sacred bucklers were found to
have been gnawed by mice, which
appeared to the augurs the worst
presage of all. Shall I add
further what we read recorded in our
annals, thnt in the war against the
Veientes, when the Alban lake had
risen enormously, one of their most
distinguished nobles 186 OX
DIVINATION. came over to us and
said, that it \vas predicted in the
sacred books concerning the destinies of
the Veientes, which they had in their
own possession, that their city could
never be captured while the lake
remained full ; and that if, when the
lake was opened, its waters were
allowed to run into the sea, the
.Romans would suffer loss, — if, on the
contrary, they were so drawn off that
they did not reach the sea, then
we should have good success? And from
this circumstance arose the series of
immense labours, subsequently undertaken by
our ancestors in conducting away the
waters of the Alban lake. But when
the Veientes, being weary of war,
sent ambassadors to the Roman senate,
one of them exclaimed that that de
serter had not ventured to tell them
all he knew, for that in those
same sacred books it was predicted
that Rome should soon be ravaged by
the Gauls, — an event which happened six
years after the city of Veii
surrendered. XLV. The cry of the
fauns, too, has often been heard in
battle; and prophetic voices have often
sounded from secret places in periods
of trouble ; of which, among others,
we have two notable examples, — for shortly
before the capture of Rome a voice
was heard which proceeded from the
grove of Vesta, which skirts the new
road at the foot of the Palatine
Hill, exhorting the citizens to repair
the walls and gates, for that if
they were not taken care of the
city would be taken. The injunction
was neglected till it was too late,
and it after wards was awfully
confirmed by the fact. After the disaster
had occurred, our citizens erected an
altar to Aius the Speaker, which we
may still see carefully fenced round,
opposite the spot where the warning
was uttered. Many authors have reported
that once, after a great earthquake
had happened, they heard a voice from
the temple of Juno, commanding that
expiation should be made by the
sacrifice of a pregnant sow, and
hence it was afterwards called the
temple of Juno the Admonitress. Shall
we then despise these oracular inti
mations, which the Gods themselves
vouchsafed us, and which our ancestors
have confirmed by their testimony ?
The Pythagoreans had not only high
reverence for the voice of the Gods,
but they likewise respected the warnings
of men (hominum), which they call
omina. And our ancestors were persuaded
that much virtue resides in certain
words, and therefore prefaced their various
enterprises with certain OX
DIVINATION. 187 auspicious phrases, such
as, " May good and prosperous
and happy fortune attend." They
commenced all the public cere monies
of religion with these words, — " Keep
silence ; " and when they announced
any holidays, they commanded that all
lawsuits and quarrels should be suspended.
Likewise, wheu the chief who forms a
colony makes a lustration and review
of it, or when a general musters
an army, or a censor the people,
they always choose those who have
lucky names to prepare the sacrifices.
The consuls in their military enrol
ments likewise take care that the
first soldier enrolled shall be one
with a fortunate name ; and you know
that you your self were very
attentive to these ceremonial observances
when you were consul and imperator.
Our ancestors have likewise enjoined that
the name of the tribe which had
the precedence should be regarded as
the presage of a legitimate assembly
of the Comitia. XLVI. And of
presages of this kind I can relate
to you several celebi'ated examples. Under
the second consulship of Lucius Paulus,
when the charge of making war against
the king Perses had been allotted to
him, it happened that on the evening
of that very same day, when he
returned home and kissed his little
daughter Tertia, he noticed that she
was very sorrowful. " What is
the matter, my Tertia," said he,
" why are you so sad? "
" My father," replied she, "
Perses has perished." Upon which he
caught her in his arms, and caressing
her, exclaimed, " I embrace the
omen, my daughter." But the real
truth was, that her dog, who happened
to be called Perses, had died.
I have heard Lucius Flaccus, a
priest of Mars, say, that Csecilia,
the daughter of Metellus, intending to
make a matri monial engagement for her
sister's daughter, went to a certain
temple, in order to procure an omen,
according to the ancient custom. Here
the maiden stood, and Ctecilia sat
for a long time without hearing any
sound, till the girl, who grew tired
of standing, begged her aunt to allow
her to occupy her seat for a
short period, in order to rest
herself. Csecilia replied, "Yes, my
child, I willingly resign my seat to
you." And this reply of hers was
an omen, confirmed by the event, for
Ceecilia died soon after, and her
niece married her aunt's husband. I
know that men may despise such
stories, or even laugh at them, but
such conduct amounts to a disbelief
in the 188 ON DIVINATION.
existence of the Gods themselves, and
to a contempt of their revealed will.
XLVII. Why need I speak of the
augurs 1 — that part of the qxiestion
concerns you. The defence of the
auguries, I say, belongs peculiarly to
you. When you were a consul, Publius
Claudius, who was one of the augurs,
announced to you, when the augury of
the Goddess Salus was doubted, that a
disas trous domestic and civil war
would take place, which happened a
few months afterwards, but was suppressed
by your exer tions in still fewer
days. And I highly approve of this
augur, who alone for a long period
remained constant to the study of
divination, without making a parade of
his auguries, while his colleagues and
yours persisted in laughing at him,
sometimes terming him an augur of
Pisidia or Sora by way of ridicule.
Those who assert that neither
auguries nor auspices can give us any
insight into or foreknowledge of the
future, say that they are mere superstitious
practices, wisely invented to impose on
the ignorant; which, however, is far
from being the case : for our
pastoral ancestors under Romulus were not,
nor indeed was Romulus himself, so
crafty and cunning as to in vent
religious impositions for the purpose of
deceiving the mul titude. But the
difficulty of acquiring a thorough
knowledge of the auspices renders many
who are indifferent to them eloquent
in their disparagement, for they would
rather deny that there is anything in
the auspices than take the pains of
studying what there really is. What can
be more divine than that prediction,
which you cite in your poem of
Marius, that I may quote your owrn
authority in favour of my argument? —
Jove's eagle, wounded by a serpent's
bite, In his strong talons caught
the writhing snake, And with his
goring beak tortured his foe And
slaked his vengeance in his blood.
At last He let, the venomous
reptile from on high Fall in
the whelming flood, then wing'd his flight
To the far east. Marius
beheld, and mark'd The augury divine,
and inly smiled To view the
presage of his coming fame ;
Meanwhile the thunder sounded on the
left, And thus confirm'd the omen.
XLVIII. Moreover, the augurial system
of Romulus was ON DIVINATION.
189 a pastoral rather than a
civic institution. Nor was it framed
to suit the opinions of the ignorant,
but derived from men of approved
skill, and so handed down to posterity
by tradition. Therefore Romulus was himself
an augur as well as his brother
Remus, if we may trust the authority
of Ennius, — Both wish'd to reign,
arid both agreed to abide The
fair decision of the augury Here
Remus sat alone, and watch 'd for
signs Of fav'ring omen, while fair
Eomulus On the Aventine summit raised
his eyes To see what lofty
flying birds should pass. A goodly
contest which should rule, and which
With his own name should stamp
the future city. Now like spectators
in the circus, till The consul's
signal looses from the goal The
eager chariots, so the obedient crowd
Awaited the strife's victor and their
king. The golden sun departed into
night, And the pale moon shone
with reflected ray, When on the
left a joyful bird appear'd, And
golden Sol brought back the radiant
day. Twelve holy forms of
Jove-directed birds Wing'd their propitious
flight. Great Romulus The omen
hail'd, for now to him was given
The power to found and name
th" eternal city. XLIX. Now,
however, let us return to the
original point from which we have
been digressing. Though I cannot give
you a reason for all these separate
facts, and can only distinctly assert
that those things which I have spoken
of did really happen, yet have I
not sufficiently answered Epicurus and
Carneades by proving the facts themselves'?
Why may I not admit, that though
it may be easy to find principles
on which to explain artificial presages,
the subject of divine intimations is
more obscure? for the presages which
we deduce from an examination of a
victim's entrails, from thunder and
lightning, from prodigies, and from the
stars, are founded on the accurate
observation of many centuries. Now it
is certain, that a long course of
careful observation, thus carefully conducted
for a series of ages, usually brings
with it an incredible accuracy of knowledge
; and this can exist even without
the inspiration of the Gods, when it
has been once ascertained by constant
obser vation what follows after each
omen, and what is indicated by each
prodigy. The other kind of divination
is natural, as I have said 190
ON DIVINATION. before, and may
by physical subtlety of reasoning appeal-
referable to the nature of the Gods,
from which, as the wisest men
acknowledge, we derive and enjoy the
energies of our souls; and as
everything is filled and pervaded by
a divine intelligence and eternal sense,
it follows of necessity that the soul
of man must be influenced by its
kindred wTith the soul of the Deity.
But when we are not asleep, our
faculties are employed on the necessary
affairs of life, and so are hindered
from communication with the Deity by
the bondage of the body. There
are, however, a small number of
persons, who, as it were, detach
their souls from the body, and addict
themselves, with the utmost anxiety and diligence,
to the study of the nature of
the Gods. The presentiments of men
like these are derived not from
divine inspiration, but from human reason ;
for from a contemplation of nature,
they anticipate things to come, — as deluges
of water, and the future deflagration,
at some time or other, of heaven
and earth. There are others who,
being concerned in the government of
states, as we have heard of the
Athenian Solon, foresee the rise of
new tyrannies. Such we usually term
prudent men ; like Thales the Milesian,
who, wishing to convict his slanderers,
and to show that even a philosopher
could make money, if he should be
so inclined, bought up all the
olive-trees in Miletus before they were
in flower; for he had probably, by
some knowledge of his own, calculated
that there would be a heavy crop
of olives. And Thales is said to
have been the first man by whom
an eclipse of the sun was ever
predicted, which happened under the reign
of Astyages. L. Physicians, pilots,
and husbandmen have likewise pre sentiments
of many events : but I do not
choose to call this divination ; as neither
do I call that warning which was
given by the natural philosopher
Anaximander to the Lacedae monians, when
he forewarned them to quit their city
and their homes, and to spend the
whole night in arms on the plain,
because he foresaw the approach of a
great earthquake, which took place that
very night, and demolished the whole
town; and even the lower part of
Mount Taygetus was torn away
from the rest, like the stern
of a ship might be. In the same
way, it is not so much as a
diviner, as a natural philosopher that
we should esteem Pherecydes, the master
of Pythagoras ON DIVINATIGX. l!)i
who, when he beheld the water
exhausted in a running spring, predicted
that an earthquake was nigh at hand.
The mind of man, however, never
exerts the power of natural divination,
unless when it is so free and
disengaged as to be wholly disentangled
from the body, as happens ia the
case of prophets and sleepers.
Therefore, as I have said before,
Diceearchus and our friend Cratippus
approve of these two sorts of
divination, as long as it is
understood that, inasmuch as they proceed
from nature, though they may be the
highest, they are not the only kind.
But if they deny that there is
any force in observation, then by
such denial they exclude many things
which are connected with the common
experience and institutions of mankind.
However, since they grant us some,
and those not insignifi cant things,
namely, prophecies and dreams, there is
no reason why we should consider
these as very formidable antagonists, especially
when there are some who deny the
existence of divination altogether. Those,
therefore, whose minds, as it were,
despising their bodies, fly forth, and
wander freely through the universe, being
inspired and influenced by a certain
divine ardour, doubtless perceive those
things which those who prophecy predict.
And spirits like these are excited by
many influ ences that have no
connexion with the body, as those
which are excited by certain intonations
of voice, and by Phrygian melodies,
or by the silence of groves and
forests, or the murmur of torrents,
or the roar of the sea. Such
are the minds which are susceptible
of ecstasies, and which long beforehand
foresee the events of futurity; to
which the following lines refer: —
Ah, see you not the vengeance
apt to come, Because a mortal has
presumed to judge Between three rival
goddesses'? — he's doom'd To fall a victim
to the Spartan dame, More dreadful
than all furies. Many things have
in the same way been predicted by
pro phets, and not only in ordinary
language, but also In verses which
the fauns of olden times And
white-hair'd prophets chanted. It was
thus that the diviners; Marcius and
Publicius, are said to have sung
their predictions. The mysterious responses
of Apollo were of the same nature.
I believe also that there were
certain exhalations of certain earths, by
which gifted 192 ON DIVIXATION.
minds were inspired to utter oracles.
These, then, are the views
which we must entertain of prophets.
LI. Divinations by dreams are of
a similar order, because presentiments
which happen to diviners when awake,
happen to ourselves during sleep. For
in sleep the soul is vigorous, and
free from the senses, and the
obstruction of the cares of the body,
which lies prostrate and deathlike; and,
since the soul has lived from all
eternity, and is engaged with spirits
innumerable, it therefore beholds all
things in the universe, if it only
preserves a watchful attitude, unencumbered
by excess of food or drinking, so
that the mind is awake during the
slumber of the body, — this is the
divination of dreamers. Here, then,
comes in an important, and far from
natural, but a very artificial
interpretation of dreams by Antiphon :
and he interprets oracles and prophecies
in the same way; for there are
explainers of these things just as
grammarians are expounders of poets. For,
as it would have been in vain
for nature to have produced gold,
silver, iron, and copper, if she had
not taught us the means of extracting
them from her bosom for our use
and benefit ; and as it would have
been in vain for her to have
bestowed seeds and fruits upon men,
if she had not taught them to
distinguish and cultivate them, — for what
use would any materials whatsoever be
to us, if we had no means of
working them up? — thus with every useful
thing which the Gods have bestowed on
us, they have vouchsafed us the
sagacity by which its utility may be
appre ciated ; and so, because in
dreams, oracles, and prophecies there are
many things necessarily obscure and
ambiguous, some have received the gift
of interpretation of them. But by
what means prophets and sleepers behold
those things, which do not at the
time exist in sensible reality, is a
great question. But when we have once
cleared up those points which ought
to be investigated first, then the
other subjects of our examination will
be easier. For the discussion about
the Nature of the Gods, which you
have so clearly ex plained in your
second book on that subject, embraces
the whole question ; for if we grant
that there are Gods, and that their
providence governs the universe, and that
they consult for the best management
of all human affairs, and that not
only in general, but in particular, — if
we grant this, which indeed appears
to me to be undeniable, then we
must hold it ON DIVINATION.
193 as a necessary consequence that
these Gods have bestowed on men the
signs and indications of futurity.
The mode, however, by which the
Gods endue us with the gift and
power of divination requires some notice.
LII. The Stoics will not allow
that the Deity can be in terested
in each cleft in entrails, or in
the chirping of birds. They affirm
that such interference is altogether indecorous
— unworthy of the majesty of the
Gods, and an incredible im possibility.
They maintain that from the beginning
of the world it has been ordained
that certain signs must needs precede
certain events, some of which are
drawn from the entrails of animals,
some from the note and flight of
birds, some from the sight of
lightning, some from prodigies, some from
stars, some from visions of dreamers,
and some from exclamations of men in
frenzy : and those who have a clear
perception of these things are not
often deceived. Bad con jectures and
incorrect interpretations are false, not
because of any imposture in the signs
themselves, but because of the ignorance
of their expounders. It being,
therefore, granted and conceded that there
exists a certain divine energy, by
which human life is supported and
surrounded, it is not hard to
conceive how all that hap pens to
men may happen by the direction of
heaven; for this divine and sentient
energy, which expands throughout the
universe, may select a victim for
sacrifice, and may, by exterior agency,
effect any change in the condition of
its entrails at the period of its
immolation : so that any given
characteristic may be found excessive or
defective in the animal's body. For
by very trifling exertions nature can
alter, or new-model, or diminish many
things. And the prodigies which happened
a little before Caesar's death are of
great weight in preventing iis from
doubting this, — when on that very day
on which he first sat on the
golden throne and went forth clad in
a purple robe, when he was
sacrificing, no heart was found in
the intestines of the fat ox. Do
you then suppose that any warm-blooded
animal, unless by divine interference, can
live an instant without a heart 1 He
was himself surprised at the novelty
of the phenomenon ; on which Spuriuna
observed that he had reason to fear
that he would lose both sense and
life, since both of these proceed
from the heart. The next day the liver
of the victim was DE NAT. ETC.
0 194: ON DIVINATION. found
defective in the upper extremity. Doubtless
the im mortal Gods vouchsafed Ceesar
these signs to apprize him of his
approaching death, though not to enable
him to guard against it. When,
therefore, we cannot discover in the
entrails of the victim those organs
without which the animal cannot live,
we must necessarily suppose that they
have been annihilated by a superintending
Providence at the very instant that
the sacrifice is offered. LI II. And
the same divine influence may likewise
be the cause why birds fly in
different directions on different occa
sions, why they hide themselves sometimes
in one place and sometimes in
anothei', and why they sing on the
right hand or on the left. For
if every animal according to its own
will can direct the motions of its
body, so as to stoop, to look on
one side, or to look up, and
can bend, twist, contract, or extend
its limbs as it pleases, and does
those things almost before think ing
of doing them, how much more easy
is it for a God to do so,
whose deity governs and regulates all
things. It is the Deity, too,
which presents various signs to us,
many of which history has recorded
for us ; as for instance, we find
it stated that if the moon was
eclipsed a little before sunrise in
the sign of Leo, it was a sign
that Darius should be slain and the
Persians be defeated by Alexander and the
Macedonians. And if a girl was born
with two heads, it was a sign
that there was to be a sedition
among the people and corruption and
adultery at home. If a woman should
dream that she was delivered of a
lion, the country in which such an
occurrence took place would soon be
subjected to foreign domination. Of the
same kind is the fact mentioned by
Herodotus, that the son of Croesus
spoke, though the gift of speech was
by nature denied him; which prodigy
was au indication that his father's
kingdom and family would be utterly
destroyed. And all our histories relate
that the head of Servius Tullius
while sleeping appeared to be on
fire, which was a sign of the
extraordinary events which followed. As,
therefore, a man who falls asleep while
his mind is full of pure meditations,
and all circumstances around him adapted
to tranquillity, will experience in his
dreams true and certain presentiments; so
also the chaste and pure OX
DIVINATION. 195 mind of a waking
man is better suited to the
observation of the course of the
stars, or the flight of birds, and
the intima tions of the truth to
be collected from entrails. LIV. And
connected with this principle is the tradition
which we have received concerning Socrates,
which is often affirmed by himself in
the books of his disciples — that he
possessed a certain divinity, which he
called a demon, and to which he
was always obedient, — a genius which never
com pelled him to action, but often
deterred him from it. The same
Socrates (and where can we find a
better authority ?) being consulted by
Xenophon, whether he should follow Cyrus
to the wars, gave him his counsel,
and then added these words, — " The
advice I give you is merely human
: in such obscure and uncertain
cases, it is best to consult the
oracle of Apollo, to whom the
Athenians have always pub licly appealed
in questions of importance." It
is likewise written of Socrates, that
having once seen his friend Crito
with his eye bandaged, and having
asked him what was the matter with
it, he received for answer, that as
he was walking in the fields, a
branch of a tree he had attempted
to bend sprang back, and hit him
in the eye. Upon this, Socrates
replied, " This is the consequence
of your not having obeyed me when
I recalled you, following the divine
presentiment, according to my custom."
Another remarkable story is told of
Socrates. After the battle in which
the Athenians were defeated at Delium,
under the command of Laches, he was
obliged to fly with that unfortunate
general. At length reaching a spot
where three ways met, he refused to
pursue the same track as the rest.
When they inquired the cause of his
behaviour, he said that he was
restrained by a God. The others, who
left Socrates, fell in with the
enemy's cavalry. Antipater has collected
many other instances of the admi
rable divination of Socrates, which I
omit, for they are quite familiar to
you, and I need not further enumerate
them. I cannot, however, avoid mentioning
one fact in the history of this
philosopher, which strikes me as
magnificent, and almost divine ; — namely,
that when he had been condemned by
the sentence of impious men, he said,
he was prepared to die with the
most perfect equanimity ; because the God
within him had not suffered him to
be afflicted with any idea of
o2 196 ON DIVINATION*.
impending evil, either when he left
his home, or when he appeared before
the court. LV. I think, therefore,
that true divination exists, although those
men are often deceived who appear to
proceed on con jecture, or on
artificial rule?. For men are fallible
in all arts, and we cannot suppose
tliey are infallible here. It may
happen that some sign, which has an
ambiguous signification, is received in a
certain one. It may happen that some
par ticular has escaped the notice of
the inquirer, or is purposely concealed
by him, because opposed to his
interest. I should, however, consider
my plea for divination suffi ciently
established, if only a few
well-authenticated cases of presentiment and
prophecies could be discovered ; whereas,
in truth, there are many. I will
even declare without hesi tation, that
a single instance of presage and
prediction, all the points of which
are borne out by subsequent events —
and that definitely and regularly, not
casually and fortuitously — would suffice
to compel an admission of the reality
of divi nation from all reasonable
minds. It appears to me, moreover,
that we should refer all the virtue
and power of divination to the
Divinity, as Posi- donius has done,
as before observed; in the next place
to Fate, and afterwards to the nature
of things. For reason compels us to
admit that by Fate all things take
place. By Fate I mean that which
the Greeks call ei/mp^e'i'^, that is,
a certain order and series of causes —
for cause linked to caiise produces
all things : and in this connexion of
cause consists the constant truth which
flows through all eternity. From whence
it follows that nothing happens which
is not pre destined to happen ; and
in the same way nothing is predes
tined to happen, the nature of which
does not contain the efficient causes
of its happening. From which it
must be understood that fate is not
a mere superstitious imagination, but is
what is called, in the lan guage
of natural philosophy, the eternal cause of
things ; the cause why past things
have happened, why present things do
happen, and why future things will
happen. And thus we are taught by
exact observation, what consequences are
usually produced, by what causes, though
not invariably.. And thus the causes
of future events may truly be
discerned by those who behold them in
states of ecstasy or quiet. OX
DIV1NAT10X. 197 LVI. Since, then,
all things happen by a certain fate,
(as will be shown in another place.)
if any man could exist who could
comprehend this succession of causes in
his intellectual view, such a man
would be infallible. For being in
possession of a knowledge of the
causes of all events, he would neces
sarily foresee how and when all
events would take place. But as
no being except the Deity alone can
do this, man can attain no more
than a kind of presentiment of
futurity, by observing the events which
are the usual consequences of certain
signs. For those events that are to
happen in future do not start into
existence on a sudden. But the
regular course of time resembles the
untwisting of a cable, producing nothing
absolutely new, but all things in a
grand concatena tion or series of
repetitions. And this has been observed
by those who possess the gift of
natural divination, and by those who
study the regular successions of certain
things. For though they do not always
apprehend the causes, yet they clearly
discern the signs and marks of the
causes. And by diligently investi gating
and committing to memory all such
signs, and the traditions of our
ancestors concerning them, they produce an
elaborate system of that divination which
is termed technical respecting the entrails
of victims, thunder and lightning,
prodigies, and celestial phenomena. We
must not, therefore, be astonished that
those who addict themselves to divination
foresee many events which have no
place of existence. For all things do
even now exist, though they are
removed in point of time. And as
the vital embryo of all vegetation
exists in seeds, from which they
afterwards germinate, so are all things
even now hidden in their causes, and
perceived as hereafter to happen by
the mind when it is thrown into an
ecstasy, or relaxed in sleep, and
cool reason and calculation is often
granted a presenti ment of them. And
as the astrologers who watch the
risings, settings, and various courses of
the sun, moon, and other stars, can
predict long before all their revolutions
and phenomena ; so those who have
noted the series and conse quence of
events, with constant and indefatigable
atten tion, during a very long
period, do generally, or (if that is
too difficult) at least occasionally,
foresee with certainty the things that
are to come to pass. 198 ON
DIVINATION. Such are some of
the arguments derived from the nature
of fate, by which the reality of divination
may be proved. LVII. Another powerful
plea in favour of divination, may be
drawn from Nature herself, which teaches us
how great is the energy of the
mind when abstracted from the bodily
senses, as it is most especially in
ecstasy and sleep. For even as the
Gods know what passes in our minds
without the aid of eyes, ears or
tongues, (on which divine omniscience is
founded the feeling of men, that when
they wish in silence for, or offer
up a prayer for anything, the Gods
hear them,) so when the soul of
man is disengaged from corporeal impe
diments, and set at freedom, either
from being relaxed in sleep, or in
a state of mental excitement, it
beholds those wonders which, when entangled
beneath the veil of the flesh, it
is unable to see. It may be difficult,
perhaps, to connect this piinciple of
nature with that kind of divination
which we have stated to result from
study and art. Posidonius, however, thinks
that there are in nature certain
signs and symbols of future events.
We are informed that the inhabitants
of Cea, according to the report of
Heraclides of Pontus, are accus tomed
carefully to observe the circumstances
attending the rising of the Dog Star,
in order to know the character of
the ensuing season, and how far it
will prove salubrious or pestilential.
For if the star rose with an
obscure and dim appearance, it proved
that the atmosphere was gross and
foggy, and its respiration would be
heavy and unwhole some. But if it
appeared bright and lucid, then that
was a sign that the air was
light and pure, and therefore healthful.
Democritus believed that the ancients
had wisely enjoined the inspection of the
entrails of animals which had been
sacrificed, because by their condition and
colour it is possible to determine
the salubrity or pestilential state of
the atmo sphere, and sometimes even
what is likely to be the fertility
or sterility of the earth. And if
careful observation and practice recognise
these rules as proceeding from nature,
then every day might bring us many
examples which might deserve notice
and remark; so that the natural
philosopher whom Pacuvius introduces in his
Chryses, seems to me very ignorant of
the nature of things, wlien he says,
— OX DIVINATION. 199 All
those who understand the speech of
birds And hearts of victims better
than their own, May be just listen'd
to, but not obey'd. Why should
he make such a remark here, when
a little after he speaks thus plainly
in a contrary sense 1 — Whatever
God may be, 'tis he who forms,
Preserves and nurtures all. Unto
himself Ho back absorbs all beings, —
evermore The universal Sire,— at once the
source And end of nature. Why,
then, since the universe is the sole
and common home of all creatures, and
since the minds of men always have
existed, and will exist, why, I say,
should they not be able to perceive
the consequences, and what is the
result indicated by each sign, and
what events each sign foreshows r( These
are the arguments which I had to
bring forward on the subject of
divination. For the rest, I in nowise
believe in those who predict by lots,
or those who tell fortunes for the
sake of gain, nor those necromancers
who evoke the manes, whom your friend
Appius consulted. Of little service
are the Morsian prophet, The Haruspi
of the village, the astrologer Of
the throng'd circus, or the priest of
Isis, Or the imposturous interpreter
Of dreams. All these are
but false conjurors, Who have no
skill to read futurity, They are
but hypocrites, urged on by hunger ;
Ignorant of themselves, they would
teach others, To whom they promise
boundless wealth, and beg A penny
in return, paid in advance. Such
is the style in which Ennius speaks
of those pre tenders of divination;
and a few verses before, he lias
affirmed that though the Gods exist,
they take no care of the human
race. I am of a contrary opinion,
and approve 01 divination, because I
believe that the Gods do watch over
men, and admonish them, and presignify
many things to them, all levity,
vanity, and malice being excluded.
And when Quintus had said this,
You are, indeed, said I, admirably
prepared . [The rest of this
Book is lost.] 20U ON
PIVIXATIOS. 13 00 Is. U.
I. WHEN I have been considering, as
I frequentlj7 have, vnth deep and
prolonged cogitation, by what means I
might serve as many persons as possible,
so as never to cease from doing
service to my country, no better
method has occurred to me than that
of instructing my fellow-citizens in the
noblest arts. And this I natter
myself thai I have already in some degree
effected in the numerous works which
I have written. In the treatise which
I have entitled " Hortensius," I
have earnestly recommended them to the
study of philoso phy ; and in
the four books of Academic Questions,
I have laid open that species of
philosophy which I think the least
arrogant, and at the same time the
most consistent and elegant. Again,
as the foundation of all philosophy
is the knowledge of the chief good
and evil which we should seek or
shun, I have thoroughly discussed these
topics in five books, in order to
explain the different arguments and
objections of the various schools in
relation thereto.1 In five other books
of Tusculan Questions, I have explained
what most conduces to render life
happy. In the first, I treat of
the contempt of death ; in the
second, of the endurance of pain and
sorrow ; in the third, of mitigating
melancholy; in the fourth, of the
other perturbations of the mind; and
in the fifth, I elaborate that most
glorious of all philosophic doctrines — the
all-sufficiency of virtue ; and prove that
virtue can secure our perpetual bliss
without foreign appliances and assistances.
When these works were completed, I
wrote three books on the Nature
of the Gods. I have discussed
all the different bearings and topics
of that subject, and now I proceed
in the composition of a treatise
on Divination, in order to give
1 He is here referring to the
treatise De Finibus. ON DIVINATION.
201 that subject the amplest
development. And if, when this is
finished, I add another on Fate, I
shall have abundantly examined the whole
of that question. To this catalogue
of my writings, I must likewise add
my six books on the Republic, which
I composed when I was directing the
government of the State. A grand
subject, indeed, and peculiarly connected
with philosophy, and one which has
been richly elaborated by Plato, Aristotle,
Theo- phrastus, and the whole tribe
of the Peripatetics. I must not
forget to mention my Essay on
Consolation, which afforded me myself no
inconsiderable comfort, and will, I trust,
be of some benefit to others. Besides
this, I lately wrote a work on
Old Age, which I addressed to Atticus
; and since it is owing to
philosophy that our friend Cato is
the good and brave man that he
is, he is well entitled to an
honourable place in the list of my
writings. Moreover, as Aristotle and
Theophrastus, two authors emi nently
distinguished both for the penetration and
fertility of their genius, have united
with their philosophy precepts like wise for
eloquence, so I think that I too
may class among my philosophical writings
my treatise on the Oratorical Art. So
there are three books on Oratory, a
fourth Essay entitled Brutus, and a
fifth named the Orator. II. Such
are the works I have already written,
and I am girding myself up to
what remains, with the desire (if I
am not hindered by weightier business)
of leaving no philosophical topic otherwise
than fully explained and illustrated in
the Latin language. For what greater
or better service can we render to our
country, than by thus educating and
instructing the rising generation, especially
in times like these, and in the
present state of morality, when society
has fallen into such disorders as to
require every one to use his best
exertions to check and restrain it ?
Not that I expect to succeed
(for that, indeed, cannot be even
hoped) in winning all the young to
the study of philo sophy. I shall
be glad to gain even a few, the
fruits of whose industry may have an
extended effect on the republic.
Indeed, I already begin to gather
some fruit of my labour, from those
of more advanced years, who are
pleased with my various books. By
their eagerness for reading what I
write, my ambition for writing is
from day to day more vehe- 202
ON DIVINATION. mently excited. And
indeed such individuals are far more
numerous than I could have imagined.
A magnificent thing- it will be, and
glorious indeed for the Romans, when
they shall no longer find it
necessary to resort to the Greeks for
philosophical literature. And this desideratum
I shall cer tainly effect for them,
if I do but succeed in accomplishing
my design. To the undertaking of
explaining philosophy I was origi nally
prompted by disastrous circumstances of the
state. For during the civil wars I
could not defend the common wealth by
professional exertions; while at the same
time I could not remain inactive. And
yet I could not find anything worthy
of myself for me to undertake. My
fellow-citizens, therefore, will pardon me,
or rather will thank me; because when
Rome had become the property of one
man. I neither concealed myself, nor
deserted them, nor yielded to grief, nor
conducted myself like a politician
indignant at either an individual or
the times, — nor played the part of a
flatterer of, or courtier to, the
power of another, so as to be
ashamed of myself. For from Plato and
philosophy I had learnt this lesson,
that certain revolutions are natural to
all republics, which alternately come under
the power of monarchs, and democracies,
and aiistocracies. And when this fate
had befallen our own Commonwealth, then,
being deprived of my customary employments,
I applied myself anew to the study of
philosophy, doing so both to alleviate
my own sorrow for the calamities of
the state, and also in the hope
of serving my fellow-countrymen by rny
writings. And thus in my books I
continued to plead and to harangue,
and took the same care to advance
the interests of philosophy as I had
before to promote the cause of the
Republic. Now, however, since I am
again engaged in the affairs of
government, I must devote my attention
to the state, or I should rather
say, all my labours and cares must
be occupied about that ; and I shall
only be able to give to philosophy
whatever little leisure I can steal
from public business and public
employments. Of these matters, however, I
shall find a better occasion to
speak; let me now return to the
subject of divination. For when my
brother Quintus had concluded his arguments
on the subject of divination, con
tained in the preceding book, and we
had walked enough to ON
DIVINATION. 203 satisfy us, we
sat down in my library, which,
as I before noticed, is in my
Lyceum. III. Then I said, — Quintus,
you have defended the doctrine of the
Stoics, respecting divination, with great
accuracy, and on the strictest Stoical
principles. And what particularly pleased
me was, that you supported your cause
chiefly by authorities, and those, too,
of great force and dignity, borrowed
from our own countrymen. It is now
my part to notice what you have
advanced. But I shall do so without
offering anything absolutely on one side
or the other, examining all your argu
ments, often expressing doubts and
distrusting myself. For if I assumed
anything I could say on this subject
as certain, I should play the part
of a diviner even while denying
divination. I am, no doubt, greatly
influenced by that preliminary question
which Carneades used to raise, — namely,
What is the subject matter of
divination 1 Is it things perceived
by the senses, or not 1 Such
things we see, or hear, or taste,
or smell, or touch. Is there, then,
among such, anything which we perceive
more by some foreseeing power, or
agitation of the mind, than through
nature herself] Or could a diviner,
if he were blind as Tiresias, somehow
or other distinguish between white and
black 1 or if he were deaf,
could he distinguish between the
articulations and modulations of voices ?
Divi nation, therefore, cannot be applied
to those objects which come under the
cognisance of the senses. Nor is
it of much use, even in matters
of art and science. In medicine for
instance, if a person is sick we
do not call in the diviner or
the conjuror, but the physician ; and
in music, if we wish to learn
the flute or the harp, we do
not take lessons from the soothsayer,
but from the musician. It is
the same in literature, and in all
those sciences which are matters of
education and discipline. Do you think
that those who addict themselves to
the art of divination can thereby
inform us whether the sun is larger
than the earth or of the same
size as it appears, or whether the
moon shines by her own light or
by a radiance borrowed from the sun,
or what are the laws of motion
obeyed by these orbs, or by those
other five stars which are termed the
planets 1 None of those who
pass for diviners pretend to be able
to instruct mankind in these matters,
nor can they prove the 204 ON
DIVINATION. truth or falsehood of
the problems of geometry. Such
mat ters belong to the mathematician,
not to conjurors. IV. And in
those questions which are agitated in
moral philosophy, is there any one
with respect to which any diviner
ever gives an answer, or is ever
consulted as to what is good, bad,
or indifferent ? For such topics
properly belong to philosophers. As to
duties, who ever consulted a diviner
how to regulate his behaviour to his
parents, his brethren, or his friends
1 or in what light he should
regard wealth, and honour, and authority
? These things are referred to sages,
not diviners. Again, as to the
subjects which belong to dialecticians, or
natural philosophers. What diviner can tell
whether there is one world or more
than one 1 what are the principles
of things from which all things
derive their being1? That is the
science of the natural philosopher. Or
who asks a diviner how to solve
the difficulty of a fallacy, or
disentangle the perplexity of a sorites,
which we may render by the Latin
word acervalem (an accumulation), though it
is unnecessary ; for just as the
word philosophy, and many other Grecian
terms, have become naturalized in our
language, so this word sorites is
already sufficiently familiar among us.
These subjects belong to the logician,
not to the diviner. Again, if
the question be, which is the best
form of govern ment, what are the
relative advantages or disadvantages of
such and such laws and moral
regulations, should we dream of advising
with a soothsayer from Etruria, or
with princes and chosen men experienced
in political matters 1 Now, if
divination regards neither those things
which are perceived by the senses,
nor those which are taught by art,
nor those which are discussed by
philosophy, nor those which affect the
politics of the state, I scarcely
understand what can be its object. It
must either bear upon all topics, or
else some particular one must be
allotted to it in which it may
be exercised. Now common sense certifies
us that it does not bear on all
topics, and we are at a loss to
discover what particular topic, or subject
matter, it can embrace. It follows,
therefore, that divination does not exist.
V. There is a common Greek
proverb to this effect : — The wisest
prophet 's he who guesses best. Will,
then, a soothsayer conjecture what sort
of weather is OX DIVINATION.
205 coming better than a pilot?
or will he divine the character of
an illness more acutely than a doctor
? or the proper way to carry on
a war better than a general '?
But I observe, 0 Quintus, that
you have pnidently dis tinguished the
topics of divination from those matters
which lie within the sphere of art
and skill, and from those which are
perceived by the observation of the
senses, or by any system. You have
denned it thus : — Divination is the
pre sentiment and power of foretelling
or predicting those things which axe
fortuitous. But, in the first place,
you are only arguing in a circle.
For does not a pilot, or a
physician, or a general foresee the
probabilities of things fortuitous as well
as your diviner? Can, then, any augur
whatsoever, or sooth sayer, or diviner,
conjecture better whether a patient will
escape from sickness, or a ship from
peril, or the army from the
manoeuvres of the enemy, than a
physician, or pilot, or general ? But
you said that these matters did not
belong to the diviner; but that men
could foresee impending winds or showers
by certain signs ; and to confirm
this argument, you have cited certain
verses of my translation of Ai-atus.
And yet these atmospheric phenomena are
fortuitous ; for they only happen
occasionally, and not always. What, then,
is this presentiment of things fortuitous,
which you call divina tion, and to
what can it be applied ? For
those things of which we can have
a previous notion by some art or
reason, you speak of as belonging not
to diviners, but to men of skill
in them. Thus you have left
divination nothing but the power of
predicting those fortuitous things which
cannot be foreseen by any art or
any prudence. If, for example, any
one had, many years before, predicted
that Marcus Marcellus, who was thrice
consul, was to perish by a shipwreck,
he would, doubtless, have been a true
diviner, because such a fact could
not have been foreseen by any other
means than that of divination. Divination,
there fore, is a foreknowledge of
events which depend on fortune. VI.
But can there be a just presentiment
of those things which do not admit
of any rational conjecture to explain
why they will happen? For what do
we mean when we say a thing
happens by chance, or fortune, or hazard,
or accident, but that something has
happened or taken place wnich might
206 ON DIVINATION. never have
happened or taken place at all, or
-which might have happened or taken
place in a different manner ? Now
how can that be fairly foreseen or
predicted which thus takes place by
chance, and the mere caprice of fortune
? It is by reason that the
physician foresees that a malady will
increase, a pilot that a tempest will
descend, and a general that the enemy
will make certain diversions. And yet
these men, who have generally good
reasons on which their opinions respecting
relative probabilities are founded, are
themselves often deceived. As when the
husbandman sees his olive-trees in blossom,
he ventures to expect that they will
also bear fruit; nevertheless, he is
sometimes mistaken. Now, if those who
never assert anything but from some
probable conjecture founded on reason, are
often mistaken, what are we to think
of the conjectures of those men who
derive their presages of futurity from
the entrails of victims, or birds, or
prodigies, or oracles, or dreams. I
have not as yet come to show
how utterly null and vain such signs
are, as the cleft of a liver,
the note of a crow, the flight
of an eagle, the shooting of a
star, the voices of people in frenzy,
lots and dreams, of each of which
I shall speak in its turn ; at
present I dwell only on the general
argument. How can it be fore seen
that anything will happen which has
neither any as signable cause, or
mark, to show why it will happen
1 The eclipses of the sun and
moon are predicted for a series of
many years before they happen, by those
who make regular calculations of the
courses and motions of the stars.
They only foretell that which the
invariable order of natuie will necessarily
bring about. For they perceive that
in the un- deviating course of the
moon's motions, she will arrive at a
given period at a point opposite the
sun, and become so exactly under the shadow
of the earth, which is the boundary
of night, that she must be eclipsed.
They likewise know, that when the
same moon comes between the earth and
the sun, the latter must appear
eclipsed to the eyes of men. They
know in what sign each of the
wandering stars will be at a future
pariod, and when each sign will rise
and set on any specific day. So
that you know on what principles
those men proceed who predict these
things. VII. But what rational rule
can guide those men who ON
DIVINATION. 2(>7 predict the discovery of
a treasure, or the accession to an
estate 1 And by what series of
cause and effect are the approach of
events of this kind indicated 1
If these events, and others of the
same kind, happen by any kind of
neces sity, then what is there that
we can suppose to be brought about
by chance or fortune 1 For nothing
is so opposite to regularity and
reason as this same fortune ; so that
it seems to me that God himself
cannot foreknow absolutely those things
which are to happen by chance and
fortune. For if he knows it. ilien
it will certainly happen; and if it
will certainly happen, there is no
chance in the matter. But there is
chance; therefore there is no such
thing as a pre sentiment of the
future. If, however, you maintain
that there is no such thing as
fortune, and that all things which
happen, and which are about to
happen, are determined by fate from
all eternity, then you must change
your definition of divination, which you
have termed the presentiment of thing's
fortuitous. For if nothing can happen,
or come to pass, or take place,
unless it has been determined from
all eternity that it shall happen at
a certain time what, chance can there
be in anything 1 And if there is
no such thing as chance, what becomes
of your definition of divination, which
you have called "a pre sentiment
of fortuitous events'?" although you
said that everything which happened, or
which was about to happen, depended
on fate. [Nevertheless, a great deal
is said on this subject of fate
by the Stoics. But of this elsewhere.
To return to the question at
issue. If all things happen by fate,
what is the use of divination 1
VIII. For that which he who
divines predicts, will truly come to pass
; so that I do not know what
character to affix to that circumstance
of an eagle making our friend King
Deiotaris renounce his journey; when, if
he had not turned back, he would
have slept in a chamber which fell
down in the ensuing night, and have been
crushed to death in the ruins. For
if his death had been decreed by
fate, he could not have avoided it
by divination ; and if it was not
decreed by fate, he could not have
experienced it. What, then, is the use
of divination, or what reason is
there why I should be moved by
lots, or entrails, or any kind of
prediction 1 For if in the first
Punic war it had been 208 ON
DIVINATION. settled by fate, that
one of the Roman fleets, commanded by
the consuls Lucius Junius and Publius
Clodius, should perish by a tempest,
and that the other should be defeated
by the Carthaginians, then even if
the chickens had eaten ever so
greedily, still the fleets must have
been lost. But if the fleets would
not have perished, if the auspices
had been obeyed, then they were not
destroyed by fate. But you say that
everything is owing to fate ; therefore
there is no such thing as divination.
If fate had determined, that in
the second Punic war the army of
the Komans should be defeated near
the lake Thra- simenus, then could
this event have been avoided, even if
Flaminius the consul had been obedient
to those signs f and those auspices
which forbade him to engage in battle
'? Cer tainly it might. Either, then,
the army did not perish by fate — for
the fates cannot be changed, — or if
it did perish by fate (as you
are bound to assert), then, even if
Flaminius had obeyed the auspices, he
must still have been defeated. Where,
then, is the divination of the Stoics
1 which is of no use to us
whatever to warn us to be more
prudent, if all things happen by
destiny. For do what we will, that
which is fated to happen, must
happen. On the other hand, what ever
event may be averted is not fated.
There is, there fore, no divination,
since this appertains to things which
are certain to happen ; and nothing
is certain to happen, which may by
any means be frustrated. IX.
Moreover, I do not even think that
the knowledge of futurity would be
useful to us. How miserable would
have been the life of King Priam
if from his youth he could have
foreseen the calamities which awaited his
old age ! Let us, however, leave
alone fables, arid come to facts that
are more near to us. I have
recounted, in my essay entitled "
Conso lation," the misfortunes which
have happened to the greatest men of
our commonwealth. Omitting, therefore, the
ancients, do you think that it would
have been any advantage to Marcus
Crassus, when he was flourishing with
the amplest riches and gifts of
fortune, to have foreknown that he
should behold his son Publius slain,
his forces defeated, and lose his own
life beyond the Euphrates with ignominy
and disgrace ? Or do you think
that Pompey would have experienced much
satisfaction in being thrice made consxil,
and having received ON DIVINATION.
ZlW three triumphs, and having attained
the summit of glory by his heroic
actions, if he could have foreseen
that he should be assassinated in the
deserts of Egypt after the defeat of
his army, and that after his death
those disasters should happen which we
cannot mention without tears ? What
do we think of Caesar 1 Would
it have been any pleasure to Caesar
to have anticipated by divination, that
one day, in the midst of the
throng of senators whom he himself
had elected, in the temple of Victory
built by Pompey, and before that
general's statue, and before the eyes
of so many of his own centurions,
he should be slain by the noblest
citizens, some of whom were indebted
to him for their digni ties, — aye,
slain under such circumstances that not
one of his friends, or even of
his servants, would venture to approach
him ? Could he have foreseen all
this, in what wretchedness would he
have passed his life 1 It is,
therefore, certainly more advantageous for
man to be ignorant of future evils
than to know them. For it cannot
be said, at least not by the
Stoics, that Pornpey would not have
taken up arms, nor Crassus passed the
Euphrates, nor Csesar engaged in the
civil war, if they had foreseen the
future ; therefore the end which they
met with was not in evitably ordained
by fate. For you insist upon it
that all things happen by fate,
therefore divination would have availed
them nothing. It would even have
deprived them of all enjoy ment in
the earlier part of their lives ; for
what gratification could they have enjoyed
if they had been always thinking of
their end I Therefore, to whatever
argument the Stoics resort in defence
of divination, their ingenuity is always
baffled. For if that which is to
happen may happen in different mode;-,
then, indeed, fortune may have great power
; but that which is fortuitous cannot
be certain. If, on the other hand,
every event is absolutely determined by
fate, and the time and cir cumstance
in connexion with which it is to
take place, what service can diviners
render us by informing us that very
sad events arc portended for us 1
X. They add, moreover, that when
we are duly attentive to religious
ceremonies, all things will fall more lightly
on us. But if everything happens by
fate, no religioxis ceremonies cau lighten
the event. Homer acknowledges this, when
he DE NAT. ETC. P 210 ON
D1VINATIOX. introduces Jupiter uttering
complaints that he cannot save the
life of his son Sarpedon against the
order of fate; and the same sentiment
is expressed in the Greek verse —
Great Destiny o'ermaster's Jove himself.
It appears to me that such a
fate as this is justly ridiculed by
the Atellane plays ; but on such
a serious subject we must not allow
ourselves to be facetious. I therefore
conclude with this observation. If we
cannot foresee anything which happens by
chance, since that thing is necessarily
uncertain, therefore there is no
divination; and if, on the contrary,
things that are to happen can be
foreseen because they happen by an
infallible fatality, there is no
divination, because you say divination only
relates to for tuitous events. But
what I have hitherto said respecting
divination may be looked upon as a mere
slight skirmishing of oratory. I must
now enter on the contest in good
earnest, and prepare to encounter the
most formidable arguments of your cause.
XI. For you say that there
exist two kinds of divination, — one
artificial, the other natural. The
artificial consists partly in conjecture,
partly in continued observation. The
natural, on the other hand, is what
the mind lays hold of or receives
externally from the divinity, from which
we all derive the origin, and
fashioning, and preservation of our minds.
Under the artificial divination you
enumerate several varieties of divination
connected with the inspection of entrails,
the observation of thunderstorms and
prodigies, and the auguries of those
who deal in signs and omens. And
under this artificial class you include
all kindsof conjectural divination. As
to the natural species of divination,
it appears to be sent forth and
to issue either from a certain
ecstasy of the spirit, or to be
conceived by the mind when disengaged
from the senses and from cares by
sleep. But you suppose that all
divination is derived from three things —
God, Fate, and Nature. But as you
could give no sound explanation, you
laboured to confirm it by a wonderful
multitude of imaginary examples, concerning
which you must permit me to say,
that a philosopher ought not to use
evidences which may be true through
accident, or false and fictitious through
malice. It behoves you to show, by
reason and argument, why each circtim-
ON DIVINATIOX. 211 stance
happens as it does, rather than by
the events, especially when they are
such as I am quite unable to
give credit to. XII. To begin
then with the Soothsayers, whose science
I believe that the interest of
Religion and the State requires to be
upheld. But as we are alone,
it behoves us, and myself more
especially, to examine the truth
without partiality, since I am in
doubt on many points. Let us
proceed, if you please, first to
consider the inspec tion of the
entrails of victims. Can you then
persuade any man in his senses, that
those events which are said to be
signified by the entrails, are known
by the augurs in con sequence of
a long series of observations 1 How
long, I wonder ! For what period
of time can such observations have
been continued 1 What conferences must
the augurs hold among themselves to
determine which part of the victim's
entrails represents the enemy, and which the
people ; what sort of cleft in the
liver denoted danger, and what sort
presaged advantage? Have the augurs of
the Etrurians, the Eleans, the Egyptians,
and the Carthaginians arranged these
matters with one another ? But that,
besides that it is quite impossi ble,
cannot be imagined. For we see that
some interpret the auspices in one
way, and some in another, and no
common rule of discipline is acknowledged
among the professors of the art; and
certainly if some secret virtue existed
in the victim's entrails which clearly
declared the future, it must either
belong to the universal nature of
things, or be connected in some way
or other with the Deity himself. But
what com munication can there exist
between so great and so divine a natuz-e
of things, one so beautiful, and so
admirably diffused throughout every part
and motion, and (I will not say)
the gall of the cock, (though that,
indeed, is said by many to be
the most significant of all signs,)
but the liver, or heart, or lungs
of a fat bullock 1 Can such
things possibly teach us the hidden
mysteries of futurity? XIII. Democritus,
speaking as a natural philosopher, than
which no class of men are more arrogant,
on this subject, trifles ingeniously
enough. Man, who knows not the
common facts of earth, Must waste his
time in star-gazing. He remarks, that
the colour and condition of the
victim's entrails may indicate the nature
of the pasturage, and the p2
212 ON DIVIXATIOX. abundance or
scarcity of those things which the
earth brings forth. He even supposes
they may guide our opinions respecting
the wholesonieness or pestilential state of
the atmosphere. 0 happy man! such a
person can certainly never want amusement.
The idea of any one being so enchanted
with such trifling, as not to see
that this theory might be plausible,
if, indeed, the entrails of all
animals assumed the same appearance and
colour at one and the same time
! But if we discover that the liver
of one animal is sound and healthy,
and that of another withered and
diseased at the same moment, what
indication can we draw from the state
and colour of the entrails'? Does
this at all resemble the indications from
which that Pherecydes, in a case
which you have cited, predicted the
approach of an earthquake from the
drying up of a spring? It required
a little confidence, I think, after
the earthquake had taken place, to
presume to say what power had
produced it ; [but] could they even
foresee that it would take place at all
from the appearance of a running
spring? Many such stories are recounted
in the schools, but we are not
obliged to believe the whole of them.
But even supposing that what Democritus
says is true, when do we seek to
know the general phenomena of nature
by an examination of entrails; or
when did soothsayers ever tell us
anything of the sort from such an
inspection? They warn us of danger
from fire or water. Sometimes they predict
that inheritances will be added to
our fortunes, and .sometimes that we
shall lose what we already possess.
They regard the cleft in the lungs
as a matter of vital importance to
our property and our very life ; they
in vestigate the top of the liver
on all sides with the most scrupulous
exactness, and if by any chance they
cannot dis cover it, they affirm that
nothing more disastrous could have
happened. XIV. It is impossible, as
I have before observed, that such a
system of observation can have any
certainty about it; such divination as
this nourished not among the ancients;
it is the invention of mere art,
if, indeed, there can be any art,
properly so called, of things unknown.
But what connexion has it with the
nature of things? And even if it
were united and joined therewith, so
as to form one harmonious whole,
which I see is the opinion of
the natural philosophers, ON
D1YINAT10X. Ulo and especially of
those who say that all things that
exist are but one whole ; still what
correspondence can there be between the
order of the universe and the
discovery of a treasure? For if an
increase of my wealth is indicated by
the entrails of a victim, and this
fact is a necessary link in the
chain of nature, then it follows, in
the first place, that we must suppose
that the entrails themselves form other
links; and secondly, that my private
gain is connected with the nature of
things. Are not the natural philosophers
ashamed to say such things as these?
For, although there may be some
connexion in the nature of things,
which I admit to be possible, — (for
the Stoics have collected many cases
which they think confirm the notion,
as when they assert that the little
livers of little mice increase in
winter, and that dry pennyroyal flourishes
in the coldest weather, and that the
distended vesicles, in which the seeds
of its berries are contained, then
burst asunder; that the chords of a
stringed instrument at times give notes different
from their usual ones; that oysters
and other shell-fish increase and decrease
with the growth and waning of the
moon ; and that trees lose their
vitality as the moon declines, just
as they dry up in winter, and
that this is the time to\cut them.
Why need I speak of the seas,
and the tides of the ocean, the
flow and ebb of which are said
to be governed by the moon ?
and many other examples might be
related to prove that some natural
connexion subsists between objects appa
rently remote and incongruous. XV.
Let us grant this, for it does not
in the least make against our argument ;) —
granting, I say, that there is a
cleft of some kind in a liver,
does that indicate gain to any one?
By what natural affinity, by what
harmony, by what secret accord of
nature, or, to use the Greek term,
by what sympathy can you discern a
necessary relation between a cleft liver
and my gain, or between my gain
and heaven and earth, and the
universal nature of things ? I
may even grant you this, though I
shall be greatly damaging my argument
if I allow that there is any connexion
between nature and entrails. But
suppose I make this concession, how
does it happen that he who would
obtain some benefit from the Gods can
discover, just when he wishes, a
victim exactly adapted to his 214
ON DIVINATION. purpose ? I had
thought this objection was unanswerable,
but see how cleverly you get over
it. I do not blame you for
this, I rather commend your memory.
But I am ashamed of Antipater,
Chrysippus, and Posidonius, who all assert
the same proposition — namely, that the
divine and sentient energy which extends
through the universe, directs us even
in the choice of the victim by
whose entrails we are to frame our
divinations. And to improve upon this
theory, you agree with them in
asserting that at the very instant
that the sacrifice is offered, a
certain appropriate change takes place in
the victim's entrails, so that we can
therein discover some sig nificant addition
or deficiency, since all things are
obedient to the will of the Gods.
Believe me, there is not an old
woman in the world so superstitious
as gravely to believe these things.
Can you imagine that the same
bullock, if chosen by one man, will
have the head of the liver, and
if chosen by another will not have
it 1 Can this same head come
and go at the instant just to
accommodate the individual who offers the
sacrifice 1 Do you not perceive that
there must be considerable chance in
the choice of the victim 1 and in
fact the thing speaks for itself,
that this must be the case. For
when one ill-omened victim is discovered
to have had no head to its
liver, it often happens that the one
which is offered immediately afterwards has
the most perfect entrails imaginable. What
then becomes of the menaces of the
first victim's entrails, or how have
the Gods been so suddenly appeased?
XVI. But you will say, that in
the entrails of the fat bull which
Caesar offered, there was no heart,
and since it was not possible that
this animal could have lived without
a heart, we must suppose that the
heart was annihilated at the instant
of immolation. How is it that you
think it impossi ble that an animal
can live without a heart, and yet
do not think it impossible that t its
heart could vanish so suddenly, nobody
knows whither? For myself, I know not
how much vigour in a heart is necessary
to carry on the vital function, and
suspect that if afflicted by any
disease, the heart of a victim may
be found so withered, and wasted, and
small, as to be quite unlike a
heart. But on what argument can you
build an opinion that the heart of
this same fat bullock, if it existed
in him before, disappeared at the
instant of immola- ON DIVINATION.
215 lion? Did the bullock behold
Ceesar in a heartless condition even while
arrayed in the purple, and thus lose
its own heart by mere force of
sympathy? Believe me, you are
betraying the city of philosophy while
defending its castles. In trying to
prove the truth of the auguries, you
are overturning the whole system of
physics. A victim has a heart, and
head of the liver : the moment that
you sprinkle him with meal and wine
they depart, some God carries them
off, some power destroys or consumes
them. It is not nature alone,
therefore, which causes the decay and
destruction of everything; and there are
some things which arise out of
nothing, and some which suddenly perish
and become nothing. What natural
philosopher ever said such a thing as
this? The soothsayers affirm it. Do
you then think that you are to believe
them rather than the natural philosophers?
XVII. Again, when you sacrifice to
several Gods at the same time, how
is it that the sacrifice is
favourably received by some, and is
rejected by others ? And what inconsistency
must there be among the Gods, if
they threaten by the first entrails,
and promise good fortune by the second
! Or is there such strong dissension
among the Deities, even when they are
nearly related to each other, that
certain entrails bode good when offered
to Apollo, and evil when offered to
his sister Diana ? It is clear that
since the victims are brought by
chance, the entrails must in the case
of each sacrificer depend upon what
victim falls to his share, and that
very thing requires some divination to
know what victim falls to each person's
share, as, in the case of lots,
what is drawn by each person.
Then you will speak of lots,
though you are not strengthen ing the
authority of sacrifices by comparing them
to lots, but weakening that of lots
by comparing them to sacrifices. Do
you think, when we send a messenger
to ^Equime- lium to bring us a
lamb to sacrifice, and the lamb which
is brought to me possesses entrails
peculiarly accommodated to the circumstances
of the case, that the messenger has
been guided to him not by chance,
but by divine direction ? For if
you wish to signify that in this
case chance interferes, as being some
lot connected with the will of the Gods,
I am sony that your friends the
Stoics should give the Epicureans
216 ON DIVINATION. such occasion
to ridicule them, for you know well
how they deride oil such ideas.
And, indeed, it is no hard
matter to be facetious on such an
idea. Epicurus, in order to show his
wit on the subject, introduced transparent
airy deities, residing, as it were,
be tween the two worlds as between
two groves, that they may avoid
destruction from the fall of either.
These deities, it seems, possess bodies
like ourselves, though I cannot find
that they make any use of them.
Epicurus therefore, who, by a
roundabout argument of this kind, takes
away the Gods, naturally feels no
hesitation in taking away divination also.
But though he is consistent with himself,
the Stoics are not ; for as the
God of Epicurus never troubles himself
with any business, either regarding himself
or others; he, therefore, cannot grant
divination to men. On the other hand,
the God of the Stoics, even though
lie does not grant divination, must
still regulate the affairs of the
universe and take care of mankind.
Why, then, do you involve yourself
in these dilemmas which you can never
disentangle ? For this is the way
in which, when they are in a
hurry, they usually sum up the matter- —
a If there are Gods, there must
be divination; but there are gods,
therefore there is divination." It
would be much more plausible to say — "
There is no divination, there fore
there are no Gods." Observe how
imprudently the Stoics make this assertion,
that if there is no divination, there
are no Gods ; for divination is
plainly discarded, and yet we must retain
a belief in Gods. XVIII. After
having thus destroyed divination by the
in spection of entrails, all the rest
of the science of the sooth sayers
is at an end ; for prodigies and
lightning follow in the same category.
With respect to the latter, their
predictions are founded on a long
series of observations, while the
interpretation of prodigies proceeds chiefly
on inference and conjecture. What
observations, then,, have been made about
lightning? The Etrurians, forsooth, have
divided heaven into sixteen parts; for
it was not very difficult to double
the four quarters, which we recognise,
into eight, and then to repeat the
process, so as by that means to
say from what direc tion the
lightning had come. But in the first
place, what OX DIVINATION. 217
difference does it make ? Secondly,
what does such a thing intimate 1
Is it not plain from the astonishment
which was at first excited in men's
minds, because they feared the thunder
and the hurling of the thunderbolt,
that they believed that they were the
immediate manifestations brought about by
the all-powerful ruler of all things,
Jupiter ? This is the reason of
the enactment in the public registers,
that the comitia of the people shall
not be held when Jupiter thunders and
lightens. It was enacted, perhaps with
a view to the interest of the
state, for our ancestors wished to
have pretexts for not holding the
comitia. Therefore, in the case of
the comitia, lightning is the only
vitiating irregularity. But in all other
matters it is a most favourable
auspice if it comes on the left
hand. But we will speak of the
auspices hereafter ; at present we will
confine ourselves to lightning. XIX.
What can be less proper for natural
philosophers to say, than that anything
certain is indicated by things which
are uncertain 1 I cannot believe that
you are one of those who imagine
that there were Cyclopes in mount
^Etna who forged Jove's thunderbolt, for
it would be wonderful indeed if
Jupiter should so often throw it away
when he had but one. Nor would
he warn men by his thunderbolts what
they should do or what thoy should
avoid. For the opinion of the
Stoics on this point is, that the
exhalations of the earth which are
cold, when they begin to flow abroad,
become winds ; and when they form
themselves into clouds, and begin to
divide and break up their fine
particles by repeated and vehement gusts,
then thunder and lightning ensue ; and
that when by the conflict of the
clouds the heat is squeezed out so
as to emit itself, then there is
lightning. Can we, then, look for any
intimation of futurity in a thing
which we see brought about by the
mere force of nature, without any
regularity or any determined pei'iods 1
If Jupiter wished that we should
form divinations by lightnings, would he
throw away so many flashes in vain
] For what good does he do when
he throws a thunderbolt into the
middle of the sea, or upon lofty
mountains, which is very common, or
upon deserts, or in the countries of
those nations among which no meteorological
observations are made ] Oh ! but a
head was discovered in the Tybcr. As
if I 218 ON DIVINATION.
affirmed that those soothsayers had
no skill ! What I deny is only
their divination. For the distribution of
the firma ment, which we have just
mentioned, and their various observations,
enable them to note the direction
from which the lightning has proceeded,
and where it falls. But no reason
can inform us of its signification.
XX. You will, however, urge against
me my own verses — The father
of the Gods who reigns supreme
On high Olympus, smote his proper fane,
And hurl'd his lightnings through the
heart of Rome. At the same time
the statue of Natta and the images
of the Gods, and Romulus and Remus,
with that of the beast who was
nursing them, were struck by the thunderbolt
and thrown down ; and the answers of
the soothsayers, with reference to these
prodigies, were found perfectly correct.
That also was a surprising thing,
that the statue of Jupiter was placed
in the Capitol, two years later than
it had been contracted for, at the
very time that information of the
conspiracy was being laid before the
senate. Will you, then, (for this is
the way you are used to argue
with me,) bring yourself to uphold
that side of the question in
opposition to your own actions and
writings ? You are my brother,
and all you say is entitled to
my respect. Yet what is there here
that offends you? Is it the thing
itself, which is of such and such
a character, or I myself, who only
wish to get at the truth ? I
therefore say nothing upon it for the
sake of contradiction, and only seek
from you yourself information respecting
all the prin ciples of the art
of soothsaying. But you have involved
yourself in an inextricable dilemma; for
foreseeing that you would be hard
pressed, when I should urge you to
explain the cause of every divination,
you made many excuses to show why,
when you were sure of the fact,
you did not inquire into its
principles and causes, — that the question
was, what was done, and not why
it was done ; as if I granted
that it was done at all, or as
if it were not the duty of a
philosopher to inquire into the reason
why every thing takes place. At the
same time you quoted my prog nostics,
and spoke of the scammony, the
aristoloch, and other herbs, whose virtues
were evident to you from their
effects, though the law of their
operation was unknown to you. OX
DIVINATION. 219 XXI. All this
is, however, beside the main question.
For the Stoic Boethus, whose name you
have cited, and even our friend
Posidonius have investigated the causes of
prognostics, and though it is not
easy to discover the cause of such
occult mysteries, yet the facts themselves
may be observed and animadverted upon.
But as to the statue of Natta
and the tables of the law which
were struck by lightning, what observations
were made, or what was there ancient
connected with the matter 1 The
Pinarii Nattse are noble, therefore danger
was to be feared from the nobility.
This was a very cunning device of
Jupiter ! Romulus, represented by the
sculptor as sucking a she-wolf, was
likewise smitten by the lightning. Hence,
according to you, some danger to the
city of Rome was threatened. How
cleverly does Jupiter make us acquainted
with future events by such signs as
these ! Again, his statue was being
erected at the very same time that
the conspiracy was being discovered in
the senate, and you conceive this
coincidence happened rather by the
providence of God than by any chance
of fortune. And you think that the
statuary who had contracted for the
making of that column with Torquatus
and Cotta, was not so long delayed
in accomplishing his work by idleness
or poverty, but by the special
interposition of the immortal Gods.
Now I do not absolutely deny
that such might possibly be the case ;
but I do not know that it was,
and wish to be instructed by you.
For when some things appeared to me
to have happened by chance in the
way in which the sooth sayers had
predicted, you launched out into a long
discourse on the doctrine of chances,
saying that four dice thrown at
hazard may produce Venus by accident,
but that four hundred dice cannot
produce a hundred Venuses. In the
first place, I know no reason in
the nature of things why they should
not do even this ; but I will
not argue that point, for you have plenty
of similar examples, and talk about a
chance dashing of colours, the snout
of a pig, and many other similar
instances. You say that Carneades argued
in the same way about the head
of a little Pan ; as if that might
not have happened by chance, and as
if there must not be in all
marble the raw material of even such
a head as Praxiteles would have made.
For a perfect head is only formed
by 220 OX DIVINATION. cutting
away. Praxiteles adds nothing to the
marble, but when much that was
superfluous is removed, and the features
are arrived at, then you learn that
that which is now polished up was
always contained within. Such a
figure, therefore, may have spontaneously
existed in the quarries of Chios. But
grant that this is a fiction, have
you never fancied that you could
discover in the clouds the figures of
lions and centaurs 1 Accident may, therefore,
some times imitate nature, though you
denied that just now. XXII. But
as we have sufficiently discussed
divination by entrails and lightning, we
must now consider portents and prodigies,
in order that we may leave no
branch of the system of the
soothsayers untouched. You have mentioned
a wonderful story of a mule that
was delivered of a colt ; a strange
event, because of its extreme rarity.
But if such a thing were impossible,
it would never happen at all; and
this may be said against all sorts
of pro digies, that those things
which are impossible never happened at all
; and if they are possible, it
need not surprise us that they happen
occasionally. Besides, in extraordinary
events, ignorance of their causes produces
astonishment; but in ordinary events such
igno rance occasions no such result.
The man who is astonished if a
mule brings forth a colt, does not
know how it is that a mare
brings forth a foal, or indeed how,
in any case, nature effects the birth
of a living animal; but he is
not surprised at what he sees
frequently, even if he does not know
why it happens; but if that which
he never beheld before happens, then
he calls it a prodigy. In this
case, is it a prodigy when the
mule conceives, or when she brings
forth 1 Perhaps the conception may
have been contrary to nature, but
after that her delivery is almost
necessary. But we have spoken enough
on this topic : let us examine the
origin of the establishment of soothsayers.
For when we are acquainted with it,
we shall be better able to judge
what degree of credit it is entitled
to. XXIII. They tell us
that as a labourer one day
was ploughing in a field in the
territory of Tarquinium, and his
ploughshare made a deeper furrow than usual,
all of a sudden there sprung out
of this same furrow a certain Tages,
who, as it is recorded in the
books of the Etrurians, possessed the
OX DIVINATION. 221 visage of
a child, but the prudence of a
sage. When the labourer was surprised
at seeing him, and in his
astonishment made a great outcry, a
number of people assembled round him,
and before long all the Etrurians
came together at the spot. Tages then
discoursed in the presence of an
immense crowd, who treasured up his
words with the greatest care, and
after wards committed them to writing.
The information they derived from this
Tages was the foundation of the
science of the soothsayers, and was
subsequently improved by the accession of
many new facts, all of which
confirmed the same principles. Here is
the story that the Etrurians give out
to the world. This record is
preserved in their sacred books, and
from it their augurial discipline is
deduced. Now do you imagine that
we need a Carneades or Epicurus to
refute such a fable as this1? Lives
there any one so absurd as to
believe that this (shall I say god,
or man 1) was thus ploughed up
out of the earth 1 If he was
a god, why did he conceal himself
under the earth against the order of
nature, so as not to behold the
light till he was ploughed up] Could
not that same god have instructed
mankind from a station somewhat more
elevated ? And if this Tages was
a man, how could he have lived
thus buried and smothered in the
earth 1 and how could he have
learnt the wonders he taught to
others ? But I am even more
foolish than those who believe such
nonsense, for thus wasting so much
time in refxiting them. XXIV. There
is an old saying of Cato, familiar
enough to everybody, that " he wondered
that when one soothsayer met another,
he could help laughing." For of
all the events pre dicted by them,
how very few actually happen ? And
when one of them does take place,
where is the proof that it does
not take place by mere accident 1
When Hannibal fled to king Prusias,
and was eager to wage war with
the enemy, that monarch replied that
he dared not do so, because the
entrails of the sacrifice wore an
unfavourable aspect. " Would you,
then," said Hannibal, "rather trust
a bit of calf's flesh than a
veteran general?" And as to Caesar,
when he was warned by the chief
sooth sayer not to venture into
Africa before the winter, did he not
cross? If he had not done so,
all the forces of the enemy would
have assembled in one place. 222
OX DIVINATION. Why need I
enumerate the responses of the soothsayers,
of which I could cite an infinite
number, which have either received no
accomplishment at all, or an accomplishment
exactly the reverse of the prediction
1 In this last Civil War, for
instance — good Heavens ! how often were
their responses utterly falsified by the
result ! How many false prophecies were
sent to us from Rome into Gi'eece
! How many oracles in favour of
Pompey ! For that general was not
a little affected by entrails and
prodigies. I have no wish to recount
these things to you, nor indeed is
it necessary, for you were present.
But you see that nearly all the
events took place in the manner
exactly contrary to the predictions. So
much for responses. Let us now say
a word or two on prodigies.
XXV. You have mentioned several
things on this topic which I wrote
during my consulship. You have
brought up many of those anecdotes
collected by Sisenna before the Mar-
sian War, and many recorded by
Callisthenes before the un fortunate battle
of the Spartans at Leuctra, of each
of which I will speak separately, as
far as seems necessary; but at
present we must discuss of prodigies
in general. For what is the
meaning of this kind of divination — this
dreadful denouncing of impending calamities —
derived from the Gods 1 In the
first place, what is the object of
the Gods, in giving us prodigies and
signs which we cannot understand without
interpreters, and in advertising us of
disasters which we cannot avoid 1 But
even honest men do not act thus,
giving notice to their friends of
impending misfortune which they cannot
possibly avoid ; and physicians, though
they are often aware of the fact,
yet never tell their patients that
they must needs die of the complaint
from which they are suffering. For
the prediction of an evil is only
beneficial when we can point out some
means of avoiding it or miti gating
it. What good, then, did these
prodigies, or their interpreters, do to
the Spartans, or more recently to the
Romans 1 If they are to be
considered as the signs of the Gods,
why were they so obscure ? For
if they were sent in order that
we might understand what was about to
happen, then it ought to have been,
declared intelligibly; and if we were
not intended to know, then they
should not have been given even
obscurely. XXVI. As for all
conjectures on which this kind of
divina- ON DIVINATION. ]i26
tion depends, the opinions of men
differ so much from each other that
they often make very opposite deductions
from the same thing. For as in
legal suits, the plea of the
plaintiff is contrary to that of the
defendant, and yet both are within
the limits of credibility, — so in all
those affairs which only admit of
conjectural interpretation, the reasoning must
be extremely uncertain. And as for
those things which are caused at times
by nature, and at others by chance,
(some times, too, likeness gives rise
to mistakes,) it is very foolish to
attribute all these things to the
interpositions of the Gods, without
examining their proximate causes. You
believe that the Boeotian diviners of
Lebadia foreknew by the crowing of
the cocks that the victory belonged
to the Thebans, because these birds
only crow when they are vic torious,
and hold their peace when they are
beaten. Did, then, Jupiter give a
signal to so important a city by
the means of hens 1 But do
cocks only crow when they are vic
torious 1 At that time they were
crowing, and they had not conquered. You
say that this was a prodigy. It
would have been a prodigy, and a
very great one, if the crowing had
pro ceeded from fishes instead of
birds. But what hour is there of
day, or of night, when cocks do
not crow 1 and if they are
sometimes excited to crow by their
joy in victory, they may likewise be
excited to do the same by some
other kind of joy. Democritus,
indeed, states a very good reason why
cocks crow before the dawn ; for, as
the food is then driven out of
their stomachs, and distributed over their
whole body and digested, they utter a
crowing, being satiated with rest. But
in the silence of the night, says
Ennius, " they indulge their throats,
which are hoarse with crowing, and
give their wings repose." As, then,
this animal is so much inclined to
crow of its own accord, what made
it occur to Callisthenes to assert
that the Gods had given the cocks
a signal to -crow; since either nature
or chance might have done it ?
XXVII. It was announced to the
senate that it had rained blood, that
the river had become blackened with
blood, and that the statues of the
immortal gods were covered with sweat.
Do you imagine that Thales or
Anaxagoras, or any other natural
philosopher, would have given credence to
such news? Blood and sweat only
proceed from the animal body; there
might have been some discoloration caused
by some 22 4 ox DIVINATION.
contagion of earth very like blood,
and some moisture may have fallen on
the statues from without, resembling
perspira tion, as \ve see sometimes
in plaster during the prevalence of a
south wind; and in time of war
such phenomena appeal- more numerous and
more important than usual, as men are
then in a state of alarm, while
they are not noticed in peace.
Besides, in such periods of fear and
peril, such stories are more easily
believed, and invented with more impunity.
We are, however, so silly and
inconsiderate, that if mice, which are
always at that work, happen to gnaw
anything, we immediately regard it as
a prodigy. So because, a little
before the Marsian war, the mice gnawed
the shields at Lanuvium, the soothsayers
declared it to be a most important
prodigy ; as if it could make
any difference whether mice, who day
and night are gnawing something, had
gnawed bucklers or sieves. For if we
are to be guided by such things,
I ought to tremble for the safety
of the commonwealth, because the mice
lately gnawed Plato's Republic in my
library ; and if they had eaten the
book of Epicurus on Pleasure, I ought
to have expected that corn would rise
in the market. XXVIII. Are we,
then, alarmed if at any time any
unna tural productions are reported as
having proceeded from man or beast?
One of which occurrences, to be brief,
may be accounted for on one
principle. Whatever is born, of whatever
kind it may be, must have some
cause in nature, so that even though
it may be contrary to custom, it
cannot possibly be contrary to nature. Investigate,
if you can, the natural cause of
every novel and extraordinary circumstance: —
even if you cannot discover the
cause, still you may 'feel sure that
nothing can have taken place without
a cause ; and, by the principles
of nature, drive away that terror
which the novelty of the thing may
have occasioned you. Then neither
earthquakes, nor thunderstorms, nor showers
of blood and stones, nor shooting
stars, nor glancing torches will alarm
you any more. If you ask
Chrysippus to explain the laws hat
govern these phenomena, though he is
a great defender of divina tion, he
will never tell you that they have
happened by chance, but he will give
you a natural explanation of all of
them. For, as it has been before
stated, nothing can happen without a
cause, and nothing happens which is
ON DIVINATION. '2'2i) impossible;
iior, if that has happened which
could happen, ought it to be regarded
as a prodigy. Therefore there are no
such things as prodigies. For if we
place in the rank of prodigies every
rare occurrence, it follows that a
wise man is one of the greatest
prodigies. For I believe there are
fewer instances of wise men in the
world, than of mules which have
brought forth young. So this
principle concludes that that which cannot
take place in the nature of things
never does take place; and that that
which can take place in the nature
of things, is not a prodigy, and
therefore there are no prodigies at
all. Therefore a diviner and interpreter
of prodigies being con sulted by a
man who informed him, as a great
prodigy, that he had discovered in
his house a serpent coiled around a
bar, answered very discreetly, that there
was nothing very wonderful in this,
but if he had found the bar
coiled around the serpent, this would
have been a prodigy indeed. By this
reply, he plainly indicated that nothing
can be a prodigy which is consistent
with the nature of things. XXIX.
Caius Gracchus wrote to Marcus Pomponius,
that his father having caught two
serpents in his house, sent to
consult the soothsayers. Why were two
serpents entitled to such an honour
more than two lizards or two mice
1 Because these are every day
occurrences, you would reply, while ser
pents were comparatively rare ; as if
it signified how often a thing which
was possible took place. But I
marvel, if the release of the female
snake caused the death of Tiberius
Gracchus, and that of the male was
to be fatal to Cornelia, why he
let either of them escape. For he
does not record that the soothsayers had
told him what would happen if he
let neither of the snakes escape. But
it seems T. Gracchus died soon after,
doubtless of some natural malady which
destroyed his constitution, and not because
he had saved the life of a viper.
Not that the infelicity of the
haruspices is so great that their
predictions are never fulfilled by any
chance whatever. And, I must confess,
if I could but believe it, I
should exceedingly wonder at the story which
you have cited from Homer respecting
the prediction of Calchas, who, from
observing the number of a flock of
sparrows, foretold the number of years
that would be expended in the siege
of Troy. DE NAT. ETC. Q
2-6 ON DIVINATIOX. Of which
conjecture Homer makes Agamemnon1 speak
thus, if I may repeat you a
translation of the passage which. I
made in a leisure hour : — XXX.
Not for their grief the Grecian host
I blame ; But vanqui.sh'd ! baffled
! oh, eternal shame ! Expect the
time to Troy's destruction giv'n, And
try the faith of Calchas and of
heav'n. What pass'd at Aulis, Greece
can witness bear, And all who live
to breathe this Phrygian air, Beside
a fountain's sacred brink was raised
Our verdant altars, and the victims blazed
; ('Twas where the plane-tree spreads
its shades around) The altars heaved
; and from the crumbling ground A
mighty dragon shot, of dire portent;
From Jove himself the dreadful sign
was sent. Straight to the tree his
sanguine spires he roll'd, And curl'd
around in many a winding fold. The
topmost branch a mother-bird possest ;
Eight callow infants fill'd the mossy
nest ; Herself the ninth : the
serpent as he hung, Stretch'd his black
jaws, and crush'd the crying young;
While hov'ring near, with miserable moan,
The drooping mother wail'd her children
gone. The mother last, as round the
nest she flew, Seized by the beating
wing, the monster slew ; Nor long
survived, to marble turn'd he stands
A lasting prodigy on Aulis' sands.
Such was the will of Jove ; and hence
we dare Trust in his omen and
support the war. For while around we
gazed with wond'ring eyes, And trembling
sought the Pow'rs with sacrifice, Full
of his god, the rev'rend Calchas cried
: Ye Grecian warriors, lay your fears
aside, This wondrous signal Jove himself
displays, Of long, long labours, but
eternal praise. As many birds as by
the snake were slain, So many years
the toils of Greece remain ; But
wait the tenth, for llion's fall
decreed. Thus spoke the prophet, thus
the fates succeed. Now is not
this a curious mode of augury1? — to
conjecture by the number of sparrows
eaten by a serpent, the number of
years expended in the Trojan war. Why
years rather than months or days? And
how -was it that Calchas selected
sparrows, in which there is nothing
supernatural, for the signs of his
prophecy 1 while he is silent about
the serpent, which 1 This is a
mistake of Cicero's. It is Ulysses
who speaks. The pas sage occurs Iliad
ii. 299 — 330. ON DIVINATION. 227
JTU changed, as it is said,
into stone (an event which is im
possible). Lastly, what analogy or relatkfe
can subsist between the sparrows seen
and the years predicted 1 As to
what you have said respecting the
serpent which appeared to Sylla while
he was sacrificing, I recollect the
whole circumstance ; and remember that
just as Sylla was about to attack
the enemy at Nola, he made a
sacrifice, and that at the moment the
victim was offered, a serpent issued
from beneath the altar, and that the
same day a glorious victoiy was
gained, — not l;wing to the advice of
the soothsayers, but to the skill of
the general. XXXI. And prodigies of
this kind have nothing miracu lous in
them ; which, when they have taken
place, are brought under conjecture by
some particular interpretation, as in the
case of the grain of wheat found
in the mouth of Midas while an
infant, or that of the bees, which
are said to have settled on the
lips of the infant Plato. Such things
are less admirable for themselves than
for the conjectures they gave rise to
; for they may either not have
taken place at the time specified, or
have been fulfilled by mere accident.
I likewise suspect the truth of
the report which you have related
respecting Roscius — namely, that a serpent
was found coiled round him when he
was in his cradle. But even if
it be a fact that a serpent was
thus in the cradle, it is not
very wonderful, especially in Solonium,
where snakes are in the habit of
basking before the fire. As to the
interpretation which the soothsayers gave
of the circumstance, that the child
would become most illustrious and most
celebrated, I. am astonished that the
immortal Gods should have announced such
great glory to a comedian, and preserved
such an obsti nate silence respecting
Scipio Africanus. You have related
several prodigies whicli happened to
Flaminiusj for instance, that his horse
suddenly fell with him, — there is surely
nothing very astonishing in that. Also,
that the standard of the first
centurion could not easily be pulled
out of the earth. Perhaps the
standard-bearer was pulling but timidly at
the stick which he had fixed in
the ground with confident resolution. What
is the wonder in the horse of
Dionysius having escaped out of the
river, and in his afterwards having
had a swarm of bees cluster on
his mane? But because Dionvsius happened
to ascend the Q2 228 ON
DIVINATION. throne of Syracuse soon
after this event, what had happened
by chance was regarded as an
extraordinary prodigy and prognostic. You
go on to say, that at Lacedsemon,
the armour in the temple of Hercules
rattled. At Thebes the closed gates
of the temple of the same God
suddenly burst open of their own
accord, and the bucklers which had
been suspended on the walls fell to
the ground. Certainly nothing of this
kind could have happened without some
motion or impulse ; but why need we
impute such motion to the Gods rather
than call it an accident1? XXXII.
At Delphi, you say, that a chaplet
of wild herbs suddenly appeared growing
on the head of Lysander's statue. Do
you think then that the chaplet of
herbs existed before any seed was
ripened 1 These seeds were probably
carried there by birds, not by human
agency, and whatever is on a head
may seem to resemble a crown. And
as to the circum stance which you
add, that about the same time the
golden stars of Castor and Pollux,
placed in the temple of Delphi,
suddenly vanished, and could nowhere be
discovei'ed ; this seems to me not so
much the work of the Gods, as
the sacrilege of thieves. I certainly
do wonder at the roguery of the
Ape of Dodona being recorded in the
Greek histories. For what is less
strange than that a most mischievous
animal should have upset the urn, and
scattered the oracular lots ? The his
torians, however, deny that this prodigy
was followed by any disastrous event
occurring among the Lacedaemonians. Now
to come to what you have reported
respecting the citizen of Veii, who
declared to the Senate that if the.
Lake Albanus overflowed, and ran into
the sea, Rome would perish, and that
if its course were diverted elsewhere,
Veii must fall. Accordingly the water
of the Alban lake was subsequently
drained away by new channels, not for
the safety of the citadel and the
city, but solely for the benefit of
the suburban district. A short time
afterwards, a voice was heard, warning
cer tain individuals to beware lest
Rome should be taken by the Gauls;
and upon this they consecrated an
altar on the New Road, to Aius
the Speaker. What, then, did this
Aius the Speaker speak and talk, and
derive his name from that cir-
ON DIVINATION. 229 cumstance, when
no one knew him ; and has he
been silent ever since he has had
an habitation, an altar, and a name
1 And the same remark will apply
to Juno the Admonitress; for what
warning has she ever given us, except
the one respecting the full sow 1
XXXIII. This is enough to say
about prodigies. Let me now
speak of auspices and of lots — those, I
mean, which are thrown at hazard, not
those which are announced by vati
cination, which we more properly call
oracles, and which we shall discuss
when we investigate divination of the
natural order; and after this we will
consider the astrology of the Chaldeans.
But first let us consider the
question of auspices. It is a very
delicate matter for an augur to speak
against them. Yes, to a Marsian
perhaps, but not to a Roman. For
we are not like those who attempt
to predict the future by the flight
of birds, and the observation of
other signs ; and yet I believe that
Romulus, who founded our city by the
auspices, considered the augural science
of great utility in foreseeing
matters. For antiquity was deceived
in many things, which time, custom,
and enlarged experience have corrected.
And the custom of reverence
for, and discipline and rights of, the
augurs, and the authority of the
college, are still retained for the
sake of their influence on the minds
of the common people. And certainly
the consuls P. Claudius and L. Junius
de served severe punishment, who set
sail in defiance of the auspices ;
for they ought to have been obedient
to the esta blished religion, and not
to have rejected so obstinately the
national ceremonials. Justly, therefore, was
one of them condemned by the judgment
of the people, while the other
perished by his own hand. Flaminius,
likewise, was not duly submissive to
the auspices; and that was the
reason, you say, why he was defeated.
But, the year afterwards, Paullus was
guided by them. Did he the less
for that perish with his army in
the battle of Cannes 1 Even
allowing the existence of auspices, which
I do not, certainly those at present
in use, whether by means of birds
or celestial signs, are but mere
semblances of auspices, and not real
ones. XXXIV. " Quintus Fabius, I
pray thee, assist me in the
auspices." He answers, " I
have heard." The augurial officer
230 ON DIVINATION. among our
forefathers was a skilful and learned man
; now they take the first that
offers. For a man must needs be
skilful and learned who understands the
meaning of silence. For in auspices
we call that silence which is free
from all Irregularity. To understand this,
belongs to a perfect augur. It
sometimes happens, however, that when he
who wishes to consult the auspices
has said to the augur whom he
has chosen to assist him, " Say,
if silence is observed," the augur,
without looking above or around him,
answers immediately, " Silence appears
to be observed." On this the
consulter rejoins, " Tell me whether
the chickens are eating." The augur replies,
" They are eating." But when
the consulter fur ther demands, "
What kind of fowls are they, and
whence do they come?" the augur
answers, "The chickens were brought in
a cage by a person who is
termed a poulterer." Such, then,
are the illustrious birds whom we
call, forsooth, the messengers of Jupiter ;
and whether they eat or not, what
does it signify ? Certainly nothing
to the auspices. But since, if they
eat at all, some portion of food
must inevitably fall on the ground
and strike (pavire) the earth, this
was at first called terripavium, then
terripudium, and is now called tripudium.
When, therefore, the chicken lets fall
from its beak a particle of its
food, the augur declares that the
tripu dium solistimum is consummated.
XXXV. What true divination can there
be in an auspice of this nature,
so artificially forced and tortured ?
which, we have a proof, was not
used among the most ancient augurs ;
for we have an ancient decree of
the college of augurs, that any bird
may make the tripudium. So that,
then, there would be an auspice if
the bird was free to show itself,
and the bird might appear to be
the messenger and interpreter of Jupiter.
But when a miserable bird is kept in
a cage, and ready to die of hunger, —
if such an one, when pecking up
its food, happens to let some
particle fall, can you think this an
auspice, or do you believe that
Romulus consulted the gods in this
manner ? Do you imagine that
those who pretend to augury apply
themselves at the present day to
discern the signs of heaven 1 No ;
they give their orders to the
poulterer. He makes his report. It
has been reckoned an excellent auspice
on all occasions, OX DIVINATION.
231 among the Romans, when it
thunders on the left hand, except in
reference to the Comitia ; and this
exception was doubtless contrived for the
benefit of the commonwealth, in order
that the chiefs of the state might
be the interpreters of the Comitia in
whatever concerns the judgments of the
people, the rights of the laws, and
the creation of the magistrates. "
But," you argue, " in consequence
of the letters of Ti berius Gracchus,
Scipio Nasica and Caius Martins Figulus
resigned the consulship, because the augurs
determined that they had been irregularly
created." Well, who denies that there
is a school of Augurs 1 What I
deny is, that there is any such
thing as divination. " But the
soothsayers are diviners ; and after
Tiberius Gracchus had introduced them into
the senate, on account of the sudden
death of the individual whose office
it was to report the order of
the elections, they said that the Comitia
had not been legally constituted."
Now, in reference to this case,
observe that they could not speak by
authority of the summoner of the
president of the centuries, for he
was dead; and conjecture without divination
could say that. Or perhaps what they
said was no better than the result
of chance, which prevails to a
considerable extent in all affairs of
this nature. For what could the sooth
sayers of Etruria know as to whether
the tent they observed was as it
should be, and whether the regulations
of the pomoerium, or circumvallation, were
exactly obeyed. For myself, I agree
with the sentiments of Caius Marcellus
rather than with those of Appius
Claudius, who were both of them my
colleagues ; and I think that, although
the college and law of augurs were
first instituted on account of the
reverence entertained for divination in
ancient times, they were afterwards
maintained and preserved for the sake
of the state. XXXVI. Of this,
however, more elsewhere. At present, let
us examine the auguries of other
nations who have evinced therein more
superstition than art. They make use
of all kinds of birds for their
auspices; we confine ourselves to few:
and one set of omens are reckoned
unfavourable by them, and a different
set by us. King Deiotarus often
asked me for an account of our
discipline and system of divination, and
I asked him for 232 ON
DIVINATION. information aoout nis. Good
heavens ! how different were the two
methods , in some instances, so much
so as to be downright contradictory
to one another. And he had re
course to augurs on all occasions ;
but how very seldom do we apply
to them unless the auspices are
required by the people ! Our
ancestors were unwilling to wage any
war without consulting the auspices. But
how many years have elapsed since
this ceremony has been neglected by
our proconsuls and propraetors ? They
never take auspices ; they do not
pass over rivers by the encouragement
of omens ; nor do they wait for
the intimation of the sacred chickens.
As to that divination which consists
in observing the flight of birds from
some elevated spot — once considered of so
much consequence in military expeditions, —
Marcus Marcellus, who was consul five
times, as well as imperator and chief
augur too, omitted it altogether. What
is become, then, of divina tion by
birds, which (as wars are carried on
by people who take no care about
any auspices) seems to be retained by
the city magistrates, while it is
renounced by our military com manders
? So much did Marcellus despise
auspices, that when he was proceeding
on any enterprise, he was accustomed
to travel in a closed litter, that
he might not be liable to be
hindered by them. And we augurs
now-a-days act much in the same way,
when, for fear of what is called
a joint auspice, we order the
sacrificial cattle to be separated from
each other. Not that I commend
conduct like this ; for to make these
contrivances, either that an auspice should
not happen at all, or that if
it happens it should not be seen, —
what is it but an attempt to
avoid the admonitions of Jupiter ?
XXXVII. It is ridiculous enough for
you to assert that this king
Deiotarus did not repent of having
believed the auspices which he experienced
when he went in search of Pompey, because
he had, by doing his duty, thus
secured the fidelity and friendship of
the Romans ; for that praise and
glory were dearer to him than his
kingdom and possessions. I dare say
they were ; but this has nothing to
do with the auspices. Surely no crow
could inform him that it was a
piece of magnanimity to defend the
liberty of the Roman people. It was
he himself who felt spontaneously what
he did feel; and ON
DIVINATION. 233 birds can do no
more than signify bare events, be
they for tunate or disastrous. Thus,
I conceive that Deiotarus in this
affair followed no other auspices than
those of conscience, which taught him
to prefer his duty to his interest.
But if the birds showed him that
the result would be prosperous, they
certainly deceived him ; for he fled
from the battle, together with Pompey,
and a grievous time it was for
him. From this general he was
compelled to separate — another affliction ;
and, to crown his troubles, he soon
had Csesar quartered upon him, both as
a guest and an enemy. What could
be more painful than this ?
Lastly , Csesar, after having deprived
him of the tetrarchy of the Trogini,
and bestowed it on a certain
Pergamenian of his train, — after having
likewise deprived him of Armenia, which
had been granted him by the senate, —
after having been entertained by him
with most princely hospitality, left his
entertainer the king wholly stripped of
his possessions. It is needless to
add more. I will return to my
original subject. If we seek to know
events by those auspices which are
sought from birds, it appears by this
argument that no birds could truly
have predicted prosperity to king Deiotarus.
If we want to know our duty,
that is not to be sought from
augury, but from virtue. XXXVIII. I
say nothing, then, of the augural
staff of Romulus, which you declare
to have remained unconsumed by fire
in the midst of a general conflagration
; and pass over the razor of
Attius Navius, which is reported to
have cut through a whetstone. Such
fables as these should not be
admitted into philosophical discussions.
What a philosopher has to do
is, first, to examine the nature of
the augural science, to investigate its origin,
and to pursue its history. But how
pitiful is the nature of a science
which pretends that the eccentric motions
of birds are full of ominous import,
and that all manner of things must
be done, or left undone, as their
flights and songs may indicate ! How
can their inclinations to the right
or left determine the power of
auspices ? and how, when, and by
wrhom were such absurd regulations as
these invented ? The Etrurian soothsayers
hold as the author of their dis
cipline a child whom a ploughshare
suddenly dug up from a clod of
the earth. Whom do we Romans look
upon as the 26i ON
DIVINATION. author of ours ? Is
it Attius Navius ? But Romulus and
Remus lived several years before him,
and they were both augurs, as we
are informed. Shall we call our
system the invention of the Pisidians,
the Cilicians, or the Phrygians 1
Shall we, by speaking thus, call men
devoid of all civilization the authors
of divination ? XXXIX. "
But," you say, " all kings,
people, and nations use auspices ; "
as if there was anything in the
world so very common as error is,
or as if you yourself, in judging,
were guided by the opinion of the
multitude. How few, for instance, are
there who deny that pleasure is a
good : most people even think it
the chief good. But is the Stoic
frightened from his creed by their
numbers ? or does the multitude
follow their authority in many things
1 What wonder is there, then, if
in respect of auspices, and all kinds
of divinations, weak spirits are affected
by those popular superstitions, though they
cannot overturn the truth 1 And
what uniformity or settled agreement exists
between augurs 1 The poet Ennius,
referring to our Roman augurs, says —
When on the left it thunders,
all goes well. In Homer, on the
contrary, Ajax,1 making some complaint or
other to Achilles about the ferocity
of the Trojans, speaks in this manner
— For them the father of the
Gods declares, His omens on the
right, his thunder theirs. So that
omens on the left appear fortunate to
us, while the Greeks and barbarians
prefer those on the right. Although I
am not unaware that our Romans call
prosperous signs sinistra, even if they
are in fact dextra. But certainly our
countrymen used the term sinistra, and
foreigners the word dextra, because that
usually appeared the best. How great,
however, is this contrariety ! Why need
I stop to mention that they use
different birds and different signs from
our selves? they take their observations
in a different way, and give answers
in a different way; and it is
superfluous to admit that some of
these modes are adopted through error,
some through superstition, and that they
often mislead. XL. To this catalogue
of superstitions you have not hesi-
1 This is another piece of forge
tfulness on the part of Cicero.— See
Iliad, ix. 236. OX DIVINATION.
235 tated to add a number of
omens and presages. For instance, you
have quoted the words which ./Emilia
addressed to Paulus, that Perses had
perished ; which Paulus received as
an omen of success. You quote likewise
the speech that Cecilia made to her
sister's daughter — " I yield my place
to you." Nor is this all : you
cite the phrase, favete linguis (keep
silence) ; and you extol the
prerogative presage derived from the name
of the person who takes precedence in
the elections of the comitia. I call
this being ingenious and eloquent against
yourself; for how, if you attend to
things like these, can your mind be
free and calm enough to follow, not
supersti tion, but reason, as your
guide in action 1 Is it not so
? If any one, while speaking on his
own affairs, in the course of his
common conversation, drops a word that
may seem to you to bear on anything
which you are thinking or doing,
shall that circumstance inspire you with
either fear or energy? When Marcus
Crassus was embarking his army at
Brundu- sium, a. certain itinerant vender
of figs from Caunus cried out in
the harbour, " Will you buy any
cauneas /" Let us say, if you
please, that this was an omen against
Crassus's expedition ; for that it was
as much as to say, Cave ne eas
(Beware how you go), and that if Crassus
had obeyed the omen he would not
have perished. But if we regard such
omens as these, we shall have to
take notice of sneezes, the breaking
of a shoe-tie, or the tripping over
a pebble in walking. It now remains
for us to speak of the lots,
and the Chal dean astrologers,
vaticinations, and dreams. And first let
us speak of lots. XLI. What,
now, is a lot? Much the same as
the game of mora, or dice, ! and
other games of chance, in which luck
and fortune are all in all, and
reason and skill avail nothing. These
games are full of trick and deceit,
invented for the object of gain,
superstition, or error. But let us
examine the imputed origin of the
lots, as we did that of the
system of the soothsayers. We read
in the records of the Prsenestines,
that Numeriua Sufnicius, a man of
high reputation and rank, had often
been commanded by dreams (which at
last became very threaten- ! The
Latin has quod talos jacere, quod tesseras,
— tali being dice with four flat and
two round sides, and tesserce dice
with six flat sides. 236 ON
DIVINATION. ing) to cut a flint-stone
in two, at a particular spot. Being
extremely alarmed at the vision, he
began to act in obedience to it,
in spite of the derision of his
fellow-citizens; and he had no sooner
divided the stone, than he found therein
certain lots, engraved in ancient
characters on oak. The spot in •which
this discovery took place is now
religiously guarded, being consecrated to
the infant Jupiter, who is represented
with Juno as sitting in the lap
of Fortune, and sucking her breasts,
and is most chastely worshipped by
all mothers. At the same time
and place in which the Temple of
For tune is now situated, they report
that honey flowed out of an olive. Upon
this the augurs declared that the
lots there instituted would be held
in the highest honour; and, at their
command, a chest was forthwith made
out of this same olive- tree, and
therein those lots are kept by which
the oracles of Fortune are still
delivered. But how can there be the
least degree of sure and certain
information in lots like these, which,
under Fortune's direction, are shuffled and
drawn by the hands of a child ?
How were the lots conveyed to this
particular spot, and who cut and
carved the oak of which they are
composed 1 " Oh," say they,
" there is nothing which God
cannot do." I wish that he had
made these Stoical sages a little
less inclined to believe every idle
tale, out of a superstitious and
miserable solicitude. The common sense
of men in real life has happily
succeeded in exploding this kind of
divination. It is only the antiquity
and beauty of the Temple of Fortune
that any longer pre serves the
Prsenestine lots from contempt even among
the vulgar. For what magistrate, or
man of any reputation, ever resorts
to them now? And in all other
places they are wholly disregarded ;
so that Clitomachus informs us, that
with refe rence to this, Carneades
was wont to say that he had
never been so fortunate as when he
saw Fortune at Prseneste. So we will
say no more on this topic.
XLII. Let us now consider the
prodigies of the Chaldeans. Eudoxus, who
was a disciple of Plato, and, in
the judgment of the greatest men, the
first astronomer of his time, formed
the opinion, and committed it to
writing, that no credence should be
given to the predictions of the
Chaldeans in their calculation of a man's
life from the day of his nativity.
ON DIVINATION. 237 Paneetius,
who is almost the only Stoic who
rejects astro logical prophecies, says that
Archelaus and Cassander, the two principal
astronomers of the age in which he
himself lived, set no value on
judicial astrology, though they were very
celebrated for their learning in other
parts of astronomy. Scylax of
Halicarnassus, a great friend of Pansetius,
and a first-rate astronomer, and chief
magistrate of his own city, likewise
rejected all the predictions of the
Chaldeans. But to proceed merely on
reason, omitting for the present the
testimony of these witnesses. Those
who put faith in the Chaldeans, and
their calcu lations of nativities, and
their various predictions, argue in this
manner : they affirm that in that
circle of constellations which the Greeks
term the Zodiac there resides a
ceiiain energy, of such a character
that each portion of its circum
ference influences and modifies the
surrounding heavens ac cording to what
stars are in those and the
neighbouring parts at each season ; and
that this energy is variously affected
by those wandering stars which we
call planets. But when they come into
that portion of the circle in which
is situated the rise of that star
which appears anew, or into that
which has anything in conjunction or
harmony with it, they term it the
true or quadrate aspect. And
moreover, as there happen at every
season of the year several astronomical
revolutions, owing to approximations and
retirements of the stars which we
see, which are affected by the power
of the sun, — they think it not
merely probable, but true, that according
to the temperature of the atmosphere
at the time must be the animation
and formation of children from their mother's
womb ; and that their genius,
disposition, temper, constitution, behaviour,
fortune, and destiny through life depend
upon that. XLIII. What an incredible
insanity is this ! for every error
does not deserve the mere name of
folly. The Stoic Diogenes grants, that
the Chaldeans possess the power of
foreseeing certain events ; to the limit,
that is, of predicting what a child's
disposition and his particular talent and
ability are likely to be. But he
denies that the other things which
they profess can possibly be known.
For instance ; two twins may re
semble each other in appearance, and
yet their lives and fortunes may be
entirely dissimilar. 238 ON
DIVINATION'. Procles and Eurysthenes,
kings of the Laceduemonians, were
twin-brethren. But they did not live
the same number of years ; for
Procles died a year before his
brother, and much excelled him in the
glory of his actions. But I
question whether even that portion of
prophetic power which the worthy Diogenes
concedes to the Chaldeans, by a sort
of prevarication in argument, can be
fairly ascribed to them. For, as according
to them the birth of infants is
regulated by the moon, and as the
Chaldeans observe and take notice of
the natal stars with which the moon
happens to be in conjunction at the
moment of a nativity, they are
founding their judgment on the most
fallacious evidence of their eyes, as
to matters which they ought to behold
by reason and intellect. For the
science of Mathematics, with which they
ought to be acquainted, should teach them
the comparative proximity of the moon
to the earth, and its re lative
remoteness from the planets Venus and
Mercury, and especially from the sun,
whose light it is supposed to borrow.
And the other three intervals, those,
namely, which separate the sun from
Mars and from Jupiter and from
Saturn, and the distance also between
that and the heaven, which is the
bound and limit of our universe, are
infinite and immense. What influence, then,
can such distant orbs ti'ansmit to
the moon, or rather to the earth?
XLIV. Moreover, when these astrologers
maintain, as they are bound to
maintain, that all children that are
born on the earth under the same
planet and constellation, having the same
signs of nativity, must experience the
same destinies, they make an assertion
which evinces the greatest ignorance of
astronomy. For those circles which divide
the heaven into hemispheres — circles which
the Greeks call horizons, and the
Latins finientes — perpetually vary according to
the spot from which they are drawn ;
and, therefore, the risings and settings
of the stars appear to take place at
different seasons to dif ferent races
of men. If, then, the condition
of the atmosphere is affected by the
energy and virtue of the stars,
sometimes in one way and sometimes in
another, how can those children who are
born at the same time in different
climates be subject to the same
starry influences in various quarters of
the globe 1 For instance, in the
country which we Romans inhabit, the
dog- ON DIVIXATION. 239 star
rises some days after the summer
solstice, while among the Troglodytes, a
people of Africa, it is said to
rise before it. So that if I
were to grant that the heavenly
influences have an effect upon all
the children who are born upon the
earth, it would follow, that all who
are born at the same time in
different regions of the earth, must
be born not with the same but
with different inclinations according to
the different conditions of climate; which,
however, they by no means admit. For
they persist in maintaining that all chil
dren who are born at the same
period, have at their nativity the
same astrological destinies allotted to
them, whatever their native country may
be. XLV. But what folly is it
to imagine, that while attending to
the swift motions and revolutions of
heaven, we should take no notice of
the changes of the atmosphere immediately
around us, — its weather, its winds, and
rains — when weather differs so much even
in places which are nearest to one
another, that there is often one
weather at Tusculum and another at Rome
; as is especially remarked by
sailors, who, after having doubled a
cape, often find the greatest possible
change in the wind. When the
calmness or disturbed state of the
weather is so variable, is it the
part of a man in his senses to
say that these circumstances have no
effect on the births of children
happen ing at that moment, (as,
indeed, they have not,) and yet to
affirm, that that subtle and indefinable
thing, which cannot be felt at all,
and can scarcely be comprehended, —
namely, the conjuncture which arises from
the moon and other stars, does affect
the birth of children 1 — What? is it
a slight error, not to understand
that by this system that energy of
seminal principles which is of so
much influence in begetting and procreating
the child is utterly put out of sight?
— for who can help observing that the
parents impress on their children, to
a great extent, their own forms,
manners, features, and gestures. Now this
could hardly happen if it were not
the power and nature of the parents
which was the efficient cause, but
the condition of the moon and the
temperature of the heavens. Why need
I press the argument that those who
are born at one and the same
moment, are dissimilar in their nature,
their lives, and their circumstances ?
240 ON DIVINATION. XLVI.
Besides, is there any doubt that many
persons, though they were born with
great bodily defects, are never theless
afterwards cured of them, and set right
by the self- corrective power of
their nature, or by the attention of
their nui-ses, or the skill of their
physicians? or that many chil dren
have been born so tongue-tied that
they could not speak, and yet have
been cured by the application of the
knife '? Many likewise by meditation or
exercise have removed their natural
infirmities. Thus Phalereus records that
Demos thenes when young could not
pronounce the letter R ; but afterwards
by constant practice he learnt to
articulate it perfectly. Now, if such
defects had been occasioned by the
influence of the stars, nothing could
have altered them. Need I say
more? Does not difference of situation
make races of men different 1 It
is easy enough to give a list
of such instances; and to point out
what differences exist be tween the
Indians and Persians, the ^Ethiopians and
Syrians, in respect both of their persons
and characters, so as to present an
incredible variety and dissimilarity. And
this fact proves, that the climate
influences the nativities of men far
more than the aspect of the moon
and stars. For though some pretend
that the Chaldean astrologers have verified
the nativities of children by calculations
and experi ments in the cases of
all the children who have been born
for 470,000 years, this is a mistake.
For had they been in the habit
of doing so, they would never have
given up the practice. But. as it
is, no author remains who knows of
such a thing being done now, or
ever having been done. XLVII. You
see that I am not using the arguments
of Carneades, but those rather of
Pantetius, the chief of the Stoics
But answer me now this question. Were
all those persons who were slain in
the battle of Cannae born under the
same constellation, as they met with
one and the same end? Again, have
those men who are singular in their
genius and courage, a separate, some
peculiar star of their own too 1
For what moment is there in which
a multitude of persons are not born?
and yet no one has ever been
like Homer. And if the aspect
of the stars and the state of
the firma ment influenced the birth
of every being, it should, by parity
of reasoning, influence inanimate substances;
yet what can be more absurd than
such an idea? OX DIVIXAT10X.
241 I grant, indeed, that Lucius
Tarutius of Firma, my own personal
friend, and a man particularly well
acquainted with the Chaldean astrology,
traced back the nativity of our own
city, Rome, to those equinoctial days
of the feast of Pales in which
Romulus is reported to have begun its
foundations, and asserted that the moon
was at that period in Libra, and
on this discovery, he hesitated not
to pronounce the destinies of Rome.
Oh, the mighty power of delusion !
Is even the b'irth-day of a city
subject to the influence of the stars
and moon'? Granting even that the
condition of the heavens, when he
draws his first breath, may influence
the life of a child, does it
follow that it can have any effect
on brick or cement, of which a
city is composed? Why need I
say more? Such ideas as these are
refuted every day. How many of these
Chaldean prophecies do I remember being
repeated to Pompey, Crassus, and to
Caesar himself ! according to which, not
one of these heroes was to die
except in old age, in domestic felicity,
and perfect renown ; so that I wonder
that any living man can yet believe
in these impostors, whose predictions they
see falsified daily by facts and
results. -XLVIII. It only remains for
us now to examine those ttfo sorts
of divination which you term natural,
as distin guished from artificial — namely,
vaticinations and dreams. With your permission,
brother Quiutus, we will now treat of
these. I shall be very well
pleased to hear you, (answered Quintus,)
for I entirely agree with all you
have hitherto advanced, and, to tell
you the truth, although I have had
my feelings on the subject strengthened
by your arguments, yet of my own
accord I looked upon the opinion of
the Stoics respecting divination as rather
too superstitious, and was more inclined
to favour the arguments which have
been adduced by the Peripatetics, and
the ancient DicEearchus. and Cratippus, who
now flourishes, who all maintain that
there exists in the minds of men
a certain oracular and pro phetic
power of presentiment, whereby they
anticipate future events, whether they are
inspired with a divine ecstasy, or
are r.s it were disengaged from the
body, and act freely and easily
during sleep. I wish therefore to
know what is your opinion DE
NAT. ETC. K 242 ON
DIVINATION. respecting these vaticinations
and dreams, and by what ingenious
devices you mean to invalidate them.
When Quintus had thus spoken, I
proceeded again to speak, starting afresh,
as it were, from a new beginning.
I am very well aware, brother
Quintus, I replied, that you have
always entertained doubts respecting the
other kinds of divination; but that
you are very favourable to the two natural
kinds — namely, ecstasy and dreams, which
appear to proceed from the mind when
at liberty. XLIX. T will therefore
tell you my idea very candidly
respecting these two species of divination,
after I have examined a little the
sentiment of the Stoics, and espe
cially of our friend Cratippus, on
this subject. For you said that
Cratippus, Diogenes, and Antipater summed
up the question in this manner : — "
If there are Gods, and they do
not inform men beforehand respecting future
events, either they do not love men,
or do not know what is going to
happen; or they think that the
knowledge of the future would be of
no service to mankind ; or they
believe it incon sistent with the
majesty of Gods to reveal to men
the things that must come to pass ;
or, lastly, we must believe that even
the Gods themselves are incapable of
declaring them. But we cannot say
that the Gods do not love man,
for they are essentially benevolent and
philanthropic. And they cannot be ignorant
of those things, which they themselves
have appointed and designed : neither
can it be uninteresting or unimportant
to us to know what must happen
to us, for we should be more
prudent if we did know. Nor can
the Gods think it inconsistent with
their dignity to advertise men of
future events, for nothing can be
more sublime than doing- good. Nor
are they unable to perceive the
future before hand. If, therefore, there
are no Gods, they do not declare
the future to us; but there are
Gods, therefore they do declare. And
if the Gods declare future events to
us, they must have furnished us with
means whereby we may appre hend them,
otherwise they would declare them in vain
; and if they have given us the
means of apprehending divination, then
there is a divination for us to
apprehend — therefore there is a
divination." 0 acutest of men,
in what concise terms do they think
that they have settled the question
for ever! They assume ON
DIVINATION. 243 premises to draw
their conclusion from, not one of
which is granted to them. But the
only conclusion of an argument which
can be approved, is one in which
the point doubted of is established
by facts which are not doubtful. L.
Do you not see how Epicurus, whom
the Stoics forsooth term a blunderer,
reasons in order to prove that the
universe is infinite in the very
nature of things ? That which is
finite, says he, has an end. Every
one will concede this. What ever has
an end, may be seen externally from
something else. This also may be
granted him. Now that which includes
all, cannot be discerned externally from
anything else. This proposition likewise
appears undeniable. Therefore that which
includes all, having no end, is
necessarily infinite. Thus by the
proposition which we are compelled to
admit, he clearly proves the point in
question. Now this is just what you
dialecticians have not yet done in
favour of divination ; and you not
only bring forward no pro position as
your premises, so self-evident as to
be universally admitted ; but you
assume such premises as, even if they
be granted, your desired conclusion would
be as far as ever from following.
For instance, your first proposition is
this : If there are Gods they must
needs be benevolent. Who will grant
you this 1 Will Epicurus, who asserts
that the Gods do not care about
any business of their own or of
others ? or will our own countryman
Ennius, who was applauded by all the
Romans, when he said — I've always
argued that the Gods exist, But that
they care for mortals I deny ;
and then gives reasons for his
opinion ; but it is not neces sary
to quote him further. I have said
enough to show that your friends
assume as certain, propositions which are
matters of doubt and controversy. LI.
The next proposition is this, That
the Gods must needs know all things,
because they have made all things.
But how great a dispute is there
as to this fact among the most
learned men, several of whom deny
that all things were created by the
immortal Gods ! Again, they assert,
that it is the interest of man
to know those things which are about
to come to pass. But Dicsear- chus
has written a great book to prove
that ignorance of futurity is better
than knowledge of futurity. R2
244 ON DIVINATION. They deny
that it is inconsistent with the
majesty of the Gods to look into
every man's house, forsooth, so as to
see what is expedient for each
individual. Nor is it possible, say
they, for them to be ignorant of
the future. This is denied by those
who will not allow that what is
future can be certain. Do not you
see, therefore, that they have assumed
as certain and admitted axioms, things
which are doubtful ? After which,
they twist the argument about and sum
it up thus : " Therefore, there
are no Gods ; and they do not
grant men intimations of the future."
And, having settled the question thus,
to their own satisfaction, they add,
" But there are Gods ;" a
fact which is not admitted by all
men ; " there fore, they do
grant intimations." Even that consequence
I cannot see ; for they may
grant no intimations of the future
and yet exist as Gods. Again,
it is asserted ; If the Gods
grant intimations to men respecting future
events, they must grant some means of
explaining these intimations. But surely
the contrary may be the case ; for
the Gods may keep to themselves the
mean ing of the signs which they
impart to men ; for else, why should
they teach it to the Etrurians rather
than to the Romans? Again, they
argue, that if the Gods have given
men the means of understanding the
signs they impart, then the existence
of divination is manifest. Biit grant
that the Gods do give such means, what
does it avail, if we happen to
be incapable of receiving them 1
Last of all, their conclusion is ;
Therefore, there certainly is such a
thing as divination. It may be their
conclusion, but it is not proved; for,
as they themselves have taught us, •'
false premises cannot produce a true
result." Therefore, the whole conclusion
falls to the ground. LI I. Let
us now consider the arguments of that
most excellent man, our friend Cratippus.
As, says he, the use and function
of sight cannot exist without the eyes —
and yet the eyes do not always
perform their office, — and, as he who
has once enjoyed correct sight, so as
to see what truly exists, is
conscious of the reality of vision ; — so,
if the practice of divination cannot
exist without the power of divination — and
though in the exercise of this power
of divination some errors may occur,
and the diviner may be misled so
as not to foresee ON
DIVINATION. 245 the truth ; yet the
existence of divination is sufficiently
attested by the fact that some true
divinations have been made, containing such
exact predictions of all the particulars
of future events, that they can never
have been made by chance, — of which
numerous instances might be cited. The
exist ence of divination must therefore
be admitted. The argument is neatly
and concisely stated. But Cra- tippus
twice assumes what he wishes to prove
; and even if we were willing
to grant him very large concessions,
we could not possibly agree with his
conclusions. His argument is this :
Though the eyes should sometimes possess
very imperfect sight, yet, provided they
sometimes see clearly, it is evident
that the power of vision is in
them. On the same principle, if any
one has ever once uttered a true
divination, he must always be considered
as possessing the faculty of divining,
even when he blunders. LIII. Now
I entreat you, my dear Cratippus, to
consider how little is the resemblance
between these two cases. To me there
is none at all. The eyes which
see clearly exert no more than their
natural faculty of sight. But minds,
if they have sometimes truly foreseen
future events, either in ecsta sies
or dreams, have done so by fortune and
accident ; unless, indeed, you imagine
those who believe that dreams are but
dreams, will grant you that when they
happen to dream any thing that is
true, it is no longer the effect
of chance. But we may concede
for the present these two assumptions
of Cratippus, which the Greek dialecticians
would call lem mata. But we prefer
speaking in Latin ; still the presump
tion, which they term prolepsis, cannot
be granted. Cratippus goes on
assuming premises in this manner :
There are, says he, presentiments
innumerable which are not fortuitous. Now
this we absolutely deny. See how
great is the magnitude of the
difference between us. Not being able to
agree with his premises, I assert
that he has drawn no conclusion. Oh,
but perhaps it is very impudent of
us not to concede a point which
is so clear ! But what is clear
? " Why," he replies, "
that many predictions are fulfilled." Yes
; but are there not many more
which are not fulfilled ? Does not
this very variation, which is the
peculiar property of fortune, teach us
that fortune, not nature, regulates such
predictions ? 246 ON DIVINATION.
Moreover, if your conclusion is true,
0 renowned Cratip- pus ! — for to you
I address myself — do not you perceive
that the soothsayers, and those who
predict by thunder and light ning,
and the interpreters of prodigies, and
the augurs, and the Chaldean astrologers,
and those who tell fortunes by
drawing lots, will all bring forward
the same argument as yourself in
their own favour? Not one of these
men has been so unfortunate as never
on any occasion to find his pre
dictions verified. This being the case,
you must either admit all the other
kinds of divination which you now
most properly reject; or, if you
absolutely condemn them, I do not see
how you will be able to defend
those two which you retain as
favourable exceptions. For on the same
principle that you maintain these, the
others also may be true which you
discard. LIV. But what authority has
this same ecstasy, which you choose
to call divine, that enables the
madman to foresee things inscrutable to
the sage, and which invests with
divine senses a man who has lost
all his human ones 1 We Romans
preserve with solicitude the verses which
the Sibyl is reported to have uttered
when in an ecstasy, — the interpreter of
which is by common report believed to
have recently uttered certain falsities in
the senate, to the effect that he
whom we did really treat as king
should also be called king, if we
would be safe. If such a prediction
is indeed contained in the books of
the Sibyl, to what particular person
or period does it refer ? For,
whoever was the author of these
Sibylline oracles, they are very
ingeniously com posed ; since, as all
specific definition of person and period
is omitted, they in some way or
other appear to predict everything that
happens. Besides this, the Sibylline
oracles are involved in such profound
obscurity, that the same verses might
seem at different times to refer to
different subjects. It is evident,
however, that they are not a song
composed by any one in a prophetic
ecstasy, as the poem itself evinces,
being far less remarkable for enthusiasm
and inspiration than for technicality and
labour ; and as is especially proved
by that arrangement which the Greeks
call acrostics — where, from the first
letter of each verse in order, words
are formed which express some particular
meaning ; as is the case with
ON DIVINATION. 247 some of
Ennius's verses, the initial letters of
which make, ""Which Ennius wrote."
But such verses indicate rather attention
than ecstasy in those who write them.
Now, in the verses of the
Sibyl, the whole of the paragraph on
each subject is contained in the
initial letters of every verse of
that same paragraph. This is evidently
the artifice of a practised writer,
not of one in a frenzy ; and
rather of a diligent mind than of
an insane one. Therefore, let us con
sider the Sibyl as so distinct and
isolated a character, that, according to
the ordinance of our ancestors, the
Sibylline books shall not even be
read except by decree of the senate,
and be used rather for the putting
down than the taking up of religious
fancies. And let us so arrange
matters with the priests under whose
custody they remain, that they may
pro phesy anything rather than a king
from these mysterious volumes ; for
neither Gods nor men any longer
tolerate the notion of restoring kingly
government at Rome. LV. But many
people, you say, have in repeated
instances uttered true predictions ; as,
for example, Cassandra, when she said,
" Already is the fleet,'' ' &c. ;
and in a subsequent prophecy, "Ah!
see you not?" &c. Do you
then expect me to give credence to
these fables 1 I will grant that
they are as delightful as you please
to call them, — that they are polished
up with every conceivable beauty of
language, sentiment, music, and rhythm. LuL
we are not bound to invest fictions
of this kind with any authority, or
to give them any belief. And, on
the same principle, I do not think
any one bound to pay any attention
to such diviners as Publicius (whoever
he may be), or Martius, or to
the secret oracles of Apollo ; of
which some are notoriously false, and
others uttered at i-an- dom, so that
they command little respect, I will
not say from learned men, but even
from any person of plain common
sense. " What !" you will
say, " did not that old sailor
of the fleet of Coponius predict
truly the events which took place
?" No doubt he did ; but they
happened to be those very things
which at the time everybody thought
most likely to ensue. For we were
daily hearing that the two armies
were situated near each other in Thessaly
; and it appeared to us that
Caesar's army had the greater audacity,
inasmuch as it was Sec book i.
chap. 31. 2 See book i. chap.
50. ^10 ON DIVINATION. waging
war against its own country, and the
greater strength, being composed of veteran
soldiers. And as to the battle, there
was not one of us who did not
dread the result, though, as brave
men should, we kept our anxiety to
ourselves, and expressed no alarm.
What wonder, however, was it that
this Greek sailor was forced from all
self-possession and constancy, as is very
com mon, by the greatness of his
terror and affright ; and that, being
driven to distraction by his own
cowardice, he uttered those convictions
when raving mad which he had
cherished when yet sane ? Which, in
the name of Gods and men, is
most likely; that a mad sailor should
have attained to a know ledge of
the counsels of the immortal Gods, or
that some one of us who were on
the spot at the time — myself, for in
stance, or Cato, or Varro, or
Coponius himself — could have done so ?
LVI. I now come to you,
Apollo, monarch of the sacred centre
Of the threat world, full of
thy inspiration, The Pythian priestesses
proclaim thy prophecies. For Chrysipyus
has filled an entire volume with your
oracles, many of which, as I said
before, I consider utterly false, and
many others only true by accident, as
often happens in any common conversation.
Others, again, are so obscure and
involved, that their very interpreters have
need of other interpreters ; and the
decisions of one lot have to be
referred to other lots. Another portion
of them are so ambiguous, that they
require to be analysed by the logic
of dialecticians. Thus, when Fortune
uttered the following oracle respecting
Croesus, the richest king of Asia, — •
" When Crocus has the Halys
cross'd, A mifdity kingdom will be lost
;" that monarch expected he
should ruin the power of his enemies
; but the empire that he ruined
was his own. And whichever result had
ensued the oracle would have been
true. But, in truth, what reason have
I to believe that such an oracle
was ever uttered respecting Croesus 1
or why should I think Herodotus more
veracious than Ennuis'? Is the one
less full of fictions respecting Croesus
than the other is re specting Pyrrhus
1 For who now believes that the
following answer was given to Pyrrhus
by the oracle of Apollo ? — ON
DIVINATION. 249 " You ask
your fate ; 0 king, I answer you,
yEacides the Romans will subdue ! "
For, in the first place, Apollo
never uttered an oracle in Latin ;
secondly, this oracle is altogether unknown
to the Greeks. Besides, in the days
of Pyrrhus, Apollo had already left
off composing verses. Lastly, although it
was always the case, as is said
in these lines of Ennius, — "
The JEacids were but a stupid race,
More warlike than sagacious," — yet
even Pyrrhus might without much difficulty
have per ceived the ambiguity of the
phrase, " ^Eacides the Romans
will subdue ;" and might have
seen that it did not apply more to
himself than it did to the Romans.
As to that ambiguity which deceived
Croesus, it might even have deceived
Chrysippus. This one could not have
deluded even Epicurus. LVII. But the
chief argument is, why are the
Delphic oracles altered in such a way
that — I do not mean only lately in
our own time, but for a long time —
nothing can have been more contemptible
1 When we press our antagonists
for a reason for this, they say
that the peculiar virtue of the spot
from which those exhalations of the
earth arose, under the influence and excite
ment of which the Pythian priestess
uttered her oracles, has disappeared by
the lapse of time. You might suppose
they were speaking of wine or salt,
which do lose their flavour by lapse
of time ; but they are talking thus
of the virtue of a place, and
that not merely a natural, but a
divine virtue; and how is that to
have disappeared ? By reason of age,
is your reply. But what age can
possibly destroy a divine virtue ? and
what virtue can be so divine as
an exhalation of the earth which has
the power of inspiring the mind, and
ren dering it so prophetic of things
to come, that it can not only
discern them long before they happen, but
even declare them in verse and rhythm
? And when did this magical virtue
dis appear 1 Was it not precisely
at the time when men began to
be less credulous ? Demosthenes, who
lived nearly three hundred years ago,
said that even in his time the
Pythia Philippized — that is to 250
ON D1VIXATION. say, supported
Philip's influence ; and his expression was
meant to convey the imputation that
she had been bribed by Philip. From
which we may infer that other oracles
besides those of Delphi were not
quite immaculate. Somehow or other, certain
philosophers who are very superstitious — not
to say fanatical — appear to prefer
anything to behaving with common sense
themselves ; and so you prefer
asserting that that has vanished, and
become extinct, which, if it ever had
existed, must certainly have been eternal,
rather than not believe what is
wholly incredible. LVIII. The error
with regard to the divination of
dreams is another of the same kind
; their arguments for which are
extremly far-fetched and obscure. They
affirm that the minds of men are
divine, that they came from God, and
that the universe is full of these
consenting intelligences. That, therefore, by
this inherent divinity of the mind,
and by its conjunction with other
spirits, it may foresee future events.
But Zeno and the Stoics supposed the
mind to contract, to subside, to
yield, and even to sleep, itself. And
Pythagoras and Plato, authors of the
greatest weight, advise men, with a
view of seeing things more certainly
in sleep, to go to bed after
having gone through a certain preparatory
course of food and other conduct.
Pythagoras, for this reason, coun selled
his disciples to abstain from beans ;
with the idea that this species of
food excited the mind, not the
stomach. In short, somehow or other,
I know nothing is so absurd as
not to have found an advocate in
one of the philosophers. Do we
then think that the minds of men
during sleep move by an intrinsic
internal energy, or that, as Democritus
pre tends, they are affected with
external and adventitious visions? On
either supposition we may mistake during
our dreams many false things for
true. For to people sailing, those
things appear to be in motion which
are stationary, and by a certain
ocular deception, the light of a
candle sometimes seems double. Why need
I in stance the number of false
appearances which are presented to the
eyes of men, among those who labour
under drunken ness, or maniacs ?
Now, if we cannot trust such
appearances as those, I know not why
we are to place any absolute reliance
on the visions of dreams; for you
might as well, if you pleased, argue
irom ON DIVINATION. 251 these
errors as from dreams. For instance,
that if stationary objects appear to
move, you might say that this
appearance indicated the approach of an
earthquake, or some sudden flight ; and
that lights seen double presage wars,
and discords, and seditions. LIX.
From the visions of drunkards and madmen
one might, doubtless, deduce innumerable
const quences by con jecture, which
might seem to be presages of future
events. For what person who aims at
a mark all day long will not
sometimes hit it 1 We sleep every
night ; and there are very few
on which we do not dream; can
we wonder then that what we dream
sometimes comes to pass ? What
is so uncertain as the cast of
dice 1 and yet no one plays
dice often without at times casting
the point of Venus, and sometimes
even twice or thrice in succession.
Shall we, then, be so absurd as
to attribute such an event to the
impulse of Venus, rather than to the
doctrine of chances'? If then, on
ordinary occasions, we are not bound
to give credit to false appearances,
I do not see why sleep should
enjoy this special privilege, that its
false seemings should be honoured as
true realities. If it were an
institution of nature that men when
they sleep really did the things
which they dream about, it would be
necessary to bind all persons going
to bed both hand and foot, for
they would otherwise while dreaming
perpetrate more outrages than maniacs. Now
since we place no confi dence in
the visions of madmen, simply because
they are delusions, I do not see
why we should rely on those of
dreamers, which are often the wilder
of the two. Is it because madmen
do not think it worth while to
relate their visions to diviners, but
those who dream do 1 Once more
I put this question. If I feel
inclined to read or write anything,
or to sing or play on an
instrument, or to pursue the sciences
of geometry, physics, or dialectics, am
I to wait for information in these
sciences from a dream, or shall I
have recourse to study, without which
none of those things can be either
done or explained 1 Again, if I
were to wish to take a voyage,
I should never regulate my steering
by my dreams. For such conduct would
bring its own im mediate punishment.
How, then, can it be reasonable
for an invalid to apply for
20'2 OX DIVINATION. relief to an
interpreter of dreams rather than to a
physician? Can Esculapius or Serapis, by
a dream, best prescribe to us the
way to obtain a cure for weak
health 1 And cannot Neptune do the
same for a pilot in his art ?
Or will Minerva give us medicine
without troubling the doctor? And still
will the Muses refuse to impart to
dreamers the art of writing, reading,
and the other sciences ? But if
the blessing of health were conveyed
to us in dreams, these other good
things would certainly be so too. But
unfortunately the science of medicine
cannot be learnt in dreams, and the
other arts are in a similar
predicament. And if that be the case,
then all the authority of dreams is
at an end. LX. But this is
only a superficial argument. Let us
now penetrate the heart of this
question. For either some divine
energy which takes care of us, gives
us presentiments in our dreams ; or
those who explain them do, by a
certain harmony and conjunction of nature
which they call a~u/j.Tra.Oeia (sympathy),
understand by means of dreams what is
suitable for everything, and what is
the con sequence of everything ; or,
lastly, neither of these things is
true ; but there is a constant
system of observation of long standing,
by which it had been remarked, that
after certain dreams certain events usually
follow. The first thing then for
us to understand is, that there is
no divine energy which inspires dreams ;
and this being granted, you must also
grant that no visions of dreamers
proceed from the agency of the Gods.
For the Gods have for our own
sake given us intellect sufficiently to
provide for our future welfare. How
few people then attend to dreams, or
under stand them, or remember them !
How many, on the other hand, despise
them, and think any superstitious
observation of them a sign of a
weak and imbecile mind ! Why then
should God take the trouble to
consult the interest of this man, or
to warn that one by dreams, when
ho knows that they not only do
not think them worth attending to,
but they do not even condescend to
remember them. For a God cannot be
ignorant of the sentiments of every man,
and it is unworthy of a God to
do anything in vain, or without a
cause ; nay, that would be unworthy
of even a wise man. If, therefore,
dreams are for the most part
disregarded, or despised, either God is
ignorant of that being ON
DIVIXATIOX. 253 the fact, or
employs the intimation by dreams in
vain. Neither of these suppositions can
properly apply to God, and therefore
it must be confessed, that God gives
men no inti mations by means of
dreams. LXI, Again, let me ask
you, if God gives us visions of
a prophetic nature, in order to
apprise us of future events, should
we not rather expect them when we
are awake than when we are asleep
1 For, whether it be some external
and adventitious impulse which affects the
minds of those who are asleep, or
whether those minds are affected
voluntarily by tiieir own agency, or
whether there is any other cause why
we seem to see and hear or do
anything during sleep, the same impulses
might surely operate on them when
awake. And if for our sakes the
Gods effect this during sleep, they
might do it for us while awake.
Especially as Chrysippus, wishing to
refute the Acade micians, makes this remark
— That those inspirations, visions, and
presentiments which occur to us awake,
are much more distinct and certain
than those which present themselves to
dreamers. It would, therefore, have been
more worthy of the divine beneficence
while exerting its care for us,
rather to favour us with clear
visions when we are awake, than with
the perplexed phantasms of dreams; and
since that is not done, we must
believe that these phantasms are not
divine at all. Moreover, what is the
use of such round-about and circuitous
proceedings, as for it to be
necessary to employ interpreters of dreams,
rather than to proceed by a straight
forward course 1 If God were indeed
anxious for oxir interests, he would
say, " Do this — do not that ;"
and he would give such intimations to
a waking rather than to a sleeping
man ; but as it is, who would
venture to assert that all dreams are
true ? Ennius says, that some dreams
are prophetical ; he adds also, that
it does not follow that all are
so. LXII. Now whence arises this
distinction between true dreams and false
ones 1 and if true dreams come
from God, from whence come the false
ones ? For if these last do
like wise come from God, what can
be more inconsistent than God ? And
what can be more ignorant conduct
than to excite the minds of mortals
by false and deceitful visions ? But
if only true dreams come from God,
and the false and 254 ON
DIVINATION. groundless ones are
merely human delusions, what authority have
you for making such a distinction as
is implied in saying, God did this,
and nature that 1 Why not rather
say either that all dreams come from
God (which you deny), or all from
nature? which necessarily follows, since
you deny that they proceed from God.
By nature I mean that essential
activity of the mind owing to which
it never stands still, and is never
free from some agitation or motion or
other. When in consequence of the
weakness of the body it loses the
use of both the limbs and the
senses, it is still affected by
various and uncertain visions aris ing
(as Aristotle observes) from the relics
of the several affairs which employed
our thoughts and labours during our
waking hours ; owing to the disturbances
of which, marvellous varieties of dreams
and visions at times arise. If some
of these are false, and others true,
I shall be glad to be informed
by what definite art we are to
distinguish the true from the false.
If there be no such art, why do
we consult the inter preters 1 If
there be any such art, then I
wish to know what it is. LXIII.
But they will hesitate. For it is
a matter of ques tion, which is
more probable; that the supreme and
im mortal Gods, who excel in every
kind of superiority, employ themselves in
visiting all night long not merely the
beds, but the very pallets of men,
and as soon as they find any
person fairly snoring, entertain his
imagination with per plexed dreams and
obscure visions, which sends him in
great alarm as soon as daylight dawns
to consult the seer and interpreter :
or whether these dreams are the
result of natural causes, and the
ever-active, ever-working mind having seen
things when awake, seems to see them
again when asleep. Which is the more
philosophical course, to interpret these
phenomena according to the superstitions of
old women, or by natural explanations
1 So that even if a true
interpretation of dreams could exist, it
is certainly not in the possession of
those who profess it, for these
people are the lowest and most
ignorant of the people. And it is
not without reason that your friends
the Stoics affirm, that no one can
ever be a diviner but a wise man.
Chrysippus, indeed, defines divination in
these words : " It ON
DIVINATION. 25.0 is," says he,
" a power of apprehending, discerning,
and ex plaining those signs which are
given by the Gods to men as portents
;" and he adds, that the proper
office of a sooth sayer is to
know beforehand the disposition of the Gods
hi regard to men, and to declare
what intimations they give, and by
what means these prodigies are to be
propitiated or averted. The interpretation
of dreams he also defines in this
manner. " It is," says he,
" a power of beholding and
revealing those things which the Gods
signify to men in dreams." Well,
then, does this require but a
moderate degree of wisdom, or rather
consummate sagacity, and perfect erudition ? —
and a man so endowed we have
never known. LXIV. Consider, therefore,
whether even if I were to concede
to you that there is such a
thing as divination — which I never will
concede — it would still not follow that
a diviner could be found to exercise
it truly. But what strange ideas must
the Gods have, if the intimations
which they give us in dreams are
such as we cannot understand of
ourselves, and such, too, as we
cannot find interpreters of : acting almost
as wisely as the Carthaginians and
Spaniards would do if they were to
harangue in their native languages in
our Roman senate without an interpreter.
But what is the object of these
enigmas and obscurities of dreamers 1
For the Gods ought to wish us
to under stand those things which
they reveal to us for our own
sake and benefit. What ! is no poet,
no natural philoso pher obscure ?
Euphorion certainly is obscure enough, but
Homer is not ; which, then, is the
best ? Heraclitus is very puzzling,
Democritus is very lucid ; are they to
be compared ? You, for my own
sake, give me advice that I do
not understand ! What is it,
then, that you are advising me to
do ? Suppose a medical man were
to prescribe to a sick man an
earth-born, grass-walking, house-carrying,
unsanguineous animal, in stead of simply
saying, a snail ; so Amphion in Pacuvius
speaks of — A four-footed and
slow-going beast, Rugged, debased, and
harsh ; his head is short, His
neck is serpentine, his aspect stern
; He has no blood, but is an
animal Inanimate, not voiceless. Z.JO
OX DIVINATION. When these obscure
verses had been duly recited, the
Greeks cried out, We do not
understand you unless you tell us
plainly what animal you mean ? I
mean, said Pacuvius, I mean in one
word, a tortoise. Could you not,
then, said the questioner, have told
us so at first ? LXV. We
read in that volume which Chrysippus
has written concerning dreams, that some
one having dreamed in the night that
he saw an egg hanging on his
bed-post, went to consult the interpreter
about it. The interpreter informed him
that the dream signified that a sum
of money was con cealed under his
bed. He dug, and found a little
gold sur rounded by a heap of silver.
Upon this, he sent the inter preter
as much of the silver as he
thought a fair reward. Then said the
interpreter, " What ! none of the
yolk 1 " For that part of
the egg appeared to have intimated
gold, while the rest meant silver.
But did no one else ever dream
of eggs ; if others have, too,
then why is this man the only
one who ever found a treasure in
consequence 1 How many poor people
are there worthy of the help of
the Gods, to whom they vouchsafe no
such fortunate intimations ! And, again,
why did this indi vidual receive such
an obscure sign of a treasure o,s
could be afforded by the resemblance
of an egg, instead of being
distinctly commanded at once to look
for a treasure, in the same way
as Simonides was expressly forbidden to
put to sea? Therefore, obscure dreams
are not at all consistent with the
majesty of the Gods. LXVI. But let
us now treat of those dreams which
you term clear and definite, such as
that of the Arcadian whoso friend was
killed by the inn-keeper at Megara,
or that of Simonides, who was warned
not to set sail by an apparition
of a man whose interment he had
kindly superintended. The history of
Alexander presents us with another instance
of this kind, which I wonder you
did not cite, who, after his friend
Ptolemy had been wounded in battle by
a poisoned arrow, and when he
appeared to be dying of the wound,
and was in great agony, fell asleep
while sitting by his bed, and in
his slumber is said to have seen
a vision of the serpent which his
mother Olympias cherished, bringing a root
in his mouth, and telling him that
it grew in a spot very near at
hand, and that it possessed such
medicinal virtue, that it would easily
cure ON DIVINATION. 257
Ptolemy if applied to his wound.
On awaking, Alexander related his dream,
and messengers were sent to look for
that plant, which, when it was found,
not only cured Ptolemy, but likewise
several other soldiers, who during the
engagement had been wounded by similar
arrows. You have related a number
of dreams of this nature bor rowed
from history. For instance, that of
the mother of Phalaris — that of King Cyrus
— that of the mother of Diony- sius — that
of Hamilcar the Carthaginian — that of Hannibal
— that of Publius Decius — that notorious
one of the president — that of Caius
Gracchus— and the recent one of Ceecilia,
the daughter of Metellus Balearicus. But
the main part of these dreams
happened to strangers, and on that
account we know little of their
particular circumstances : — some of them
may be mere fictions; for who are
they vouched by? As to those
dreams that have occurred in our
personal experience, what can we say
about them, — about your dream respecting
myself and my horse being submerged
close to the bank; or mine, that
Marius with the laurelled fasces ordered
me to be conducted into his monument?
LXVIL All these dreams, my brother,
are of the same character, and, by
the immortal Gods, let us not make
so poor a use of our reason, as
to subject it to our superstition and
delusions. For what do you suppose
the Marius was that appeared to me
? His ghost or image, I suppose,
as Demo- critus would call it. Whence,
then, did his image come from 1
For images, according to him, flow
from solid bodies and palpable forms.
What body then of Marius was in
exist ence ? It came, he would
say, from that body which had existed
; for all things are full of
images. It was, then, the image of
Marius that haunted me on the Atinian
territory, for no forms can be
imagined except by the impulsion of
images. What are we to think
then 1 Are those images so obedient
to our word that they come before
us at our bidding as soon as we
wish them ; and even images of
things which have no reality whatsoever?
For what form is there so
preposterous and absurd that the mind cannot
form to itself a picture of it
? so much so indeed that we can
bring before our minds even things
which we have never seen ; as, for
instance, the situations of towns and
the figures of men. DE NAT. ETC.
S '258 ON DIVINATION. When,
then, I dream of the walls of
Babylon, or the counte nance of Homer,
is it because some physical image of
them strikes my mind1? All things,
then, which we desire to be so,
can be known to us, for there
is nothing of which we cannot think.
Therefore, no images steal in upon the
mind of the sleeper from without ;
nor indeed are such external images
flowing about at all ; and I never
knew any one who talked nonsense with
greater authority. The energy and
nature of human minds is so vigorous that
they go on exerting themselves while
awake by no adven titious impulse,
but by a motion of their own,
with a most incredible celerity. When
these minds are duly supported by the
physical organs and senses of the body,
they see and conceive and discern all
things with precision and certainty. But
when this support is withdrawn, and
the mind is deserted by the languor
of the body, then it is put in
motion by its own force. Therefore,
forms and actions belong to it ; and
many things appear to be heard by,
and said to it. Then, when the
mind is in a weak and relaxed
state, many things present themselves to
it commingled and varied in every
kind of manner ; and most especially
do the reminiscences of- those things
flit before the mind and move about,
which excited its interest or employed
its active energies when awake. As,
for instance, Marius at that time was
often pre sent to my mind while
I recollected with what magnanimity and
constancy he had borne his sad
misfortunes ; and this, I imagine, is
the reason why I dreamed of him.
LXVIII. You also were thinking of
me with great anxiety, when suddenly
I appeared to you to have just
escaped out of the river. For there
were in both of our minds the
traces of our waking thoughts. In
both instances, however, there were certain
additional circumstances; as in mine, the
visit to the temple of Marius ; and
in yours, the reappearance of the
horse on which I was riding, and
who sunk at the same time with
myself. Do you think then, you will
say, that any old woman would be
so doting as to believe dreams if
they did not sometimes and at random
turn out true ? A dragon appeared
to address Alexander. Doubtless this might
be true, or it might be false ;
but whichever the case may have been,
there is surely nothing very wonderful
about it ; for he did not hear
this serpent speaking — lie only ON
DIVINATION. 2o\) dreamed that he
heard him; and to make the story
more remarkable, the serpent appeared with
a branch in its mouth, and yet spoke
: still nothing is difficult or
impossible in a dream. I would
ask, however, how it was that
Alexander had this one dream so
remarkable and so certain, though he
had no such dream on any other
occasion, nor have other people seen
many such. For myself, excepting that about
Marius, I do not recollect having
experienced one worth speaking of. I
must, therefore, have wasted to no
purpose as many nights, as I have
slept during my long life. Now,
indeed, on account of the intermission
of my forensic labours, I have
diminished my evening studies, and added
some noonday slumbers, in which I
never indulged before. But yet, though
I sleep so much more than formerly,
I am never visited with a prophetic
dream, which I should con sider a
singular favour now, though engaged in
such weighty affairs. Nor do I seem
ever to experience any more important
dream than when I see the magistrates
in the forum, and the senate in
the senate-house. LXIX. In truth,
(and this is the second branch of
your division,) what connexion and
conjunction of nature (which, as I
have said, the Greeks term avp.ira.6euL,)
is there of such a character, that
a treasure is to be understood by
an egg? Physicians, indeed, know of
certain facts by which they perceive
the approaches and increase of diseases;
there are also some indications of a
return to health ; so that the very
fact whether we have plenty to eat
or whether we are dying of hunger,
is said to be indicated by some
kinds of dreamn. But by what rational
connexion are treasures, and honours, and
victories, and things of that kind, joined
to dreams'? They tell us, that
a certain individual dreaming of sexual
coition, ejected calculi : I grant that
sympathy may have had something to do
in a case like this, — because, in
sleeping, his imagination might have been
so affected with sensual images, that
such an emission took place by the
force of nature, rather than by
supernatural phantasms. But what sympathy
could have presented to Simonides the
image of the person, who in a
dream warned him not to put to
sea 1 Or what sympathy could have
occasioned the vision of Alcibiades, who,
a little before his death, is said
to have dreamed that 260 ON
DIVINATION. ie was arrayed in
the robes of Timandra his mistress?
What relation could this have with
the event which afterwards happened to him
; when, being slain and cast naked
into the street and abandoned by all
the world, his mistress took off her
mantle and covered his dead body with
it? Was this then fixed as a
piece of futurity, and had it natural
causes, or was it mere accident that
the dream was seen, and came true
? LXX. Do not the conjectures
of the interpreters of dreams rather
indicate the subtlety of their own
talents, than any natural sympathy and
correspondence in the nature of things?
A runner, who intended to run
in the Olympic games, dreamed during
the night that he was being driven
in a chariot drawn by four horses.
In the morning he applied to an
interpreter. He replied to him, You
will win : that is what is
intimated by the strength and swiftness
of the horses. He then applied to
Antiphon, who said to him, By your
dream it appears that you must lose
the race ; for do you not see
that four reached the goal before you
? Here is another story respecting
an athlete ; and the books of
Chrysippus and Antipater are full of
such stories. How ever, I will return
to the runner. He then went to
a sooth sayer and informed him that
he had just dreamed that he was
changed into an eagle. You have won
your race (said the seer), for this
eagle is the swiftest of all birds.
He also went to Antiphon, who said
to him, You will certainly be conquered
; for the eagle chases and drives
other birds which fly before it, and
consequently is always behind the rest.
A certain matron, who was very
anxious to have children, and who
doubted whether she was pregnant or
not, dreamed one night that her womb
was sealed up ; she, therefore, asked
a soothsayer whether her dream signified
her pregnancy ? He said, No ;
for the sealing implied, that there
could be no con ception. But another
whom she consulted said, that her
dream plainly proved her pregnancy ; for
vessels that have nothing in them are
never sealed at all. How delusive,
then, is this conjectural art of
those interpreters ! Or do these
stories that I have recited, and a
host of similar ones which the Stoics
have collected, prove anything else but
the subtlety of men, who, from
certain imaginary analogies of things,
arrive at all sorts of opposite
conclusions? Physicians derive certain
indications from the veins and ON
DIVINATION. 261 breath of a
sick man; and have many other
symptoms by which they judge of the
future. So, when pilots see the
cuttlefish leaping, and the dolphins
betaking themselves to the harbours, they
recognise these indications as sure signs
of an approaching storm. Such signs
may be easily explained by reference
to the laws of nature ; but those
which I was mentioning just now
cannot possibly be accounted for in
the same mariner. LXXI. But the
defenders of divination reply, (and this
is the last objection I shall answer,)
that a long continuance of observations
has created an art. Can, then, dreams
be expe rimented on? And if so,
how1? for the varieties of them are
innumerable. Nothing can be imagined so
preposterous, so incredible, or so
monstrous, as to be beyond our power
of dreaming. And by what method can
this infinite variety bo either fixed in
memory or analysed by reason?
Astrologers have observed the motion
of the planets, for a certain order
and regularity in the course of these
stars has been discovered which was
no* suspected. But tell me, what
order or regularity can be discerned
in dreams 1 How can true dreams
be distinguished from false ones ;
since the same dreams are followed by
different results to different people, and,
indeed, are not always attended by
the same events in the case of
the same persons? For this reason
I am extremely surprised that, though
people have wit enough to give no
credit to a notorious liar, even when
he speaks the trilth, they still, if
one single dream has turned out true,
do not so much distrust one single
case because of the numbers of
instances in which they have been
found false, as think multitudes of
dreams estab lished because of the
ascertained truth of this one. If,
then, dreams do not come from God,
and if there are , no objects
in nature with which they have a
necessary sym pathy and connexion, and
if it is impossible by experiments
and observations to arrive at a sure
interpretation of them, the consequence is,
that dreams are not entitled to any
credit or respect whatever. And this
I say with the greater confidence,
since those very persons who experience
these dreams cannot by any means
understand them, and those persons who
pretend to interpret them, do so by conjecture,
not by demonstration. And in 262
ON DIVINATION. the infinite series
of ages, chance has produced many
more extraordinary results in every kind
of thing than it has in dreams;
nor can anything be more uncertain
than that con jectural interpretation of
diviners, which admits not only of
several, but often of absolutely contrary
senses. LXXII. Let us reject,
therefore, this divination of dreams, as
well as all other kinds. For, to
speak truly, that superstition has extended
itself through all nations, and has
oppressed the intellectual energies of
almost all men, and has betrayed them
into endless imbecilities : as I argued
in my treatise on the Nature of
the Gods, and as I have especially
laboured to prove in this dialogue on
Divination. For I thought that I
should be doing an immense benefit
both to myself and to my countrymen
if I could entirely eradicate all
those superstitious errors. Nor is
there any fear that true religion can
be endangered by the demolition of this
superstition ; for it is the part
of a wise man to uphold the
religious institutions of our ancestors, by
the maintenance of their rites and
ceremonies. And the beauty of the
world and the order of all celestial
things com pels us to confess that
there is an excellent and eternal
nature which deserves to be worshipped
and admired by all mankind.
Wherefore, as this religion which is
united with the know ledge of nature
is to be propagated, so also are
all the roots of superstition to be
destroyed. For it presses upon, and
pur sues, and persecutes you wherever
you turn yourself, — whether you consult a
diviner, or have heard an omen, or
have im molated a victim, or beheld
a flight of birds ; whether you have
seen a Chaldean or a soothsayer; if
it lightens or thunders, or if
anything is struck by lightning; if
any kind of prodigy occurs ; some of
which events must be frequently coming
to pass ; so that you can never
rest with a tranquil mind. Sleep
seems to be the universal refuge from.
all labours and anxieties. And yet
even from this many cares and
perturba tions spring forth which, indeed,
would of themselves have no influence,
and would rather be despised, if
certain philosophers had not taken dreams
under their special patronage ; and those,
too, not philosophers of the lowest
order, but men of vast learning, and
remai'kable penetration into the conse
quences and inconsistencies of things, men
who are looked upon as absolute and
perfect masters of all science. Nay,
if ON DIVINATIOX. 263 Carneades
had not resisted their extravagances, I
hardly know whether they would not by
this time have been reckoned the only
philosophers worthy of the name. And
it is with those men that nearly
all our controversy and dispute re
specting divination is mainly waged; not
because we think meanly of their
wisdom, but because they appear to
defend their theories with the greatest
acuteness and cautiousness. But, as
it is the peculiar property of the
Academy to inter pose no personal
judgment of its own, but to admit
those opinions which appear most probable,
to compare arguments, and to set
forth all that may be reasonably
stated in favour of each proposition;
and so, without putting forth any au
thority of its own, to leave the
judgment of the hearers free and
unprejudiced; we will retain this custom,
which has been handed down from
Socrates; and this method, dear brother
Quintus, if you please, we will adopt
as often as pos sible in all
our dialogues together. Indeed, said
he, nothing can be more agreeable to
me. Having held these conversations
we went away. Alessandro Chiappelli. Keyword: academici, Alcibiade,
Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicerone, ambassiata,
Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world, the reality of
the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La scuola di Atene” –
dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens, via Rome. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiappelli” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689429333/in/photolist-2mKBQvt-2mKBEmt-2mJ4GHU-2mGnP2f
Grice e Chiaromonte – parola – il cane ha
molto. Definizione d’ aggetivo – la correlazione -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Rapolla). Filosofo. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he
let things influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e
parola’ – where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione,
because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what
a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow
theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu
discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista
culturale indipendente "Tempo Presente". Nacque a
Rapolla, in Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico, si
trasferì con la famiglia a Roma, Sin dall'età di vent'anni si votò all'antifascismo,
dopo una breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della
formazione Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto
della polizia. Fu in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile
spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la
figura di Chiaromonte è adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale
Giovanni Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto
con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, in seguito
all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York, facendosi notare nel
gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals. Fu propugnatore del
socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste della rivista
politics di Dwight Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio di amicizia e
di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con filosofi come
Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e collaborò con
Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.
Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria,
anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura
strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di
critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Nel
1956, assieme allo scrittore Ignazio Silone, fondò "Tempo presente",
rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca
che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande
attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del
mensile. Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a
differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di
Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo
catastrofico della Storia». Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia
e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e
giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo
presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori
come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali
destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia.
Dal gennaio 1967 e fino alla morte, intrattiene una fitta corrispondenza con
Melanie von Nagel Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca
benedettina, sul tema della verità. Opere La situazione drammatica,
Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire,
prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel
de Galliffet, Credere e non credere,
Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro,
Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi,
Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con
una testimonianza di Ignazio Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza
(The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy),
Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e
parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane,
Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena,
Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta
conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la
verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo
della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino, Albert Camus-Nicola Chiaromonte,
Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello,
Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone
Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare
Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto,
prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli Italiani, XXIV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri. Gino
Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Roma-Bari,
Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola Chiaromonte, in "Storia e
Futuro", Filippo La Porta, Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una
vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca di Magra Altri progetti Collabora
a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte
Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Nicola
Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte,. Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte
La cultura politica azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo
librario Chiaromonte. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to
utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a
rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce
“parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un
suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o
concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro
segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche
scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa
communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale
si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e
che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione
consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa
idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione,
arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia
abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione
convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante
una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si
stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non
abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare
nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo)
annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale
-- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o
tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del
suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si
destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono
del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come
la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo
scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili.
Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale
‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la
imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la
percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa
l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta.
In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta.PRIS CIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.LIBER PRI MVS .
DE VOCE. PHILOSOPHI definiunt vocem effe
ae¬ rem temuffitmm ftfhtm,uel fiuwm
fenfibile <ut ritum, idefl quod propria auribu
s accidit* Et p efl prior definitio
ii fubfhtntia fiumpta, Altera nero d
notione quam graa ivvotav dicunt Jnoc
efl ab accidentibus -Accidit enimuod auditus
quantum in ipfia efl* Vedi autem
differen¬ tia fiunt quatitor, arti culato. ,m
articulata fit ter ata, illiterata. A r
ticulata efl qua coarguta , hoc
efl copulata cum aliquo fienfiu mentis
eius qui loquitur, profertur* Inarticulata ejl
contraria, qua a nui lo proficifettur
affccfht mentis* Litterata efl qua ficribipotefl.
I J- literafa qua ficnbi nbpot . r
nuenimtur igitur quadam uocesarticn lata, qua
& feribi poffitnt, & intellig,ut
Arma uirtemq ; cano* Quadam qua no
peffunt feribi, mtelligiinturth, ut fibili heminu &
gemitus, ha enm uoces quamus fenfiu.m
alique fignificent proferentis eas, feribi tn
no poffiint* Ali# uero funt qua
quantus feribantur, tn inarticulata dicuntur ,
cum nihil fignificent, ut coax,cr a* baseni
uoces quanquam intelliginuis de qua fint noluere
proferte, tamen in articulata dicutur,qma
uoxfut fuperius dixi){marticulata efl, qua
a Milio affvfhe profiafdtur. A lia
funt inarticulata & illitterd * ta,qua
nec feribi pofjunt nec mtelligj,ut fl
repi tus, mugitur , & his fimilia-
Scire autem debemus , quod has quatuor
fpecies uocum p- fidunt quatuor fuperiores
differentia generaliter uoct aeddentes , bi
na per fingulas inuictm coeuntes *
Vox autem didht efl uel d Uo*
cctndo,utduxd ducendo, Uel ccto rojfioxco jsoco.
ut quibufda placet* bE L r T TER
A. LITTERA E fl pars minima
uods compofita,hoc efi l uods qua
conflant compofitione litterarii, minima autem
quantum ad totam comprchenfionem uoaslitterata,ad
hanc enim etiam produrtauoctiles hreuiffima
partes in ueniuntur ,uel quod omnium efl
breuifjimum eorum quzdiuidi pof funt, id
quod diuidi non potefl* Vcffumus &
fic definire* Litte ra e nox qua
feribi poteft mdiuidua-uicitur autem littera
uel qudfi ?RIMVJ. 5 lenter d,
eo quod U<gndi iter prabeat,ue[ a
tuaris (ut quilufda pia cet)qubdplerunq>in
caratis tabulis antiqui fcrilerc [oletans ,
& pojha delere- Litteras aut, etiam
elementorum uocdbulo nuncu paue - runt,ad
fimlitudmem mundi elementorum- Sicut enim
illa coeutia omne cor fu* perficiunt, fic
etia ha conimfia litterale vocem quafi
corpus aliquod componunt yuel magis nere corpus
na fi acr corpus eji, & nox
qua ex aere icdo confiat , corpus
ejfie cflenditur , quip¬ pe cum&
tangit aurem, & tripartito diuiditur,
quod eji finit corpo ris}hoc eji tu
altitudinem, latitudinem, longitudine myunde ex omni
parte potefi audiri- Vraterea tamen fingula
syllabe altitudine qui¬ dem habent m tenore
,craffimdinem nero ct latitudinem in fpiritu
f longitudinem inttmporc- Littera igtut eji
ricta elementi}& uclut imagp quadam uocis
litterata, qua cogmfidtur ex qualitate &
<fti tute figura linearu-Hoc ergo mterefl
inter elementa, & litteras, quod elementa
proprie dicuntur ipfie pronundationes - n 'ota
autem carit littera- Abufiue tamen &
elementa pro litteris, & littera pro
ele* mentis uoatntur . Cum enim dicimus
non poffie conflare m eadem fiyl
labd-K,ante.V,no de litteris dicimus, fid
de pronuntiatione earum- nam quantum ad ficripturam
poffunt coninng,non tamen etia enu-
ciari,nifiipojlpofita-R, ut princeps, sunt igitur
figura litterarum quibus nos utimur- XXUI-
ipfie uero promnciationes earu mul¬ to
amplior es. Quippe cum fingula uocules
denos mueniantur ha¬ bentes fionosyuel
plures,Vt puta-a, littera breuis quatuor halet
fimi differentias, cum habet afrirationem, acuitur
uelgrauatur,& rur- fus cum fime aft iratio
e acuitur uelgraudtur,ut habeo habemus, abeo
abimus- Longt uero eadem fex modis
fionat, cum habet afpiratio - nem,&
acuitur uelgrauatur,ueldrcunfleCHtur, ut hamis
hdmoru hamus - E t rurfits cum fine
afpiratione acuitur uelgrauatur ucl ctr
cunflecntur ,ut dra ararum dra - Similiter
ali* uoatles pofjimt pro ferri- Vraterea
tatnen-i, &.u, uoatles }quando media ; fiunt
alternos inter fie fionosuidetur con funder
e ytefk bonatofiut uir.u,ut optumus, Et-i,
quidem quando poft-u, confortantem loco digamma-
V,fi<n<fhm Aeolia ponitur breuisyfequcnte.d,uel.m,uel.r,ucl.t,
Uelx, fonum-y, gracauidetur habere, ut uideo,um,
uirtus , uitium, uix-v, autem qudnuts
contraftum eundem tamen fimum, hoc efi ■ y,
habet, inter q} &-efueLiyHela,diphthongum pofltum ,
ut que quis qua- tenon inter. gt&
ea fidem uoatles,cmi in una fiyl laba
fic imenitur,ut pin- gtefanguisfiingtta -
In confortantibus etiam fiunt differentia
plures, trdnfeuntmm in alias confortantes &
non tr an femtium, quippe di - uerfie firmi
potefiatis . ’L tL a iij DE
ACCIDENTIBV S* LITTERAE. Ccidit igitur
litterae nomen figura, poteffas-Uomen uefo a
ti. a.b.c. Et fiunt mdechna ilia, tam apud
gr aecos eleme- torum nomina , qudm
apud latinos.siuc p a barbaris inuenta
dicuntur, fiue p fimplicra haec Z7‘
fktlilia effe debent, qudfi fundamentum omnis
do firmae nnmvbile , fine p nec
aliter apud iatmos poterat effe, cum a
fias uoabus uocztles nominen¬ tur, Saniuocal
es uero in fe de finant, Mutae autem
a fi incipientes uo- atli terminetur, quas
fiflefkts fignificzttio quocp nominum una
eud- nefcit.v ocdlcs igitur (ut difhtm
efi) per fi prolatae nomen fuuofien =>
dunt.Semiuocrtles uero ab. e, incipientes ,
&in je ter minantes. A bfip x,
que fola ab. i, incipit per anafirophen
gracct nominis. xi. quia ne ceffe fuit, cum
fit fiemtuocalts , d uoath vnapere,Zjin fe
terminare . quae.x,nou\ffimcd latinis afjumptaypofi
omnes ponitur litter as,qbus , latina *
dichones egent p autem ab. i, incipit eius
nomen, ofhmdit eti - », am Sergius in
Commento quod fcripfitm Donatum kisuer bis. Sunt,
>, feptem jemiuoatles ,qu<e ita proferuntur
,ut inchoent ab. e, littera, & „
definant innatur ale fonum, ut. fl.m-n.r.s. x-Sed.x, ab. i,
inchoat. \d *> etiam Eutropius confirmat
dicens.Vna duplex. x ,quae ideo ab.i,m „
cipit,quia apud g^ aecos in eandem definit.
Mutae autem d fiincipi - entes, Z^m- e, uo culem
definentes^xcaeptis.K^t.q^uarum alteram a, altera in.u finitur,
fua confiant nomina.H,enim affirationis ma¬
gis eft nota. Eigurae acadunt quas uidemus
in fingjihs litteris • Tote = jhs uero
ipfa pronuaatio, propter qua, Et figura
ZTiwia fiunt ficht . Quidam ena a
dunt ordinem fied efi pars pote
fiatis litterarum. Ex his uocules dicuntur, quae
per fe noces perficiunt uel fi ne
quibus uox litteralis profirn non pote fi,
unde & nomen hoc praecipue fibi
defe dunt.Caeterae enim quae cum his
proferuntur confortantes appellan¬ tur. Sunt
igitur uocules numero quinque. a. e. i. o.u.
utimur etia.y , gr georum cuufia nominum.Q
onfonantiu aliae fiunt fi mino cedes, aliae
mutat. Semiuocales fint ut plerisp
latirwrum placuit fiptemfil-m n-r-s.x. Sed- f.
multis cfienditur modis muta mazis, de
quatpofi do¬ cebimus • Z, quoque utimur
ingruas dcthonibushae ergo, hoc efi fi- miuo
cules, quantum uincuntur d uoculibus, tantum fi
p erant mutas, ideo apud gr aecos quidem
omnes dichones, uel in uocules uel in
fimi- t:ocUlcs,quae fecundam habent euphoniam
,defiment, quam nos fiono- ritatem pofji
mus dhere , apud Iatmos autem, ex
maxima parte, no tamen omnes. Inveniuntur
enim quaedam etiam m mutas definetes.
PRrMVS. 4 Semeuocules autem furit
appellata , qua plenam uocem non habent f
ut fetnideos & femiuiros appellamus ,
non qui dimidiam partem habent deorum, vel
uirorwmfed qui pleni dij uel uiri non
fmt • Reliquae funt muta, ut quibufdam u\
detur , numero nouem. b. c .d-
g.h-k-p-rf-t' Et fnrvt: W1 wn bene
hoc nomen putant easaccapi[fy cumba quoq;
partes fintuocts- qui nefiunt ,<p ad
comparationem ue ne fonantiwmita funt nominata
,uelut informis dicitur mulier , non
qua atret forma , Jed qua male
eft formata y & frigidum dia mus
eumynon qui penitus expers efl atlons
,fed qm minimo hoc utitur • Sic
igitur mutas, non qua omnino noce atrcntfed
qua exiguam par temuods habent- Vocales
autem apud latitios omnes fmt anapites,
uel liquida yhoc efl qua fialemodo
produci f modo corripi pojfunt , Sicut
etiam apud antiquiffimos erant gr acor
uni ante muentionem » quibus inuentis.t, &o,
qua ante anapites erant reman, fe¬ runt
perpetua breues,aim earum produdhtrum loca
poffcfft fint d fupradiths uoatlibus femper
longis . Sunt etiam in confonantibus lo
ga,ut puta duplices. xy&.Zr Slrut enim
longa Uocalesy ficha qucq ; longam fidunt
jy liabam. Sunt fimiliter in confonantibus
anapites uel liquida yut.ly&-ryqua modo
longam modo breuem pofl mutas pofita
m eadem fyllaba fidunt fyllabam.his quidam
addunt non irrationabiliter m, &my quia
ipfe quoq; communes fidunt fyllabas pofl
mutas pofita yquod diuerforu confirmatur
aufhritate tamgra eorum, q latinorum . ouidius
in deamo Metamorphofeos. Vifcofimq;
gnidon.gr auidamq, ; Amathunta metallis. »
Euripides iit Vphoemffis . /Wr#i tro c/t
hoc pidjuov <tio'punr. In cifdem . xxax
ojuitrSot.Jdco hocmo cmtofeis tihvov , apud
gracos fnnenitur tamen. myante.n,pofita nec
producens ante fe uoctilem mo re mutarum
-Callimachus • rcofjutv o juvturx paetos
i<pn £tvof umctw ouvuv. Apud antiquiffi¬
mos gr acorum non plusq fedeam erant
littera ,qui'us ab illis accet ptis latmi
antiquitatem feruauerunt perpetuam , Nam fi
uerxffimt uelimus infpicere edus,fnoc efl
fedeam)non plusq duas additas in It
tmomueniemus fermone-V- Aeolicum diqnmma qS
apud antiqwffi mos latinorum eandem
uimyquam apud Aeoles habuit, eum autem
prope Ionum quem nunc habet - V
,fignifiatbat.p , cum afpiratione. Sicut etiam
apudueteres gracos pro -<p ^tfT-t. Vnde
nunc quoque fngrads nominibus antiquam firipntram
fernamus pro-<p.py&.hy ponentesyut Orpheus
vhaethon-pofha uero in latinis placuit uercis
pro.p ,&-h,fjcribitut fiina,filius.fiao ,
locoau^m digamma. V, pro confonante-q od
cognatione foni indebatur affinis cifc
diijjmma d iiij » »9
E r B E R e i [it ter 4-
Qjiare tum- f Joco mutre ponatur ideft p,
& .h y fiue-<p f miror hanc
inter famiUocales pofiiiffe artium fcriptvres.
mhil.n>ali- ud habet nrec littera
femiuoctihs ,nifi nominis prolatione, epire
duo- (yili incipit. Sed h.ec pote flatem
mutare Iit ter re non deluit, fi
enim effet femiuoculis yneaffario terminalis
nomlnu inucniretur • quodmi- nime repencs.nec
anted, uel.r, m eadem fyllaba poni poffet ,
qui lo¬ cus mutarum efr duntaxat.nec
communem ante eafdem pofita face¬ ret
fy liabam. Vofiremo grrect (quibus in
omni dottrina auflvnbus utimur) -<p , cuius
locum apud nos. f,optinetyqucdofknditurinhis ma¬
xime dicHonibus quas d grrecis fumpfimus
y hoc efl fama, fagp, far, mutam
effe confirmant. Sciendum tatne q> hic
quoq; error d quibus *= dam antiquis
graecor um grammaticis inna fit latinos ,
qui.<p, 6 ,%./£- mtuocztles putabant, nulla
alia cUufa, tiifi q? fpiritus in eis
abwndet induch.quod f effet ueruni, debuit. c,
quoq; uel.t , addita afairatione femiuoculis
cffe.quod omni edret ratione.fpiritus enim
potefhtem /it= terre non mutat, unde
nccuoailes addita ajpiratione alire fiunt,
& alire ea dempta. Hoc tamen fare
debemus non tam fxis labris efi
pronuntianda. fy quomodo. p,&-h,dtq; hoc folum inter efl
inter -f,& phyXftiam duplicem loco,c
,&.s,uel g,&'S,pofiva d grrecis inuetam
afjump fimus yut dux duas yr cx regs.K,enim
&qyqudnuis figura & nomine uideantur
aliquam habere differentiam cum •C.tn eade
tam in fio io uorum q m metro
ycontincnt pote fiatem -^.K, quidem penitus faperuarua
efr pullam, ratio indetur 'cur a
,fequente.K, feribidebe- dt.c rthdgo.n.&atputfiue
per. ct fiue per.K,fcribantur, nullam faciunt,
necm fano nec m potefhte eiufdem
cofanantis differentiam * ytiero propter nihil
aliud feribenda mdetur effeynifl ut
ofiendat feqn era. u, ante alteram Uo calem
in eadem fyllaba pofitum perdere uim litte
r^e in metro. q> fi alia ideo
littera efl exifhmanda q>c,de- bet.gyqncq;
cum fimiliter pr reponitur. u , amittenti
uim litterre alia putari y & aha
cum id non facit rdicimus enim anguis
ficuti quis, O4 ruignr fi cuti cur .
v nde fi uelimus cu, ueritate
contemplari(ut diximus ) non plus quam
decem &ofh litteras, in latino farmene
habemus , hoc cflfadeam antiquas gr re
eorum &.fy&.x,pefka additas eas quoq; ab
eifdem famptas.nam y y&.^grrecvrum afufia
nominum (ut fapra difhun efl) afamimus.H ,
aero affirationis efr nota y &
nihil aliud o.tbct litterre nifii
fgurdm/j" q> in uerfa firibitur
inter alia* litteras.Qjeod fi fa faceret ut
elementum putaretur, nihilominus quo rundam
enam numerorum figurae, quia in uerfiu
inter alias litteras feribuntur ,quanuis eis
d familes fint, el ementa fiunt habenda fadmis
nime hoc efi adhibend-ctn , nec aliud
aliquid ex accidentibus pro- PRTMVS.
f prutatem oflendit Umufcuiufq; elementi ,
quomodo potefhs,qua .Uret affiratio- neq *
enim uoaths nec confotum ejfe potefl
.noculi$ non e fi. b^quia dfieuocem
non fiat , nec fiemiuocuhs cum mlla
fyllaba lati- nauel grceafper integras
dittioes in eamdefnat, nec muta cum
in eadem fyllaba, cum duabus mutis bis
ponitur, ut phthius, Erichtho = tiius-nulla
enim fyllaba plus duabus mutis poteftbabere
iuxta fe po fitts,nec plus tribus confonantibus
continuare - authritus quoq; tam Varronis
q Macri, teflv Cenforino,ncc-K,nec- q,neq;.h, in
numro adhibet litterarum -Videntur tamen
i,gy-u,cum in conlonantes tra fiunt quantum
ad pote flatem, quod maxrmum efiin elementis,
alite litterte ejfe pr teter fifpradidkts -multum
enm inter efi utrum uoctiles fint an
confonantes-ficut enm , qnanuis in uaria
figura, g? uario fwmine fint-K,gy.q,gj*-c,
tamen quia u/nam um halent tam in
metro q in fono, pro una littera
accipi debent, fle. i, &-u, qnanuis
unum twmcn,g? unam habeant figuram, tam
uocules q con^onan tes, tamen quia diuerfum
j'onum,gj* dmerfim umhabent in metris , g?
in pronuntiatione fy liabar um, non fiunt
in ei fidem , meo iudicio , (lententis
acapiendte-quanuis & Cenjbri/w dothfjlmo
artis gram¬ maticae idem placuit. multa
enim cjl differentia inter confortantes, ut
diximus , gruocttlcs- tantum enmflre interefi
inter uoculcs gj* confionantes , quantum inter
animas g? corpora, anim.e enim per fi
mouentur,ut philofophis uidetur ,gj* corpora monent,
corpora uero nec per fe fime anima
moneri poffunt, nec animas monent, fid ab
il Its moucntur -Vocales fi militer g?
per fi mouentur, ad perficienda fyllabam,g?
confionantes mouent fecum, confionantes uero fime
uoculu bus immobiles fint- Et-J, quidem
modo pro fi mp lici, modo pro du¬ plici
accipitur confonante-pro fimplici , quando ab eo
incipit syllaba in principio dithonis
pofita, fiubfiquente uocztliin eadem syllaba, ut
luno Juppiter . pro duplici autem
quando in medio diflioms ab eo
incipit fyllaba pofiuoatlcm ante fi
pofifom, fu fiquente quoq; uocttli in
eadem fyUab a, ut maius, peius, eius, in
quo loco antiqui folebant geminare eandem-i,l\tteram,gT
maijus,peijus,eijus feribere ,quod non aliter
prominctari poffet quam fi cum fitperiore
syllaba prior I ,cum fiquente altera proferretur,
ut peijus,cijus,tnaijus, gy duo. ij, pro duabus
conjonantibus accipiebant. nam quantus- T,fit
confonans incadcm syllaba geminatninngi non
poffet. ergo non aliter quam tellus ,
mannus proferri debuit. unde Pompeiij quoque genitiuum
per tria-i , antiqui feribeb aut, quorum duo
fiperioraloco confona - tium accipiebant jit
fi diats Pompeiij, nam tribus ili ,
iunchs qua^ lis poffet fyllaba pronuntiari
? nam poftremum -l, pro uocttli efi
LIBER' atcipienc lum . quod C<eftri
doihjfimo artis gramntaticse pla~ citum
finjje d Vidvre quoqu r in arte grammatiat
de fylla is com - probatur-Pro fimphct
qucq; in media dithone inuenitur ,fcd
in co~ pofitisfut iniuria^diungo^iedht^reijce
Virilius in Bucolicis • Tityre pafientes d
flumine refice capellas* proceleu fma ti cum
pofuit pro daciylo - Nunquam autem
poteft ante . I, litteram loco pofitnm
confonan- tis,afpiratio mucnin yficut nec ante
. ii, confortantem -unde hiulcus trisyllabum rj7*
, ##//.* (ww confonans ante /e
afpirationem recu pit- V, wcro lo.o
confortantis pofita eandem prorfius in
omnibus uim habuit apud latinos,qudm apud
Aeoles digtmma , F.Vnde d ple~ rui j;
ci nomen hoc datur, quod apud Aeoles
habuit ohmyFy digama i-HdUyab ipfuis uot profetfhtm
tefk Varrone, & D idymo, qui id ei
rujmcn cffecfivndut*pro quo Ccefiar hanc
figuram £,fcnb er e uduit, quod
quarum illt reik mfum efty tamen
confuetudo antiqua fiupera «5 uit-Adco autem
hoc uenvm eftyy pro A e otico F
ydigamma -uyponi- ttrr,quod ficut illi
flebant accrperc diqamma-V,pro confonante fim
phaytefiv Aftyaqy,qm diuerfiis hoc oficndit
uerfibus , ut in hocuerfu o otojucvos
VtAtvHV iAtKcoTiJocfic nos quoq ; pro
fimplia habemus cort fonante
plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma pofitumyuty „ At Venus
haud animo ne quicg exterrita mater •
E fi tamen quando Aeoles idem-F finueniuntur
pro duplici quoq; co fonante digtmma
pcfmffe,ut vt&opct cPt FoJ crouSd s -
Nof quoqiuide- mur hoc fequi in
praeterito perfido & plusquam perfido
tertice £r quartce coniugationis ,in quibus ,1
,ante-u ycorfo nantem pofita produ « citur ,
eademqs fiubtradn corripitur yut cupiui cupijtcu
piueram cu¬ pieram, audiui audfiaudiueram
audieram . inuemuntur etiam pro Uocdh
correpta hoc digVHtna illi ufi,ut
Alcman-Ksh jux tj ? n <fx Fiov.pfr enim
dimetrum iambicum , & fic e ft
proferendam, Tr yut factat Ireuem
fiyllabam-Noftri qucq; hoc ipfium fiaffeinueniim
tur,& pro confonante. ii yuoatlcm Ireuem
acc<epiffeyut Horatiusfyl fise trifyllabum
protulit in E podohcc uerjit- » -niuesq;
deducunt I ouem, * Nunc mare
nuncsfi liite; E/r enim dimetrum
iambicum comunfhim penthemimeri heroicae, quod
aliter fhtre non poteft, ucfi fylu.e
trifyllabum accipiatur . Si¬ militer
Catullus V eronenfis <p Zonam fioluit
diu ligtam , inter E nde atfyllabos vhalectos
pofitit-ergp nifi fioluit trifyllabum accipias,
uer- fivs fhtre non poteft. hoc tamen
ipfium in deriuatiuis uel compofltis fi
e quentC' fiolet fieri ,ut Heluo
uclutus,foluo follitus ,auts, auceps, aujfi- PRIMVS
. 6 dum,m<guriim,<UigupUS,lauo l*u tu s,fitueo,
fautor . F, aigam ma apud Aeoles ejt, quando
m metris pro nihilo decipiebant, ut 4“/“*
^Fetpi vccvro 6 w 7<>i ^vuorotv Fouiv.Ep
enim h exametr u/m heroicum, apud latinas quoq;
hoc idem-u ,inuenitur pro nihilo
inmtris,& maximo apud uetufb.fpmos comicorum,
ut Terentius in Andria - M sine
muidia laudem inuenias,Et amicos pares.
eft.niamicum tri¬ metrii, quod nifi,pne mui,pro
tribracho accipiatur, fhtre uerfus non
potejl.jciendu tamen q> hcc ipptm Aeoles
quidem, ubiq; loco ajpira- tionis ponebant
effligentes ffnritus affcritatem.nos dutmmultis
qui dem,non tamen m omnibus illos
faquimur , ut cum dicimus ueffera,
uis,uejhs. hiatus quoq ; atupt plebant illi mterponer e
-F, digama, quod ojhndunt et Poetae Aeolidae
up,AlcmanxsH X" yocrrJ pn Mio/ et 'Epigrammata,
qu£ egmctleg m tripode uetujhfprrw
Apollinis qui pat in Xerolopho Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov
,\oiFonxi uv.Et nas quoq; hiatus atupt interponimus
• V doco digama ,F ,ut dauus, arduus, pauo,ouum,ouis,
bouis.hoc tamen etiam per alias quapiam
cbfonan tes hiatus uel euphoniae atufa
folet peri, ut prodeft ,cbburo ,fi cubi
,nu cubi, quod gract quoq; pol ens
facere junntr/,oi/ utri. Sed tamen hoc at
tendendam efl quod pr&ualmt in hac
littera,idefr,in-u,loco digam ma pofito,potepas
fimplids confonantis apud omnium poetarum do
- {hfpmos.in.b, et folet apud Aeoles tranfire.F
, digama quotiens ab p, incipit diflio
qux folet a[pirari,ut pdrcop (Spnrup dicunt
quod di gamma nip Uoaili praeponi
& m principio fyliab <e non pottft .
ideo autem locum quoq; tranpmtauit, quia. B, uel
diqamma pofx-p, in ea¬ dem fydaba
pronuntiari non pote fl- A pudrns quoq ;
efl munire <p pro. u,confonante.b, ponitur, Coelebs
codcfium uita ducens, p er. b, feri bitur
y.u.corfonans ante confortantem poni non
potep.pcut etia bru qes 0 Belenam
antiquifpmi dicebant tefh Quintiliano, qui
hocofle dit m primo mfhtutionum oratori
arum. nec mirum cum. b, quoq; m \i,eufhoni&
aufa conuertimuenimus ,ut aufropro a pro. A
ff ira tio quoq; ante uoatles omnes
poni potefl,pofl confortantes autem quat =*
tuor tantummodo more antiquo gr^ecoru. c,t,p,r,
uthaheo, Herenni- usberos, hyems, homo, humus, hylas, Cremes;
Thrafo, vhilippus,Vyr rhus-ideo autem extrmpcus
afcribitur uoatlibus,ut minimum fanet,
confortantibus autem mtrinfecus, ut plunmu. omnis
enim littera fiue uox plusfonat ipfa
fefe,cum p opponitur, quam cum anteponitur,
q<t Uoatlibus aeddens effe uidetur-ncc p
tollatur e a, perit etiam uti f- gnipationis
,ut fi duztm Erenmus abfq; afpiratione,qUti
uitium ui- dear facere , intellectus
tamen inteqvr permanet . Confortantibus autem
pc cohaer et; ut eiufdem penitus ptbpantite
fit ,ut p aufratur , LIBER
fignifirttionh uim minuat prorfis-ut fi
dica Cremet pro chremes* unde hac
confyderata ratione ygr oecorum
dothffhni,finguld4 fecerit cas quot]; litteras,
quippe pro,th,Ofpro,ph,p, pro , ch,% f feribentet
nos autem antiquam finpturam /eruamus- In
latinis tamen diiho nicits nos queqj
pro ,ph, coepimus fjeriber e , ut fi lins,
fima, faga, nifi qnbd^utfupra do mimus) cft
aliqua in pronuciatione eius litterae dif-
firetia^oim fono,ph,ut ofkndit tpfius palati pul
fis, lingua, labro rum-R.h, autem ideo non eji
tranflatum abillis m aliam fibram, qg nec
fle cvhxret huic quomodo mutis ,nec(fi tolla tur)
minuit fignifid txonem ,quanuis enim
fibtrafot afpiraticne dicamus, retor , Vyrrus t
intellectus permanet ynon aliter quam fi
antecedens Uoailwns au fe¬ ratur. Vnde c
frenditur ex hocquoq ; aliquaeffe cognatio-r,
litterae cu uocahbus-cx quo quidam
dubitauer ut , utrum proponi debeat huic
af/iratio>an fubiungi^nde Aeoles loco(ut diximus)
afpirationis di¬ gamma ponentes in
dictionibus ab -p Rapientibus j olent loco digam
ma-B fcnbere /ududntes debere praeponi diyrtmma
qua.fi uoathfeA rurfis quafi confonanti
digamma in eadem fyllaba preepenere re - cu
j, 'antes ,comutxoant id in-Bfiparcop fcpo Condicentes
Sed apud grte cos hxc littera /idzji ,p -multis
modu fungitur loco uoculif ,ut in
decli natione nondnum in,pcc,& in a
puram dcfmentum,qu<e fimiliter . a, /eruant
per obliques cufis ,ut ui px w
pocr^opCoc <ro<p'*s- Apud lati nos
autem non adeo -Q^ucentur cur inuah &ah
poftuocrtles poni tur afpiratio - &
dicimus quod apocopa fidei efl extremae
uoctilif ai proponebatur afpiratio ,nam
perfidi uaha aha fint-ideo au¬ tem
abfdffione fidhi extremce uocztlti, tamen
afpiratio manfitex [k periere pendens uocrtli
, quia fium eji imterictUonis noce
alfcondita profrri-ltaq; pars abfeondii &
extremitatis uidetur congrue in in =
teritVYiefhcnis naturali prclahonercmanfiffe-nec mirum
cum in Sy rorum Acgyptiorumq ; dichoni msf oleant
etiam in fine afpirari uo
atles.lnfrricttionum autem pier *q; communes fint
naturaliter om¬ nium gentium uoces-inter-cjine
affiratioruey& cum af/irahoneeft g, inter- tyquoq;
&tih,cft.d,&' inter -p ,gr, ph,fiue-f, efl -b Sunt iff-
tur hae tres, hoc eft -b.gfdymcdice,qute nec
penitus atvent afpiratio - ne, nec eam
plenam pojfident.hoc autem cflvndit etiam
ipfius pa¬ lati pulfi<s,& linvueucl
labroru confimihs quidem in ternis , inter
. p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts inter -c.&.ch
.&-g- fimiliter inter -t &-th-&.d fidin
humus exterior fit puifus/naf/eris interior, in
me dijs inter utrvet; fipradiihrn
locu-qdfiale digno fci 'tur, fi ai te damus
in fipr tdi&ismoiil us ora mirabili
natura lege modulati a noces- To¬ to
aut e e cognatio earu <p inuice
muemutur pro fi pofitee in qbu fidit
PRIMVS. 7 ditfionihusyt ambo pro
*,u<pu>t luxus pro w i os, &
publicus pro TouvMHor, trismphus pro
dpfocyfros, gubernator pro HvfitpvSx rnr,
gobius pro inofcio* , Caere *Vj' toJ
%oupi puniceus <po/vi'*tif deus Stof
purpureum Troptpj piov. Hoe quocp
obfiruanduan efl <p nd computationem
aliarum cofonantium quae [olent mutari uel
abq- dper cti fis , immutabiles funt apud
nos tresl n-r-per cmnes erwn at frs
eaedem permanent, ut fil falis , flumen
fluminis ,caefin coefaris-t. quoq; &
>c. quduis m trilus folis mueniantur
nominibus quaepof- fint declinari ,hoc idem firuant,ut
caput rapitis, &ab eo copojita, Ut
finciput fi 'napitis , occiput occipitis, alec alecis,
lac l albis, in quoetia t. additur • quare
quibufdam non irrationabiliter nominatum hoc
lath prolatus inuenitur -Reliquae uero cojonantes
mutantur , uel ab ij cimtur-d-ut aliquid alicuius
an. ut templum, templi, peliumpelij-f Ut magnus
magni-x-rex regis, nix niuis-ln uerborum qucqipraete
*= ritis p er fettis jolent omnes modo
mutari modo manere , cxcaeptis-L p.fx Mae
enim nunq mutantur, ut habeohabui, iubeo
iuffi,compefco compefcHi,dico dixi,afcendo a fiendi,
laedo Ufi, lego legi , pingo pin¬ xi, demo
dempfi, pr emo presfi, moneo monui, fi no
fui, nequeo nequi ui, torqueo tor fi, differo
differui,uro uffi,uertouertiftedv flexi. \llae au tem
quattuor ut fiupra diximus nuquam mutantur,
mpraeterito per fiflv.l. ut caelo
caelaui,doleo dolui,uolo uolui , mollio molhui.p .tur¬
po turpaui,ftupeoftupui,fadpo fiulpfi, lippio
lippiui.fiquaffo quaffik ui,cenfio cenfiti-arcefjo
arceffim-x-nexo nexui. Voatles quoqiin eifde
praeteritis perfiflis quaem principalibus fy
liabis mueniwntur uer¬ borum, modo ex
correptis producuntur, modo mutantur in alias
uo cales, modo manent eaede-Troducuntur plemnq *
omnes, ut fiiueo fa¬ ni, ctiueo cdui,
fedeo sedi , /ego' legi,uideo nidi, moueo
mom,fbueo fo ui, fugio fugi . Mutantur. a, &.
e-a. quidem in. e. medo produ&tm modo
correptam.Vrodu(fhim,uta^p egi capio cepi facio
faa.fi ango fregi. correpta, tango tetigi, cado cecidi,
parco peperci . E. uero tran- fitm.i.ut eo
m,ueUij.Solinus in colledhtneis uel polyhijhre.
Tatius in arce ubi nuc aedes efl
xunonis Monetae , qui anno qntv q
mgref- ptsurbem fuerat a lauretibus inter
e p tus efl ,/eptima &uiqvffinia
olmpiade hominem exiuit.Qjteo quiui uel quij.
Haec eadem uoculis penultima muerbis fi
eundae coniu^tiois fepe mutatur in-u.ut do¬
ceo docuiynoneo monui, doleo doluuquod
fimiliter efl quado in ter¬ tia uel
quarta coniuqntione patitur aut rapio
rapui, aperio aperui M.&.o>manet in
principalibus fy liabis pofitae immutabiles
,tempo Yimquoq ; m quibufdam.ut ruo rui ,
domo domui, doceo docui. Hoc queep
olfirnandu efl p mnq in fupradifiv
tempore poteft qeminari m ] i
i! - n ■ ■■ VK - - —
UBER . Wf M principio ncq; in
fine fyllaba ni fi qucedtmte incipit -
ut ton¬ deo totondi, pendeo uel pendo
pependi , difco didici f pofcv popofii,
tundo tutudi, pedo pepedi, iungy tetigi, c&do
eradi , atdo evadi , pello pepuli,
fxllofifilii^rodo prodidi , nendo uendidi-ex
quo etiam ap* paret . f . uvm magis
mutce obtinere d quaincipiens eft geminata
fyl¬ laba- S- antvmutem pofita muenimtur
duo uerba epice qeminant fy liabam m
prcetvrito.jb ficti, fiondeo fiepondi -
Antiquiffnni etiam , fcindo fdadi dicebant
,q> innior er fddi dx erunt , ut
mpr&terit* perfitfv uerbi ofiendemus - nec
fine ratione • 9. ante mutam pofita
vnuemtur qvminatum uerbum, c/m s- amittit unn
fiiamplcnmcp, fic pofita ante mutam,
wndenec in fecunda fyllaba repetitur- M
-quocf ge minatur , mordeo momordi , quee
loco nuttee in multis fungitur, nam
ante-n pofitx communem fiat fyllabam, ut r
amnes ramnetis , fieut Cremes Cremetis-
lamlicti enim fiunt quee fic declinantur ,
quod Callimachi quoque au thr itato con
fi r ma tu r in A ct ijs
,ficu t i am t :f radicium cfl
hocucrfiu 7w; juiv o uvv <rd paetos t<pn
£tvos uAinr cuvut- nunquam tamen eadem- m
• ante fe natura lonqxm uo- adem
palitar ; n eadem fyllaba ejfe , ut
illam , artem , puppim, i/= Ium
, rcmjfiem , diem , cum abue
omnes femiuoatles bcc habent , ut Meccenas
, pcean ,fol, pax, par - praeterea
fola heee femiuocalis pofr-s. ponitur, quod trntar
u cfl, ut fimyrna,fmardgdu6,& ante liqui
dam ut fitmnis,&q> ante-s .pofita in
finali fyllaba nominis , more ma tce
interpofita i. fiat genihuu hyems hycmls,ucl
uti inops inopis, eoe leis ccehbis- Apparet
igitur, <q) elementoru alia funt eiufde yvnerts
, ut uoctflcs,& con fonantes. alia eiufde
fiedei,ut in uocuhbus breues, & longce
, & in corfonantibus fimplicvs,& duplices
, quee halent afiiratione,^ quee non habent
, & earum medice- alice uero fibi
funt affines per c6rmtatione,idefi q>imuicvm
pro fe pofitee inucniim tur,ut breucs,CT
longce quee habent afiirationem, et quee
atrent ea * A lice autem per coiuqationem,uel
cognationem cognatee littorce , 0*jg feinuicem pofitee,
ut. b.p.f.necnon-g &-c-cim afiiratione fiue
fine ea-x»quoq; duplex, fitnilitor-d.&.t. cum
afiiratione uel fine ea,&* cum
his-z-duplcs-unde fiepe-d feribentos latini hanc
exprimunt fi no, ut medidics ,hcdie , antiqui (fimi
qucq;Medentius dicebant, pro tnt fentius - Qjxinenam.fifimplexhabet
aliquam cum fipr adi flis co¬ gnationem,
unde fiepe pro-z-eam folemus geminatam ponere, ut
pa- trifjo pro -jr<x,7(>i{w pitiffo pro
tnaffil pro juoc(oc-&do, es tj
pro <rJ-wndc nos queq ; tu
pro<rj (j* te pro ri-kttia autem
tixAccr- roc pretia Aderret tipUrTXpro
tipvcrrx & httov proi crerov ,&
/i/^i jux^os pro <n/'wxXos , Romani
etiam aiax pro tuus . in uoatlibus
\ V v >•••• V
PRrMVS. g quoq; frut affines, e. correpta
fiue produdht cum ei dipthongy,qH<t ue
teres latini utebantur ubiqs loco
-idongee-mnc aut contra pro ea. i. longa
ponimus, uel. e produdhtm, ut v£\os nilus,
uocAAio^reiu allio = peagopci* chorea. e . pe
?Utitimamodo correpta nwdo produ&t . o
breuisfiue longi cum u. ut hos pro
p>ojr ehur, robur , pro ehor ro~
bor,& platanus pro 'TAocTx/or.A.quoq;
cwn-c.&.i-arceo g? coer¬ ceo. facio infido, nec,
ion alue cum alqs.g? quia frequenter
h<e m om¬ nibus pene litteris
mutationes non filum perafus,ucl tempora,
frd etiam per figurarum compofitxones , uel
denuationes gj* tran- jlationes d grreco
in latinum fieri filent, neceffarium efi
e arum po nere exempla .A. correpta
conuertitur in productam, faueofdui, I n. e
. correptam parco peperci , armatus mermis
. I n e. produ - {ktm facio feci,
apio cepi ■ producta quoque- a. im. e .produ<fhtm
in¬ venitur, halitus , anhelitus in. i
. correptam amicus mmlcus , in c.
etiam juxpuocpor marmor, in. u. fitlfus
infrifiis,ara arula-E-cor rep tatranfit m. e.
produchtm, legoleg. in. a. fero saties
,reor r a tus. in i correptam moneo monitus
, lego diligo, in- o . tego tvgt . Antiqui
quoque amplofli pro amplctti dicebant . Et
animaduortt fro animaaduerti.in-u.tego tuguriim-Et
apud anttquijjimos quoti € fcuncp.n.d.fecpumtur
vnhis uerbts quee d tertia comugntioe
nafcun tur loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut faaundnmjcgundu,
dicundum f Kertundum,pro faciendum, legendwi, dicendum,
uertvndnm-I.tr an jitin.a.ut genus, genens ,ypneranm,
paulus paulipoulatim -tn,e far tis forte
fortiter fapiens fapientis fapienterdn.o. patris
patronus ,& patro uerbumglh pro illifaxi faxofus
. m-u.arnis arrn/frx anti¬ qui pro
arnifrx,ut lucens, pro libes & pe
farnus propefjhm. Sci¬ endum tamen eft q>
pleraq; nomina qu^e cum uer^is fiue
partiapijs componuntur , uel nomiruttiui mutant extremam
fy liabam in-i.cor reptam, ut arma armipotens
,homo homicida, cornu cor niger ,fivlla fhlliger
, arcus araten es fatum fatidicus, nurum
nunfrx,aiifa ctiufi- dicus fadhts lucificus,
cornu cornicen, tuba tubicen, fidis
fidicvnfi^ des plurale , cuius ftngulare fidis
eft,unJe etiam diminutiuum fidi = cula-tibia
tibicen, pro tibfan, tibia enim,
a-md-debuithmitare, ut fit praditfhtm eft ,unde
pro duabus- vj.breuibus una logafadla ep\c[Uod
in alia huiufremodi compofihone non muenies
. uulnus uulm ficus , magnus magnificus ,
amplus amplificus, fruflas fruflificus , opus
opifrx uel gemtna . ut uir uiri , umpotens
, par paris parrict =- da quod uel
a pari componitur , uel ut alij dicunt
d patre . ergo fi efi d
pari-r-euphoni£ dufa additur , find patre
.tdn r. converti¬ tur , quilufdam tamen d
parente uidetur cffc compofitum, g? pro
JLIBER farentidda per fyncopen,&
commutationem -t.fn.r.fadbitn parn^ eida frater
fratris ,fr atruida foror for oris,
foror icida, lux quoqj lu * ets lucifer,
flo; floris florifer , fdcer facri facnficus,ars
artis artifix • p aucti fwit quce hanc
non [eruant: regiam, ut auceps, anes
atpiens0 mtnceps ,mcnteatptus ,municeps munera
cupiens, au^his augufius [milia • &qute
ex duobus nominanuis componuntur , ut puta tufiu
- randum,refpu.non tnutant extremam fy liabam,
fid ea cum defigu* ris dicemus latius
traifhtbimus • O ,aliquot Italia? ciuitates
tefce P linio, non habebant, fed loco
eius ponebant. u . & maxime, Vmbri,
<Z?Y jhufa.o ,tranfit in.a.ut creo creaux-vn
e.Ht tutor , tutela, bonus 6e- ne 71 w
genu wi/rpes . antiqui compes pro compos. m
quo xolesje* nuimur. I Ili enim t^ovioc
pro ocP/vroc dicunt, o . conuertitur vnn,
tsirgo uir <gnis-m-u.tr emo tremui, huc illuc
pro hoc illoc . Virgin yiij. Hoc tunc
ignipotes ccelo defcedit ab alto. et pleraq
; qu& apud grtfcos twminatiuum in,
os. terminant, o.m-u.conuertunt apud nos» Ut h\j'
pos Cyrus , zvovJft o s fpondeus, kv
vrpos cypruS, ^tA ayos pe¬ lagus. Multa
praeterea uetufhffimi etiam m principalibus
mutabat fyUabis, ut cungrum pro congrum
, cunchin pro conckm,bumincm pro hominem
proferentes , funtes pro fontes , frundes
pro frondes . Vnde Lucretius m idibro
Angujkq; fretu rapidum mare diuidit undis ,
pro freto, idem in tertio, Atqui
animorum etiam qu<ecunc Ji acherunte profundo
pro acheronte . in eodem • Nec tityon
uolucres ineunt ach er untei acente
m,Qjta? tarnena iutiioribus repudiata fiunt,
quafi ruftico more didht • V, quoque multis
ltalue populis in nfa no erat, fid e
contrario utebantur, o. under ornatiorum quoq;
uctufhffi - mi, in multis dicionibus loco
cius-o-pofiuffe inueniuntur,poblicupro publicu,qi tefhttur
Vapirianusde orthographia, polearum pro pul
chrii,colpam pro culpam dicetes,&hercole pro
hercule,& maxi mc digamma antecedente
hoc faciebant, ut firuos pro firuus
,uolgus pro vulgus ,dauos pro dauus-Tranfit
in.a.ut ueredus ueredarius, in. e. pondus ponderis,
deierat peierat pro deiurat peiurap, labrum
labellum, [aerum facellum, antiqui auger, &
auger atus pro augur, et auguratus
dicebant. I n.i-cornu cornicen, arcus arcitenens,
flucfhis fluttiuagus ,curfus ,ucl currus
curriculus, uel curriculum in. o. nemus nemoris
cbttr cboriSy robur roboris. Votutur ha?c
eadem littera itt gratcis nominibus modo
loco • oj . dephthong,ut mufia pro juv
o-oc modo prou ■ correpta ut homerus
pro oyupos pro eadem produfhtut fux
pro (pupficute contrario pro p>ojs bos.
modo pro . u .loga,ut probus mus,
modo pro correpta to' pepv pa purpura. In
plerisfy tamen £oles ficuti hoc faarrns. I
Ui enim OQvycin? dicunt pro Suyxrvp.oj.cor?/
** M »3 ♦5) PRIMVS -
ripientes ,Uel magif.v fino-u. jbliti pronuntiare
, ideoq; afcribunt e . rwn ut
dipbthongum faciant ibifid ut fo ium-
u. colicum ofiendanf Ut Callimachus
HX\hi%tafv %6oviF,ojpi'xs SouyxTup. Qjsod nos
fi cuti u, modo correptam modo productem
halemus , qua usis uidca- tur-oJ -diphtkoYKg
fanmi habere . Pro .0, cpiocp.au , joletrt
frequenter ponere greeti oj pos oj aos pro
5 poto hos, voj <ros pro vo<ros dicentes,
qd nos frequenter habemus in finalibus
maxime fyllabts, ut V namus, pylus, pelium-u,
tamen cvrripientes-lft quando amittit -u^im tam
uo diu q confortantis, ut cum inter. q,
& aliam nodi em ponitur, ficut ia
commcmorauimusyt quifquam • Hor idem pier
unq; patitur etia inter. g,& aliquam
uocalem,ut [anguis lingua. s , quoq;
antecedente u,<& fiquente.a,uel.e,koc idem
fepe fu, ut fiadeo fiuiws fuefio fe¬ tus,
quod apud atoles quoq;.y,fepe patitur et
amittit uim litterae m metro, ut
<rXT<pu) ,%a\x Tu/ePtoc eA Sin
xor/a-xrtt purx, f militer W- av/
difyllabuminuenitur apud cofdcm cnm-y- nonef
dipthongus. .quando tranfit in confomntem
idemu,ut vxuthf nauta , nauita, gaudeo
sgtuifus , ficut eamtrafa confonante tranfit
inuodlem ,ut ft - pra diximus, dueo atutus,foluofolutus,faueo
fautor , uoluo uolutus . fepe. u, interponitur inter
ufuelcm, in gratis nominibus, ut » pxu
herculesxcTKXurijs <efculapiHS& antiqui ,x\k,uh'vh
dlcununa ,x\- nutum alcumceon • I n
confonantibus quoqi rmltce fune fimiliter
con~ mutationes. L, triplicem ,ut P linio
uidetur fonum habet , exii em, quan
do geminatur facundo loco pcfita,ut ille
,mctellus , plenum . quando fi¬ nit nomina uel
fylldbds,& quando habet ante fi in
eadem fyllaba aliquam confonantem,ut fol,fylua,flauus,
clarus , medium inalijs , ut ledtus ledht
le&um» L, tranfit in. x ,ut paulum
pxuxiUsm,mala maxilla, uelumuexillum,in.r,ut tabula taberna
• M ,ob fimum inex tremitate dictionum fonat,
ut templum apertum in principio , ut
ma gnus}mcdiocre in mcdqs,ut umbra.tranfit
in.n, & maxime, d, ucl
t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut tam tandem , tantum tantundem,
idem identidem ,nwm nvmcul i,& ut
P linio placet, mnquis, nunquam, an ceps,proamceps.am
enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus in.n, mutat. m,ut
anfi adhts, anci fia, anquiro, uodli nero fi qu
ente interci- pit.b tut ambitus, amhefi:s,ambufius,amb
ages jntenon etiam in com¬ buro combufius
idem fit • F inahg di&ioms fubtrahitur,
m, in mtr • plerunq; fi duodli incipit
fiquens diflio,ut lUum expirantem transfixo
pe flor e flammas. Vetufafflmi tamen
non fimper eam fubtrahelant. 'Ennius in.
x. annali ttm . infignita fire tum
millia militum ofh b ltb er
* Duxit delcftvs b ellum tvller
are potentes . N -quoque plenior in
prbnis fionat , in ultimis partibus (yllaba
- rum,ut nomen, [hmen, exilior in medijs,
ut amnis, damnum, tran- fitin.g,ut ignofeo, ignauus,igno
tu s, ignaris, igno minia, cogno fco, co= gnatus-
poteji tamen in quii ufdam eorum
fermonum etiam per con - qfionem adempta
uideri-n, quia in fimplitibus quoque potefl
inueni r iper adie^nonem-g, ut gnatus
gnarus- & fequente.g, uel.c, pro ea
g, fer ibunt graa. & quidam tamen
uetujhffimi authres Romano¬ rum eupnonia
cuufa bene hoc facientes, ut agchifes,agcepsyaggulu$,
agqvns-qucd ofhndit v arro.i. de origine lingua
latina his uerbis • Aggflas aggvns
agguiUa iggerunt. In eiufmcdi grati &
Attius no * fvr binam. g. feribunt ,alq-n,&
.gyquod in hoc ueritatem facile uide-
rc non efhjimiliter ageeps & agcora.tr an
fit etiam. n,wd, ut unus ullus, nullus, uvnum
uillum, catena catella, bonus bellus, catinum catil-
lum,fimiliter collega tcolligp, illido, collido,
tranfit m.m-feqmntibus- b-ucl • m-ucl-p. audoee
Vhnio & Papiriano ,& Probo, ut
imbibo, wi o e ilis, bn outus ,
bn mineo , ynwvt t to, im mo tus
, improb u$, imp erator, mpello ,
ftmiliter in gr acis nominibus neutris
bi.on . definentibus zrxAAx.Stov paUadium
tthaiov pclium, tranfit etiam in*r.ut corrigo ,
corrunpo , irrito . Hanc autem mutationem
litterarum / ciendum ejl quadam naturali
feri uccis ratione, propter celeriore motum
lin¬ gua labrorumq; ad uicincs facilius
tranfemtium pulfus . T rafit fu- pradibht
confonans-n, etiam in-s, fando ftifjus, findo fiffiis ,
in.t-atnis catulus, catellus- in- c. ecquid pro
cnquid.pxpclhtur -n,d gratis in-w, definentibus, cum m
latinam tr anfaunt firmam, ut demipho,
fimo, leo, draco, fi cut contra additur latinis
nominibus in- o . definentibus apudgracos
ut mm puv }kxtuv tpro acero, cato. Tranfit
m.u.confona = tem,ut,fino fiuiyfivrno, ftraui-R.fine
afiiratione ponitur in latinis, in graas
Ucro principalis uel geminata, m media
ditfione afiiratitr, ut rhetor, rh entes,
rhodus, pyrrhus, tyrrh ems ,orrh ena y pro
quo nuc o fit ena dicentes afpir
ationem poft-r -antiqua feritant feriptura-tra -
fu in -l. niger nigellus- umLr a, umbella. in-s. ut
arbos pro arbor, odos, pro odor -Plautus in
Captiuis- Q^uorum odos fub bafiliatnos
omnes abigit m firu-uerror , uerfius.in
duas-ffiuro ufifi,gvro gvffifo.H.con- fi>iantemytero
trimfiro feui.in.n, ancus pro areus-S-in
metro apud uetufhffitrws yubn fiam frequenter
amittit . * v irgiiius in. xi. aneidos, Ponite
fies fibi quiscp- idem in-xiu ^
inter fe eoijjfe uirosy<& decernere firro
. Nf autem comunthone fequente am
apoflropho penitus tollitur ut
uidcn,fiatin,uim,pro uidesne fatifne uis'ne.
necmn etiam in gra- IO M)
PRIMVS. di mhUmlus.^-Uet. es. ter
minantibus plermtq; tollitur, cu fmt pri¬
ma declinationis, ut Gefa^irrhia^hedria^cherca poeta
quoque jo* phijht,fytha , citharifkt-in quibus
etiafner}produ<fhtm a correptum conuertitur .
tranfit hac eadem in - m. utrurfmn
pro rurfus,dun mimo pro difminuo . T
erentius in adelphis d>mmmetur tibi te¬
rebrum, m- n - mittitur- s- pinguis
fangninis. in . r. flos floris, ius
iu- ris,curfts amiculus , «e/ curriculum
-in- x - aiax pro ausgr pi
flrix propiftris-in quo fequimur dores.ilh
enim o pvtE pro opvis. m- d- cujks
cujbdis , pes pedis ,prafes pr a fidis,
palus paludis . in . t- nepos nepotis ,
uirtus uirtutis ,famnis famnitis . in-u.
condonan¬ tem bosbouts . /ape pro
afbiratione ponitur m his dictionibus quas
d gracis fump fimus , ut /emis , fex
,-feptem ,fefal. nam ijulv. eA/. t
vtd . e . «Ar . rfjwd illos
aspirationem habent m principio . adeo
autem cognatio ejl huic littera idefi-s,
cum afbiratione }quoa pro ea in quibufdam
dicionibus [olebant bceoti idefi pro-s-h-fcnbere
, nudi a. pro mu fi, dicentes -huic- s.prapcnitur-p.
et loco. ‘b-grace fungitur, pro qua claudius
Cafar antifigma - X hac fiqaira fcnbi
noluit fed nul¬ li susfi funt
antiquam feripturam mutare, quamuis non
fine ratione kacpuoq; duplex d graas addita
uideatur, nam multo meliorem , & uclubiliorem
fonitum habet-^.qudm-ps.uelds-ha tamen ideft.bs
non alias debent poni pro ^ -hoc ep
in eadem fyllaba coniunfla ,mfi m fine
nominatiui, cuius gimtiuus m bis definit, ut
urbs urbis, coelebs coelibis ,araps arabis -Sicut
ergo-^. melius fonat quam ps-uel.bs.fic .
x-etiam quam- gs- uel.es -&-x- quidem affump fimus -i-
autem non • fed quantum expeditior eft-^-qudm-
ps. tantum ps-qudm bs- ideoq ; twn
irrationabiliter plerisqsloco uidetur .^.ps -debere
feribi , quod de ordine litterarum docentes
plenius traChtb imus -x- duplex modo pro
es.mvdo pro-gs. accipitur, ut apex apicis, grex
gr e gps, tranfit tamen etiam
m-u-confonantem ,ut nix niuispiecmn in. 61. ut
nox no5hs,fu - pellex fupellefUhsSedhac contra
regulam declinari nide ntur-fubit etiam-x. littera
loco aflpirationisfut uehouexi traho
traxi-x-uertitur in-f. ut efficio effero. &
/ciendum cp quoticfuncp . ex - prapofitio ,
Konitur compofita didonibus duocahbus
incipientibus ,uel ab peattuor confonantibus ,
hoc eft.c -p.t.s- integra manet, ut
exa¬ ro, exeo , exigo , exoleo ,
exuro , excutio, expeto f extraho ,
exe= quor ,exfpes,in quo uidenmr contra
gracormn facere conflatu = dinem-illi enim. a .
fequente nunquam • / • praeponunt , fcd-n
- pro ea tuttK$ot!ri! . melius ergo
nos quoq;. x . [olam ponimus, que
lo¬ cum obtinet, es- cuius rationem
nonfolum ipfe- fonus auriu iudido pof
fit reddere, fed etu hoc f qemituiru
s-Jifta confonante a madente b ij
LIBER. minime potefl -geminari autem
indetur pofr confortantem -s-x* antece¬ dente
,qu£ loco-c.&.sfrinqjttcr fi tyfia confequatuT,ut
exfrquia ex - [e^uor -quod fi liceret, licebat
etiam pejt -bs, uel- ps. quas loco - dupli as
acapnnus adderes, ut dicer enm objfiffus, abjfichts ,
quod minime licet -nunquam ennn necs,riec
aha conjonans geminari poteft, ut di¬
ximus, alia antecedente confionante-nunc de mutis
dicrmus-B - tranfit in egit occurro fiuccnrro,m
f,ut opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut fuggro, in-myut
fivmmitto, globus glomus ,in-p ,ut fiuppo/io,nj-r,ut
fitrnpio,ar rtyio,ms,ut luleo iufp-nam fiifdpio
& fijluli d fitfrum uel fiurfium
aduerbio compofiite fiunt, wnde fiubtinnio
& fihbcumlo non mutauem runt-b-ins •
fijpicor quoque fiffido d frufim uel
fiurfibm cvmpo- nantur , fed abqdum urnam s
-non enm didamus fufjjnao fedfiujpU do,quia
non potejl duplicar i conjonans alia
fu pquente conjonante , quomodo nec antecedente
,nifi fit mutuante liquidam, ut fiupplex
ptf* fr agor fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g), quomodo
& apud grteccs o-uyypnoopcJ <njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn
f/cov ,tp6iyy/Ax. C- tranfit in.u, confio- nantem, ut
quiefeo quieui,pafico paui y afeifeo a fani, in-
x, ut dico dixi, duco duxi, noceo
noxa noxius, ins, parco par fi, uel peperci,
m-g,an* te cedente. n, quadringenta, quingenta, feptmgenfo
. ango quoque pro ancho.et riofond cm
cjr f ante hanc julam mutem finalem
inueniwn fur longce uoatles, ut hoc, hac, sic,
hic aduerbium-nam ante.t,fi qua fnueniatur
uoatlis longa. p er confdfionem hoc euenit ,
ut audit, mu¬ nit fimat,pro
audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita trafit aliquando
m-t,ucl ajjumit cam,ut irafeor iratus,
nancificvr nafhts, nafivr natus , pacificor padhts
,pafivr pafhts. u-tranfit m-c,ut acci -
dit,quicq iam,m g-ut aggero,in-l,ut allido, in. p,
ut appono, in-r,ut arrideo, meridies, antiqui
jjimi uero pro ad frequenti [fime, ar
, pone - bant,aruenas, amentor es, aruoaitDS,ar fines,
aruclar e, arfkri,dicetes, pro aduenas,aduentores,aducattvsyadfines,
aduolare, adfrri . unde ofienditurrefte arcrjfo dia
ab arao Herbo, quod nuncacao didmus,
quodefr ex ad & do ccmpofitim-arger
quoque dicebant pro agger • tranfit etiam
ins ut afifiideo,rado rafifradeo fiuafi ,
in duas queep ffiut cedo affi, fr
dio fv/fiis,in.t, attinet, attamino, attingo, heee
eadem tamen -d frequenter interponitur
mcompofitis hiatus atufa prohih e- di, ut
rediw , redarguo, prodejl- fini trahitur etiam
cum fequens fiylla ba abs-& alia
aonjbnante indpit,ut afipiro, afpido , afeendo ,
afb - V. multis medis muta magis ofkndmr , cum
pro.p , et afpiratione qu<* fi militer
mute, e fr acdpitur,de quo fiiffiaeter
fiupo ius diximus -qua- q tam antiqui
Romanorum atoles frequentes loco afpiratioms
eam ponebant , effligentes iffi quoque
affirationem • & maxime atni
eonfenante, re rufabant eam proferre in
latino fermone -habebat au- tem haec- f-littera
hmc fenum quem nunc habet u-loco
confemntis fofita,mde antiqui-afpro abferibere felebant,fed
quia mn potefe MU, idejl diqnmma in
finefyllal & inueniriydeo mutata ejl-fm-b. fi
filum quoq; pro fibilum,tefee Nonio
Marcello de do floram indagi¬ ne, dicebant.
G-tr an fit m-;-jfargo ffarfi, mergo
mcrfi,m.x.tego texi, fingo pinxi,in.fl.agor afht; ,
legor lebhi; , fingor piflu;. li. littera nonejfe
ofeendjm>ts ,fed notam afeirationis, quam
gr aecorum anti- qulffe.m fimiliter ut
latmi in uerfe fer ibebant, nunc autem
diuiferunt, & dextram eius p artem
fefra litteram p onente;,pfilen notam ha-
bent,quam Remnius Palcerrwn exilem uocut.
Griliuis nero ad vir - gtium de
accentibus fcriben;, lenem nominat, finijlram
autem con * trarix illi afpirationi; da
fiam, quam Grillus flatilem uocrtt-K-fef er-
tutata eft,ut fefra diximus, qu^e quatmis
feribatur nullam aliam uimhabet quam- c.De-q- quoq
; feffidenter fefra traflntum efl
,<pA& nifi eandem uim haberet quam.
c. nunquam in prinapij; infinito¬ rum
uel mtcrrogatiuorum quorundam nominum fofita
fer obii * quo; atfe; in illam
tranferet , ut quis cuius cui- fimiliter d
uerbis-q » habentibus in quibufdam participi j;
m-c. tr an; fertur, ut, fequor feat tu;, loquor
locutu;. trd fit in-;. ut, torqueo torfi, fient
gr-c-parco par fifimi-iiter abqdt.nfn proterito
featt &. c . linquo liqui, umeo mei .
tranfit etiamin-x-ut , coquo coxi, duco duxi, apud
antiquo; frequen¬ ti ffimcloco.cn -fyllab*, qm,
ponebatur , & econtrario , ut arquus
eoqm;,oqvHlus,pro ar cu;, cocu;, oculus, qum pro
cu,qnur pro cur. trafit in-; -ut uerto
uerfe;, concutio concuffus, osx grxcnfro
offl.c.uc yo antecedente, tr an fit. t. in -x -ut
peflo pexui,fleflo flexi- v ,& ,(,tan tummodo
ponuntur mgreeei; diflionibus, quantus in
multi; uctere ; haec quoq; rmfaffe mueniantur
, & pro-v.u-pro-'{ - uero quod pro.
ff. conimfli; acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut
fagtmurrrhapro yuyfjuJ}* fcc, fegunthum mafjk
fro (xHvyffo; juxfa , edor quoq; xtto
toj o'(ciy, fethus fro {»6o; dicente;,
&Medentius pro M efentius.ergp corylus
t? limpha, ex ipfe feripturad graed;
fempta non cft dubium, cum f u -ferio
atur 70 7 no puAo; toj vj^ucpif
Solebat enim Uetufhffi mi gr aecor um-Lpro
-n-ferib ere, unde quinquaginta quoq; numeri fi°
gnum,quod illi per -n ,feribunc, no;
per-l-morc illorum antiquijjl- feribimus -
D c ordine litterarum. Kdo
quoq; aeddit litteris, qui quantus in
;yllabis dignofrf- * tur , tamen quia
conimflu; effe uidetur cmn p ote[ht.teele=
mentorum , non ah fer dum puto ei
nunc illum febiungerc. . b ili
*» w •31 •9 •Jf
t* LIBER Uodtes pr<epcfitiu<e
alqs uodlibus fitbfiquentibus in eif dem
syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi apud
antt quos pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum fidebat,
qua pro. omni. i, logt fcribebant more
antiquo gr cecoru.lnuenltur h<ec eademi,pojl
u an grceds nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus
cfi-Sunt igitur dij. hthongi quibus nunc
utimur quattuor .diphthongi autem dicun¬ tur
q> binos phthongosyhocefi,uoces comprehendunt. nam
finqul <e uo dies (1*04 Uons habent, &.
ac. quando d poetis per di<erefim profer
tur fecundum graecor per. a- &
.i.fcribitur ,ut cudat, piffai, pro auU
&*pifre-Et Vir glus in tertio .
Aulai in medio libabant pocula
bacchi. idem in cdktuo • t)iues equum
ducs pidhti uefhs &auri • in
gy<eds nero quoties hu^ iufcemcdi fit
apud nos di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro
duplici con fanante accipitur ,ut maiapro
juou'x aiax pro cuxs. Trafitini , pro
dufhtm,ut qu<ero inquiro, exqui royquanuis
exqu<ero Vlautus dixit in Aulularia. intro
exquire jit ne ita ut ego praedico
. l<edo illido 9 c.edo occido. Vonitur
pro.edongt,ut a-^vd fccena & pro. a. ut
<efiu- lapias pro xraAH^/os, inepto
<eoles fiquimur. illi enim vu^upsus pro
vj fiepoes &<poujlv pro (pari v
diau.t muenitur tamen hac diphthon qus ;
n media dicHone correpta tunc ^quando
compofitce dithonis ante cedentis in fne
ejl fiquente uodli,utpr<eufis.v irglms in fiptimo .
Stipitibus duris agitur fndibn*'ue pueufti
-Homerus dv ndo' ttoAs X* JUOlii/VOU.
fiait etiam longae uodles flent corripi
yut dchifiv,virgi.in quinto - Infindunt pariter
fideos ,totu mq; delvfat , Conuulfitum
rernis roftrisq; tridentil us sequor. G e .queq;
idem pati¬ tur apud grsecos Aefchylnsoizpos
roiujdixs rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn de quidam
non fine ratione imum tempus &
fimis fingulas eas ha¬ bere dicunt. idevq,-
fi confiquatur condonans qa<e dimidium tempus
habet ,omni modo producantur • Mt quocp
uidetur quafi pati diuifio nem cum.i.poft.u.
addita ftranfit eadem .Hin cvnf nantium pctcfkt-
tem ut,gtudco gtuifits/udrus nauitay& vuZ:
nauis • tranfit et indo. uttaufiro ab
finii allatus .Et fiicndumi cp pro ab
pr <epofincne.au. po nitur in his
uerbis ,aufugo & aufero. E contrario
queq; frequenter f let fieri m antecedente.
a. C7-H loco condonantis fiquente ,fi
abijeta- tur uocuhs pofitapofi eam idefi
pcfi.u .con fana ntem- au dipht h o ngus fiat.u.redeunte
in Uodlemjut lauor lautus y fiueo fautor
}auis auceps f augurium yaugufiUs . trarfi i
ino.predudhtm more antiquo, ut lotus pro
lautus, ple firum pro plaufiruan, cotes pro dates,
fient etiam cun= trapro.o.au.ut aufirum proyjl rmiguif
culmi pro ofculmfiequcn It mwvj.
ufrim/q; hoc faciebant antiqui, in. u.
quoq; longam tranfit fraudo de frudo,
claudo includo •'tu- tranfit m.edo/igtm,ut A
chiller pro x a<o/V .vlyxer pro
oJvarri^quod o frenditur m gninuo ulyxei,Hora.
« in prime cdrminum, Nec curfar duplicet
per mare vlyxei.in-n.etta mutatur fago pro
epsdyu . oe-eft quando per dicer e [i
m profertur in grecir nermni us
&gr<ectim ) eruat fcnpturam pro. o .
enim &.i. ponitur, que tamen ( jient
fr+pradiflum efr) locum d ipliar optmet
confonanttr ,ut troia pro rr?oix}maiapro
jxoux-in hoc quoq ; <eclcr fa- quimur
fic enim illi diuideter diphihongum ni 7
aqv pro koiaov dicut . Apudgnecor tamen
quoq; .i. fequente producere licet
antecedentem breuem,ut Homerus in hocuerfat
n rtfopx oj h t Ace BtvJ&Xti
Tnvdvrx xip tjuxnr aufertur elidejl-oe.
diphthongo, alter a uoaths faquente. e-
longi more attico,ut poeta pro xamdr, poema
pro xof»/aa,necnon pYo,w/.diph - thong gr nor
hanc idejhoe. ponimus, ut «<y/W/ * comoedia, 7
poc- yufix tragoedia dicentes , nec mirum
cum pro. v. quoq; habemur. o. & pro.'i.e.m
diphthog accipimur. hoc tamen ad imitationem
boeo torum friemur facere. Tranfit in. u. longam
,ut phoenices ,punicer ,phoe niceon puniceum ,
poena punio . Nunquam diphthongir in
praeterito perfiflv mutatur ,ut haereo hefa, audio
audiui,mcenio moeniui , ex¬ cepto c<edo
cecidi -Ei.diphthong nunc non utimur ,fed
loco eius in gr&ctr nominibus- e.uehi.produdhtr
ponimur. Et in priore /equimur Aeoles -
lUiennniw Jh^oo-Suii dicunt pro SHjuotrdtvei
& ixov pro ei xov. Et nor
plerunq; cum. ei . apud graecor fit
purapenulhma , in illis maxime femininis
que per adiechonem affamunt.a.apud gre cor
mutamur. ei. in.e.produfktm, ut ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo'
•xh HXKKio-yreix cztlkopea.nam in illis
quemda-frlum definunt apud graecor raro,fathoc,ut
arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia- Statius in.iiij .
1$ C andensq; iugr Lampia niuofar/idem
in eodem, Hoc quoq; fe creta nutrit
Langa fub wmbraidem in facundo. TWnc
donis Arga nitet , uder q; fororis,
Ornatur facro preculta frperuenit amo.Raro
autem diximus pro - i f&r Medeam, plateam,
niceam-Nam quod Virg. Qui tela tiphoea
i temnis. e. correptam protulit ,doricum efr ,
illi enim frient. a . diph- thong abijeere
. i , In laiinir autem dictioni’ m
difficile (nuentes -i longam ante uoctilem
pe fatam nifa in gnirnts in tus
defi nentibus , ut illius, folius, ullius, quae
tamen licet & corriperem metro & in
ucr bo fiam fias fiat, quod ipfrm
quoq ; contra aliorum eiufdem coniugrt
tionir fit regulam uerborum. I n
tnafatlinis quoq;. ei. pura m.edon - b
iiij M »3 HIBER. grm
conuertitur , £xkk uos Achilleus , a^puos alpheus
caror fu os /pcndcus-non fine ratione
tamen hoc fitySed quia.^purapenultima
ante.us,uciayiiel.umy per mminatmos nm muenitu r
p rodufta in latinis dicncnisiis nif
indifyllabis &ipfis greeas . Nam m greeeis
fepe inuenimus ut chius £r diay &
m tino triJylUbo quod apud M Statium
legiyut licyus- Statius in decimo
Thebaidos. Ad patrias f n quando
domos optafaq; paean. Templa hcyc dabis
tot ditia dona fa * cratis V
ofibuStO4 totidem noti memor exiget auros .
m ahjs nero co fionanteyl y fequente
pro ei diphthongo longrtm.i y ponimus ut
rubos nilus • In femiuocaiiius f militer
fiunt alia prcepofitiuce alijs femtUo-
cahbus m cade fiyilab a ytt.m, fequente.
nyut mnefivus,amnis.Sf quoq» f Ruente. m,
ut finyrnayfmaragdus . nam uitium facium
qui.z,ante m, firibunt . Nunquam enim
duplex in atpite fyilab# pefita potejl
cum aha iwngi condonante . Luatnus
quocp hoc ofendit in deamo. '* Terga
fa dent crebro maculas difhndkt fmaragdo. nam
f effet.^an- te.mfiubtrahi vnmetro minime peffet
tnec fair et uerfus- Syenim irum trofepe
uhn conjonantis amittit. m fine autem
fyllabte omnes liqui* dee f lent ante.s
. poniyut plus hyems fmons yars -fimiliter
dnte.xyexc<e ptn.myut falx lanx arx. In
mutis proponuntur .b ^.g, fequente >d,
ut [ScPihv po ? bdellium genus lapidis ,abdir
,aldomcnfmygdonides.C, uero Zr-p , proponuntur fequcnte.t
}ut a{htsylc£hisyaptusydiphthon gus. Semiuoczths
nulla proponitur mutis nifi.s , fequete.b,
ut afbejhfs ajbufivs.cfuelqyut fcutii fquallor
.p yut [pes /phatra.tjhtfusfihenni- us-Ante
alum autem nullam nuitur um . Mut<e
uero fetniuo atlibus praeponuntur liquidis abfip.
myomnes pene omnibus-bly ut blandus clyut
clarus -dlyabcdlas nomen barbarnrn.fi frauus-gl gladius
gla^ brio.tlytlepolemus ^tlas pl, planus 'bnyabnuo
frd>by magis fiuperio * ns ejl jyilaba:.
cnyc nidus. dnyadnus ariadne. gnygneusanyatna. pn,
therapnefpnus. brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra -
tusfr, frater- prfratum.trsracfhts. Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*
ut py r a cmony alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi
mos . T res aut confio nates no
aliter pcjjimt iungi in principio fiyllabce
nifii fit prima. syucl.cyuel py fecunda
pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p. Tofit.ct aute aut- p,prma pales
fiainda.tytertialHchrfd.lyin fiohs illis quee
ab.symapiunt.ut A fclepicdotus, fiyiba fitlopus fylendidus ,
fretus . Ingratas etiam. <p ,t fecunda ponitur
qudm nos per.ph,plerunqs ficru bmus.crypxyit
uittrix.fceptrum • Nam pofi.pt yuehdyfimul iunfkts
l non inuenitur iit cfivndjmus, ipfit
fioni natura pyohibente. \n fine uero
aitUonis contra inuenimus primam liquidam
fequentem muta, poftremam- fiut uris ,fhrps
• fin aute\n in cluas definat confionantes
di&io PRTMVS. 13 diMoynecejfe
cfi priorem liquidam effe,et /cquente-s-uelx-ut fitpr*
offendimus, ude. ueUt- antecedente. n,ut hmc,dicunt , amat, hunc,
uel loco-i-grace bsuel ps fcribcrc pro
ratione <grutwi,ut arahs arabis, petopr
p elopis, coeleps ccelibis , princeps principi*. Quii
ufdam fame Ut fupra docuimus ynon aliter
uidetur-^- gr<e at nifi pro-psfcnben = da.quanquam
enim ratio genitim fiipradiflttm exigat
scripturam, tamen cognationem foni ad hoc
procliuiorem cjfe aiunt hoc tamen fci
endum eft,cp principium syllaba omnimodo pro. i.
ps >debcthahere0 Utpfitacns,pfiudolus , ipje,mbo
quccp mp fi, scribo scnpfi faciunt, quanuis
analogia per -b, cogat scribere ,/edeuphonia
fuperat , qua etiam nuptam non nubtam ,
& scriptum non scribtum compellit
per-p,non-b,dicere & scribere- PROBI IWSTITVTA
ARTIVM. p. 153. M R. P- ^'
30 V. DE VOCE. Vox sive
soDus est aer ictus, id est percussus,
sensibilis auditu, quan- lUDi io ipso
es(, hoc est quam diu resonat. nunc
omnis vox sive sonus aul articulata
est aut confusa. articulata esl, qua
homines locuntur et 5 lilteris conprehendi
potest, t puta ^scribe Cicero', ^
Vergili lege' et cetera UHa. confusa
vero aut animalium aut inanimalium est,
quae litteris con- prehendi non potest.
animalium est ut puta equorum hinnitus,
rabies €3Dum, rugitus ferarum, serpenlum
sibiius, avium cantus et cetera talia;
inaDimalium autem est ut puta cymbalorum
tinnitus, flageilorum strepitus, 10 uodarum
pulsus, ruinae casus, fistulae auditus et
cetera talia. est et con- fusa vox
sive sonus homiiium, quae litteris conprehendi
non potest, ut puta oris risus vel
sibilatus, pectoris mugitus et cetera
talia. de voce sive sono, quaDtum
ratio poscebat, tractavimus. DE ARTE.
15 Ars est unius cuiusque
rei scientia summa subtilitate
adprehensa. Dam el Graeci aico
TtjgciQSTijg, a virlute, censebant artem
esse dicendam. uDde et veleres artem
pro vlrtute frequenter usurpant.
nunc huius artis, id est grammalicae,
omnis dumtaxat Latinitas ex duabus
partibus constat, ' hoc esl ex
analogia et anomaiia, et ideo
utriusque parlis rationem sub20 iriiDus. DE
ANALOGIA. Analogia est ratio recta
perseverans per integram declinationis disci-
plioam, ut puta hic Catilina,
haec lupa, hoc scrijnium et cetera
talia; $cilicet (|uoniam haec nomina sic
per || omnes casus secundum sua
genera 2S in derlinalione perseverant, sic
uli est analogiae rccta declinationis dis-
riplina. 1 PROBI GRAMHATICI
DB OCTO 0RATI0NI8 MBMBRI8
AR8 MINOR. DB VOCE
V Ci COdtX Parisinus 7519
incipit tractatos probi granmatici de uocb
codex Parisinus 7494 DE TocB fi: cf.
PrUeian. p. 727 conl. Prob. p. 306
ed, Find., Pompei. p. 187 ed, lixd.
conl. Prob. p. 236 sqq. ed. f^ind.
4 omnis R communis r 9 ruditus
corr, ragitus R rndttus rv serpentum
R serpentium rv 24 scrioium rv
scriptam R " 26 analogiae recta
R analog^ia recia r analogia e recta
v Digitized by Google 48
PROBl p. IM. 55 K. p. 290.
31 V. DE ANOMALIA. Anomalia est
misrcns vel inmutans aut deficiens ratio
per declina- tionem. De miscente.
miscens anomaliae per declinalionem ratio
esl ut puta 5 ab hoc altero,
huic aiteri; scilicet quoniam quaecumque
nomina ablativo casu numeri singularis o
littera terminanlur, haec secundum analogiae
rectam rationis disciplinam dativo casu
numeri singularis o iittera definiun- tur.
item ab hac mula, his et ab his
mulabus; scilicet quoniam quaecum- que
nomina ablalivo casu nueri singularis
a littera terminantur, haec 10
secundum analogiae rectam ralionis disciplinam
dativo et ablativo casu numeri pluralis
is litteris definiuntur. item ab hoc
iugero, horum iuge- rum; scilicet quoniam
quaecumque nomina ablativo casu numeri
singularis o liitera terminantur, haec
secundum analogiae rectam ralionis disciplinam
genetivo casu numeri pluralis orum litteris
definiuntur. sic et cetera talia,
15 quae contra anaiogiae rectam
rationis^disciplinam miscent per casus decli-
natiouuro formas, anomala sunt appellanda.
De inmutante. inmutans anomaiiae per
declinationem est ratio, ut puta hic
luppiter, huius lovis.' sic et cetera
talia, quae conlra analoglae rectam
rationis discipfinam inmutant per casus
declinalionum formas, ano- 90 mala
sunl appeilanda. De deficienle. deficiens
anomaliae per declinalionem est ratio, ut
puta hoc nefas et cetera
(alla; scilicet quoniam haec
contra analoglae . rectam rationis
disciplinam non per omnes casus in
declinatione per- severant. 25 Sic
iam et per ceteras partes
orationis analogia vel anomalia coo-
sideranda est, hoc est ut, quaecumque
pars oralionis neque miscet neque inmutat
aut deficil per deciinalionis disciplinam,
ad analogiam pertineat, quae vero miscet
vel inmutat aut deficit per declinationis
discipllnam, anomala sit appellanda.
nunc etiam hoc monemus, quod
analogia maxi- 30 mam partem
oralionis contineat, anomalia vero aliqnam.
de anomalia et analogia, | quantum ratio
poscebat, tractavimus. DE LITTERIS.
Liltera est elementum vocis articulatae.
eleroen{|tum autem est unius cuiusqi.ie rei
initium, a quo sumitur incrementum
et in quod resolvltur. 35
accidit uni cuique lilterae nomen figura
polestas. nomen lilterae est quo
appellatur. sane nomen unius cuiusque
litterae omnes artis latores, prae-
cipuequc Varro, neutro genere appellari
iudicaverunt et aptote decllnari iusserunt.
aploton est autem, quando nomen per omnes
casus uno sche- mate declinatur, ut
puta hoc a, huius a, huic a,
hoc a, o a, ab hoc a. 40
sic et ceterarum lillerarum nomina genere
neulro aptote et numero tantum 2
esi inmiscens liv 26 neqne
inmiscd Rv 29 sit] sunt
Rv 30 orationis o rationis
R 34 in quod v et
Diomedes p. 415 in quo R
Digitized by Google INSTITVTA
ARTIVM 8—24 49 p. 1U.56R. ' p.
231.32 V. siflgulari declinaDda suBt.
figura litterae est qua notatur et
qua scribitur. polestas litterae est qua
valet, hoc est qua sonat. nunc omnes
Latinae litterae dumtaxat sunt numero
XXIII. hae nominantur Tocales semivocales
el mutae. sed semivocales et mutae appellantur
consonantes. sane qnae- rilor, qua de
causa semivocales et mutae consonantes appellanlur.
hac de & causa, quoniam coniunctis
iliis vocalibus sic nomina earundem
consonanl. sed cum ad ipsas litteras
pervenerimus, iliic quem ad modum
coniunctis illi.s Tocalibus nomina earundem
consonent conpetenter tractabimus. DE
VOCALIBVS. Vocales litterae sunt numero
quinque. hae per se proferuntur, hocio
est ad vocabula sua nuliius consonantium
egent societate, ut puta a e i
o u, et per se syKabam facere
possunt, hoc esl ut ipsae inter se
tantum modo misceantur et syilabae sonus
efficialur, ut puta ua ue oe au
ui ia et cetera lalia. Iiarum, id est
vocalium, hae duae, i et u, transeunt
in consonan- tium poteslatem tunc, cum
aut ipsae inter se geminantur, ut
luno viator 15 rultus, vei quando cum
aliis vocalibus iunguntur, ut vates vecors
iam vos maiestas maior et cetera
talia. nunc quaeritur, quando i vel u
litterae loco consonantis- sint positae,
vel quando inter vocales accipi debent
quare hoc monemus, ut tunc i vel
u loco consonantis accipiantur, quaudo
praepositae vocalibus in syllaba scilicet
sua inveniuntur; quando vero sub- 20
iectae, et ipsae vocales iudicenlur: ut
puta iu, utique i nunc loco conso-
oaDtis et u loco vocalis accipitur;
item ui, utiqueu nunc loco consonantis
et I loco II vocalis consideratur.
sic et iuxta | vocales alias, si
i vel u litte- rae in syitaba
sua praeponuntur, vim consonantium habere
iudicantur; si vero subiciuntur, vocalium
loco funguntur. 25 DE SEMIVOCALIBVS.
Semivocales consonantium litterae sunt
numero septem. hae secun- dum
musicam rationem per se proferuntur,
hoc est ut ad vocabula sua
nullius vocalium egeant societate, ut
f 1 m n r s x. at
vero secundum metra Latina et
structurarum rationem subiectae vocalibus
nomina sua ao elficiunt, ut ef
el em en er es ex. sed per se
syllabam facere non possunt, sciiicet
quoniam semivocales litterae, si inter se
misceantur, sonum syllabae facere non
reperiuntur, ut puta fl ms rx ns;
et ideo, ut diximus, per se ^
semivocales syllabam facere non possunt.
ex his autem, id est ex
semi< vocalibus, x littera duplex
in metris sive structuris ludicatur,
siquidem 3& geminatarum harum
consonantium sono fungatur, id est gs
aut cs, ut rex et regs, pix et
pics. nunc etiam hoc secundum
aliquos reprehendendum est, quod huic
duplici litterae, id est x, ad
exempium genetivum casum 10 Tecors o
uaecors R 20 yocalibns v uocabulU R
22 consonantis el 1 loco ak. R9
^23 iaxta vocaies alias v ex codice
Parisino 7519 iaxta ceteras uucaittB •Hu
R 37 secundum R iuxta
rv GRAHMAT. LAT. IIII. 4 Digitized
by Google 50 PROBI p.
156. 67 R. p. 232. 33 V.
videantur subicere, ut puta rex r^is,
pixpicis; quod a ratione x litterae,
quae duplex est, longe alienuin esse
videatur. at in Iiog nomine non est
simile huic tractatni, quod est nix
nivis. DE MVTIS. « Mutae
consonantium litterae sunt numero novem.
hae nec per se proferuntur nec per
se syllabam facere possunL per se hae
non pro« feruntur, siquidem vocalibus
litteris subiectis sic nomina sua
deOuiuiit, ut pula be ce de ge
ba ka pe qu te. per se autem
syllabam facere non pos- sunt, scilicet
quoniam mutae litterae, si misceantur,
sonum syllabae facere lonon reperiuntur,
ut puta bc dg tk pq et cetera
talia. nunc et in his mutis
supervacue quibusdam k et q litterae
positae esse videntur, quod dicant c
litteram earundem locum posse complere, ut
puta Carthago pro Kartiiago. nunc hoc
vitium etsi ferendum puto, attamen pro quam
quis est qui sustineat cuam? et
ideo non recte hae litterae quibusdam
super- 15 vacue constitutae esse
videntur. [| item ex isdem mutis h
aspirationis notam, non litteram esse
existimaverunt, cum et haec, sic uti
ceterae, certum sonum retineat potestatis
suae, ut puta honos: numquidnam onos?
aut cetera talia; et ideo hoc quoque
non recte existimasse notandi sunt
Nunc quaeritur de consonanjtibus, quare
in duas partes dividantur, 20 hoc
est in semivocales et mutas. hac de
causa, quoniam semivocales maiorem potestatem
habent quam mutae. nam cum omnes
artis latores, praecipueque Caesar, propter
rationem metricam et structurarura quaUta-
tes singularum litterarum sonos ponderarent,
hac ratiooe semivocales mutis praeferendas
iudicaverunt, quod semivocales geminatae ad
sonum vocalibus 25 occurrunt, hoc est
ut syllabam facere possint, ut puta
fla ars mons iners et cetera talia ;
at vero niutae geminatae, si vocalibus
ocAirrant,. nec sylla- bam nec sonum
scilicet facere possint. quis enim b
cdkpqtg gemi- natas vocalibus misceat et
sonum syllabae potest audire? et ideo
hac pcaelatione semivocaies mutas rite
videntur antecedere. nunc hoc mone-
30 mus, quod h iuncla cum aliis
mutis possit vocali concurrere et sonum
syllabae suscitare, ut puta pulcher; et
ideo hic aspirationis nota, id esl
sonus, non littera accipi debet, scilicet
quoniam mutae coniunctae, si vo- calibus
occurrant, prohibentur sonum syllabae suscitare.
y aotem et z propter Graeca nomina
Latini accipiunt. 35 Nunc etiam hoc
quaeritur, qua de causa ratio metri vel
musicae pro- clivior sit ad ratiooem
Graecam quam Latinam. utique hac de
causa» quoniam Graecarum litterarum vocabula
in dimidia parte sunt dtsyliaba et in
alia monosyllaba, id esl ut XXX et
VI sonos contineant. at vero litte-
rarum Latinarum nomina cum sint omnia
monosyllaba, id est ul XX et 2
at — nivis alia manu 'addUa esge
in eodice adnoiatwn esi in R 11
super- vacue coniecU ediior Vindobonensis
superuacuae Rv quod r quo R 14
8uper> uacuae R 28
misceat r miscel corr. misceat R
Digitized by Google INSTITVTA ARTIVM
2^-37 61 p. 167. 68 R. p.
233.34 V. sonum contiDeaDt, necesse
est ut et in ratione roetri vel
musicae plus facultatis raUo Graeca quam
Latiua obtioeaL sed boc in metris vel
rousicis conpetenter traclabimUs. dudc et
boc moDemus, quod pauci sciuDty siquidero
ood semper x littera dupiex sit
accipieuda; sed tUDC duplex' accipieDda,
quaudo subiecta syllabam coDfirmat, ut puta
dox et 6 Docs, lex et legs,
felix et felics. et celera talia,
siquidem tuDc et soDum duaruffi litterarum
coutiDeat. at vero qqaDdo praeposita
syllabae existat, noD duplex sed simplex
est accipicDda, ut puta maximus auxius:
Dum- quiduam macsimus aut aocsius? et
cetera talia; et ideo, ut diximus,
quo- tieos X [[ littera praeposita
syllabae existat, simplex est supputaada,
sciiicet lo quoDiaro cs et gs litterae
geroinatae, si vocalibus praepooaDtur, numquam
sonum syllabae suscitabuDt de litteris, quaoluro
ratio poscebat, tracta- fimus. I DE
SYLLABIS. Etiaro de syllabis, quouiaro
dod brevis ratio est, ideo alio loco
cod- i6 petenter cum roetris tractabimus.
DE PARTIBVS ORATIONIS. Partes
oratiouis snot octo, nomen pronomen
participium adverbium coniuoctio praepositio
interiectio verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than
they analise it. I play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes
from Cicero, ‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a
formula ‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E
belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems
with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a correlation
of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”. Nicola
Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus, definizione di
voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’ --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” –
The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773040238/in/dateposted-public/
Grice e Chiavacci – poetico tra Gentile e
Michelstaedter – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo. Grice: “Chiavacci is a good one;
Italians tend to identify him with Miichelstaedter, but surely there is more to
Chiavacci than an exegesis of Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) –
my favourite tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique
we were lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not
appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin
‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della
stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi
dell'attualismo gentiliano. Nato a Foiano in provincia di Arezzo da
Enrico Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona,
e quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequentò la facoltà di lettere del
Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Guido Mazzoni,
e conobbe tra gli altri il poeta filosofo Carlo Michelstaedter, di cui divenne
grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni.
Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne
una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata
dell'Italia nella prima guerra mondiale, Chiavacci combatté al fronte come
capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra
vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a
frequentare la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Giovanni Gentile, col
quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini. Dal 1924 cominciò a
insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie
scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore
universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia
teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica. Entra a far parte
dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi
altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti
della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e
Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di
Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non
trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa:
la dottrina dell'atto puro.» (Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in
«Giornale di metafisica». La filosofia di Chiavacci si muove tra l'idealismo
attuale di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Carlo
Michelstaedter dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista
cristiana. Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata
atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a
differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra
un passato e un futuro illusori. Riappropriandosi al contempo del
criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba
a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla
vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».
Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica
che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo
consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso,
realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso
appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta
dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di
mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera
e smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per Chiavacci,
proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che
sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna
rivivere dal di dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto
ha di sè senza oggettivarsi», è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione,
un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel
soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta
un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della
sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione,
«caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da
quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è
l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe
dire sensus sui». Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo
Chiavacci, essenzialmente fede. Opere Tesi di laurea: La Commedia nel
Decamerone (Iesi, tipografia Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze,
Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La
Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema
della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in
maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica».
Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto
michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione
umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica
(Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che
affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra
fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che
assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il
fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della
religione. Chiavacci ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter
(Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce
"Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana. A lui si devono
poi altri due saggi sul Rosmini: Filosofia e religione nella vita
spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini
(Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci
Leonardi, introduzione di Eugenio Garin, Firenze, Olschki, GentileChiavacci.
Carteggio, Paolo Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Roberto Grita, Gaetano
Chiavacci, su treccani. Antonio Russo, Gaetano Chiavacci, interprete di Michelstaedter,
Trieste. Così Chiavacci ricorderà il suo primo incontro con la figura di
Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi un
lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di
potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da
una lettera di Chiavacci a Gentile, cit. in Gentile-Chiavacci:
CarteggioSimoncelli, Firenze). Scheda su Gaetano Chiavacci [collegamento
interrotto], su agiati.org. Cit. anche
in G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi,
Olschki. Gaetano Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, articolo sul
«Giornale critico della filosofia italiana». Chiavacci, Il centro della
speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, in «Giornale critico della
filosofia italiana», Gaetano Chiavacci, Il centro della speculazione
gentiliana: l'attualità dell'atto, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi
filosofici, A. M. Chiavacci Leonardi, Olschki, Gaetano Chiavacci, Quid est
veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter.
Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici,
Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter, Gaetano
Chiavacci, su sapere. Gaetano Chiavacci,
Michelstaedter Carlo, in «Enciclopedia Italiana», Roma. Gustavo Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia, La Scuola, Augusto Guzzo, Gaetano Chiavacci: la
"Ragione poetica", in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini,
Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia», Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi
critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e
l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A. Bellezza, Gentile e
l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario Faucci,
L'«attualismo» di Gaetano Chiavacci, in «Filosofia», Antimo Negri, Giovanni Gentile: sviluppi e
incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci (1886-1969) interprete di Michelstaedter, Sergio Campailla, in La via della persuasione. Carlo
Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia)
Giovanni Gentile Idealismo italiano Carlo Michelstaedter La Persuasione e la
Rettorica Enrico Chiavacci Gaetano
Chiavacci, in Dizionario biografico degli italiani. L’encomiabile
Bibliografia michelstaedteriana1, regolarmente aggiornata, che appare sul
sito della Biblioteca statale isontina, ha ormai assunto
dimensioni più che ragguardevoli e, nell’ultimo anno,
per via del centesimo
anniversario della sua morte, essa
si è di molto arricchita2.
Sembra, quindi, cosa ardua
dire qualcosa di nuovo
su Carlo Michelstaedter. Un’ulteriore
problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien
conto che con il giovane pensatore goriziano (1887-1910) ci troviamo di
fronte ad un intellettuale anomalo, del tutto sconosciuto in vita e
scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono i primi passi
nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la
rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di
laurea ed è stata data alle stampe postuma;
sicché il riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del
panorama culturale italiano, ma anche di carattere internazionale, che
essa ha avuto, sono in gran parte
dovuti alla devota sollecitudine di un
pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri
scritti di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa
prematura, il merito di aver sottratto alla morte la sua
memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella
ristrettissima cerchia degli amici fiorentini, spiccano
Vladimiro Arangio – Ruiz e Gaetano
Chiavacci.4 Il lavoro paziente e meticoloso del
secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti
di Michelstaedter, con la sua edizione delle Opere
(Firenze, Sansoni, 1958), “costituisce una pietra
miliare nella vicenda
storico-culturale e storico-critica
del giovane pensatore
goriziano...L’edizione Sansoni del Chiavacci è all’origine del lavorio critico
e interpretativo che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna
ormai a declinare”5. In uno
studio su Michelstedater, non si può
allora perdere di vista questa
verità; e, soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre,
allora, affrontare il compito di chiarire il senso e i termini della
ricostruzione del suo pensiero proposti da Chiavacci e da Arangio –
Ruiz. E parlare dei due fraterni amici di
Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio un
autore, Giovanni Gentile, le
cui suggestioni sono penetrate
per canali vari e hanno
raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita nella cultura
italiana. Non a caso, con aderenza più o meno piena, da lui hanno preso
le mosse molti autori che poi hanno svolto idee originali e
autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro aspetto
della sua filosofia. Nella sterminata letteratura critica che
gravita sull’attualismo, i due pensatori ‘fiorentini’
compaiono, sia pure con
caratteristiche proprie che li
distinguono dall’uno e dall’altro indirizzo
d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio –
Ruiz) o della destra gentiliana (G.Chiavacci)6.
Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità
neo-idealistica, sia pure ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù
non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei suoi risvolti più
significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon
deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori, e in
particolare sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama
attualistico, si torni ad insistere: essi esordirono come attualisti;
poi, seguirono e “amarono” Gentile9; non persero mai di vista
l’approfondimento del suo pensiero e si
riconobbero in esso nell’arco di
alcuni decenni, giungendo ad un suo
“sincero ripensamento”10. Una lettera
di dedica a Gentile, datata
8 agosto 1943 (che apre
il volume La ragione
poetica, Firenze, Sansoni,
1947), mette ampiamente in evidenza l’effetto che
provocò sul giovane Chiavacci, nel marzo del 1919, la lettura della
Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel
quale intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare
quel valore, senza del quale ogni altra cosa non ha
pregio”11. A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti
altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e di spazio, occorre
prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie
teoretiche e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende
necessaria una ulteriore limitazione del discorso al solo rapporto
Chiavacci – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz
non ha lasciato un grosso
volume sistematico, ma solo
volumi di saggi; e
quanto a Conoscenza e moralità, che
già subito non lo appagava più...egli stesso lo considerava
un saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore
sistematico, quanto un fine e colto letterato, un autore “di prosa morale
o di polemica antintellettualistica o di discussione su problemi di
estetica e di critica d’arte”. Infine, tutta la sua opera è
pervasa sin dai suoi momenti iniziali da “una polemica coi
suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni
speculative di Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel
grande alveo dei motivi tipicamente
attualistici e culminano con
maggior consapevolezza ed esiti
più cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta
espressione dell’idealismo14. Qui, come
termine di riferimento e di
confronto, occorre prendere in
considerazione l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua
attività didattica e scientifica trovò il suo più maturo affermarsi, a
partire dal 1918 a Roma.15 Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le
basi di un fitto tessuto di relazioni che interviene
a connettere Chiavacci a Gentile, in un
rapporto che diventerà sempre
di più assiduo, “amichevole
e confidente”16. La prima
domanda da porsi, per sgomberare il terreno
da equivoci, è di sapere, attraverso
l’analisi puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il
consenso e i punti di dissenso. Ma vediamo i termini del
discorso, senza perdere il contatto con i testi. Giovanni
Gentile si occupa ripetutamente di Carlo
Michelstaedter. Su sollecitazione di Chiavacci (lettera
14 novembre 1920), che nel 1919 si era iscritto in Filosofia,
all’Università di Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le
lezioni17, interviene presso Vallecchi, una delle sue cittadelle
editoriali, per caldeggiare
l’edizione de La persuasione e
la rettorica data effettivamente alle stampe nel
1922; nel 1933 (lettera a Chiavacci del 21 novembre) chiede allo
stesso Chiavacci di redigere per
l’Enciclopedia Italiana la voce Michelstaedter
di 10 linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per
la stessa voce a 30 righe18. Nel 1922, poi, recensisce l’opera di
Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel
farlo, tributa innanzitutto elogi
all’iniziativa ad opera di
un “fido gruppo di amici”
di Michelstaedter; rileva subito dopo che
si tratta di uno scritto giovanile
in cui non c’è un“approfondimento metodico” degli
argomenti trattati, e né un loro “sviluppo sistematico 19.
Infine, prende in considerazione “il problema dell’opposizione tra
la persuasione vera, che corrisponde al possesso della vita, e la
falsa persuasione, scopo della rettorica”20. Per
Gentile, in Michelstaedter la persuasione serve ad indicare
il fatto che il “possesso della realtà e della verità...non cerca
vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica “della
sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero
sapere, come lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul
punto che è il centro del suo mondo: nel suo animo”21. Di contro, la
rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e
s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco
dell’uomo, gli fa credere di vivere in mezzo ai piaceri”22;
la rettorica uccide la
vita, irretisce l’uomo “nella
vana teoria dei concetti”,
“sdoppia il sapere e la
vita”, oppone “alle cose direttamente
affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra “l’insufficienza delle
cose che hanno nella persona il loro correlato e l’insufficienza della
persona, che ha nelle cose il suo termine integrante”23.
Tuttavia, per Gentile, anche se
il Michelstaedter sceglie giustamente
a suo bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran
parte delle proprie forze speculative e del proprio lavoro di tesi,
“non ha né tempo né animo per considerare direttamente e con pari studio
la persuasione. Sono accenni
qua e là, e qualche
spunto del suo pensiero
positivo si può scorgere”
nelle Appendici e, più
precisamente, ne Il prediletto
punto di appoggio della
dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene
definita come caratteristica “di chi permane. L’unica via di chi permane
è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro, e tenere raccolta
nel presente la propria vita”25. Ma qui si ha a che fare con una
immagine poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato;
permangono perciò interrogativi sul cos’è la vita, questo permanere, ecc.
Il merito indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno
speculativo più cospicuo, secondo
Gentile, consiste nel mettere
in rilievo un universale
aspetto di verità, che consiste nel fatto
che l’uomo “rientra in se stesso,
liberandosi della rettorica e gettando la salda ancora della
vita nel porto della persuasione”26. Quali furono le reazioni
di Chiavacci a questo giudizio di GentileUno sguardo da
vicino all’elenco dei suoi scritti e una
loro attenta analisi consente di
accertare che la sua
personalità speculativa, ma
anche quella di Arangio
– Ruiz, nasce dall’incontro con Carlo
Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo
“culto” per l’amico comune “restò fino all’ultimo sempre vivo”27.
Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con diversa,
e non certo marginale, fisionomia sistematica e speculativa,
fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto
le suggestioni di Michelstaedter, nel
tentativo di riguadagnare, come
nel caso del Chiavacci,
l’essenza dell’attualismo e così
di offrire un contributo,
“perfettamente consentaneo”, alla
sua più compiuta espressione28. L’intero
percorso speculativo di Chiavacci, ad esempio, manifesta fino in fondo la
fedeltà a conservare queste istanze, comunque egli si muova, quali che
siano gli andarivieni del suo pensiero. In particolare, egli
dà alle stampe, già nel 1921, nella “Rivista di cultura”, di cui
Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due
nature29. In esso, egli affronta il problema del rapporto
tra finito e infinito, sostenendo che “l’infinito ideale non
può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del
finito”30. Il testo viene pubblicato con una postilla dello stesso
Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non insistere tanto
sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e,
soprattutto, ad approfondire meglio gli aspetti relativi
al ruolo della “negatività nella dialettica propria
dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto,
della negazione in cui si deve cogliere una attività che passa e supera
il limite che si è posto e si afferma nella “sua libertà da ogni limite”,
come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una
trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza
dello spirito nella sua concretezza”31.
Dopo questo intervento, due
anni dopo, ossia nel
1924, e sulla scia
evidente delle sollecitazioni di
Gentile, nel Giornale critico della filosofia
italiana, la rivista fondata
e diretta dallo stesso Gentile, Chiavacci dà alle stampe un corposo
articolo su Michelstaedter in cui cerca di mostrare, rispondendo ai
rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di
Michelstaedter non è riconducibile ad
“una realtà negativa”, ma è “la
positività dell’atto negante, in quanto vero atto, cioè
vita”; esso non è “pura negatività”, e tutta la sua novità
consiste nel fatto che “il positivo di Michelstaedter è l’attività che
crea se stessa dal nulla” e perciò è senza condizioni o, in termini
gentiliani, “libertà senza limiti”32. Tutto il
testo di Chiavacci è una serrata, e pacata, replica e a
Gentile, in cui si pone il problema di
precisare e difendere le
giuste esigenze, quasi come
una esplicitazione in positivo del pensiero
di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi
su La persuasione e la retorica.
Già il titolo dell’articolo di
Chiavacci è una risposta a
Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria
dottrina filosofica, di un approfondimento
metodico e di uno
sviluppo sistematico e parlava
piuttosto di “personalità filosofica”33.
Per Chiavacci, invece, Michelstaedter “non parla direttamente della
persuasione”, ma non per questo è “giusto dire che ne dia pochi
cenni...della persuasione si parla in tutto il libro, perché
essa è il criterio della lotta contro la rettorica”34. Egli non ne fa la
teoria, “come non fa la teoria del positivo della persuasione, così si
rifuta di considerarne il risultato, come un fatto staccato dal processo”35.
Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a tante
altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è
Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua
affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può
contraddirsi”36; e perciò la definizione della persuasione risulta “da
tutto il libro”37. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero,
è l’attività vera, la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve
essere essa la vita” 38. “La via della persuasione è se stessa e non ha
un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo
finito, è la vera vita del finito: è processo, vita”39.
Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di trascendente,
“ma è la realtà stessa più profonda
del soggetto” 40; quel che egli
nega del particolare “è insieme
affermazione, come dice l’idealismo”:
si nega la particolarità
del particolare, “nella sua 32
G. Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, 2, 1924pretesa immediata, quel che si afferma
è quel che implicitamente era in lui
di universale, senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo
sviluppo della sua parte migliore che dormiva. Quel che di lui perisce
era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che del
particolare ci deve premere, la sua aspirazione
all’universalità, quella non perisce, ma s’invera. E’ in fondo
quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”41. Questo
particolare, questo esserci del mondo come particolare, come finito, non è
possibile senza “la richiesta dell’universale”, è “il campo in cui lo
spirito si celebra e trionfa...’è il lampo che rompe la
nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato.
La convergenza delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi
della vulgata attualistica, diventa qui profonda. In concreto, l’idea di
individuo, non più un essere naturale e che “non si restringe nei limiti
del particolare: perché egli non può né pensare, né sentire, né
altrimenti realizzarsi, che in
un modo universale”43, caposaldo
e tipica espressione dell’attualismo
gentiliano chiamata in causa nel testo di Chiavacci del 1924, viene pienamente
accolta. E si pongono così le basi di un consenso che non si discosterà
molto negli ulteriori svolgimenti del confronto tra i due autori.
Per cogliere ulteriormente i tratti principali del
consenso tra Gentile e Chiavacci, al di là dei punti di
convergenza fin qui messi in risalto,
è necessario tener presente i
principali scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività
didattica e scientifica “trovò…il suo primo affermarsi con
volontà rivoluzionaria. Si determinava una
svolta essenziale del suo pensiero e della sua
azione”44. Il 10 gennaio del 1918, Gentile, infatti, al culmine della propria
maturità scientifica, iniziava il
corso di Storia della
filosofia. E, nel concludere la
sua prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di
rinnovamento della filosofia, con l’intento di “rifare l’uomo
intero, che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il vecchio
letterato è morto…l’accademia e la
filosofia da eruditi devono essere davvero un
passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia continua46.
Come documento più significativo di questa
svolta può essere preso il proemio (del 19 ottobre 1919) del primo
numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della
Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della
prolusione del 1918. Non a caso, in esso, Gentile “propone di
guardare all’avvenire” per incominciare una nuova vita,
uscendo dall’individualismo e
dall’egoismo. E, per farlo, egli
dice, occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia,
contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte c’è
la scienza e dall’altra
la filosofia. La prima
presuppone il proprio oggetto
di conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a
ricreare la vita distrutta...la quale se potesse veramente realizzare il
suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente: critica
presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”47; la
seconda, invece, e lo stesso discorso vale per la religione, “non
presuppone, ma pone; non guarda, ma crea; non analizza perciò, ma vive;
non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di questo
rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto
fondamentale del programma della nuova rivista 49. Gentile parla qui di
sviluppo dialettico che si risolve e si supera in
un dramma eterno, che,
proprio perché continuo
superamento, rinvia necessariamente al
continuo superato, all'oggetto
nel soggetto. Cosicché la
realtà, o atto spirituale, è una unità, ma non una
mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia della
molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a
più riprese, significa che la filosofia non è più
"teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione
e creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato
agire, bensì coscienza di agire''. Tanto
che, come afferma Ugo
Spirito, "l'idealismo trionfa
veramente di ogni intellettualismo non in
quanto esso rimane una teoria dell'atto, ma solo
in quanto si attua, sicché il suo valore
teoretico è assolutamente nulla
(intellettualismo) se non diventa etico
(attualismo)''.50 Gentile
insiste, in altre parole, sul valore dell’attività creatrice
dell’uomo e sviluppa il concetto di un mondo che
noi facciamo e dobbiamo fare. Anzi, esso
è l’unico veramente esistente. Tutto il suo pensiero,
perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto che il
problema dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo
centro della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda
del suo pensiero, tutta raccolta in quell’umanesimo,
che dà significato fin
da principio alla teoria
e alla storiografia dell’attualismo.
La vita spirituale è educazione, anzi
autoeducazione...questa affermazione non ha
un significato parziale, e
relativo ad una determinata
questione, ma rappresenta l’essenza del
concetto di spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile”.51 E,
perciò, per intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre
”guardare al lato più propriamente etico della sua filosofia: a quello
cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio
significato intellettualistico, si afferma come
identica alla vita, come il valore stesso
della vita. La filosofia
del Gentile è tutta
Etica o meglio Pedagogia.
Poiché una filosofia che non
è concetto della realtà,
ma autoconcetto, non può
essere più teoria e
contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52.
In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può
indulgere a nessuna inerzia. Una tale filosofia, infatti, non può
risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il
filosofo poteva rintanarsi
nell’ozio speculativo, far propria
una ideologia estetizzante da
filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e
giudicare, per intendere una realtà altra ed indipendente da lui. Si
trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per il suo stesso
esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa ogni
dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi,
diventa, azione consapevole di sé, vita umana, sociale, e quindi anche
educazione e politica. Vi è identità di conoscere e fare e
viene meno la separazione meccanicistica, e con essa ogni
residuo dualistico, tra le varie sfere dell’attività umana; perciò
filosofo, educatore e politico diventano tutti termini sinonimi di uomo.
Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del nostro mondo e
di conseguenza natura, società, storia, ecc. non costituiscono più un
limite. Tutto, infatti, è assolutamente immanente nel nostro io più
intimo. La nostra stessa umanità non è più quella degli uomini presi nel
loro atomismo particolaristico, ma “quella della nostra personalità, più
profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le affratella
raccogliendole nel suo seno in una vita unica che
deve farsi sempre più una, e cioè
sempre meno particolare ed egoista”53. Così viene
vanificata la nozione individualistica
della persona, nel tentativo di
guadagnare una societas in interiore homine, perché,
per usare le stesse parole del Gentile della
Teoria generale dello spirito come atto
puro :“altri, oltre di noi, non ci
può essere, parlando a rigore, se noi lo
conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identificare,
superare l’alterità come tale.
L’altro è semplicemente una tappa
attraverso di cui noi dobbiamo
passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente
del nostro spirito : ma
passare, non fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà
ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi e struttura della società
(1943), dove si afferma che l’individuo non da considerare come un atomo;
ad esso, infatti, è :”immanente al concetto di individuo è il concetto di
società. Perché non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia,
non seco, ma in sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale
socius”.55 L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella sua
angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece realizzare
se stesso e la propria “personalità nella coscienza di una vita
universale”.56 Gentile, secondo Ugo Spirito, non
solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la propria
vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della
nuova idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita
sociale si sono realizzate nella sintesi più concreta
e consapevole. Egli, perciò,
nel significato più proprio
della espressione hegeliana, è
un individuo portatore dello
spirito57; anzi, “è il
simbolo, e, meglio, che
il simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua
umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione,
ma egli è un uomo intero,
appunto perché è quella “universalità
che si concretizza nella storia e nell’individuo...vive
concretandosi nell’individuo”58. Il che, nei
suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che Chiavacci
aveva svolto nel suo articolo del 1924. Per il filosofo fiorentino,
infatti, come abbiamo avuto modo di vederlo più
sopra, anche Michelstaedter non elabora
una teoria della persuasione, e il
criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non
sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo
organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo essenziale del
suo pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita,
che non ha fuori di sé la vita “perché deve
essere essa la vita”60. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine
fuori di sé. Essa intanto è la
vita dell’infinito nell’individuo finito, è
la vera vita del finito: è processo,
vita”61. Lo stesso tema verrà
ulteriormente ripreso dal
Chiavacci negli anni successivi. Il suo volume
Illusione e realtà, del 1932 e
sua prima opera sistematica di
filosofia, per usare un’espressione di
Eugenio Garin, può essere
intesa “come una sorta di
esplicitazione in positivo”62 del pensiero di Michelstaedter
e in particolare come una prosecuzione della sua tesi su La
persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire
positivi, cioè il tema della persuasione. Dopo pochi
anni, ossia nel 1936, dà alle stampe un Saggio
sulla natura dell’uomo (Firenze, Sansoni) animato dal proposito di
tradurre nella tensione dialettica di natura/uomo la precedente coppia di
termini illusione/realtà e, così, di continuare la
chiarificazione delle principali
istanze michelstadteriane in
rapporto alle posizionigentiliane. Tale
compito campeggia sin dalle prime battute discorsive del saggio del
1936, che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un
discorso che “dovrebbe riuscire ad una
riaffermazione di idealismo”.63
Nell’Epilogo, poi, il risultato
dell’argomentazione discorsiva, considerato
nelle sue rigorose e
ultime conseguenze, lo porta
ad individuare nell’atto gentiliano, ossia in quella
che egli chiama la ragione poetica, il punto focale della riflessione
attorno a cui disegnare
il tracciato del confronto Michelstaedter
– Gentile. E questo atto consiste in una
liberazione e in un distacco da tutto ciò che è caduco e relativo;
epperò, nello stesso tempo, conduce
“a vivere con altra mente
la vita che ci troviamo a
vivere, un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è
accettazione, perché tale atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua
gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è lo stesso suo puro
conoscere, la stessa sua assoluta liberazione interiore”64. In un
altro saggio del 1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico
della filosofia italiana”, Chiavacci affronta di nuovo, e non a
caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto.
Nel farlo ammette che il centro
dell’attualismo è l’attualità dell’atto,
ossia l’affermare la realtà come un unico processo, un
perenne “farsi quel che deve essere e non è”, atto come processo che è
“assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi”65. Per spiegare
come sia da intendere questa affermazione di carattere fondamentale,
Chiavacci analizza alcuni dei principali testi
del Gentile; mette in evidenza,
poi, che la realtà di cui
il filosofo di Castelvetrano parla non è un
fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio
preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro”66.
In questo processo, il finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere
negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua pretesa di sostituirsi
all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo valore,
quando, vedendosene l’insufficienza in
sé, è considerato nel
suo essenziale rapporto con
l’infinito...perché visto con altri
occhi nella sua vera realtà”67
Per Chiavacci, in questo consiste la verità
elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il
gentilianesimo indica quando parla di attualità dell’atto. Non più
filosofia in senso logico, ma vita in atto, attività giudicante e nello
stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto più importante,
avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito,
in cui “il processo è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne
novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre
identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e vivere. In
questa concezione, per Chiavacci
sembra annidarsi, comunque, una difficoltà di fondo,
cioè: anche l’attualità dell’atto sembra essere una forma di
mediazione, di logica, e quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra
cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a suo tempo contro la
filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per
Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito,
non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente
pensato che questa sia la nuova
mediazione; giacché un farsi, un divenire,
non può essere in sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non
essere all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione
di questo problema è di
capitale importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e
per far si che esso non sia da abbandonare come una realtà del passato
definitivamente tramontato, ma sia “più vivo che
mai”. Per sciogliere i nodi del
problema e dissipare i dubbi, in
modo da comprendere l’essenza stessa del nucleo
centrale dell’attualismo, occorre tener presente che la mediazione
attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere
l’atto in atto, “è una mediazione non di opposizione, ma
di distinzione, in cui non si afferma né si nega più,
ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si vive la vita
altrui, e si vive l’altrui in quanto si vive
la nostra”70. Questo è il vero e
incontestabile attualismo, ossia “lo spirito che sempre si
fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non essere
(cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come
vita del finito in cui si realizza l’infinito)”71. Nei testi
Filosofia dell’arte e Genesi e struttura della società, in
particolare, Chiavacci trova conferma a questa sua rilettura del Gentile,
soprattutto quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano
dell’individuo all’interno della Società trascendentale o societas in
interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già nel
suo principio, non un’unità semplice, un io
indivisibile, un individuo atomistico: ma è unità
fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per
la quale soltanto ci possono essere l’io
e l’altro” 72. Si tratta di
fondare una società, in cui
“l’io, essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato
con gli altri, e la vita di ciascuno è la stessa, identica vita di tutti.
Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea
per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io
nella sua più vera realtà, ora
consapevole e perciò soltanto
ora veramente reale nella
sua concretaindividualità”73. Si
tratta in altri termini
di una dialettica tra
logo e attualità o
attualità dell’atto, che consente al Gentile, secondo Chiavacci, di
prendere le distanze e di realizzare un fondamentale progresso rispetto
allo stesso Hegel. Gli stessi termini fondamentali del
lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi anche quelli di “illusione”
e “realtà”) traducono in linguaggo attualistico la distinzione
michelstaedteriana tra persuasione (vita del finito in cui si realizza
l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e trionfa) e rettorica
(affernazione illusoria di vita,
individuo atomistico, ecc.). A
ulteriore dimostrazione di quanto
fin qui affermato, c’è un
altro testo di Chiavacci,
datato 1952, significativamente intitolato L’individuo74,
in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che non si “comprende
Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui ‘individuo’ “.
Per cogliere il vero senso del pensiero di Carlo Michelstaedter, occorre allora
tener presente che “egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire...un
imperativo dunque, volto a creare una nuova realtà, in cui il
mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in
quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che
perciò sia giusta verso tutti, perché abbia raggiunto quel valore
individuale che fa vivere ‘ le cose lontane’ “.75 E, nella stessa pagina,
nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero significato del
pensiero di Michelstaedter, Chiavacci ribadisce ulteriormente che :”il
valore individuale...è la concreta consapevolezza che la nostra
essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si
porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità
reale, che né spazio e né
tempo potranno minacciare, e
il molteplice del mondo
si unificherà anch’esso e si farà a noi interiore”.76
Giunti fin qui, il quadro
che nei suoi tratti più
peculiari ci si presenta agli
occhi, in particolare dopo la sintetica analisi svolta di alcuni
dei passi fondamentali e della vulgata attualistica e dei testi dati alle
stampe da Chiavacci nell’arco di alcuni decenni, è quello di un
tentativo di riguadagnare il
più profondo significato
dell’attualismo. Chiavacci, in
altri termini, a partire
dai primi anni Venti,
riprende un motivo tipicamente
attualistico, espressione di
quell’idealismo che egli considera come
la “più ricca eredità tramandataci dalla
storia della filosofia moderna”77, e cerca di mostrare i
legami di fondo che stringono Gentile a Michelstaedter.
Colloca così in primo piano i
punti di forza del momento dellapersuasione
e, nello stesso tempo, del momento dell’attualità
dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a
dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova
il problema della persuasione
e di Gentile quello
dell’atto in atto, che si
fa continuamente, che è
vita. Il suo intento è
quello di collocarsi all'interno
dell'attualismo nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi
fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più recondito, del lascito
gentiliano - e de La persuasione e la rettorica - e di non lasciare
che esso venga ridotto a
teoria, ad una chiusura
sinteticistica o una
formulistica ripetuta pedissequamente. Lo
stesso Gentile, per Chiavacci, non
sempre ha avuto piena coscienza degli
ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione
dell’attualità dell’atto, e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il
significato profondo di questa sua conquista, ma questo non autorizza ad
arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente
verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire
lo spirito del suo pensiero, ma addirittura contravvenire al suo
esplicito imperativo, di superare perennemente le forme individuate in
cui il pensiero via via si realizza”.78 Così Chiavacci
ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme
maitresse, la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo
attribuisce all’individuo, come una di quelle verità fondamentali che una
volta scorte non possono più essere perse di vista, ma che
possono essere pienamente accolte e
fatte oggetto soltanto di ulteriori
svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione
dell’individuo, non più inteso come atomo e che perciò non può più
rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso
nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una
nuova realtà, così che il mondo sia con noi una sola cosa”79 -, e
che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il qui,
convertendoli in sempre e dovunque :
sceglie la qualunque situazione che si
trova a vivere, e esaurisce in
essa l’infinita sua esigenza:
far finito l’infinito, far
vicine le cose lontane”80, rientra,
sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della
sua dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale
convergenza con essa, al di là di un differente uso
terminologico e di enunciazioni
gentiliane non sempre
rigorosamente univoche. Nei testi successivi,
fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle stampe tra il 1964 e il
1967, Chiavacci conferma e
sviluppa ulteriormente queste
posizioni, sempre sullo sfondo
del dialogo con Michelstaedter e con
Gentile, ancora una volta nel tentativo di
conciliarne leesigenze di fondo. Così in un saggio del 1955,
significativamente incentrato su L’eredità di Gentile,
si propone il compito di
individuare e descrivere ciò
che deve al filosofo di
Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che
cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo
più vitale della sua dottrina, che egli ha lasciato come preziosa eredità
a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono l’impegno di non
disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare,
ma anzi accrescere, il patrimonio che il
padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e
saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola,
risposta più esatta di questa: la dottrina dell’atto puro”81. Su questo
terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed è
un io senza residui
intellettualistici che, per poter
assolvere opportunamente il suo
compito e realizzarsi senza impietrarsi, non deve avere alcuna
realtà presupposta, ma deve “reintegrare la realtà dell’oggetto,
senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo qualcosa fuori
di questo”82. Si tratta qui di un io il cui
carattere peculiare è di avere una infinita
apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica
formale, di una natura presupposta, di
un mondo di idee già
codificato e platonicamente costruito
sin dall’eternità -, che si
alimenta tutto e sempre
“sull’infinita, indefettibile, unica
attualità dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante
nelle sue infinite individuazioni storiche” o “la consapevolezza
che l’atto ha di sè
come forma immanente dello
stesso suo concreto e
individuato agire”, “assoluta responsabilità
di chi si assume attualmente
la responsabilità della propria vita nel cui infinito anelito è
implicata la vita dell’universo”.83 Sicché non può esservi altro
che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito
che si realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è
il guadagno speculativo più cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia
“la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno, e tale da
aprire la possibilità dei più felici sviluppi”84.
Tuttavia, secondo Chiavacci, il
filosofo siciliano non è
riuscito a dare alla
propria riflessione una formulazione in
tutto e per tutto univoca; e anzi
ha mantenuto aperte due possibilità
interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo
pensiero, col rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In
particolare, Gentile non avrebbe assolto pienamente
al proprio compito di riformare
la dialettica hegeliana :
avrebbe sì investito in maniera
efficace e acuta Hegel
dell’accusa di intellettualismo, per
esser eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non
avrebbe tratto tutte le conseguenze di questa sua
battaglia e sarebbe ricaduto
egli stesso in una
dialettica a sua volta
intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa
il movimento per il quale il reale è; è il concetto
dell’autoconcetto, per dirla con Gentile¸ e
cioè non l’autoconcetto stesso, che per essere tale non può essere
concetto, ma autocoscienza superante il concetto”.85 In altri termini,
una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella
sua attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità
non può essere colta da una teoria ad essa staccata e
sopranuotante che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo
in sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due
momenti. Cosi facendo, per Chiavacci, si ricade soltanto, e ancora una
volta, in una forma di platonismo o di dualismo; invece, la vita
interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non
può esser conosciuta che per
la consapevolezza che il
soggetto ha di sé
senza oggettivarsi, consapevolezza immanente al
processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è conscio del
suo rapporto all’altro, così che il
soggetto come vivente relazione non è terzo oltre i due momenti, ma è tra
i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno di essi è
per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non
può essere che una monodiade”.86 Il passo che Gentile avrebbe
dovuto compiere per condurre a rigorosa coerenza il suo
discorso filosofico consisteva nel far
propria l’esigenza di una “dialettica
attuale, fra momenti attualmente vissuti
nella loro reale soggettività...la dialettica
triadica degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva
intendere “l’atto come il vivente attuale processo unitario in cui gli
oppos ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando
la proprio apertura infinita, supera le
determinazioni intellettive e attua quella coincidenza di individuale
e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente proclamata
tante volte dal Gentile, la
quale mal si concilia con
la solitudine del logo
come sintesi. Essa richiede invece un
interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben si può scorgere
nel più profondo dell’esigenza
gentiliana”87. Solo così, ossia
liberando la dialettica dai
residui intellettualistici che ancora
ne gravano la comprensione
e il pieno sviluppo, è
possibile riaprire il discorso
e operare un rinnovamento
dall’interno dell’attualismo, per
farne fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è
appunto l’intenzione fondamentale che pervade
anche gli altri, successivi,
scritti di Chiavacci -
tutti volti alla miglior
comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che
aspira a connotarsiquesta sua più
significativa e innovativa
scoperta90; ed egli resta
in definitiva ancora impigliato nelle
stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni,
secondo Chiavacci occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e
prendere in esame il problema del processo dialettico dell’autoconcetto,
che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia dello
spirito che vive
nell’intuizione91; e poi è
necessario cercare di
rispondere all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se
stesso dal suo opposto, e nascano insieme soggetto e oggetto, nasce cioè
la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri
dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da certe
inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.
In un altro, denso e
complesso, saggio della tarda
maturità su L’autocoscienza nella filosofia di
Giovanni Gentile, del 196488, le posizioni
fin qui prese in esame ricompaiono, imperniate sul bisogno di fornire
ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche.
Esse, infatti, ruotano sempre
attorno al problema dell’atto
e ai vari aspetti
ad esso strettamente correlati, e si concentrano
soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue articolazioni,
perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui
consiste l’essenza e l’esistenza
concreta dell’Io, diviene il
centro che sostiene la realtà
di tutto l’universo”.89 Per Chiavacci, tuttavia,
nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il pensiero
gentiliano, negli scritti del filosofo siciliano, tranne qualche
sporadico cenno, non compare una esposizione adeguata
del modo in cui l’Io trascendentale ha
coscienza di se stesso. Nella Teoria generale
dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia e in
qualche altra opera, ad esempio, si dice quà e là, e in maniera
stringata, che l’Io, l’atto, in quanto realtà presa nella sua infinità,
come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito si conosce
per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione
esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice
anche che non v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si
riconosce che ogni grado della
consapevolezza (sensazione, percezione,
rappresentazione, intuizione, sentimento, e così via) è
cosciente perché si tratta di distinzioni relative di certi
atti psichici con certi altri, e in quanto tali, sul terreno
del logo astratto, esse sono sempre espressione
di un pensiero logico.
Tuttavia, affinché l’atto
spirituale sia veramente uno,
questa distinzione per gradi tipica della
psicologia empirica e di una concezione
analitica dell’anima umana, nell’attualismo
viene abbandonata. In forza di
queste considerazioni, Gentile, secondo Chiavacci, per
evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così di
considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette
nell’intuizione una forma di logo che non è quella astratta del logo
oggettivo, epperò la traduce in termini diversi da quello di intuizione,
ossia con auto-concetto, facendo valere
la distinzione tra pensiero pensante e
pensiero pensato. Tuttavia, pur
se questa via è in
profonda dissonanza con i modelli della
comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata
dPer Chiavacci, la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro
soltanto nel momento in cui c’è una forma dell’io che conosce se
stesso distinta da quella con cui l’io conosce l’oggetto,
perché nel lessico gergale idealistico, stricto sensu parlando,
l’io non ha alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in
quanto forma e contenuto si identificano. Questo è un
aspetto che orienta tutto il
quadro di pensiero di Gentile
- e su cui egli
è costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria
e monistica della sua filosofia – la cui
chiarificazione comporta la necessità
di precisare come concepire
l’autocoscienza e “quell’autotrasparenza per la quale
mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in atto di
conoscerle” .93 Si tratta qui di una
iniziale intuizione di sé, che si svela ancora una volta come un
atto logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato,
concettuale e oggettivante, “non ci sarebbe neppure l’intuizione del
soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere intuitivo, la cui
peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo
della conoscenza sin dal suo primo momento e
se si tien conto, secondo Chiavacci,
di come a partire da esso si articola l’unione/distinzione
di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che si tratta di “un atto di
analisi che dà per risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come
reali, concreti, come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico
la spiegazione del fatto che anche l’oggetto, pur essendo opposto al
soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si riflette, il contenuto
della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo
vivere e il mondo che vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al
giudizio predicativo pel quale si può dire propriamente che nasce il
concetto”.Negli ulteriori svolgimenti discorsivi,
poi, sul terreno che in
termini attualistici viene coperto
dall’area semantica del pensiero pensato,
in cui si analizza il
contenuto sintetico datoci attraverso l’intuizione e si
costruisce un fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè
la kantiana sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere
pienamente e non perdere di vista la verità “di quella sintesi a
priori che c’è già nell’oggetto sintetico analizzato”, per esplicitarla
in maniera analitica. Una cosiffatta mediazione
concettuale, infine, da punto di vista del filosofo
di Castelvetrano non può non riconoscere la
propria astrattezza, cioè la
coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si
distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che
gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l’intuizione costitutiva
dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus
sui” .95 Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero
pensato che per quanto utile e per certi aspetti finanche
necessaria, come momento essenziale dello sviluppo dialettico, se
abbandonata a se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e
semplice vaniloquio, ma che invece se si alimenta alla fonte
di ogni mediazione, che è la consapevolezza di sè
dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova
nell’intuizione, cioè nella concreta unità dell’atto che è la sede
dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e proficua
radice. Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un
termine contro cui si sono addensate non poche critiche, ma che a suo
dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura alla
religiosità della vita spirituale
mostrata da Gentile in tutto
l’arco della sua produzione
scientifica e, in particolare, negli ultima
anni della sua vita. L’atteggiamento
del filosofo siciliano nei confronti
della religione, tuttavia, in
proposito avrebbe potuto essere
più evidente e di maggior respiro,
se egli avesse stabilito con
chiarezza inequivocabile come individuabile
specificazione dell’autoconcetto ciò
che esso veramente è:
intuizione o sentimento Nel tracciato del
grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il
punto più debole e bisognoso
di una riconsiderazione
critica. Per Chiavacci,
infatti, la sua costruzione logica, pur se
foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di
grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte
le metafisiche, di oltrepassare con la
costruzione intellettuale, col loro logo pensato,
l’unica autentica fonte della verità, il logo
pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa
nell’attualità dell’atto”96. Questo non significa affatto
sminuirne l’importanza e le grandi possibilità che
essa ci dischiude; anzi,
il valore sostanziale delle
sue tesi comporta il
più ampio riconoscimento e consiste nel fatto che con
esse noi “mettiamo a profitto ciò che egli solo ci ha insegnato,
riprendendo l’aureo filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita
spirituale, e arricchendolo nella sua maschia originalità...Certo è che
la filosofia del Gentile mi attirò fin dal mio primo contatto con
essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando ero quasi giunto al mezzo
del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto per riconquistare fiducia,
il che mi permise di riprendere il mio cammino
attivamente. E di questo non cesserò mai di sentire
gratitudine. E’ una gratitudine non minore di quella che debbo a lui in
persona, per avermi sempre incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni
circostanza della mia vita97”. Questa conclusione
riassuntiva implica il riconoscimento dell’importanza
fondamentale della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta
anche l’impegno a farne fruttificare il più genuino e fecondo lascito.
Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad
approfondimento e revisione interna,
in un ampio, continuo e
serrato dialogo, con una disamina volta
a stabilirne una più rigorosa
coerenza che valga a guidare e
inquadrare la propria riflessione speculativa. In
particolare, la prospettiva a cui giunge Chiavacci, nel corso del
suo lungo cammino intellettuale,
presa nel suo complesso, comporta
in definitiva un triplice guadagno:
1) un riuscito tentativo di promozione dell’opera dell’amico goriziano, per
accreditarle una sua peculiarità e dignità filosofica, col metterla a
confronto con la speculazione gentiliana; 2) Chiavacci
nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione
teoretica dell’attualismo; 3) gli spetta così il merito, con questo suo
atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori citati, non
solo di aver speso con
efficacia le sue migliori fatiche in difesa dell’amico, ma
anche un posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito della
letteratura che gravita su Gentile e
l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un indirizzo del pensiero filosofico
contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli che più sono progrediti”.98 Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui
menzionati che gli sono stati variamente tributati, le acute indagini e la argomentazioni del
Chiavacci, volte a svolgere una vigorosa opera di individuazione e
di messa in
chiaro di un
comune ambito teoretico
tra Gentile e
Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi
esse suscitarono non poche perplessità.
E’ questa, ad esempio, la convinzione di Ugo Spirito che, nel concludere
la propria risposta
all’amico Chiavacci, nel
1953, non esita
ad affermare: “a me sembra
Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle
michelstaedteriane, non abbia potuto
conciliarle fino in fondo,
sia rimasto in una
posizione intermedia tra la
concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto
adialettico”.99 Su questo punto,
comunque, la riflessione critica che
gravita sugli autori fin qui presi in
considerazione (alquanto
lacunosa, a dire il vero, soprattutto
negli ultimi anni e per quanto
concerne l’esigenza e il compito
di saggiare storicamente le
posizioni di Chiavacci!!) a
tutt’oggi non è
concorde e perciò
il problema della
conciliazione tra la
speculazione gentiliana e
quella di Michelstaedter ci
sembra tuttora aperto
a ulteriori sviluppi
e approfondimenti che sono ben
lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del tutto assolto. Ben consapevoli di queste
difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto delimitare
e precisare l’ambito
di indagine, che
è da valutare
come un’ulteriore approsimazione al problema,
e offrire degli spunti utili
a sostegno della prosecuzione
del discorsoGaetano Chiavacci.
Keyowords: poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la
natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Chiavacci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772774831/in/dateposted-public/
Grice e Chiocchetti – prammatico –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena). Filosofo. Grice: “I like
Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf.
Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’
as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the
Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ –
Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are
non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into
‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of
aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term,
‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or
scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a
little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” -- Emilio Chiocchetti (Moena) filosofo. Nato a
Moena, in Val di Fassa, vestì l'abito francescano nel 1896 e l'anno successivo
concluse gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si
appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità
di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà
teologica di Vienna. Nel 1903 venne ordinato sacerdote. Fino al 1908 studiò filosofia a Roma presso
il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per
insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò un'assidua
collaborazione, su invito del padre Agostino Gemelli, alla Rivista di filosofia
neoscolastica fin dalla sua fondazione (1909).
Tra il 1908 e il 1909 progettò uno studio sistematico sulla filosofia di
Henri Bergson, interrompendolo definitivamente nel 1910 per approfondire
ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi
neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare
Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore
le lezioni di psicologia di Wilhelm Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto
nel 1912, assunse la direzione della Rivista tridentina. Note
Chiocchetti, Emilio, su siusa.archivi.beniculturali. 20 marzo. G. Faustini,, Emilio Chiocchetti, Antonio
Rosmini e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa,
Trento, Pancheri, 2008 G. Faustini,, Emilio Chiocchetti: un filosofo
francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia
e cultura, Trento, Pancheri, 2006 Padre Emilio Chiocchetti un filosofo
francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso
dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento il 3 dicembre 2004,
"Archivio Trentino", 1, 2005,
101–215 S. Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica tra
neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-Chiocchetti
(1911-1949), Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2004 R. Centi, Un filosofo
francescanoEmilio Chiocchetti, Trento, Gruppo culturale Civis, C. Coen,
Chiocchetti Emilio, in Dizionario biografico degli italiani, 25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1981 (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,, diEmilio Chiocchetti filosofo trentino (Moena
1880-1951) rettore generale francescano e professore di storia della filosofia
moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, Emilio
Chiocchetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Emilio
Chiocchetti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per
le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Emilio Chiocchetti,. Pubblicazioni di Emilio Chiocchetti, su
Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL
PENSIERO (COLLEZIONE DIRETTA DA VALENTINO PICCOLI °°
(L20560 E. CHIOCCHETTI (0. F. M.) È della Università
Cattolica di Milano IL 5a PRAGMATISMO
agi E 7
EDIZIONE ATHENA 1926 MILANO - Via Vigentina' 7-9
s santo, MRETTRI
ProPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
(ORC) s» , è ita, canina eno er insit)
miri iztarta e ea Nihil obstat quominus imprimatur 19
Mediolani, 26 Apr. 1926. : Mons. G. Bernareggi.
——_—_——_—_—_— Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani, 26
Apr. 1926. Mons. Can. Cavezzali.
ALL'AMICO P. ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE
PIÙ TENUE SA CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA
sg AL LETTORE ca Ripubblico, a richiesta
d'amicì, in volume questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati,
parecchi anniì sono nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per-
chè il Pragmatismo contiene aspetti di verità che non A vanno
dimenticati. Quali siano quest» aspetti verrà rilevulo nella esposizione
che ne faccio seguendo i Uue principali rappresentanti di esso il James e
lo Schiller. f In questa esposizione ho introdotto solo
mulazioni accidentali, più che altro verbali, che mettano
quella corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritual-
mente dai nostri. a E. C.
| L LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO
N Sommarto : $ 1. II Pragmatismo anglo-americano. — ks T ) 2.
Pragmatismo e Umanismo. — $ 3. Pragma- i tismo e conoscenza.
SI. — Nell' Inghilterra e nell'America, come è Noto, la
filosofia ha avulo sempre un carattere pre-. valentemente pratico, cioè,
ha studiato con partico- lare predilezione quei problemi filosofici che
si rife- riscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle
scienze pratiche, in generale; e, anche quando si è sollevata alle più
alte speculazioni, non ha mai per- duto il contatto intimo con la vita
pratica «ed è stata più sollecita della ricerca del vero in vista
dell'orga- nizzazione della vita reale, che non dell'astrazione
collivata per sè stessa e per la sodisfazione dello | Spirito »
(1). Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta pensare alla filosofia di
Hobbes e di Bacone, all filosofi cmpirica e crilica di Locke, alla
filosofi naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De
(3) Cfr. «Revue Néo-Scolastique» Novembre 1909, dove son
tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B CELAERE'
(New-York 1904) le parole citate. La «Revue Néo-Sc Stiquen ne di un amplo
riassunto col titolo: Le mouveme hilosophiqgue en Amérique, p. 607 seg.
Vedi anche i riassunti cli relazioni sullo stato della filosofia
contemporanea in Inghil- Mica in America: « Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica wu N. IL SEE.
(6) Linee fondamentali sti, alla fase clica del
movimento empirico del se- colo XVIII, all'Associazionismo e
all'Utilitarismo. — Nell'America i primi a interessarsi di
speculazioni filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghil-
terra, degli inglesi emigrati, i quali naturalmente portarono al di lù
dell'Oceano la caratteristica della filosofia della madrepatria:
l'atteggiamento pratico, che assunse allora, per speciali circostanze
storiche, un carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra,
«una corrente più profonda non ha mai cessalo di rimontare in senso
opposto (alla corrente empirica). Essa si manifesta con Herbert di
Cherbury, con i Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del
‘senso comune, e apparisce nella sua forma più sor- prendente in
Berkeley, fondatore dell'’idealismo in- glese; è rinforzata più tardi da
Kant, Lichte, Hegel e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha
mai perdulo il'carattere pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi
più volentieri sulla volontà e sul sentimento e a trascurare le categorie
puramen- le logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì deve
dire della filosufia in America. Quando la rivoluzione americana
pose fine al pe- Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a
manilestarsi varie e nuove correnli filosofiche — ppiella del senso
comune, il Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di
Hegel; l'Ideali- smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre
la tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il
contatto con la realtà, a far risal- lare il carvaltere pratico dei
problemi filosofici. « Ne- gli scritti, p. es., dei seguaci
dell'Idealismo Kan- liano non è la critica che tiene il primo posto, ma
la psicologia cosidella scientifica in opposizione alla psicologia
metufisica» (2). (1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
» (1 i S- sunto della relazione del MACHENZIE: La EIA nea in
Inghilterra, donde sono prese le parole citate. (2) «Revue
Néo-Scolastique », I. c. rat ET tit, 0 ELLI a_n GI
Il Pragmatismo ('S
Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti nel mondo
inglese-americano sono o erano qualche anno fa il Neo-hegelianismo e il
Neo-volontarismo. Quale dei due trionferà? Se la storia ci può
ammae- strare, se il carattere cinico dei due paesi può servire di
fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc- si guì dei
lempi sono veridici — intendo la reazione "i Vivissima contro
l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI denza della filosofia
contemporanea a dare il valore Li principale della valutazione delle
vedule speculative i al sentimento e alla volontà — possiamo
applicare anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive del-
l'America: « È verosimile che il corso fuluro del pen- | siero filosofico
non subisca tanto l'influsso dei Neo. hi legeliani quanto quello
dei Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano
non è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo studiarlo,
lauto più che esso non è più limitato a quelle regioni, ma ha suscitato
anni addietro vivo a interesse in lutto il campo filosofico, dove,
accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi
nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-. n° no, con lono
da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le filosolie avversarie. Già lo
Schiller aveva annunziato il maturarsi di grandi eventi nel mondo
intellettuale à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto
vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi | di un tempo propizio a
nuove intraprese filosofiche secondo la nuova forma, egli guardava con
compia- cenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour: «Le
basi della fede»; alla serie di opere popolari. del James: «Lu volontà di
credere, Immortalità _ mana, Le varie forme della cuscienza
religiosa» | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È |
Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà, «una volla centro
di Idealismo, un manifesto così dace com'è «L’'idealismo personale» dello
stesso | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori
Linee
fondamentali della scuola di Chicago (alla testa della quale slava
è il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘ tions»
della Università (1). i; Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non
passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase del «batti ma ascolta!»
e quando i falsi concetti, È dovuti a prella mancanza di famigliarità con
la dot- |A — trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile
D applicazione ». D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è
* affermato con sempre crescente energia, suscitando vive
polemiche, incontrando simpatie e disprezzo, seguaci c avversari, così
che polè scrivere il James: «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine
delle .. © riviste filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi
di pensiero che mancavano di un denominatore comu- ne lo trovano nella
parola Pragmatismo » (3). Esso ha avuto in tutte le nazioni
rappresentanti di grande valore, fra quali, i principali sono: in
America il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger-
mania il Simmel e il Jerusalem (4), in Ilalia gli seril- tori del
Leonardo, specialmente il Papini; in Francia ,
(1) ScHiLcen, IJumanisim,
VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri; (9) Der Pragmatismus. Ein
neuer Name fr alte Denkmetho- «en, trad, in tedesco dal Prof. \VILHELM
JERUSALEM, p. 29, Leip- zig 1908. Verlag. von Dr, Werner
Klinkhardt. Di questa tradu- zione tedesca mi servo nella esposizione del
Pragmatismo. (3) Zbid. (4) Sì è voluto vedere un
Pragmatista anche nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo non ha niente a
che vedere col Pragma- tsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni
metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a eno il
Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com fa l'Eucken, Ja
concezione intellettualistica della vita, non è una caratteristica
del Mo- | | talismo e di Misticism ca À
« n
Pragmatismo ma di ogni specie di (OA 2
vrib CE: Il Pragmatismo
. il Blondel, il Le Roy, il Bergson e molti fra i moderni-
sli più avanzati (1). Come si vede, aveva un po' ragione lo Stein
quando scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola d'ordine»
filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuo- vo indirizzo di
pensiero, di un movimento filosofico che passa potentemente dall’ America
sul vecchio mondo e comincia a incerospare la superficie - delle
nostre acque stagnanti (2) ». Facciamoci a considerare davvicino
una tale filo- sofia, allenondoci specialmente ai suoi due rappre-
sentanti più illustri: il James e lo Schiller. gs 2 — Il nome
«Pragmatismo » viene dal greco «pragma» che significa «azione, operazione
», vie- ne dalla stessa radice che ha dato origine alle parole
«prassi, pratico»; perciò, più italianamente sì chia- -
mercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella fi- losofia fu Charles
Sander Peiîrce (3) «nel senso di un metodo che consiste nel giudicare del
valore di una affermazione dalle sue conseguenze nella pra- lica »,
ossia di un metodo che era già stato applicato dall’Empirismo inglese
alla valutazione delle cono- scerize umane. Ecco in breve Ja sua dottrina.
È un falto psicologico che il dubbio, l'incertezza producono in noi
uno stato di malessere, di irrita- zione; uno stalo spiacevole
insomma, Per uscirne — e noì vogliamo uscirne — è neces-
saria una convinzione, una credenza in cuì l’attività del pensicro
possa riposare: la credenza attutisce le sofferenze del dubbio.
Produrre la credenza è la sola funzione del pensiero: il pensiero
in altività — non persegue allro fine che il riposo del pensiero
e lo distinguono profondamente dall'inglese-americano. (2)
«Archiv. fur system Philos.» XIV, 1, 1908. (3) Egli
espose il suo sistema fino dal 1878, ma non fu che — | dopo essersi
servito lungo tempo della parola CART EVA nella conversazione, che
la stampò nel 1902 in un articolo . | dizionario del Baldwin. Così
MARCEL HénerT, Le Pragmatism Bi. Alcan, Paris 1908, p. 6.
Lan "a (1) IL pragmatismo francese ha
peculiarità tutte proprie che. 2A f
10 Linee fondamentali
quindi tutto ciò che non contribuisce alla formazione della
credenza non fa parte del pensiero propria- mente detto. La credenza,
poi, ha per fine di pro- durre un'abiludine alliva, che diventa regola
per fazione. Se le credenze mettono fine allo slesso dub- bio,
creando la stessa abiludine e la stessa regola d'azione, non
diversificano fra loro. Per sviluppare, quindi, il senso d'un
pensiero non c'è da far altro che determinare quali abitudini essa
produce, poichè il senso d’una cosa consisle sempli- cemente nelle
abiludini che essa implica. Il caral- tere di un'abiludine dipende dal
modo con cui essa ci fa agire in ogui possibile circostanza... e il
fine dell'azione è di condurre a un risultato sensibile. Noi
prendiamo, così, il sensibile e il pralico come base di qualunque
differenza di pensiero, per quanto sottile possa essere. Non v'è nuance
di sigmificalo così sottile da non polev produrre una differenza
nella pratica (1). In allre parole: Il pensiero crea la “convinzione,
la convinzione è regola dell'operare e in tanto vale in quanto ci fa
operare; fine dell’ope- l'are è il risullato sensibile, pratico: questo,
dunque, deve servirmi di crilerio per giudicare del valore del
pensiero, per conoscere con chiarezza il significato dei concetti. Come
render chiare le nostre idec? In- lerpreliumole dal punto di vista
pratico, domandia- nio ad esse quale efficienza pralica contengono,
quali Sensazioni possiamo aspellarci dall'oggetto che ci
bappresentano, e quali reazioni dobbiamo preparare. La rappresentazione
di questa efficienza pratica, me- diaia 0 immediata, costituisce per noi
l'intera rap. presenlazione dell'oggello e in ciò sla tutto il
signi- ficalo positivo della rappresentazione. « L'idea di una cosa
è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice il Peir- ce (2). «E
contradittorio il dire che si conosce con (1) Così nell'articolo
«ITow to make our ideas clear pub pippoz pt Egnular Science SOA Y >,
1878-XII, e tradotto «Rev HosophiQuew 1879-VII: «( x È ados
sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos (2) « Revue philosophique»
1. c. p. 47. | IRIS
Il Prugmatismo precisione l'effetto di una forza, ma che non si
com- prende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti
della forza si conoscono tutti i fatti impli- cili nella affermazione
della esistenza della forza e uon v'è più nulla da conoscere » (1).
Come render chiare le nostre idee? «Pensando », risponde il Des Carles,
conducendole alla evidenza della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo,
ri sponde il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità ‘* d'azione
che è in esse, nell'oggetto rappresentato: è ciò che agisce, è
distinto ciò che produce effetti di- stinti nella vila pralica: dunque
al: «Cogito ergo. sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la
funzione della filosofia è di scoprire quale differenza definitiva forà a
ine 0 a te in definiti istanti della vila se questa è quella formuia del
mondo fosse la vera. 4 Tale è il principio del Pragmatismo.
Rimasto inos- servato per venVansi fu mpreso dal James ed appli
calo alla religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca nerale poi.
D'ullova in por tanto il nome quanto i principio hanno falto forluna,
così che i due leader: pragmalisti ce no possono dure una esposizione
co vaggiosa e abbastanza sistemalica in due opere ap parse nel
niondo anglo-sassone e diffuse rapidamen- te fra i cultori di filosofia.
“a Per comprendere l'importanza del principio enun: 3 ciato,
ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad applicarlo vi casi
particolari, come fece con perfetta | chiarezza, senza nominare il
Pragmatismo, l' Osl- - wald nelle sue lezioni sulla filosofia della.
nalu -. TTI) Ivi, p. 92. Ne (2) Tm una conferenza tenuta nel
1898 davanti alla società. fil “sofica di Howison nella università di
California, Al JAMES il n | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per
cambiarlo »; egli dice nella prefazione al « Prugmatismus», D. X.
(3) Zweite Vorlesung, P. 29.
12 Linee
fondamentali conforme a ciò che egli stesso scrisse al
James: « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c ? questo
influsso è quello che per noi esse significano. - Nelle mie lezioni iv
sono solito domandarmi: in qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se
fosse vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente per cui
sarebbe differente, l’alternaliva non ha sen- si so » (1). Che è quanto
dire: le opinioni rivaleggianti, «nel caso. hanno identico significato
pratico e non esiste che un solo significato: il pratico (2).
Ossia: qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti; il valore
di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E poichè i falli in tanto
sono in quanto sono da noi csperimentali, il valore di un'idea mi è dato
se la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es., sil
principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una sostanza noi la
conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò
che di essa si può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o
di essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se Dio, lasciando
l'ordine degli accidenti, distruggesse la sostanza, noi non lu potremmo
neanche sapere. Se del legno mi resta la combastibililà e la struttura
Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inacces- sibile ad ogni forma
di esperienza? d Dunque Ja sostanza come un quid in sè distinto
dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so- | Slanza non è che il
complesso de' suoi accidenti. L'unica applicazione pragmatistica dell'idea
di so- Stanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il caltolico non
sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza del corpo e del sanguc di
G. C. Così la crilica del Berkeley della sostanza materiale è affatto
pragma- lîslica, e pragmalistica è la critica del Locke e del-
l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte del
Bea, o n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato
f | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA
3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT ; (2) Ibfa.
A non ci sia un quid come soggetto, sostegno, substrato.
ià It Se ll
Pragmatismo 13 Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi,
in un dato istante della vita, ci ricordiamo di quello che eravamo
in altri istanti e sentiamo questi istanti co- me parli della stessa
serie personale di avvenimenti vissuti. Se, nella ipolesi dei
sostanzialisti, Dio ci to- gliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe
la so- slanza dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo di lui, la
maggior parte dei psicologi empirici, negò l’anima addimttura (1).
Altro esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha cercato Dio; il
materialista lo dà come il risultato di forze fisiche, cieche.
Ebbene, le due teorie sono identiche, se il mondo si. considera
come un tutto terminato, completo. Poi- chè «che valore ha Dio per il
mondo, per noi, se Egli non lo può mutare e far procedere di un
passo? Sé il mondo fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il mondo non
è al termine della sua evoluzione, allora la questione: «Materialismo e
Teismo» acquista una importanza vitale. La ‘scienza della natura
pre- “dica che la fine di ogni cosa e di ogni sistema di cose
cosmiche è lragica morte! Tutto sarà come non fosse slato mai: luomo e il
mondo, la virlù e gli ideali, i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola
del materialismo! Ma se Dio esisle, se è Dio che dice al mondo
l’ullima parola, allora potrà perire il mon- do materiale, ma gli ideali
saranno conservati e lrionferanno altrove. Il Materialismo nega
l'ordine morale e recide le speranze che su quello si fonda- no; lo
Spiritualismo afferma un eterno ordine mo- rale del mondo e lascia libero
spazio alle speranze (1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per
nulla il JAMES ha dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart
Mill, confes- sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di
Giovanni Stuart MIN, dal quale ho imparato la prima volta la
pra- gmatica apertura dello spirito e che, nella mia fantasia,
figuro. così. volentieri come il nostro duce, se vivesse al
presente Non per nulla il sottotitolo aggiunto al Pragmatismo
suon . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere di pensare», sua:
sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio Empirismo inglese,
14 Linee fondamentali dell'uomo (1). Lo slesso
principio si deve applicare alla questione della finalità nella nalura e
della li- bera volontà. Dio, finalità, volontà libera, pragmati-
slicamente hanno un senso; intelleltualisticamente nessuno (2). ) x
Empirismo, dunque, e Pragmatismo applicano lo stesso principio,
giungendo, naturalmente, alle stes- se conseguenze. Con una differenza
però, tiene a dirci il James. I vecchi empiristi non fecero che un
uso frammentario del principio pragmatislico: ne era- no un semplice
preludio. Il Pragmatismo rappre- senta l'empirismo in una forma più
radicale e meno aperla alle obbiezioni. Esso volta le spalle
risoluto, una volla per sempre, a una mollitudine di abitu- dini
antiqualo, care ai filosofi di professione: alle astrazioni e alle
sottigliezze, alle soluzioni puramen- le verbali dei problemi, alle
argomentazioni «a prio- bi» ai principî fissi, ai sistemi chiusi,
all’assoluto e all'originario, alla vecchia melafisica
intellettuali- sfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi.
pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia, ragione, assoluto,
energia, crede di possedere il si- smficalo ullimo dell'essere e di aver
raggiunto il fermine delle sue ricerche metafisiche 13). — L'atteo-
giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel- Ieltualismo, alla
filosofia dell’assoluto, all'a priori è dci più decisi (4).
Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al- l'agire, alla
forza, è signore della disposizione em- pirica, ama l’aria libera e le
molteplici formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle
artificiosità, alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva
(9). (1) Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. (2) Ibid. p. 76. «Eine
andere als dicse praktische. Bedeu- tung haben die Worte: Gott,
Will Z, - MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber (3) Zweite
Vorlesung, D. 31-33. (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più
che nel James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si
trova di fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno
aggressivo, quale è {l (5) IUid. p. 32. ne 1° MN i
14 PACI ZZZ
Il Pragmatismo 15 Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti
intellettualista perchè vuol essere una dottrina per la vita prima
che della vita, un metodo ordinato alla sodisfazione dei bisogni umani
quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo
me- lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî, dulle
calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo alle cose
ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti (1). Perciò non accella
nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le teorie,
a tutti i sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore
pratico? siete. utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica,
— all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura all'uomo?
L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di principî, di scienza e
di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo per soddisfare a
questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo
Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma
lontano da ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri
dolori e per il quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma
at- luale nella filosofia (2). ma Il Pragmatismo invece può
soddisfare ambedue quei bisogni: può conservarsi religioso come i
si- 9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione coi
falli (3;. Il Pragmatismo, come dice il Papini, si. trova nel mezzo delle
teorie come un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo
che la-. vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza
ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede «e forza; in una
{erza un chimico ricerca le proprietà dei corpi; nella quarla sì sta
abbozzando un sistema »
Vily]
(1) Ib2d. n». 34. «Er hat keine Dogmen und keine Leh ausser
. seiner Methode. Die pragmatische Methode bedeutet. Keineswegs bestimmte
Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- — * rende Stellungnahme ».
>» (2) Il JAMES consacra alla illustrazione di questo
dilemma tutta la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der —
Philosophie ». (3) Erste Vorlesung, DD. 10-12.
o x è
16 2 Linee fondamentali di metafisica
idealistica, nella quinta un Tizio dimo- stra la impossibilità di ogni
metafisica. E il corridoio appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare
se ab- SE bisognano di una via praticabile per entrare e per hi
uscire (1). , Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo
fine è di por terminc alle beghe filosofiche presen- ì lando un criterio
Pratico per giudicare del valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è
una uni B va plicità? — Vi domina il fato 0 vi è una volontà li-
bera? — È materiale o spirituale? — I giudizi dati in Proposito valgono
tanto che niente e le discussioni sono interminabili. Ebbene, in questi
casi il metodo ; Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare
a ognuno di questi giudizi dalle sue conseguenze pra- i tiche. Quale
differenza pratica risulterebbe per qual- cheduno se fosse vero l'uno o
l'altro di quei giudizi? Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono
r.ra- icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove 1.n c'è
differenza di Significato pratico non vi può es- sere differenza di
significato teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il James,
si sare gli allriti, attenuare le contese ie intelligenze, riuscire
alla concordia e alla pace, Esso © dunque un mataviglioso eirenicon
perchè «non «Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo
«della speculazione due teorie che abbiano le medesi- f
me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi» (3). .
: Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo
Pragmalistico non permette ecc. come lermine ultimo
della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'espe- —
rienza: le teorie non sono soluzioni, ma programma per nuovo
lavoro; non risposte definitive, ma stru- menti d'azione, ma
indice che cj addita i mezzi per. Ì ) di considerare le parole :
È __ Dio, materia, energia, ty Gazelle Vorlesung, p.
34, 2) p. 28. Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il
Lettura seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall, J ll Pragmatismo?),
er Pragpmatismus? (Cosa vuole “Ri ORANDO, La Mlosoha |
«Rivista Rosminiana » A Apologetica Moderna]
dell'azione e vr »
N. I, 1906, not? PO UTNE e ne I
Il
Pragmatismo 1? k i) | 1 quali le realtà esistenti
possono esser mulate e adattate all'uomo (1). Il Pragmatismo toglie così
alle i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa
la- j vovare (2). Esso si accorda col Nominalismo nello È
i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es |
cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di- , i sprezzo
delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@ i bali, delle
astrazioni metafisiche, di tutto ciò in- somma che non serve all'uomo
nella vita reale. Per- chè luomo è il centro dell'universo, afferma
l'Uma- nismo (3) conlro il Noaluralismo che considera l’uomo |
è. come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son
subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmo- centrica (Uanlica)
e alla teocentrica (la medioevale) ani deve sosliluirsi
l'aniropocentrica. «L'uomo è la mi- sura di tulle Je cose!» proclama lo
Schiller, il neo- È prolagorista, con Prolagora l’umanista (4).
L'Uma- nismo consiste semplicemente nel rendersi conto che sono
degli esseri umani coloro ai quali è proposto. il problema filosofico,
degli esseri umani che si sfor- zio di comprendere un mondo di esperienza
umana | coi mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo
l'Umanisimo sono «il sentimento e la vo lonlà che custiluiscono
l'interesse centrale dell’es- sere che usa i sensi e la ragione come suoi
strumenti nel mondo esterno ». (1) « Theorien werden... zu
Werkzeugen », p: 33. (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten
n. (2) Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James,
c'è differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil- «_ ler l'Umanisino
è più largo, il suo metodo sì applica a tutto: i d@ll'etica,
all'estetica, alla metafisica, alla teologia, mentre il Pragmatismo non
si applica che alla teoria della conoscenza. In realtà Je applicazioni
che fa lo Schiller del suo metodo, — È le sa o le accetta anche il James,
Lo confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE | _.,(4)
Protagora l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d Gli: Studies in
Mumanism, p. 302. A p. 36 egli stesso chiam il suo sistema «
Nèo-Protagoreanismo », > o
ip” td 54
18 - Lince fondamentali Perciò l'Umanismo implica il
Volontarismo, ossia la filosofia più autropocentrica che si possa
dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può essere sostituito «dal «volo
ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un melodo: ciò che lo caratterizza è il
suo alleggia- mento benevolo di fronte a tutte le concezioni, pur-
che non si voglia erigerle a un che di « assoluto ”, ma sì prendano come
pure interpretazioni umane 5, dell'esperienza umana. Non si dimentichi —
avverte lo Schiller — «che l’uomo è la misura di tutte le cose,
cioè di iullo il mondo dell'esperienza... non si dimentichi che l'’uomu è
il fattore delle scienze che servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo,
tutto all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il Pragmatismo
accetta questa dottrina umanistica, e «io — dice il James — la tratto
sotto il nome di Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire,
il soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma- |
lisliche: non ha valore che ciò che ha un significato per l'uomo.
$ 3. — La logica finora ha tentalo di essere una pscudo-scienzu di
un, processo non esistente e im- | possibile chiamaio pensiero puro. In
nome di essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni
traccia di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le
Diù perniciose surgenti di er- tore. Così la logica fu ridolta ad una
pura rappre- | Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare
al- luale, perchè non si è voluto osservare che quegli __
inMussi (sentimento, emozione) sono egualmente fon- le di verità e
pervadono tutto il nostro processo co- | gilulivo (3). Poichè «il Primo
passo nella acquisi- (1) Humanisme,
(Prefazione) p. xx. (2) Lettura seconda, p. 4I, (8)
ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10
SEITE ELE 0 logico e gnoseo- zione di
nuove conoscenze è l'intervento di un postu- lato emozionale » (1).
Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo, la natura data di
un conosciutu non può formare il a fondamento logico per la inferenza di
caratteristiche 0 opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside-
|. Ù rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò mondo
la necessità dell’esistenza di un mondo mi: gliore, sc il ragionare —
come afferma la logica tra- dizionale — è il prodotto di un pensiero puro
non affetto da volizione? «Sollanto se una trasfigurazione
sconosciuta del- l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in
parec- chi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pen- siero
puro non influenzato dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor
mero giustificare quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero
de- ve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della
volizione e del desiderio » (2). La ragione - «pura» e una pretla
finzione c una impossibilità si psicologica; lu strultuva reale
della ragione attuale E è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata
fino n] nelle midolla (permeated (lhrough and through) da ulti di
fede, da desiderì di conoscere e da volontà di credere, di non credere,
di far credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un fatto che
abbia luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il *
a nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri
interessi e dalle nostre preferenze, dai | Il
Praghiatismo 19 / i | nostri desiderî, dai
nostri bisogni e dai nostri fini. x Questi formano il potere movente
della nostra vita intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore
delle quali la testa non 3: sa nulla (3), postulati di una fede che
sorpassano la È 2 (1) Ibid. p. XI. >»
(2) p. XII «To attain it, cur thougth needs to be impelled vi ‘na guided
by the promptings of volition and desiro ». - POS) (3) L'aforismo, citato
dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL, — _(Pensées), LA
4 20 Linee fondamentali intelligenza
pura e possiedono una razionalità più alta che un gretto inlellettualismo
non è riuscito a comprendere. L'irrazionale si trova ad ogni passo,
in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede «sla a base di
ogni «ragione» e la pervade, anzi la razionalità stessa è il
supremo postulato della fede. Senza fede non c'è ragione; la fede è un
ingrediente nel progresso della conoscenza; realizza sè stessa
nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula alle conquiste fulure. Così
sparisce l’antitesi tra fede e ragione perchè la razionalità pura non
esiste (1). Il carattere leleologico della vita mentale influenza e
pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole. Questo, secondo lu
Schiller, è il pensiero centrale del Pragmatismo: ne dà la vera
definizione (2). Il pen- siero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge
in una - psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò
finalistica. L'uomo non pensa per pensare e il Prag- malismo è:
«una prolesta sistematica contro l'igno- vanza della finalità
nella‘conoscenza » (3). La volontà, lintenzionalilà è da per tutto: il
Volontarismo si constata nella psicologia, nella logica e nella meta-
fisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto di visia
leleologico. Il Pragmatismo si formula da per lutto in funzione della
finalili.. «La ragione è un'arma nella lolla per l'esistenza
cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne segue che l’uso pratico che ha presiedulo
al suo (della ragione) (1) Questi concetti lo Schiller li ha
svolti speci: te i JI S ° seialmenie in un articolo: NFailh, reason
and religion pubblicato SI The Ilibbert Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra
l'altro, che è base es- senziale in scienza e in religione partire da
supposizioni che TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così,
se ; Viviaino per fede può anche esser veri r - Ralemo pen pata L e
esser vero che cono (2) Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4,
5. (3) Stud. in Hum Essay, I & * Èssay, I $ II — È ques
a ses sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se
nite e collegate l’una con l'altra nei S S b ;3 (4) «I cannot but
conceive the Or AR] In the struggle for existence and tation è.
pag. 7, Humanism, reason as being... a weapon a means of
achieving adap- à, cea
Il Pragmatismo i svolgimento, deve essersi
impresso profondamente nella sua strullura, se pure non l’ha
formata da istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore n
pratico ai fini della vita è una mostruosità, una aber-
razione morbosa, una mancanza di adattamento che la selezione
naturale presto o tardi deve far spari- re {1). Quindi, da questo
punto di vista il Pragma- lismo polrebbe definirsi: « Una
applicazione coscien- le alla epistemologia (0 logica) di una
psicologia te- < leologica, che, in ultima analisi, implica una
metafi- sica voloniaristica » (2). pis TANA Nice di questa psicologia
felcologica applicata alla conoscenza i problemi della logica devono
appa- rire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una im- porlanza
decisiva ai concetti di proposito e di fine. Ta conoscenza presuppone
essenzialmente uno sfor- zo diretto a conoscere, che, come ogni sforzo, è
te-: leologico, ispirato da un bene che si vuol consegnire. SI Non
cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza è una forma di malore, 0,
in allre parole, un fattore di bene (3). Lo aveva cià
dello il Lotze, nola lo Schiller. Il | Lofze, come è noto, insegnava che
«la scienza, come TU la logica, che ne è lo strumento, e come la
metafi- sica che ne è il coronamento, ha il suo fine e la sua
giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento | slabile e sicuro
in quel primo dato originario e di | Ù conoscenza immediata che è la
nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto di sensazioni,
rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo corredo di
forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr scindere in qualsivoglia
nostra concezione e valut zione» (4).
(1) Mumanism, p. 8. (2) È la settima definizione del Pragmatismo.
Le altre Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma-
| smo. - ae p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto
«Essay» di questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i » = (4)
L, AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm otze — «La Cultura
Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295,
ai dui # iii ar E° vee
Linee fondamentali Non è qui il
luogo di dimostrare che, se il Lotze ha dei punti di cuntalto con
l'Umanismo, egli perè non è un umanista alla Schiller. La
ragione nelle sue esplicazioni molteplici, è una strumento ordinato ai
fini della vita. È questa la concezione strumentalistica della conoscenza
esposta dal Dewey e dallo Schiller (1) e accettata dal James. Essa
è un portato del metodo evolutivo e della con- cezione biologica della
conoscenza. Darwin con la teoria della «lotta per l’esistenza » e della «
selezio- “ne naturale» aveva insegnato «che nulla può sus- Sistere
o svolgersi che non abbia un determinato Significato per l’intera
concatenazione della vita ». Scrittori posteriori (Spencer, Romanes,
ecc.) sosten- nero che lu vita è un continuo accomodamento alla
natura circostante, fisica, sociale, morale. E ora la teoria della
evoluzione è chiamata da molti a spie- gare anche il sorgere e il
progressivo. svilupparsi ella vita cognoscitiva (2) e così i principt
evolutivi di cambiamento, di relalività e di movimento sono
ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo sviluppo del pen- siero in generale,
il suo carallere, il suo valore, allo 2 Stesso modo che erano già slali
assunti a lumeggia- i __Te c spiegare l'origine, Îo sviluppo, il
significato, il — Valore della stutlura, degli organi, di fulte le
dif- __ Ierenziazioni biologiche. Come in bio non ha valore
nè senso che per la sua ulili dine all’adatlamento dell'individuo
condizioni fisiche circostanti, ha, cioè un valore e un senso puramente
Pratico, così in psicologia qua- ai 5
ao (1) L'opera principale del Dewey è: Studies 1 Theory bey
John Dewey, with the Cooperation of embe Fellows of the Departement of
Philosophy. Decennial Pubbli- 1 one of the University of Chigago — Second
Series vol. XI e» Peli ha esposto le sue teorie anche in: The
esperimentai Pe: # in: eguig otel Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp.
293-307; din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N Sì 6) "Vol NV
she SII for tne Trutt of Ideas (N. S. Lol), Cir. Baowr, 7hioughi
and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1:
Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi
puntf Il Pragmatismo 23 lunque differenziazione :
sensazione, coscienza, pen- siero ecc., trova tutta la sua raison d’étre
e la sua giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze, nella ef-
ficacia pratica. La questione di valore non si può scindere dalla
queslione di origine e di sviluppo; la considerazione statica deve dar
luogo alla conside- vazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda
il pensiero, la logica formale alla logica funzionale (1). La
concezione biologica della conoscenza (2) ha fatto un passo innanzi: non
ha detto semplicemente : applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo,
(il che, per sè, non inchiude la riduzione della psico- logia alla
biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti del pensiero teorelico hanno
un carattere utilitario » (biologico) «cioè servono come strumenti al
conse- guimento di fini essenzialmente biologici, perchè mi- rano a
dare soddisluzione alle esigenze dell’organi- smo cioè ai bisogni della
vita» (3). Questa subordinazione della vita teoretica alla
vita pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna ma- raviglia
quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e fatta oggetto di studi
speciali (4). Il Dewey, oltre alla funzione generale della
cono- scenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico: il
giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico. larmente degli assiomi
primi della conoscenza. S'è veduto in che cosa consiste la
concezione stru- mentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in
base (1) Baldwin, Op. c.
1. c. passim. (2) È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach,
dal Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le
monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ost- wald in
«Cultura Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4. . Lo Psicologismo
logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4, specialmente pp.
242-255. Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, —
« Cultura Filosofica » a. III, n. 2. (3) A. LEVI, Lo Psicologismo logico,
La « Cult. Fil.» a. IMI, n. 3, p. 254. pà & {4} Intendiamoci:
hanno accettato la dottrina della subor- ‘dinazione della vita teoretica
ai fini pratici, in generale, no ai fini biologici esclusivamente,
È
24 Lince fondamentali ad essa il giudizio (dal
Dewey) è interpretato in ter- mini di funzione; esso è una armonizzazione
di varie parti della esperienza; è uno sforzo « per determi. nare
gli elementi che realmente procedono di con- serva e per respingere
quelli che solo si collegano apparentemente »: così esso si forma, per
differen- ziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e di
unità nelle esperienze (1). To Schiller (2) afferma e dimostra, a
modo suo, che gli assiomi fondamenlali della conoscenza o primi
princip! (di identità, di contradizione, del terzo esclu- so, di causa)
sono dei semplici postulati. Un postu- lato è «una supposizione, che
senza dubbio l’espe- rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava,
ma che non è, nè può essere lenuta come provata, poi- chè spesso di
poi la si assume solo perchè la desi- deriaumo, contro tulta l'apparenza
dci fatti» (3). I postulali sono domande che noi facciamo alla
espe- rienza; processo di esperimento ordinato a porre il mondo in
armonia coi nostri desiderì; sono perciò un processo di sviluppo non
dissimile dalle altre at- tività e funzioni umane, derivando dalle
esigenze dell’uomo, dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal suo
volere: sono quindi un prodolto della attività umana voliliva e
affelliva. Noi desideriamo che una cosa sia quello che è, che 4 sia
sempre a, d sempre Db, ecc. perchè diversamente, come polremo conoscere
la sua condotta futura rispetto a noi? e, per conse- g&uenza noi
desideriamo che nulla venga a distrug- gere quella idenlità: così nascono
il principio di identità e di contradizione, che sono due aspelli
(po- Silivo e negalivo) dello stesso principio, Noi esigia- Mo
delie distinzioni precise, delle disgiunzioni com- plete, perchè con esse
possiamo dominare (assimi- (1) Op. cit. II, passim, Vedi
anche N. c. 257 dove si trovano le parole da’ (2) Personal Idealism
— « Arioms 902. La Cultura Filosofica » me
citate, Macmiizs o! as Postulales n — London, (5) ScHILLER
in 3 «The Hibbert Journal» }, e,
Il
Pragmatismo lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della
espe- rienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco il
principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si durre degli
avvenimenti utili alla vila e di impedire i nocivi; per agire abbiamo
bisogno di un mondo connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una causa €
una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto di- venta; l'identità
perfella non esiste. La enntradizio- ne è pensata frequentemente contro
la grescrizione - della legge; l'esperienza non sodisfa le nostre esi-
ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente, e ve la
poniamo noi. A chi opponesse a questa concezione volontari-
slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di uni- versalità e di
necessità, lo Schiller risponde che: «Ia universalità di un postulato
deriva dalla sua stessa natura, inquantochè, quando ci serviamo di
una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo di farne uso ogni
volta che ci piacerà; la neces- sità di un postulato designa
semplicemente il biso- gno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle esì-
senze di una volizione intelligente e finalislica; la incapacità di
pensare il contrario di una proposizione si riduce... ad un nostro
rifiuto di compiere un certo atto del pensiero ». Il James
accetta e fa sue le dottrine dello Schiller e del Dewey (1) ce proclama:
«Dalla logica scienti- fica è stala cacciata la necessità divina, e al
suo. posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla mostri
melodi fondamentali di pensare sono inven- — . zioni dci nostri
antichissimi antenati e si sono. potuti — conservare attraverso {tutte le
esperienze successive. —
pe (1) Il James considera gli « Studies in Logical
Theory » com | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism
Vorwort, XI, AI ve, 26
Linee fondamentali Essi formano ciò che si chiama «il senso comune
», che, in filosofia significa l’uso di certe forme dell’in-
lelletto e di determinate categorie del pensiero. Noi pensiamo per
calegoric: esse ci sono necessarie per mettere unità e ordine nella piena
confusa, nella Varietà sensibile delle esperienze, per combinare
con meno dispendio di forze possibili le nuove con le vecchie
esperienze, per fare i nostri piani, per con- neltere il iontano
dell'esperienza col vicino, per adat- lare, in una.parola, la esperienza ai
nostri bisogni dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz-
\ zandola. i «Se fra le impressioni dei sensi e i concetti
pos- è». cai È, t ATI tas
siamo trovare rapporti univoci abbiamo già razio- nalizzato le
impressioni sensibili. I senso comune > mette questa razionalità
nelle esperienze (vollzieht diese Ralionalisirung) con vna serie di
concetti, dei î sà quali i più importanti sono i seguenti ; 4
= Cosa (in sè) —- Identità e Diversità — Specie — Spi- x ,
rili -— Corpi — Un lempo — Uno spazio — Soggello b e ullributo —
Influsso causale — Immagini fanta- > stiche — Realtà (1).
9 Queste categorie lrovale forse in momenti felici ai nostri
antenati si sono conservale e sono dive- nule la base del nostro pensiero
per la loro sufficien- za a servire ai fini della vita pratica. Ma
sarebbe possibile che calegorie diverse dalle enumerate po-
__lessero servirci, come quelle che usiamo ora, alla elaborazione della
nostra esperienza. Del resto il Senso comune non è che una fase della
evoluzione dello spirito umano, c, nonostante che la filosofia
_bemipatelica abbia tentato di fissare per sempre le Sue categorie,
concatenandole ordinandole in si- _ stema, Mon si può dire,
tuttavia, che la concezione MICCCALVII È a più i DI lipi o fasi di
pensiero: il naturalistico 6 il car a scienza della natura e la
filos riti hanno. rotto i limiti del pensiero ATao CECI
(1) Finfte Vorlesung, p. 108.
la ll Pragmatismo i 27 Con la scienza
della natura cessa il Realismo in- genuo. Le qualità secondarie perdono
la loro realtà: non restano che le primarie. La filosofia critica
di- strugge lutto: le categorie del senso comune non si- gnificano
più nienle di reale. Esse non suno che astuti provvedimenti del
pen- siero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfug- gire alla
inquietudine in cui ci getta l'incessante cor- rente delle sensazioni
(1). Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di
pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il natu- ralistico, almeno,
può vantarsi di aver servito ai fini pratici quanto il senso comune; si
pensi al Galilei, ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur
trop- po, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 qua- si);
nessuno di essi è assolutamente più giusto e più vero degli altri (2).
e; La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi
particolari. Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue
presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo & presupposizioni
che ne costituiscono la vera es- senza. Il James dice che un aspetto
essenziale del Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della ve-
rità (3). Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «pa- rallela alla
teoria della verità è quella della realtà », e perciò la trallazione della
prima non può andar disgiunta dalla esposizione critica della seconda
(4). A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottri- ne
essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0 applicazioni del metodo
alle due forme oggettivo- soggettiva c oggettiva dell’essere. E
Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci lrattando della
teoria della verità e della realtà nel pragmatismo. \ (1)
Ibid., p. 117. (2) Ibid:; p. 118 Par (3) Der Pragmatismus, p. ki:
Das wdre das Wesen des Pragmalismus: erstens eine Methode und
zweilens cine. gene tische Wahrhettstheorie », (4) Stud, tn
Hum., p. 284, "E lla ate RA A da
LTL II. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA
REALTA Sommario : $ 1. La condotta. — $
2. La dottrina della verità, — j 8. La dottrina della
realtà. SI. — «Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla
condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponen- dlola sopra un
piedestallo all'adorazione del mondo 0 | la deprime perchè venga
calpestata dalle persone i Superiori? In allre parole: qual'è, secondo la
filoso- | fia. lo relazione della lcoria colla pratica della vita,
della cognizione coll’azione, della ragione teoretica colla pralica? »
(1). Così comincia lo Schiller il suo primo saggio del volume: «
Umanismo, — La base È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina
di È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in- bi
tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo della storia
risulla chiaramente un fatto: che le pre- lese delle teorie
antagonistiche (leoreticiste e prali- gra * cisle) sono così larghe e
così insistenti da rendere impossibile ogni compromesso fra loro;
bisogna sce- pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita.
i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un sogno: aul
Caesar aut nullus » (2). Noi sappiamo a giù quale dei due estremi
abbia scelto il Pragmati- sil smo. Invece di supporre che il pensiero sia
altra cosa o dall'azione, esso tralta il pensiero come una forma di
, È condotta, come una parle integrale della vita attiva.
(1) umanism, Essay I, D. 1-2, ‘(2) Id., p. 3.
Sai
Il Pragmatismo Invece di considerare i
resultati pratici come poco o affatto importanti, fa dei valore pratico
un deter- minvute della verilà teoretica. Im una parola: la
condotta, in luugo di svanire nella nullità di una il- lusione, è
ristabilita nel potere di controllo di ogni dominio della vila.
Dal punto di vista pragmatislico della psicologia le- leologica,
inlcsa come s'è vedulo, tanto i problemi logici quanio i metafisici si
presentano in una luce | nuova, poichè vien dala una importanza decisiva
i | concetti di proposito e di line. SH Il Pragmalismo è una
protesta sistematica contro l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie
sul pensie- ro e sulla realtà, la finalità del pensare attuale © i
rapporti delle nustre realtà attuali ai fini della vila; è r'aflermazione
delta basc chica della iogica e della id metafisica. « La valutazione
(cologica è una sfera speciale della ricerca clica, € quindi il
Pragmatismo, To con la sua accentuazione della teleologia in ogni
(campo del pensiero, assegna al metodo lipico «della elica una validità
metalisica » (1), alfermando la su- preva autorità della concezione
etica di bene sopra | da concezione logica di vero € la metafisica di
reale. II bene, il valore pratico © un determinante essen- ziale
così della verità come della realtà. La condotta è la sostanza del tulto.
La nostra apprensione del reale, la nostra comprensione delia verità si
effet luano sempre in esseri che tendono al consegui- mento
di qualche bene: sono penetrate, informate “dalla tendenza a un fine
pratico, dalle esigenze della condotta. pt g 2. — Chi
studia seriamente i processi conoscitivi della intelligenza umana viene
subilo a trovarsi d fronte al problema dell'errore. Tulte le
proposizioni 30 La teoria della realtà e
della verità
logiche hanno l'audace
pretesa, senza riserva e senza d riguardi alle pretese delle altre, di
esser vere. Eppure gran parle di esse non sono che delle menzogne :
non sono realmente vere e la scienza deve respin- gere la loro
pretensione. Per far questo è necessaria una scella di ciò che è
realmente vero dalle verità apparenti: una condanna del falso ed una
ricogni- zione del vero; il logico, in altre parole, deve valu-
tare le ioro prelensioni di verità (1). Con qual crì- levio? Come dislinguere
fra proposizioni che preten- dono di esser veré c non sono, e le pretese
buone che pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il carattere
distintivo della verità? Così si pone il pro- blema crileriologico; e una
teoria della conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata
(@). © Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione
alla quale è stato in qualche modo al- luccalo (attached) ialtributo
«vero» e che, conse- __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La
ve- Tila è la lolalità delle cose alla quale e stato appli- «cato o
è applicabile questo modo di lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla
totalità della nostra espe- _ Rienza» (3). È una qualità di certe
rappresentazioni «© precisamente: l'accordo di certe
rappresentazioni con l’oggello {4). È questa la definizione comune
che | accellano, come qualcosa di evidente, intellettualisti *
pragmalisti. Il dissidio fra le due parti comincia Quando si tratta di
sapere che cosa propriamente si- —_ Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »;
ovvero la «realtà » con la Tuale devono convenire le nostre idee
(5) |, Secondo la concezione Opolare | n BRA { ot ROIO Popolare
l'accordo consiste > In una copia dell'oggetto. Alcuni idealisti affer
ne ue le nostre idee sono vere quando corrispondono. a or \<iò che Dio
vuole che no pensiamo intorno al loro alla /eoria della
*&gello, Altri, streltamente fedeli (1) ScHmzLER:
Stu (2) Id., Jvta. (3) Id., p. 14. Essay Y. @
JAMES, Der Pra i o gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI,
Vor], dies in MHumantsm, D. 3. Essay I Il
Pragmutismo_ 31
i ì tre idee in
copia («copytheory»), dicono che le nostre in nilo sono vere in quanto
corrispondono ai pensieri elerni dell'assoluto. Vediamo quanto valgano
queste concezioni. ; Intanto la verità assoluta,
scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è
caratlteriz- zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla
mutabilità delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-
somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per verità, Ogni verità
umana, com! è attualmente e com'è stata storicamente, sembra fallibile e
transi- toria... le verità del passato sono riconosciute come
errori al presente; quelle del presente sono in via di essere
riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità
umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo
scetticismo che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri-
valutazione e transvalutazione delle verità, che for- ma la storia della
conoscenza, si è ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente
dalle vicis- situdini della verità umana; la quale verità assoluta
si concepisce come un modello da imitarsi, come una misura per la
valutazione delle verità nostre, come una rocca inespugnabile in cui non
può penetrare cangiamento alcuno (1). i Si slabilisce, cioè,
una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale,
che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le
nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso
imperfetto, ma valido, misleriosumente tran- sustanziato per la immanenza
in esso dell'Assolulo e per la partecipazione della sua stessa
sostanza. i Mau l'espediente è fulile e dannoso. | l'utile
perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a mutabile, non può
discendere dagli eccelsi cieli della logica a
trasformare le nostri ‘i Ì La, e verità e a togliere la
transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana, (1)
ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay VIII, p. 204. 32 La teoria della
realtà e della verità dal canto suo, non può SORIrare alle
prerogative so- Rraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta
non può identificarsi, in qualche modo con la umana, e se la cognizione
umana non può diventare assolu- la, non può congiungersi con l'Assoluto,
l'Assoluto per nvi non esiste e non può quindi redimere dal ilusso
perpeluo le nostre verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia
impossibile, si deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità
umana) Cc tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità
lrascendente). La verità umana è fluida, non rigida; temporale
e lemporanea, mon elerna e perenne; arbitraria, non necessaria;
scella, non inevilabile ; nata, come Afro dite, di passione e di slancio
da un Inare schiumoso di desideri, non puramente intellettuale e
spassio- nata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner- tante
; assorbita nella tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non
beala nella. sua com- iiulezza. Questi caratteri della verità umana
risul- tano dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve- tilà.
Essa è discorsiva perchè non puo abbracciare lutta la realtà; © fallibile
perchè è ‘essenzialmente parziale € puo quindi Sempre venir corretla e
com- pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve- rità
assolula si estende al lutto e dipende dalla cogni- zione del lutto. Li
sua ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività (2). Se non V'è
conoscenza conm- pielamente adeguata all'intero sistema della
reallà _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la
no- stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap- punio
perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è generala
dalle parzialità dell'alten- stone selelliva ed'e diretla a fini
parziali. Un abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi
può essere ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi verità
attuale sia in « accordo con la b RP assurdo che Ju he
(I) SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p, 207, via {9) Id.,
4bid. E (4) SCHILLER, 1a., p. 2, i Le
Lia - di
Il Pragmatismo 38 asta ideale, eterna,
Irascendente » come pretendono gli as- solutisti. be La concezione
della verità assolula è anche perni ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la
differenza fra ia verità assoluta e la relativa o non la
percepisce. Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m- .
perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo | Scelticismo sarà
inevitabile. CIÒ è tanto vero che, ‘anche attualmente, la linea di
divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è molto
indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà come
assolute anche le nostre verità. E poichè l’as- soluto non soffre aumento
nè alterazione, egli non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi,
rigetterà come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso al- cuno
nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as- surdo Ja rovina della
teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è aumento, c'è
alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può spiegare,
anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera- zione, e
non ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche
du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro
reale progresso cognosellivo: ud est verilas? È forse un
«accor realtà ; La Accordo » Questa ipotesi reatitiae csfetto, del
fallo. sterno? A LI ‘a — dice ancora lo Schiller ci
conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli
incredibili paradossi, con la cha: 1 SE Rc e
die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI » che «eg hipothesi
» 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS È
e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e
È |< PRE e %% È Da teoria della verità e
della realtà
c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che
la «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della
noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare nella nostra conostenza, è in
qualche modo perfelta e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non
pos- siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen- _ siero,
dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la verilà consista nella
« cocren- za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina- “zione
assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere costruite im
diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze »
sistematiche: biso- cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2).
RR . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è
falso? » Im che consisle la verità del «sistema coerente? » Dal punlo
di visla del razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare una
risposta reale alla questio- ne; non si può indicare nessun metodo
praticabile di ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se
non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con- | seguenze, di
saggiare la validità delle rappresenta- zioni (c dei sislemi di
rappresentazioni); se non rica- | Noscendo uno stadio intermedio, nel
facimento della s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e
tn ideale completo di verità assoluta (3). Il Pragma- smo è
appunto il tentativo dì tracciare il modo del > (I) Id, p. 181,
Essay, VII. (2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a
dottrina _pragmatistica della verità e della A ita «ex professo «
nella quarta lezione (del vol. cit.): Etn- lett uni Vielheit « Unita e
Pluralità. — © pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di
una molteplicità di ct Separati, indipendenti. Si divide in
matcrialistico (Ato- TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico
(Dua» smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulte-
ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London, Longman
Green 1909, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e
pub- mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam-
(3) SCHILLER, Stud. in Hum. Essay I, p. 4.
ce Il Pragmatismo 35
facimento aztuale della verità, le maniere attuali di distinzione tra
vero e falso per giungere alle sue ge- neralizzazioni circa il metodo di
determinare la na- tura della verità (1): mette in luce, in altre
parole, lo sladio intermedio del divenire della verità, il modo
della convalidazione delle pretensioni di verità. Or- bene, come s'è
veduto, non si può spiegare il movi- mento del pensiero verso qualche
cosa senza fare appello a motivi psicologici: desiderio,
sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è possibile descrivere
cosa alcuna in puri termini logici e senza costante ricorso alla
psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi della definizione della
verità sono anzitutto psicolo- gici»; ogni verità attuale è, in primo
luogo «un pro- cesso psichico, c, come tale, condizionato dalla va-
rietà degli influssi psicologici sentimentali e voliti- vi» (3). i
E così anche i sistemi di verità. L'esistenza di un numero di
giudizì cocrenti connessi in sistema non basta per avere da noi la
ricognizione della verità. li «sistema» per esser vero, deve anche aver
valore ai nostri occhi; la tendenza al «sistema» è parte della tendenza
più vasta all'«armonia attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra
esperienza. Il si- stema non è semplicemente un tutto di
consistenza logico-formale, ma anche il prodotto di influssi ema-
<ionali. in vista di soddisfazioni emozionali. Perciò nessun
sistema è giudicato intellettualmente « vero » se non è migliore — in
rapporto alle nostre esigenze -— di un altro, se non abbraccia e non
soddisfa qual- cosa di più che gli aspetti intellettuali astratti
delle. esperienza (4). (1) 1d., ibid., p. 4-5. «
Pragmatism essays to trace out the actual «making of truth», the aciual
ways In which discri- _minations between the true and the false are
effected, and derives from these its generalisations about the metliod
of determining the nature of truth ». ? (2) Id., Humanism,
Essay III, p. di. NI (3) Id., ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol.
A. II, N. 2, Spe- cialmente p. 152 Sgg. (4) ScuiLLer, J/umanism.
Essay II, D. 42-50. ‘36 La teoria della realtà e
della verità Vi sono dei sistemi che, nonostante la loro
coeren- za, non hanno valore di verità, perchè non TiMUON Î
no e non risolvono un senso di disaccordo finale nel- l’esistenza;
tali sono i sistemi pessimistici (1); e n sono delle verità, valutate
come tali, per la loro effi- cienza di armonia sebbene non siano
connesse in si-| slema (2). Non si dimentichi mai — ci avverte
conti- nuamente lo Schiller — che la nostra conoscenza èi
maleriata di inleresse, di desideri e di sentimento; che la verità
e il sistema della verità è il prodotto dei mostri sforzi lelcologici
(3). Da ciò risulla che il pro- hlema della verità è essenzialmente
psicologico, € deve essere formulato così: « Qual’è la natura psi-
chica della ricognizione della verità? A qual parte della nostra
esperienza è applicata questa ricognizio- ne?» (4) N Pragmatismo risponde
: «La verità è una ferma di valore; la natura psichica della sua
rico- gnizione è la valutazione » (3). « La valutazione della
nostra esperienza è un processo naturale ininterrotto in una coscienza
normale. Sponlaneamente, neces- sariamente noi giudichiamo le cose «
buone» e «cat. live », «belle » e « prulte », «vere» e «false». È
l’osi- stenza di quesl’abito che fa sorgere le scienze nor- mutive
rivolle a dirigere e sistemalizzare le diverse valutazioni (per esempio
«l'estelica » per le valuta- zioni del «bello» e del « brutto»; Peolica »
per le valutazioni del «buono» e del « cattivo »). Anche la
(1) 1d., tDid. «AI pessimismo in filosofia » lo Schiller consa- cra il IX
Essay del sno /umanism. Anche il « pessimismo, come ogni sistenin, è un
determinato atteggiamento di fronte alla grande classe di tiudizi che
sono conosciuti come giudizi di valore a, « La Vila è adeguata
all'ottenimento del fine supremo dell'azione* Se St. essa ha valore, è
degna d'esser vissuta; se no, il suo valore è nullo e non merita d’esser
vissuta. Nel pri- Rpanraso abbiamo l'ottimismo, nel secondo il
pesstalsmo LA . (2) Mumanism, D. 50, (5)
Specialmente là dove tratta del ri a e Re ti el rapporto fra logica
(4) Humanism, Essay III, p. 54. (5) «Truth is a form of a
Value ».. Would be no «tru ren o na
er at - * Without valuation there Ri the at all» tv
p. 55. (4 4umunism, Essay II, p. 55. > 7 Il
Pragmatismo . 37 logica è una scienza normativa che ha per fine di
re- golare e di ridurre a sistema le nostre valutazioni di «vero »
e di «falso » (1). Come in ogni altra classe di valulazioni anche
nella valutazione della verità (2) l'inleresse umano è vi- tale, il
che vuol dire: che una verità ha conseguenze (ciò che non ha conseguenze
è senza significato), ha una portata sopra qualche interesse umano, e che
le conseguenze debbono valere, debbono essere conse- guenze per qualcheduno,
in vista di un fine determi- nato, cioè, devono essere «buone» e
«pratiche ». berciò, a tulle Ie asserzioni che prelendono di esser
vere noi dobbiamo intimare: « Mostrateci che siet> buone di una bontà
pralica, e vi riconosceremo pet tali. Voi non avete una ragione
intrinseca di verità; noi dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze:
dal frutto conosceremo l’ albero n. Una asserzione che soddisfa un
interesse umano pratico, che corrispon- de al fini pratici dell'uomo è
«vera»: è vero ciò che è praticamente buono; è falso ciò che è
praticamente cattivo (3). 1 predicati «vero» c «falso» non sono in
fondo che indicazioni di valore logico, comparabili come valori, coì
valori «elici» ed «estetici» (4). Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo,
invece di considerare la verità intellettualisticamen- le, cioè, come un
rapporto puramente statico fra rap- presentazione e oggetto, si pone, di
fronte ad ogni pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una
rappresentazione 0 un giudizio affaccino la preten- sione di verita, noi
chiediamo: Quale diffevenza con- creta produce nella vita concreta di un
uomo quel tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es- sere
vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel
tal giudizio fosse falso (0. 3 (1) Id., bid. La
parentesi è mia |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità »,
perchè que- | Sta fla verita) non è che il processo della valutazione.
Ingl, | «truth-valuation ». ‘ | (8) Stud. in Hum, p.
5-8: 38 La teoria della realtà e
della verità vero)? Qual'è il valore della verità se noi la
cambia: mo în moncla di esperienza? » (1) ue Per il
Pragmatismo porre la questione è scioglier- la: «Sono vere quelle
rappresentazioni che possiamo far nostre, cioè che possiamo far valere,
lrasforma- — re in forza e «verificare», sono false quelle che
non sono suscettibili di lule trasformazione in valore pra-
tico » (2). La verità di una rappresentazione non è una proprietà
immobile che le è inerente: la sua ve- rità è un accadimento: una
rappresentazione non è vera, ma divien vera; è un divenire, è il
progresso della sua auloverificazione (der Vorgang ihrer
Selb- È stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro
che il processo del suo farsi valere (3). E si fa va- È: lere, e si
verifica con le sue conseguenze pratiche, con la sua utilità: anzi il
farsi valere e il verificarsi non sono in fondo che queste conseguenze
(4). Dalla definizione della verità come vulore logico (5) — segue
che lutte le verità debbono essere verificate. Una rappresentazione che
non vuole o non può sol: tomettersi alla verificazione è già condannala.
Essa | può avere lull'al più una verità potenziale, senza si- «|
_°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente “fl da
condizioni non uvverate. Per diventare realmente
da 3 (1) Der Pragmatismus, VI Vor, p. 125. < è» (2)
« Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny die wir
gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hòn- pe; nen, [alsche
Vurslellungen sind solche bei denen dies alles ("g nicht moglich
ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che n sottolinea.
: % (3) Id., 126. E lo SCHILIER: «Che cosa erano le verità prima
p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se «vero» significa
«valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera quando è
scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel LA processo della
verità: verità da venir fatta, verità diveniente, i verità fatta. Il
processo è unico e identico per tutte le verità a. _ Stud. in Huni. p.
195-199. i (4) JAMES. fui. SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono
que: Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti del principio del
EIKCE. \ (5) È la prima definizione del Pragmatismo, secondo
lo. Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud
in Hum.) p. 5. Me: ati t 44
Il
Pragmatismo 39 vera deve venir dichiarata e provata, e non si
dichia- ra nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30. ne
fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue applicazioni (1). Le
verità astralte, come tali, non sono verità. Perfino le verità
aritmetiche derivano il loro esser vere dall'applicazione all'esperienza.
Osservale per esempio ll’ enunciazione astratta: 22=4. Esso è
incompleta. Noi dobbiamo, prima di aderirvi, conoscere a che cosa si
applicano 2 e 4, poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera
applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e due dispiaceri, a
due + due goccie d'acqua, ecc. Così si dica delle verità tutte in
generale (2). Vi sono delle verità fuori d'uso, e vi sono
delle verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita con- creta.
Finchè non operano nel mondo della esperien- za immediala sono ambigue
(3); solo la potenza e le conseguenze del loro operare le tolgono
all’ambi- guilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M
le, vere o false. Le verità sono regole per l'azione; ma una regola che
rimane nei campi dell’astratto non significa nulla, non regola nulla: il
significato d'una legge sla nelle sue applicazioni (4) ec ogni st
gnificato dipende dal proposito (5), perchè qualunque applicazione della
verità all'esperienza è in istretta connessione con qualche fine il quale
determina ta natura dell'intero esperimento. Per ragione della di-
pendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi- (1) E la
seconda definizione del Pragmatismo (ivi p. 6). (2) Stud. in Hum.
p. 9. ; Ria ioè: sono in potenza alla verità € alla falsità. 0)
mind di questo AT delle idee astratte lo SCHILLER nana consacrato un
saggio intero: il V (Stud. in Hum): «The ambiguity of Trutn» p. 141-162.
> (4) Secondo ALFRED SinGWicK_ — seguito in questo dallo | ScuiLcer
— le parole sot.olincate contengono l'essenza del med todo
|pragmatistico, e ne sono la terza definizione (Stud. in Hum, p. 9). .
, (5) Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle due PD denti.
(Id., ibid.). ib pi A 40 La teoria della verità e
della realtà cato è selettivo e teleologico: il giudizio logico è
«va- lutazione » (1). ° Resta da rispondere alla seconda
questione: « A qual parte della nostra esperienza è. attaccata la
ri- cognizione della verità? » i Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo
o neghiamo noi 1l valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi
nella valulazione della nostra esperienza? È «vero» ciò che è
praticamente buono, sta bene; ma che cosa chiamiamo noi «praticamente
buono?» (2). «La risposta a quesla questione — dice lo
Schiller — ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci spiega in
che senso il Pragmatismo professi di avere un criterio di verità » (3). E
la risposta non è diflì- cile. Il nostro pensiero tende all’armonia e
alla quic- te del pensiero, a ridurre a sistema, con un lavoro di
selezione guidala dall’interesse, il complesso della esperienza, a
coordinare, in visla d’un fine, tutti gli elementi della vilu: quindi è
vero, (cioè buono, il che è, per lo Schiller lo stesso) «ciò che
armonizza con le leggi proprie del pensiero e con tulta la nostra
esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di cen- tro vitale per
ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa progredire. Il possesso della
verità non è fine a sè stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche ne-
cessità della vita (5). La verità non è altro che la via, per la quale
noi siamo condotti da un fram- mento dell'esperienza ad allri frammenti
che mette conto di far nostri (6). La verità è una guida all’a-
zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una selva în pericolo di morir
di fame. Scopro qualche cosa che assomiglia ad una strada, immagino in
fondo ad Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi salvo. La
(1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154, passim, (2) Id., ibid.
(3) Id., ibid. (4) IZumunism. Essay JII, p. 57.
(5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127. (6) JAMES, Op. c. p.
128. 2°
Il Pragmatismo | I rappresentazione della casa è vera
perchè è verifi- \i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi
prendere | la strada che vi conduce (1). Questo semplice e per- |
severante carattere di « guida» che possiede e mo- | stra una
rappresentazione è il vero prototipo del pro- cesso della verità. È vera
quando, finche-e in quante |
«conduce n: e si intende vera di verità reale; poten-
zialmente è vera la rappresentazione alla a condur- _ ve, falsa la
inutlu. ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni
soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da ressi
psicologici e mirano ad una soddisfazione s0g- — gettiva, non può formare
che un complesso di verità soggellive, individuali: la mia esperienza è
soltanto n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto valulazioni
mie: come si esce dal soggettivo? non x | siamo in pieno «solipsismo? »
(2) No — risponde lo eo Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista),
facendo na dell'individuale il suo punto di partenza, intende fili
fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali non sono che
una piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa che
l'uomo è un animale sociale e che la verità è in gran parle un prodotto
sociale. La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione
individuale: Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve
trasformar- si in proprietà comune, E diventa sociale appunto per
lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo 3
(1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con: duciveness a
«proprietà di condurre», come di un criterio di Verità, Le «conseguenze
pratiche» non sarebbero in fondo, che questo « Hinfùhren» che permette
poi uni specie di «previ-. sione » di cio che è utile, Cf, a questo
proposito: «La previ- stone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento
A. I, Fa- ‘scicolo II, 1907) di MARIO CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro:
« Per conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari
‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre-
«vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non |
solo della verità e della falsità ecc...» Id., ivid. -& (2) Del
«solipsismo» lo SCMILLER si occupa nel X Essay (Stud. in Hum.) «
Absolutism and Solipsism» 258-265. Per | questione se «l'empirismo
radicale» sia «solipsistico» ctr ournal of Philosophy, vol. II, N.
V e IX. li 42 La leoria della verità e della
realtà Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie
valutazioni soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai
fini principali delia vila, così lo stesso criterio (del- lVuso) fa una
selezione lra le valutazioni individuali e cosfruisce, con maleriale
delle valutazioni scelle, la verità oggelliva che ottiene la ricognizione
sociale. Ciò che non è socialmente ulile, elliciente, operativo, presto
o lairdi viene eliminato. L'utilità sociale è così l'ultimo delerminante
della verità (1). Protagora ha detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1
commen- latori sì domandano: uomo si deve intendere in sen- so
individualislico 0 generico? Tutte e due le inter- pretazioni sono esatte
— dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era abbastanza vasto per
esten- dersi all'uomo individuale e agli uomini (2), Egli ri-
conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per- cezioni
individuali (3): fra i giudizi di valore indivi- duali si stabilisce una
selezione dei migliori, che so- pravvivono agli altri e si consolidano in
grandi siste- mi di verilà oggellive accettabili da tutti (4). Ed
ora SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is made),
«come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali dell'esperienza
umana. La conoscenza. cr'e- sce in estensione e in fidalezza
(trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo
funzionamento, per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-
riale da parte dei complessi organici preesistenti di cognizioni. I
sistemi (come organismi viventi) sono Im un conlinuo processo di «
auloverificazione » di (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.
(2) «His Humanism Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum.,
Ess. JI DI 34. RIS a (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire
a Protagora che, se le percezioni di uno non possono essere più vere di
cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di mo
ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo
ASI LUoO (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi
accettiamo come vera la migliore, quella che possiede «greater
conduci- Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C
astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. (Id.,
ibid.) Il Pragmatismo 49 prova della
propria validità dalle conseguenze e dal potere di assimilare, predire,
controllare fatti nuo- vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel
pro- cesso biologico, così anche qui assimilare significa
transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la
compenelrazione delle nuove, assu- mono un aspetto dillerente e cambiano
in realtà, in- Irinsecamente poichè diventano più operalive ed effi-
cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga- nizzazione; ci
conducono meglio ai nostri fini, acqui- slano maggior capaciià di
armonizzare le esperienze future in reiazione a noi, al nostro interesse
e ai nostri desideri (2). In realtà siamo noi che facciamo la verità.
Dipende da noi l’accettare o il respingere falli nuovi, muove esperienze:
il fattore della sele- ‘zione, è il nostro interesse, è la loro
utilità rispetto a noi. È questo processo di fare la verità è
continuo, progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un intento
conoscitivo conduce alla formulazione di un altro; una verità nuova
diventa presupposizione di ulteriori imdagini (3). I così
all’indefinito: la conqui- sla della verita assoluta, cioè della verità
adeguata ad ognì fine umano non è che un ideale, com'è pura: mente
ideale la verità stabile, immutabile, eterna (4). Ogni verilà può esser
mulala da una nuova espe- rienza. La Verità non esiste: esistono le
verità. « La Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi-
stono nel mondo umano soltanto le verità, altrettante quanti sono
gli: uomini, cioè le rappresentazioni e le affermazioni praliche di cose
che non sono, ma di- vengono, e divengono per il polere che l'io
esercita su di esse, lanto più eflicace, quanto più, con l’azione
esso passa dall'incosciente al consapevole ed al ri- liesso
(5). 4 (1) Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195.
(2) Id,, ibid. 23, (3) «A new truth, when established, naturally
becomes ti e presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.)
E, 4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN a GIULIO VITALI, Note
pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646,
S6g.). de 4h La leorìa della verità e della
realtà Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi-
nizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola
accordo — dice James (1) — comprende ogni processo mediante il quale da
una tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve- himento
fuluro corrispondente ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla
nostra progressiva evoluzio- ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e
di ricono- scere la verilà non è che una parte del dovere ge-
herale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto. Il tornaconto,
contenuto nelle idec, è l’unica ragione che ci obbliga di allenerci ad
esse» 3). k lo Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la
verità? è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della
verilà-valutazione, là verilà può definirsi: «la fun- zione finale
(ullimate) della nostra allività infellel- liva; se si ha riguardo agli
oggetti valutati come Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì
rende Utili primariamente ad ogni fine umano, ultimamen- le allu
perfetta armonia della nostra vita intera che cosliluisce Ja nostra
uspirazione finale » (4). $ 3. — La dottrina della realtà è affine
a quella della verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con
essa. ll principio umanistico di Prolagora è universale: umano genera
e informa lutto ciò che è; anzi...j ma uscolliamo i due leaders del
Pragmatismo. Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a-
niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso ln quella
cognizione di noi stessi dalla quale dipende. li-cognizione del mondo.
‘ale passo in avanti non è Ineno imporlanie di Quello che, nella storia
della fi- losofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolo-
logica la priorità sulla questione ontologica (5). (1)-1d., {bid.,
Vorles, VI, p. 135-136. (2) Id., ibid. e passim in tutta la medesima
lezione. ° (5) «Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten,
ist ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu halten»
(4) SCHILLER, Humanism » III, p. 60-61. (5) Id.,
Ibid., p. 85. : <> at loin |
+ cat ” Il Pragmatismo :
45 Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini ontolo- gici,
era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino a tanto che non si melle
in chiaro come la realtà possa venire in noi, è impossibile qualsiasi
risposta alla questione; non esisfe, per noi, nessun reale se non
in quanto è conosebile; una realtà inaccessibiie alla nostra cognizione è
inutile e quindi si distrugge. Perciò la vera formazione del problema
metafisico è questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1).
La dollrina della reallà è condizionala dalla dottrina della conoscenza;
la ontologia suppone come fonda- mento la epistemologia: ecco quella che
Kant chia- mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».
Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo
rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza
non è una operazio- ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i
nostri interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a noi
delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto quegli aspelli che sono
termine di un nostro deside- rio attuale, di una tendenza a conoscere:
tutti gli altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).
(1) Id., Ibhid., p. 9 (2) Il BERGSON +- il rappresentante,
in Francia, della Philo- sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi
apprendiamo le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere
con- siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti sol-
tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, « Noi cerchiamo
fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o queto, in qual genere
noto rientra, e quale specie di azione 0 di attitudine dovrebbe
suggerirei (Introduction a ta Méta- pliysigue). Cfr. anche La cultura
dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione, trad.
del PAPINI, p. 43. Il Bergson è pragmatista? Risponda lui stesso: «
Bisogna distinguere due maniere profondamente differenti di
conoscere una cosa... la prima si ferma al relativo, l'altra
ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per simboli,
per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og:
getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia intellettuale
per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto | per coincidere con
ciò che ha di unico e per conseguenzi d'inesprimibile; con l'assoluto
»... «La prima nasce dalle esi- genze della vila pratica e non è
filosofica, ma empirica: lil seconda nasce dall’affrancamento dagli
schemi pratici, dal concetti-ctichette ed è quella per cui è possibile la
vera meta- 46 La teoria della verità e della realtà
Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non ciò che è oggetto di
una nostra tendenza, di un no- stro desiderio e volere; e non si
desidera, non sl vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la
questio. «me di fatto (ontologica), nè la questione di conoscen- 3a
(cpislemologica) sono possibili a considerarsi in- — (ipendentemente e
senza coinvolgere come loro base la questione di valore
(psicologico-etica) (1). Le nostre | valutazioni pervadono la nostra
esperienza tulla «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni
cogni- zione. Perciò la verità della formulazione epistema- logica
del problema della realtà è incompleta finchè «non realizza, tutto quello
che è implicito nella cogni- zione nostra: cioè il desiderio, la
tendenza, l’inte- SEEGS 3 La completa il Pragmatismo così: Che
cos'è la realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» si- gnifica:
reale per qual proposito? per qual fine? per qual uso? (2). È la «volontà
di conoscere » che pons la questione e quindi non potrà venir risolta che
in termini della volontà di conoscere (3). Ecco la spie- | gazione.
della diversità di dottrine che intorno al «reale» ci hanno dato le
scienze e le filosofie. La di- x rezione della sforzo determinata dalla
«volontà di * conoscere» entra come fattore necessario e isradica-
IN Di
ar v fisica, cioè la cognizione dell'assoluto » (Ibid.}
passim). E an- cora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre directement,
sans faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir er non
plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice, p. 323). JI Bergson
riedifica sulla intuizione il tempio dell'Assoluto che prima aveva fatto
crollare dimostrando l'inanità dell'ana- list, della cognizione per idee
astratte. Poco importa che non ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di
Enrico Bergson di Gius. PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA,
L'intui- zionismo contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT
ecc...) La distinzione delle due differenti maniere di conoscere;
in- tuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente
inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora, (1) Z/umanism,
I, p. 9-10. (2) Id., Ibil. (3)... the answer... comes in
terms of the will to know which puts the question» Ibid., p. il.
Il Pragmatismo urti . bile (ineradicable) in
ogni rivelazione della realtà a nol. i La risposta alle
nostre questioni dipende dal loro carattere, ma questo dipende in tutto
da noi. Siamo noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del
tutto nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della nalura o
l'astenercene; dipende da noi il formulare le nostre domande alla natura.
Se la domanda è falla bene la nalura risponderà; se è fatta male
non risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova (1).
ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or- dine.
Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at- « lribuiscano alla
realtà le scienze. . Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è
trattata nelle scienze, la realtà presenta i seguenti
caratteri: a) non è rigida, ma plastica e capace di
sviluppo. h) non è reale assolutamente e incondizionatamen-
le, ma relaliva alla nostra esperienza e dipendente dallo stato della
nostra cognizione. 7.6) La concezione che noi abbiamo della realtà
cam- bia e perciò: d) riduce spesso all'irreale ciò che è
slato accettalo lungo fempo come reale. e) Una
«realtà iniziale» (come una «verità ini- ziale») è reclamala da ogni cosa
sperimentabile: è necessario, CENCI un principio selellivo che ci
serva come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale » e
«realtà reale » (2). (1) «M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa
ha due ma- Michi: bada di prendere quello giusto ». Emerson,
American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La
natu- ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... «
Natura Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti
bene Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in
corri. spondenza con altre loro asserzioni. (2)
SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo tto Ja differenza fra
realtà «iniziale» (primaria) e realtà reale». : VELA
i
48 La teoria della verità e della realtà Contro la
dottrina scientifica il Razionalismo af- ferma: «La reallà è immutabile,
è finita e completa . da tutta VPeternità (1). Essa è una perehè
ha un fine uno, forma un sistema, narra un'unica storia (2).
La nostra esperienza della realtà è mulevole come la nostra cognizione
della verità, non perchè verità e realtà divengano, mutino, ma perchè la
esperienza dell'una e la cognizione dell'altra sono processi psi-
chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e Realtà sono indipendenti da
noi: noi le scopriamo, cono- scendo, non le fucciamo. La realtà
è-stalica, rigida, uon migliorabile; è e sarà quello che è stata;
non diviene 4). Il Pragmatismo si pone dal punlo di vista
delle scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e dan- nosu
come la verilà assoluta per le medesime ra- gioni. Lu concezione della
realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione attuale della realtà
(5); non e conoscibile, il che è quanto dire: non esiste. Non
esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre esperienze, che
crescono e decrescono. Fingiamo che le realtà ora conosciute e
accetlate siano un milione : tsse non esauriscono tulle ie
possibilità dell'univer- SO: VI possono esistere accanto ad esse allri
dieci milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come lalî
se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro potere: molle
realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir realizzale
dai nostri sfor- zi E viceversa: molle delle realtà conosciute pos-
sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir- leali e rigellale
(6). Non v'è nulla di assolutamente posto. La realtà come la
verità, diviene senza posa (7). La natura (1) James, #0id., VI,
Vorl. p. 143 (2) Id., ibid., IV Vorl, p. ot. (3) Id.,
ibid., D.. 143. (4) Id., tbid., passim. (5) SCHILLER.
Stud. in Juri, VITI D. 219, (6) Stud. in Mum., p. 218. (7)
1d., ibid. È lui che sottolinea. iii - —
—_ _—_ Sali I Il Pragmatismo 49
delle cose non è delerminata ma determinabile come quella dei
nostri simili. Prima del nostro esperimento su di essa è indeterminata
non solo per la nostra ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto
di vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si de- termina
sotto i nostri esperimenti come il carattere umano. La nozione del «fatto
in sè », come quella della «cosa in sè, è un anacronismo filosofico
(1). Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa facciamo i
nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di pendente da noi?
Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa di postulato, una
base iniziale di fallo, come condi- zione dei nostri esperimenti (2), ma
quesla prima base è affatto indelerminala e plaslica: può diven-
lare tullo quello che nvi vogliamo che essa diven- li {8). Fra le
infinile possibilità noi possiamo sce- gliere e realizzare la migliore
(4). Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia realtà
iniziale prima, della base di fatto dei nostri esperimenti? »
E come può ammetterla il Pragmatismo se essa sfugge alla nostra
esperienza, se non è conoscibile?» Schiller risponde: «La
difficoltà di concepire nel Pragmalismo l’accellazione del falto come
base non dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=*
matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo lulto il suo
significato. Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever
luce la distinzione importante tra realtà che è «fatta» soltanto
per noi, soggettivamente, cioè «scoperta », e ciò che noi supponiamo che
venga «fatto » real (1) Humanism, p. 12 in nota (2) Stud. in
Mum. vp. 428-XIX. x - (8) EMERSON scrive: «Com'era
plastico e fluido nella mano di Dio, così Il mondo è in mano nostra».
Queste parole sem: brano un commento alle parole dello Schiller: « Noi
possiamo quanto può Dio nello schema intellettualistico di
Leibniz». «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare
nella formazione del inondo », ibid. (4) Stud. in Hum. p.
219, VIII. Pragmatismo - 4 50 La
teoria della verità e della realtà
mente, oggettivamente,
in sè (I). Che noi facciamo tale dislinzione è chiaro, ma perchè la
facciamo? Se tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della
rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello slesso processo
cognoscitivo, sotto l'impulso degli sforzi soggellivi, come può sorgere o
mantenersi, da ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia-
«ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci ;
costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer- i mare «the
making of reality » in senso oggettivo. Sia È può benissimo
concepire quel facimento come pura- | mente soggettivo, solo in rapporto
alla nostra co- quizione della realtà e punto in relazione alla sua
esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della me- lafisica, ma della
epistemologia: si può essere prag- mualisli in epistemologia e realisti
in metafisica (2). Sia che si ammetta, sia che si neghi che la realtà
è fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero che sono
necessari i nostri sforzi per iscoprire la _‘—‘vcealtà, che i
nostri desideri, i nostri interessi deb- è bono anticipare le
nostre «scoperte» e farci la via id esse e che, perciò, la nostra
concezione del mondo .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva
di Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi-
stenza (3). } .__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo
i no- Sti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel Jlusso
omogenco degli eventi (4). Per noi la realtà iniziale è pura
potenzialità, come la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di
tullo | ciò che è deslinalo a diventar reale (5). È un concetto
# Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia ; U.C0E
e; è la possibilità indeterminata di __ lutto cio che sarà, di
lutto ciò che noi facciamo, co- nuscendo: ogni realtà attualmente
riconosciuta si
() Id., ivu., p. 428, XIX Gi
(2) Id., ibd., p. 42) «in nota», (3) Id., 40id., p. 499-XIX «in
nota», i) Jd, ibid, IN p. 299. (9) Jd., ibid., XIX p. 222.
(6) Ia., ibia., p, 12 in nota, È Il Pragmatismo 51
deve concepire come evoluta dal processo e nel pro: cesso
conoscitivo nel quale ora la osserviamo e come destinata ad avere una
storia (1). Per la teoria prag- inalica della conoscenza i principî
iniziali sono lel- teralmente dei semplici termini @ quo, scelti
varia- mente, arbilrariamente, casualmente, nella speran- sa e nel
tentativo di avanzare verso qualche cosa di meglio (2). lullo
ciò che è, è reale. Bisogna distinguere fra vealtà «primaria» (primary
reality) e reallà reale (real realtty). La realtà primaria è semplice
domanda di divenir reale: è la realtà non veryicata © com- pele
anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè criterio di distinzione a
priori fra apparenza e realtà. La distinzione sorge soltanto quando la
mente, mos- sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa
passa a controllarla (3). La reallà «primaria » che ri- sponde alle
noslre domande interessate diventa real- la «reale»; quella che non
risponde ad esse si ma- nifesta come apparenza. La realtà «reale» non
è che la realtà primaria passata a traverso il fuoco del criticismo
esperimentale e promossa a un grado su- periore (i). I poiche gli
interessi crescono. e variano continuamente e i propositi sono
continuamente dif- terenziati, anche la realtà « reale » cresce in
comples- stla, viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano
in sistemi, i sistemi vengono coordinati e- subordi- nati fva loro
(5). E così all'inciciimto. Il processo della nostra co-,
suizione della realtà (= della nostra creazione delle reullà) si estende
dal caos assoluto fino alla saddi- sfuzione assoluta (6).
(1} 14. td. (2) ju., tbid., p. 439. (3) Id., IX, p. 233-234,
«Watever is, is «real» ls what we begin with,.. (4) Id., p.
244... «real» reality which has survived the fire of criticism and
been promoted to superior rank. - Le conse- % | guenze provano la realtà
come provano e fanno la verità, (6) Id., ebid., VIII 221.
SCART ROTA À ge 52 La teoria
della verità e della realtà La realtà è plastica. Forse (1) la
lasticilà del reale dipende (anche) da una vena di indeterminazione,
di libertà che corre per l'universo: questo giustifica il nostro
trattamento delle idee come di forze reali e Passerzione cho il nostro
fare la verilà è necessarla- menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo
facciamo la verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva.
della nostra esperienza «reallà» e «verità» cresco- no pari pussu (3).
Realtà significa « realtà per noi» precisamente come verità è «verità per
nol». Noi assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto » ciò
che giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è il bene, l'ulile; l'elica,
dunque, è la base della me- lafisica e della logica. È il
James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione,
debbono controllare. Da que- slo punto di visla la corrente delle nostre
sensazio- ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono
imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab- biamo nessun controllo sulla
loro natura, sul loro ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono nè
vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù che noi diciamo di
esse, i nomi che diamo loro, le teorie intorno alla loro natura, al loro
essere, ai loro rapporti possono essere veri o falsi. Il
secondo elemento della realtà è costituito dai rapporli tra le sensazioni
e le immagini loro nella 4 (1) Siamo in piena metafisica e come!
Non solo la livertà è nel reale ina anche la cognizione. « L'usare e
l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere conosciuto («to use and
to be used includes to know and to be know»). La nozione della «
materia » morta... non trova più favore nella scienza mo: derna » — «Bul
is not this sheer hylozolsm?2 Non importa: l'umanismo è largo: non
indietreggia davanti alle parole « ilo- zoisino » 0 « panpsichismo »
posto cne siano utili alla interpre- tazione del basso (inferiore) in
termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo, tuttavia esso
inclina a questa 0 & quella metafisica secondo che meglio corrisponde
a’ suoi ca- noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p. 422-4na.
(2) Id., p. 427. (3) Id., p. 426. (4) Id.,
20i4, (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr arde è
RS | eee VI
Il Pragmatismo nostra coscienza. Di essi
alcuni sono variabili e ac- cidentali; p. es. quelli di spazio e di
tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed essenziali perchè si
fon- dano sulla intima natura degli oggetti corrispon- denti.
Gli uni c gli altri di questi rapporli vengono perce- pili
immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe- cie di falli più
importanti per la teoria della cono- Fi scenza è l'ullima, perchè
comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono apprese
ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto fra loro
e | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e >
gico-matematico. : Il ferzo elemento della realtà consta delle
verità È antecedenti che debbono esser prese in considerazio- es ne
in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone | molto minore
resistenza degli altri due: finisce quasi ty sempre col cederci il passo
(1). i Ora, sebbene questi elementi della realtà siano un
po’ fissi, tuttavia, operando in essi godiamo di una cerla libertà. Le
sensazioni, p. es., sono, è vero; il loro essere non dipende da noi; però
dipende da noi, dal nostro interesse di rivolgere l’attenzione a
que- ste più tosto che a quelle; dipende da noi di tener + a conto
di alcune e di tralasciare le altre; dipende da noi di dare, nei nostri
giudizi, una importanza de- + cisiva alle prime 0 alle seconde (2).
LS Noi leggiamo le stesse cose diversamente secondo il punto
di vista da cui le guardiamo. La battaglia di Waterloo è considerata come
riltoria da un ingle- ‘se, come sconfitta da un francese. Così l’ottimista.
legge nell'universo la parola « vittoria», il pessimi.
(1) Id., îbid, Come? tra le verità
antecedenti vi sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima
struttura dell'oggett mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore
non è i discutibile? non formano esse la struttura del nostro
pensiero? ‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero
logico-matematico? À parte questa incoerenza, è certo che il James non sl
pre «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol
sembra di trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel |
lettualista autentico. Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin
d’Epistemologie » p. 278-298. = (2) James, î'2d., p. 156,
pers
i: La teoria della verità e della realtà È, sta la
parola «sconfitta». «La esistenza della real- © tà appartiene (ad essa)
ma il contenuto suo di- pende dalla nostra scelta, e la scelta dipende
da | noi» (1). La realtà è muta. Le sensazioni dei rap-
(SAh porli loro non ci dicono niente intorno alla propria natura:
siamo noì che parliamo per loro. Noi rice- 2 viamo il blocco di
marmo, ma siamo noi che vi scol- piamo la statua. Giò vale anche
per le parli « eterne » della reallà. Noi scompigliamo le nostre
percezioni Mei rapporli inlrinseci e le ordiniamo a nostro
pia- . cere; le classifichiamo in serie, le raggruppiamo in
classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come fon- damentale, finehè le
nostre credenze formino quei sistemi di verilà che conosciamo solto il
nome di lo- gica, di geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli
‘sistemi la forma e l'ordine è evidentemente opera (umana
(2). È difficile parlare di una realtà indipen- «| ‘dente dal
nostro pensiero. Essa si riduce al concetto di ciò che è già nel
campo dell’esperienza, ma non è | @ncora denominato, oppure
all'assolutamente mulo, o a, un limite puramente immaginario della
nostra coscienza (3). Ad ogni modo è inaccessibile, inaffer-
| rabile: quando crediamo d’'averla còlla noi ci tro- viamo lra Je
mani un semplice surrogato, una crea- . lura del pensiero umano
anteriore che ce l'ha rega- lala per il noslro uso e consumo (4).
La corrente delle sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi
di- ciamo di quel flusso è creazione nostra dal principio
sino alla fine. Noi condensiamo la corrente plastica | în
cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e 1 predicali*dei
nostri giudizi veri e falsi: tutto cià «che è, è frutto della
nostra elaborazione. «Il mondo «| non è — come vogliono i
razionalisti — l'edizione in
(1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit
gehòrt ihr, aber hr Inhalt hingt von der Auswal ‘ RO vahl,
und die Auswahl hangt (8) 1d., p. 159. | (a) Ia.,
ivia. Il Pragmutismo 56 folio infinita,
l'edizione di lusso elernamente com- plota che le coscienze individuali
non riescono a de- cifrare nella sua interezza e rifanno in lante
piccole edizioni finite, piene di errori di stampa, più o meno
deformate e mutilate; ma è un’edizione non ancora perfetta, che viene
completandosi a poco a poco spe- cialmenle per l’attività degli esserì
pensanti » (1). E questi la stampano nelle loro edizioni; la
plasmano nei loro schemi connoscitivi, in mille modi diversi,
secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri, hanno tutti lo
slesso valore di verità se rispondono al fine per il quale furono
elaborati. L'anatomico con- sidera l'individuo come un organismo:
la sua realtà sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples-
È so di cellule, il chimico un insieme di molecole (2). Il n
numero 27 si può considerare come la terza potenza di 3, come il prodotto
di 3 e 9; come la somma di 26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo
creatori nel 0, conoscere come nell’operare. Il mondo aspetta la sua
forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo apre nuovi orizzonti
alla forza divino-creatrice del- Puomo (3); così il pensatore è rivestito
di dignità LI nuova piena di responsabilità. 6
i Noi «solleviamo ad altezze nuove la realtà pree- » sistente » se
sappiamo credere, agire, lottare: la fede ci fa salvi, ci porla
alla conquista dell'universo, ul niglioramento progressive della realtà
(4) La no: stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fata-
lismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar: cobaleno: vi
troviamo tutti i colori, a nostro grado: la noslra azione ve li crea (9).
a VP | (1) 10. ibid., pi 165... Cfr.: La cultura
filosofica, N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la traduzione delle parole
qui citate. i (2) Id., p. 161-161; passim. Ù (8) La
frase è del PAPINI, «der Fiihrer der italienischen V80 Pragmatisten »
come lo chiama il JAMES, ibid., p. 104. NP». int (4) Le parole sono prese
dall'EuckeN ima non si ha alcuna e) citazione di opera; EUCKEN parla di
una « Erhohung des vorge- i fundenen Dascins » -- p, 163.
ine. (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life
glitters ti în all the colours». /fum, 16, \?,
uindi, o uomini, imparale a conoscere
voi stes- vi consapevoli delle vostre vocazioni; in- allargate le
vostre finalità: sollevatevi i | dominazione in dominazione; sappiate
volere e sappiate creder?, cioè uermare con tutto il vostro essere
che le cuse stanno realmente come voi le po- ele, © le cose vi ubbidiranno,
e la fede \} farà salvi, ioè vi permetterà di conseguire i. fini della
vostra esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esi- ste in
sè; ma parlate, pensale, agile come se real ente fosse tal quale voi la
vedete, voi non servi, na padroni suoi © suoi fallori» (1).
‘Questa è lu dottrina della realtà sostenuta dal agmalismo.
INI. LA RELIGIONE ‘NEL
PRAGMATISMO “Sommario: x l. Le preoccupazioni etiche
e religiose. — $ 2. L'esistenza di Dio. — $ 3. Il concetto di Dio.
— \ 4. Religione e religioni. g. 1. — Esporre con una certa
ampiezza le dottrine pragmaliste, senza fare un posto speciale al
modo con cui in esse sono presenlali e risolti i problemi
religiosi, sarebbe una mancanza grave. — Chi ha studiato o lello
con amore, le opere — al meno le principali — dello Schiller e del James,
sa “che, allraverso ad esse, si sentono passare, come n fremito,
più o meno distintamente, due preoccu- | pazioni; luna, più generale, che
tulto pervade, tulto “colora, tulto fondamenla: la preoccupazione
etica: l’altra, più speciale, che nasce dalla prima come condizione
necessaria o postulato del coronamento dei valori e delle esigenze
eliche: la preoccupazione — religiosa (I). È vero che questa
(la religiosa) nello Schiller non è così intensa e così manifesta come
nel James; lo (1) Per questo io credo che, se si può e si deve
parlare di nn pragmatismo religioso (e così pure di uno
epistemologico, metafisico ed estetico) come di un complesso di applicazioni
del principio del Peirce alla religione (alla metafisica cecc.), non si
può invece parlare di un pragmatismo etico, come di lina specie 0
soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma- ismo è etico: l'etica è
alla base della epistemologia, della me- a Lab della SESLIgione °, della
IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo Schiller non se ne son Ù A
articolare, Il non ne sono occupati 5
0 58 La Religione nel Pragmatismo Schiller — il véro
filosofo del pragmatismo, sebbene meno popolare del James — ha lavorato
sopratlulta a stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio:
il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra at- tività e di ogni
prodotto dell’altività umana: tutta- via sono numerosi i saggi nei quali
egli si occupa ex-professo, più o meno largamente della religione,
V, e da per tulto si sente che per lui la religione vale. - Del resto:
non ci dice lui stesso, espressamente, che il pragmatismo «non è soltanto
un movimento che riguarda un insieme di dottrine tecniche intorno
al 7 problema della conoscenza, ma anche un tentativo di
determinare i rapporti tra «fede, ragione e reli . gione?»
(1). Quanto ai James è nolo — per la sua stessa con- fessione
— che la prima applicazione da lui falla del principio del Peirce fu
un'applicazione ai problemi KS. religiosi (2). Ed è noto del pari
che, dal giorno del ; suo primo discorso pragmatista all'Università di
Ca- È lifornia (1898) fino all'opera: « A _Pluratistic Univer-
| Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie forme
dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism »,
lulte le
volte che gli si presentò l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo,
i più fondamentali tra i pro- i blemi della religione. Il James fu un?
anima carat- - leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :
«Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il inisticismo
del grande pensalore svedese Swe- dlenborg, il principio del quale era la
relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa
«dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James»
(3). Egli lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella
fedeltà alla crc- denza che fuori del mondo del nostro «pensiero
co: Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le energie
capaci di arricchire e di trasformare la no- 4
(1) Studies in Humanism, Essay XVI, p. (2)
Pragmatismus, p. 29. |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5
Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale, 349, SEE.
culi * Il Pragmatismo 59 stra
vila» (1). «Chi sa — scriveva egli, conchiuden- do un’opera classica
sulla religione — se la fedeltà di ogni uomo alle sue umili credenze
personali non possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen-
{e ai deslini dell'universo? » (2). Aggruppo l'esposizione intorno
a questi tre punti: 1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.)
Reli- gione e Religioni. «2. — Cominciamo col James,
La storia della filosofia è in gran parte la storia del conflitto
dei temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il riflesso del
carattere intimo del- l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento;
ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno che
un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria
insapula, o deliberata- mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega
il sor- gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.
Noi possiamo distinguere due principali tipi spi- rituali d'uomini
aventi caralterisliche affalto diver- se: l'uomo dalla (empra tenera
(lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il
tipo simpatico c il cinico (4). Mettele questi due tipi
profondamente diversi in faccia all'universo e chiedele loro una
dottrina: a- vrele da una parle il malerialismo sensualista, con
lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo, come traduzione
del temperamento rude e cinico; dall’altra lo spiritualismo con contenuto
ottimistico, quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.
L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due
lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il
loro speciale rilievo di opposi- | zione davanti al problema
dell’esistenza di Dio. Il (1) L'Expérience religleuse, p.
436. (2) /ui, p. 437. : Li Mi (3) JAMES, Der
Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p.
20 (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »
- ? 60 La Religione nel Pragmatismo complessa
delle cose che vediamo, che esperimentia. mo e che abbiamo convenuto di
chiamare « mondo » sono il prodotto della materia o di Dio esistente
fuo- ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le cose 0 e'è
anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il quale non sarà risolto mai — e
la storia è là a di- mostrarlo — in base alle vuote, astratte e.
sottilis- sime discussioni sull'essenza intima della materia € sui
suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h- telleltualistiche de!
Dio che è in questione (2). Ogni speculazione è impotente — di fronte al
materiali- smo ateo — a dare una solida base razionale alla re-
ligione: i due grandi (entativi sistematici di dimo- strazione
dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti- ‘co e l'idealismo
trascendentale — hamno fallito al loro scnpo. ‘Tulli
conoscono gli argomenti classici della filo- solia Scolastica. Ebbene,
Hume, col cacciare per sempre la causalilà dal mondo fisico, ha reso
impos- sibile ogni inferenza dal creato a una causa prima; del
resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di fondamento a tutta
una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio, l'immortalità e la
li- berlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono parole vuole
di-senso dal punto di vista della cono- scenza (corica, e ha fatla
giustizia una volta per sempre della vecchia leologia, che ora non regna
che nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario. Il
darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova per mezzo delle sue
cause finali. L'ordine e il disor- dine che noi troviamo nel mondo non
sono che in- venzioni umane: chiamianio ordine ciò che corri-
sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne (1) I metodo
praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra- duzione PAPINI).
(2) Occorre far notare che questa visione degli ontologi non è da
confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione sorda e vivente,
della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT, Insuffisance des Philosuphies
de l'Intuition, p. 129, Sg. Il Pragmatismo 61
allontana (1). Finalmente il pragmalismo, cacciando - dal mondo la
necessità logica, ha tollo ogni speran- a di una soluzione per coucetti
del problema in que- stione, di modo che le prove dell’esistenza di Dio
non sono valide che per coloro che già credono in Dio
i e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3 3
i A “pre credenza (2). ; L'idealismo
trascendentale non è più felice nel suo SG tentativo di dare una base
solida alla fede: vedremo quali assurdilà sono implicite nel concetto di
una coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x - inondo:
vedremo a che si riduce l'Assoluto. e «E allora? Quale altra via rimane
aperta per risol vere il problema? Già nell'opera : La volontà di
cre- dere, il James assegnava ai molivi emozionali un valore
definitivo, nel casu che l'intelletto non poles- E se offrire delle
ragioni sulficienti per l'adesione a i doltrine di caraltere religioso.
La via è aperta: met- liamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per
il pragmatismo si risolve in questa, più determinata e più chiara:
«Quali conseguenze pratiche importa (| per la reallà, per noi,
l'esistenza di Dio?» Se prali- = camente, cioè dal punto di vista del
criterio della uti- .lita pratica, la negazione dei malerialisti vale
quan- lo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equi-
valenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il di lato e il
valore pratico (9). 7 | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione di
Dio o prodotto delle forze materiali può essere con- pe sideralo da un
doppio punto di visla: relrospettivo + e prospettivu. lFingiamo che il
mondo sia completo. ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di vista
retro- | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri sultali
buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun-
>* (1) Jaars, L'Expérience
religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331. ia a
JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui qui déjà croit
en Dieu ces arguments sont solides... La On {ltoure... des arguments pour
défendre ces croyances le doit les trouver ». : di Ò NI
Vol., p. 59; L'Experience (3) JAMES, Der
Prugmatismus, religlouse, pas. 132. INA La Religione
nel Pragmatismo
que aumento e
qualunque alterazione. Da un mondo lale noi non avremmo nulla da sperare
e nulla da temere, perchè il potere creativo, qualunque fosse
slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che è, che è irrevocabilmente,
in tulle le sue particolarità: uno dono che ci è stato dato e che non può
essere ripre- ì so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il
valore «di Dio, sc ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo
mondo già trascorso? » (1). Egli non varrebbe niente più del suo mondo;
da lui, come dal suo mondo, non avremmo nulla da sperare e nulla da
lemere, poichè egli, secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere
6 aggiungere a ciò che è. A un Dio simile noi saremmo riconoscenti per
quello che ha fallo, non per altro. lì ora prendiamo l'ipotesi contraria,
che, cioè, le parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» po-
lessero fare lullo quello che, nell’ipotesi precedente Da fatto Dio:
saremmo noi loro meno riconoscenti che a Dio? «In che soffriremmo noi
mancanza se lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo respon-
subile la sola maleria? Come, essendo l'esperienza definitivamente cd
irrevocabilmente ciò che è sfata, “polvebbe la presenza di Dio in essa
renderla più vi- vente e più ricca al nostro sguardo?» (2) «
Chiamia- mo materia la causa del mondo e non leviamo nep- pure una
parle di quelle che lo compongono; nè, sc chiamiamo Dio la causa, esse
aumentano ». Dunque «materia e Dio significano precisamente la stessa
| cosa, cioè il potere, nè più né meno, capace di fare | questo mondo
celerogeneo, imperfello e tuttavia ter- | Minato », e perciò «la dispula
tra il materialismo e il leismo diventa, in questo caso, oziosa e
insignifi- ante». Se la presenza di Dio «non porta un giro v lin
risultato differente all'insieme del mondo, non Ù può certumente
accrescerne la dignità; nè gli (al: RE TIE
(I) JAMES, 12 metodo pragmatista, in Saggi È :
MES, li SI, gi pragmatisti, x D. 15-17. Noto una volta per sempre che le
Datore Calo da 3 Saggi pragmatisti, e messe tra virgolette sono della
traduzione | del PaPINI e del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL
Metodo | pragmatista dall'inglese, | (2) James, 0 Metodo
Prag matista, pp. 16-17; Dì mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis:
— JI Pragmatismo 63 -
mondo) verrebbe nessuna indegnità se Dio non hi fosse e se gli
atomi rimanessero 1 soli attori ch È scena» (1). È saggio colui che volta
le spalle a siffat- ‘la inulile discussione (2). 3 ‘Meltiamoci ora
a considerare il mondo da un punto di visla prospellivo; poniamoci «
questa volla nel inondo reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu-
ro, che è tullavia incompleto... ». ; 3 «In questo mondo non finilo
l’allernativa di «ma- lerialismo o teismo è intensamente pratica».
Essa si può formulare così: «In qual modo il programma della nostra
vila è allo a variare, secondo che si con- siderano i fatti
dell'esperienza come configurazioni di atomi senza finalità (materialismo),
oppure come dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero che
in questo mondo non finito la materia fa prati camente lutto ciò che può
far Dio, che essa equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni
legiltima ri- chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia,
di cui paria Spencer, per la quale si compie il pro- i cesso
dell'evoluzione cosmica, è veramente un prin- | cipio di perfezione
infinita quanto Dio? ». (8) Vediamo. Secondo il materialismo e la sua «
teoria dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione
della materia e del moto» sono rivolte incessante- _Inente al
disfacimento del mondo, «a dissolvere tutte le cose che hanno falto
evolvere ». Così il Balfour cl rappresenta l’ullimo previdibile stato
dell'universo quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le e-
Nergie del nostro sistema si consumeranno ; la gloria del: TR cselrata, e
la terra, inerle e desolata, a disturbato 1a oltre la razza che per un
momento E SS GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel EF va suoi
pensieri periranno. La inquieta a... le «azioni immortali » moriranno, e
l'a- i More, più forte che la morte, sarà come se non foss _ mai
slalo. Nè vi ‘'à Il i i sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio
i fu) Ivi, PP. 17-18; pp. 59-63. a (2) Ivi, p. 81; p. 61.
(8) d04, DD. 18-21, pp. 63-64/
64 La Religione nel Pragmatismo per
lulto ciò che il lavoro, il genio, la devozione e la sofferenza dell'uomo
avranno fentalo di effettuare durante età innumerabili » (1). Dunque la
sorte ulti- ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose
cosmica- mente evolute è tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è
slalo: non un'eco, non una memoria: la rovina sarà universale. È si noti:
« questa rovina e trage- dia finale sono nell'essenza del materialismo
scien- lifico. Le forze più basse, e non le più alte, sono le forze
eterne o quelle che sopravvivono ultime nel solo ciclo di evoluzione che
noi possiamo definiliva- mente vedere » (2). Ma se Dio
esiste, i risultati pratici dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri.
« Un mondo che con- lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi
ar- derè o ghiacciare, ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre
ar vecchi ideali e ne assicura che al- riveremo a goderne; perciò il naufragio
e la disso- luzione non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno
di un ordine morale eterno è uno dei più profondi bisogni del noslro
cuore... ». «Qui giacciono i significati reali del
materialismo e leismo...; matlcrialismo signitica Ja negazione del.
l'ordine morale eterno e l'esclusione delle speranze ultime; il teismo
significa l’afiermazione di un eler- no ordine morale e dà libero corso
alla speranza » (3). Un'altra conseguenza pralica di grande
importan: za deriva dalla affermazione feislica: il sentimento
d'intimità col mondo. I mulerialismo con la sua visione
impersonale dell'universo ci pone di fronte a una realtà muta, in:
differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò che crea, senza
curarsi del bene e del male, e dei biso - gni umani. I bisogni
umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il quale si dovrebbe avere dei
riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come una (1)
BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30, citato dal
JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus, pp.
64-65. (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D. 66.
(3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg.
65 Il Pragmatismo = rrasca, 7 are in burra
sopra: unt ma senza tre- qui epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj
venti e le onde c iizoirenomoni Uasc due i i non siamo che degli €} gli
eventi (1). Come otza (dol flusso irresistibile deG Letta così
falla? È Si simpatia e amore per o a senoi mettiamo 6, invece,
nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n Dio una som idenzar allora. lime
al nostro cuo- | ù calde, viù vicine a e voni saremo più estra-
"o pensiero : > e al Nostro La non lo saranno a noi. Ri Mg
ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe dire Da un punto di vista DER
fra il maferialismo e il le la differenza che passa fra de senlire i
no: CE "nali el concepire e sentire ; O spiritualismo) nel
concepire : I ROGIE BLOGO SÌ differenza sociale. £ i rapporti col
mondo è una eee iamo malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn {ra
socio, il mondo, difidenti e USE E guardia che non ci GU slringorit
Spiritualisli noi possiamo fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE n ere
fidenti sulla nostra " tai Ise peosstere ident so utile, che
on ai Rostri bisogni emozionali, che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle
nostre esperienze sulla Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle
do- — mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della |
Verità, noi dobbiamo concludere che il (eismo è vero © il materialismo è
falso. Vi sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare conclusione in
favore dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli produce differenze prati
porti call'universo; se c'è un Dio, renze « nella sorte finale del mondo
: lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei
nostri lap- questo s'è vedu- i produca differ .
Ina durante tutto il ere che l’esistenza di Mella sorte
finale do» (3) Ammetl ì, L'Expérience
religieuse, D. 409, 411. >, Il Metodo pr agmut., p. 15; 4
Pluratistie Univer Il Met. Ppragm., p. 25. Egli produce
diffe È più: se c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che
egl enze non solo, | corso del mon- Dio non possa a
66 La Religione nel Pragmalismo
— cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare
‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap- punto in quelle
differenze che debbono essere ammes- se nella nostra esperienza, ove il
concello sia ve- “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un
‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza
fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica
pura c semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la
realtà tolale e pie- ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di
espe- ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che (ci dà
una massa di esperienze concrele affalto ori- «_—‘ginali. «Se voi
chiedete cosa sono queste esperienze vi dirò che sono conversazioni
coll’invisibile, voci e visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di
cuore, Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura
zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla
attitudine interna, con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si
perde, e può esser trovalo soltanto in una certa direzione de-
terminata, proprio come se fosse una cosa concreta e maleriale» xl},
Vedremo più sotlo perchè pratica- mente parlando è cosa di poco momento
che il Dio della teologia sistemalica esista o non esista; «ma se
il Dio di queste particolari esperienze è falso, è una cosa lerribile per
quelli la cui vita è poggiata su tali esperienze » (2). _,
Concludendo: «la controversia teislica assume un lreniendo significato se
noi la saggiamo coi suoi re- ; sultati nella vita attuale » (3). Il
naluralismo, il posi- ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con
cu- lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa- talmente
nella tristezza e nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il
teismo, la nostra vita ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un
universo mo- rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre sofl-
a O TAES:
ALI relty., ). 432. ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto
queste | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la
materia di: L'Experience — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30.
a N ll Pragmatismo 67°
ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride
alla terra e se gli dei vengono a visitare gli uomini; se la fede e la
speranza sono come l'atmosfera della nostra anima, allora la no-
stra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a grandiose prospellive
(1) i Possiamo tirar subito una conseguenza importan- le dal
punto di vista pragmatlistico ; la speculazione è- impotente a condurci a
Dio; noi affermiamo la gran- de probabilità della sua esistenza in base
alle con- seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che
derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen- te, e lo vedremo
sotto, il pragmatismo non può darci più che una probabilità.
Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse conseguenze.
Col James egli rigetta le prove tradi- zionali dell'esistenza di Div e fa
una guerra spietata alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli
idea- lisli trascendentali. Per lui la comune insufficienza
delle prove tradi- zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti,
sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non ul
nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar- gomento cosmologico
inferisce Dio dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento
fisico-teleologico è costruito arguendo, in maniera affatto
generale, dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-
‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal
momento che si possono applicare ad'ogni sol- ta di mondo, buono o
cattivo che esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie
di argomen- tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,
al bene e al male che esso racchiude: è un Dio amorale, che si può
inferire così bene da un universo ollimo come da uno pessimo. La
inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel
l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a Dio attribuli
morali sono condannati a ;certo insuc- (1) Ivi, p. 30. (2)
JAMES, L'Experionce religieuse p. 117. 4
Se | il |
68 'La Religione nel Pragmatismo cesso. Trascurando gli
aspetli morali del nostro mon- do come si può giungere a un principio
morale gli esso? Ebbene, non è di codeste prove che noi abbia- mo
bisogno; non chiediamo una prova dell'esistenza di Dio che sia valida per
ognì universo pensabile, mù per il nostro mondo aituale, che tenga conto
del con- tenuto concreto, reale delle cose che noi: esperimen-
liamo; ci occorre un Dio il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo
vi è un polere capace e disposto a dirigerne il corso (1). È È
Il dialogo: Gods and Priestes (Dei e Sacerdoti) (2) è lullo una
critica birichina degli argomenti raziona- li (teorici) dell’esistenza di
Dio. Dice Filono: «Mi pa- re che Vesislenza degli Dei si possa inferire
dall’esi- stenza dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero,
e che ci starebbero a fare i sacerdoli? » Un argomen- lo puerile, a dir
poco, come si vede. Eppure Anlino- ro risponde: «Questo argomento è...
migliore della più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre
Antinoro dice: .« Finchè il Dio ignoto non è desideralo è inco-
moscibile » (4). Noi sappiamo che « inconoscibile », per l’umanismo,
vuole dire «non-esistente ». Ma dunque il nostro desiderare, volere Iddio
è creare, fare Iddio? Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. «
Gli dei sono reali in quanto responsi ideuli ai reali biso- gni
umani, che ci funno realmente agire» (5). Dio 6 un postulato della fede
ed è delia stessa nalura dei postulati della scienza (6), cioè una
supposizione uli- (1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's
Monism »; p. 82. = lo non posso indugiarmi a esporre largamente le teorie
re- liglo5e dello SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un
articola non basta a ciò, Del resto non è neanche necessario, perchè
lo SCHU.LER, quando pula di religione. si appoggia spesso al JAMES,
€, sostanzialmente, lo riproditeo (2) ScHiLLER, Studies in
Humanism, Essay XV, pp. 326-348. (3) Ivi, p. 227. (4)
Ivi, p. 347. (5) IVI, pp. 340-341: «They (gods) nre real as the
ideal re- sponses to real human needs, which really move us,
(6) Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La tolontà
di credere del James, = "i si » etiam Lu e e
ir__nnnn_nn_ RPEI EN
oli
Pragmulismo le, una domanda di qualche cosa che corrisponda
alle esigenze dell'uotno e mella armonia in una speciale sfera di
esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà, come s'è veduto: È è
vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la soslanza è allivilaà, e
l'attività non esiste se non come attività per noî. La domanda di Dio non
è la doman- da di un essere lrascendente, ma di uno perfezio- È
nante la esperienza nostra (1). Perciò la questione: LI, Dio esiste?
significa: Qual'è il valore per noi del con- X cetto di Dio? | siecome le
concezioni di Dio sono mol- | le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi
ai quali lulte sì possono ridurre? E qual'è il migliore fra i
concetti di Dio? $ 9. — Nella filosofia spiritualisla noi troviamo
due specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico, o teismo
propriamente detlo, e il leismo monistico o panteislico. Il primo è la
elaborazione teologica della filosofia scolastica, il secondo è proprio
dell’idea- lismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o ideali- smo
simpliciter, che si voglia chiamare (2). Esponia- noli brevemente ed
esaminiamone il valore alla luce del pragmatismo. >» Il'ieisino
scolastico insegna che Dia è la Causa Pri- ma, la quale differisce tolo
genere dalle sue creatu- re. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è
la fon- le di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e
assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e per- sonalità
metafisica, ecc.; e degli attribuli morali: sanlità e onvipolenza,
onniscienza e giustizia, im mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene,
applichiamo a - (1) ScuuLer, ivi. Considerazioni
simili a quelle del James contro ia visione materialistica della vita nol
troviamo li — Humanism, Ess. XIV, pp. 250 seg.: «The ethical
significance. of immortality ». Vi dintostra che la vita non è degna
d'esser "vissuta se non sono conservati i valori ideali. /
(29) JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der Pragma- lismus,
VIII Vorl. p. 192. a (3) JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376;
Saggi prag- mat., IL metod. pragm., pp. 25-20. ) ar -
n . 70 La Religione nel Pragmatismo
RO T questi attributi di Dio il principio del Pierce ec
vedre- L mo che fra essi ve n'ha di più e di meno importanti. i
Infatti, dal punto di visla pragmalistico che diven- N gono gli altribuli
metafisici di Dio, distinti dai suol attributi morali? Quali effetti
possono produrre sulla nostra condotta? Che cosa importa per la vita
del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè stesso, che Dio
non appartenga & nessun genere ecc. ecc.? «Come può mai l'« aseità »
di Dio loccarmi inlima- mente? Quale speciale cosa posso io mai fare
per adattarmi alla sua « semplicità? n «O come devo de-
terminare lu mia condotta da qui innanzi se la sua «felicità» è
assolutamente completa?» Anche quan- ‘do di quesli attributi ci si desse
una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo confessare che essi
non hanno senso, 4
poichè sono lontani dalla morale, lontani dai bisogni umani
(1). ‘Non è così degli attribuli morali. Essi risvegliano il limore
e la speranza e sono il sostegno dell’ani- ma. Se Dio è santo non può
volere che il bene; se è onnipotente ne può assicurare il trionfo; con
la sua onniscienza ci vede nelle tenebre; per la sua iustizia, Egli
punisce le nostre colpe anche segrete. ègli è tulto amore, dunque
perdona; è immutabile e quindi possiamo contare sul suo amore. i
Iddio, nella creazione, si è proposto come fine la manifestazione della
sua gloria; « questo dogma ha certamente una qualche elficace connessione
pratica ©. colla vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen- |
za che ha esercitato sulla storia ecclesiastica e per ? ripercussione
sulla storia degli Stati curopei» (2). Cerlo, quest'ullimo dogma,
connesso con la concezio- ne monarchica del mondo, di una divinità con la
sua corle e le sue pompe non corrisponde più alla nostra mentalità,
ma gli aliri attributi hanno un valore re- ligioso anche attualmente. Sc
la teologia scolastica (1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD.
375 S86.: Il Metod. Pragm. (op. c.), p. 25-27. .(2) JAMES,
L'Expérience religicuse, p. 376; Il Metod. Pragm. (op. c.), pagina 27-28.
i LA 4 s = lì Pragmalismo
1 polesse stabilire in modo irrefutabile che Dio li pos- e) siede
(gli attribuli morali}, darebbe una base solida si alla religione.
Ma, come per l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli allribali morali essa ba
fallito nel tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può
provare d storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È
suno. Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita
della bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella
sua essenza! (1) Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in
quanto sono dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi
du- (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto
ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A livo e
fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» (2), non
quindi in base a speculazioni, | Pi - ma per la loro efficacia
pratica. |, V'ha di più. La concezione leistica (scolastica)
di- pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una dall'altra,
anzi come affatto diversi, mette il soggel- lo umano fuori di ogni contatto
con la più profonda realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal-
. l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in - lo
unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- : carci, si
afferina, (conte possa toccarci è un misleto) ma Lui non può essere
affetto dalla nostra reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i
due terni. | ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore del
nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma nostro maestro e giudice,
ll nostro dovere inorale è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi,
di aderire pussivamente alle verità che non noi faccia > mo, ma
che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» (4). Ebbene, lutto
questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente all’animo
dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, | con la
sua creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES, L'Erper.
relig., DD. 370-977. “26 o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 .
Ca ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i | (4) James,
«Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |
72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed escatologica,
col suo gusto per le ricom- pense e le punizioni, col suo considerare Dio
cone un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al piu di noi come
se si trattasse di una religione selvag- gia di stranieri. Le ampie
vedute aperte dall’evolu- Zionismo scientifico e lo marea monlanie degli
ideali delia democrazia sociale hanno cambiato il tipo del la
nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico è vielo e fuori di moda.
IL posto del divino nel mon- do dev'essere più organico G più intimo. Un
creatore esteriore e lc sue islituzioni pussono essere professa- le
ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule che sopravvivono grazia aila
loro inerzia, ma la vila è lontana da esse, non lano più adito nei nostri
cuo- sti (1). Quel magnifico uomo nou naturale (2) che è il ‘Dio
del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello delle idee morali
correnti e perciò condannato dal- l’'alinosfera morale regnante, divenula
per noì indi. spensabile. «I frulli che un tal Dio ha dato ai
nostri avi hanno perduto ogni valore per noi, le idee morali e
sociati nostre ci costringono, sc abbiamo bisogno di Dio, a
foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli ideali del lempo
nostro (3). Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto la
possibilità di una più intima Weltunschauung; la vi- sione panteislica di
un Dio immanenfe come sostar- za inlima del mondo, e il mondo come parle
di quesia profonda realtà. Questi concezione hu assunto due forme
diverse: la monistica e la pluralislica (4). (1) Ivi, pp. 29-30. —
Lo stesso pensiero è espresso più lar- gamente in: L'Eaperience
reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la Saintele, pp. 250-284
(2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., p. 24. (3)
JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto che”il Dio tiel tolsmo è
rigettato dal JAMES semplicemente perchè così porta la moda,
Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare «il complesso delle idee
morali e delle forme sociali» di una data epoca, l'osservazione è giusta;
se per moda s'intende quel- la brutta cosa che tutti conoscono, non credo
che sia esatto il dire chè il James giudica di Dio in base ad essa.
Cfr.. L'Erpér, relig., 1. c. (4) JAMES, LI Plural. Uniw., pp.
30-31.
Il Pragmatismo 78
Secondo il monismu la sostanza umana (e mondia- ©. le) si
identifica bensì con Ja divina, ma non diventa veramente tale che nella
forma della totalità. Lo spi- - 3 rifo finito non ha realtà che
neila comunione con lo pi spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste
autenticamente È solo quando è esperimentato nella sua assoluta
l0- rà lalità. Pev il monista essere significa due cose: se
si È predica delle cose finite significa: essere un oggetto
Ì dell’Assoluto; se si predica dell’Assoluto stesso vuol i
dive: essere il pensamento dell'insieme degli oggetti. "
LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente come noi, nei sogno, facciamo
gli oggetti sognandoli, o, in una storia, i personaggi immaginandoli.
Mondo e asso- julo sono la stessa cosa espressa con nomi diversi:
" pensiero e pensato (Gedanke und Gedachles). «Quale grandiosa
concezione nella sua terribile unità!» esela: ma il James (1). Quale intimità
fra il mondo e 1 AS- solulo! > Ma, pur troppo, a un esame
diligente questa 31 LI St x. milà ci apparisce
illusoria e materiale; in realtà il divino è affatto estraneo al mondo
come nel teismo monarchico (2). E in vero: per lassolulisla noi,
POSI ad uno ad uno nella nostra finilezza empirica non
abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per far (parle di esso dobbiamo
perdere l'essere nostro indi- vidnale con la sua limitatezza e coi suoi
difetti. L'As- Ea solulo è noì e lutte le allre apparenze, ma non è
I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel tutto TION x siamo «
trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua- Fat: tenus infinilus est è
altro da Dio, qualenus humanam wr mentem conslituit — ha scritto lo Spinoza,
il primo ; grande assolulisla (3). La vera conoscenza di Div =
serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che le cose, quali ci si
mostrano immediatamente, non han: ‘no verilà (4). L'Assoluto — secondo il
Taggarl — non è processo, ma stato immobile: il movimento
(1) JAMES, ivi pp. 34-37, (2) Zbta. (3)
James, A Plural. Univ., pp. 40-47, (4) Ivi, p. Di.
» DI art ri È aaa” * -- ul = Pa. ASTRA
La Religione nel Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella
sua immutabili È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più
DA estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè
una persona, ne una collezione di per- sone, nè vero, nè bello, nè buono
nel senso che noi diamo a queste parole? — come. ha scritto il
Brad- ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi- sico
incapace: di odiare e di amare, di soffrire e di desiderare? (3)
L’Assoluto non può essere personale nel senso ordinario della parola;
dunque non può interessarsi delle persone: la sua relazione con
ess? è tutt'al più una relazione di inclusione, puramente logica,
quindi, non morale (4). Io non posso avere nè cuore nè pensiero per un
essere che nulla ha co- mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu-
dine non s’inleressa di me come posso io interes- sarmi di Lui? (5)
= Non solo l'Assoluto non è un principio morale, ma non ha
neppur valore scientifico. Per aver valore scientifico dovrebbe essere un
aiuto alla compren- sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso
non è la ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ; ticolare
(e l'universo si compone di cose particolari) > appunto perchè è la
ragione esplicativa di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore di una
spiegazione ge- merale che non spiega nulla in particolare? (6). È,
come si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat- lezza
dei concetti con i quali sì prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne
deiermina l’essenza, secondo lo Schiller.
s (1) JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay
XII, passim; (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g.
e: (Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE (3) JAMIS, ©p. cut., avi,;
SCHILLER, Ess. JV. (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287. | (5)
James, A _Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. — bp, 391; « If
th» One is neither of these {hings (beautiful and | good), I will not
worship it. nor call it Good. If it is indif- ferent to 9ur Gocd, I am
indifferent to its existence n. (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p.
25). db Ît Pragmatismo Ti)
Ma c'è di più. Uno dei problemi che ha maggior- mente alfalicalo il
pensiero umano è il problema del î male, il più fondamentale e il più
pressante dei pro- blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno
pratico. Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» —
Il prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor- ge
dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza
e con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta,
senza limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se
Dio è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru
il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la periezione di
Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il primo altu di questa
perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il finito
sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede
7 queste schifose forme di vita che troviamo nella real- tà? (2).
Ecco il problema che nessun assolutista € . nessun infiniusta potrà maì
risolvere. Negarlo nou è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la
im- pertezione del tuito non è che apparenza, una illu- sione degli
esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è assorbito con Dio nella
sintesi superiore dell’As- soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma
ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.
L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita
del male che è nel mondo? ». Il lato pra- tico del problema, chie è il
solo veramente impor- tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò
che è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l
determinata nel suo essere e nel suo di- venire; ia connessione fra le
cose è assoluta, ogni —— evento è determinato da lulti gli eventi (3).
Non esi- lai” sad (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258.
nati (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda
è rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |
rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural. Univ., vp.
119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto, e non si
contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? » >
95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a
La Religione nel Pragmatismo ioni; i é
che stono possibilità di nuove connessioni; non vi è c ; DE
‘possibilit: quela che s’identitica Son IP DESeRa silà.
L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono chimere. Ecco a che
conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili accuse ACCIAIO
deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato alla irrealtà dal
metodo PrOgmal sa MEO amet no RO . Dal punto di vista intel: ì es
(1), E ris : ) 5 : CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL SDOlai
elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser- Di all'uomo. Orbene, quantunque
l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della religione popo-
laure ordinaria e non si debba confondere col Dio del Cristianesimo c
della Lcologia ortodossa — ne vedremo più sotto il perchè — tuttavia è
stalo e può essere il Dio di una certa classe. d'uomini, che in Lui
solo trovano la pace {?). Ciò che sembra logica- nente assurdo c
impossihi può essere dimostraio in q non le —
dice lo Schiller ualche modo con una fede eroica e palelica, Non
v'è materiale così poco pro- Inettente che non possa divenire il
fondamento di una veligione. Non' vi sono conclusioni così bizzarre
che non possano essere accellale con fervore religioso. Non vi sono
desideri così assurdi Ia cui soddisfa- zione non possa essere
riguar data come un atto di cullo (3). Perciò
l’assolulo può esistere ed esiste come Dio se ha una reale iniluenza
s ulla vita umana, se è qual- “ehe cosa di vitale e di valutabile
pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni ne ha dimostrato
l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una sicurezza assoluta che
l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non audrà in isfacelo sotto
il COZZO (1) Zut, p. 110, (2) Jul, pp. 110, Iii, 1923;
Der Pragmatismus, VIII Vorl., ASSI, (3) SCHILLER, S/ud. in Ilum.,
p. %6. i
Iîì Pragmatismo Ti degli clementi instabili e fortuiti; lale
sicurezza non può aversi che ammettendo un'assoluta necessità e una
interna coerenza del mondo, una determinazione a priori del futuro.
Vi sono anime che provano un sentimento d’orgo- glio al pensiero di
essere una parle, una «manife- stazione », un «veicolo» o una
ripreduzione della Mente Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime stanche,
accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare in sè stesse la
forza di vincerlo; la loro vita si sfa- scia ed hanno bisogno di
risolversi nell’Assolulo, co- me una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti
abbiamo dei momenti in cui aspiriamo al Nirvana, alla libe- razione
di noi stessi dalla esperienza finita. Questo stato è proprio degli
Indiani, dei Buddisti e dì certi temperamenti mistici ai quali è conforto
ed ebbrezza il sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche
l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che tutto è uno in Dio e che in
Dio lullo è buono. che in que-. slo mondo di apparenze, qualunque sia il
nostro suc- cesso, siamo sempre dei miserabili » (2). Vi è
dunque un istinto dell’Assoluto. L’Assoluto può servire all'uomo, e
perciò, nonostante le sue as- surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci
dicono a una voce il James. e lo Schiller — poichè gli istinti uma-
ni sono preziosi © sacri (3) e tutto ‘ciò che opera è vero finchè opera.
IL’Assoluto è salvo sotto le grandi ali della misericordia... del
pragmatismo. , Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad
un'altra concezione del mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto mena
necessariamente all’indifferenlismo e al quie- lismo; non è uno sprone al
lavoro audace dei forti che non rifuggono dal male della vita ma lo
affron- tano pur nel dubbio di trionfarne, esso è per le ani- me un
oppio spirituale; è il Dio dei deboli, degli stan- (1) JAMES, Mer
Praymatismus, VITI Vorl., pp. 174-194, passim; SCHILLER, Stwal. in Mum.,
PP. 289-290. (2) JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di
questo singo- lare stato d'anicao ha offerto il James in: L'Expér.
relig., Chap. X, pp. 353-358, (3) JAMES, Der l'ragmat., p.
176; SCHILLEK, op. c., p. YI.
fo) La Religione nel Pragmatismo chi (1); il pragmatismo
non può accertarlo. Si è aC- cusato il pra matismo di irrceligione; @
torto però. Non è a credere che la dottrina pragmalista, rigel-
tando VAssoluto e il Dio del teismo monarchico, ne- ghi che il mondo
contenga in forma di coscienza qual- cosa di più grande e di meglio che
la nostra co- scienza. Forse che la nostra fede istintiva in esseri
superiori, il nostro persistente rivolgersi verso una società divina non
è che una illusione patetica di anime incorreggibilmente sociali e
immaginative? (2). No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una
eMceacia reale; per quanto possano essere gravi le difficoltà che
le si oppongono, l'esperienza dimostra che essa opera. Il problema di Dio
consiste in questo: come elaborare l'idea di Dio in muniera di farla
entrare in accordo con le allre verità operative? (3), Ebbene, è
logicamente possibile di credere in esseri sovruma- ni senza punto
identificarli con l'Assoluto. Il con- _celto dell’Assoluto sta in
funzione del monismo idea- listico ; il concetto pragmalista di Dio sla
in funzio- ne del pluralismo: è la forma pluralistica del pan-
teismo religioso. Il pluralismo — in quanto ha rapporto con la re-
ligione — ammette col monismo la immanenza di Dio nel mondo, come vita e
sostanza profonda delle “cose, sostanzialmente identica con la vita e con
l'es- sere più vero dell'uomo (4), ma differisce inconcilia-
bilmente dal monismo negli svolgimenti ulteriori della lesi unica.
— Per il pluralismo la vera realtà delle cose è la loro individualità. Il
mondo è collezione, non unità. Ogni (1) JAMES, iui, pp. 176 @
188. (2) Jimes, Her Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc
È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER pro- is contto LASERSA
CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine f adley, Cfr: Stud. in Mum., D.
195. — Per Îl res della citazione, vedi; A Plural, Unlv., n° 133. Per
E (3) Jamrs, ber Pragmat., p. 192. (4) James, A
Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller parla del Pluralisino in generale in:
Stud. in Human D 907 è 459; vl ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la
relazione del. plu- ralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina
XX PI LA SE -
did
HI Pragmatismo 79 cosa pensabile, per quanto vasta e
inclusiva, ha un ambiente esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU
inclusive). Nessuna inchiude lulte le cose assorben- done la realtà
tutta, nessuna domina su tutte. Men- {re la realtà del monismo è
caratterizzata dalla All form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella
del plu- valismo è caratterizzata dalla Zach-form (forma del le
individualità o distributiva, come altrove la chia- ma il James): è la
forma dataci dalla esperienza im- inediata. Il mondo pluralistico è
piuttosto una repub- blica federale che un impero, un regno. L'unione
delle cose singole — atomi e unità spirituali — non è compenetrazione di
tulte in ognuna, non è il tipo del la unione monislica della
tosalità-unità (Alleinheit), non è complicazione universale, ma
contiguità, con- tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di
unio- ne synechislica (1), quindi vi è dislinzione e indipen-
denza. Perciò nessun centro di coscienza, nessuna azione puo lutto
abbracciare: qualche cosa sfugge sempre e non può mai essere ridotta
all'unità to) Non c'è un'assoluta unità causale del mondo; non cè
un'assolula unila generica; non e'è un'assoluta unità teologica e morale;
non c'è un’assolula unità estetica, non c'è un’assolula unità noelica
attuale (1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il
«synechi- smo» è quella tendenza del pensiero filosofico che fa
dell’idea di continuità una delle più Importanti in filosofia. Il
continuo è inteso come qualens cosa le di cui possibilità di
determina- zione sono inesavribiti. (2) Oltre questo
synechismo — che è metafisico — ve n'è uno epistemologico, cioè la
concezione della verità sistematica come gradualmente approssimabile, ma
non mai interamente taggiunsipilo dal pensiero. I.'uomo tende a una
interpreta- zione scinpre più razionale e coupleta dell'universo, ma
ogni fase del processo conoscitivo non è che una razionalizzazione
parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE Pragmatism nel ictionary
of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce il | Pragmatismo è parte
deila dottrima più larga del synechismea. (Credo che il nemne sia del
Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of Knowledge, del P. WALKER S.
T., TLongmans, Lo; dra 1910: da essi ho prese queste cliazioni n
proposito del symechismo, dal 7
9 80 La Religione nel
Pragmalismo dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità,
reali indelerminazioni, reali incominciamenti, reali finì, roali
mali, reali crisi, reali catastrofi e reali scom- pi (2). Nel mondo
accanto all'ordine vi è il Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza,
accanto a bello il brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque
perfetta, unità, ma molteplicità reale neil u- nità imperfetta. Forse
l’unità perfetta non vi sarà mai; forse non potranno essere liberate
dalla di- sgregazione e dal disordine che certe parli del mon- do,
quelle alle quali si estende la nostra allivilà uni ficatrice. Ad ogni
modo la piena unità, se sarà pos- sibile, nella ipotesi pluralista non è
al priucipio ma alla fine, non un primo ma un ultimo (3); la salute
— ogni salule, anche ia parziale — non è necessa- ria, certa a priori, ma
solo possibile. Nella concezio- ne assolulista il fondamento della realtà
è l’unità sta- tica; nella pluralista sono delle possibilità, pure
pos- sibilità. Il pragmatismo riconosce un valore reale al- la
prima, ma preferisce la seconda, come più in ar- menia col suo
temperamento, poichè essa è alta a suscitare nel nustro spirito un numero
maggiore di esperienze future e sprigiona in noi determinate al- livilà.
Il suo effetto sull'uomo non è il quielismo, 1a il lavoro strenuo, poichè
com’essa insegna, da lui {dall’uomo) dipende la vittoria sul male:
vittoria pos- sibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi
stenza della realtà ad essere redenta è unificata. Così il jvagmatismo
tiene Ja via di mezze fra l'ollimismo — per il quale la salvezza del
mondo e dell’uomo è “sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute
an- che parziale è impossibile. Il pragmatismo è melio- tristi: per
esso il fuluro sarà di più in più migliore del vresente come il presente
è migliore del passato. E la possibilità anzi la probabilità della
salvezza per (1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal.
Univ. specialmente Zesi. VIII pp. 303-331. (2) JAMES, Will
to Believe, p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo
Schiller (1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180.
_ i
mo. il Pragmatismo 8 ja liberazione dal male e
per la diminuzione della moltiplicità non unificata aumenta in
proporzione del numero e della bontà delle forze iiberatrici.
Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e lot- tano con
noi? Allora la incertezza della salute è ridoita di mol- lo;
possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buo- no. Qui si mostra in
tutto il suo valore reale l'ipo- lesi di Dio; per questo gli uomini
religiosi del tipo pluralistice hanno sempre credulo in Lui (1). Ma
chi accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovru- mane (2),
deve elaborare il concello di queste in mo- do da accordarlo con le
esigenze e con le verità ope- rative di tale dollrina. Quindi: la realtà
divina (o le lealtà: vedremo più sotto se al singolare o al plura-
le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi- duali inferiori,
non assorbirle;j deve lasciar sussiste- re le possibilità, le
indeterminazioni, la libertà e quin- di la incerlezza del futuro;
dev'essere personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è
impossibile 1 mità con essa: in una parola: può e deve es-
SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente RT Ta Tio
onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla nostra natura;
noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen e
umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui
siamo Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f
apporti reali, non puramente astrat- CES col mondo deve esistere nel
tempo e una storia, deve quindi escludere la staticità
È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191. IESUe i celli accetta il pluralismo
con tutti i suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du
solo per rendere Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui
reli- Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al
tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo sulla AT i mezzo
— che è la via aurea — perchè conta a dleì temperamenti umani. I
più degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I SIANZA dei
due temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico
del telsmo,. Ivi, p. 193- Pragmatismo - 6 v
PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1
pragmatismo È s2 La Religione ne ,” ed avere Un
ambienté esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi.
essere, IN una arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico,
una conti nuazione di esso (1). i ; Uno o più? Monoteismo 9
polteismo? Si può con: cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente
_. ‘dice il James — purchè sj ammetta la sua finità; è Vunica via
per sfuggire a tutti gli assurdi e gli 1n- convenienti che por sè l
Assoluto (2). Tuttavia il pragmatismo inclina evidentemente al
politeismo, alla concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss!
occupa di una frazione dell'universo; © di una ge- rarchia di coscienze
inferiori che vanno dalla c0- d una suprema, senza soluzione
scienza della razza ® | i a non è infinita perchè
di continuità; ©
la suprem infir ‘sintesi di coscienze finite (3); © è — dice il
Boutroux — ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli
idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori pos- sono
entrare in relazione fra loro, amarsi e compren- dersi (4): sla qui il
suo valore pratico. ‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto
a rovarci che la loro concezione del divino sì accorda
perfettamente con la religione pratica, con la espe- rienza religiusa
dell'uomo ordinario, e con la teolo- ia orlodossa non inquinata dal
veleno monistico. — «Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre
Ce- Jeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Asso- julo se non
questo, che lutti e tre sono più grandi dell'uomo. Difficilmente io posso
concepire qualche fn 9” cosa di più diverso dall'Assoluto
del Dio di David 0 (1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318.
(2) JAMES; Ivi, p. 310-311. 13) È la teoma di Fechner che il JAMES
€S sone nella IV Let ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning.
Fechner »: 133-177 0 oo : ì questa coscienza feclneriana «
esistente dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc con
l'Assoluto dei ° rascenden- ‘ ° talisti, il James sveva già pirlato in
una conferenza « sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime |
i | mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr: (mortalità
dell'anima » p. 199, (4) Op. c. Di JI. =
Il Pragmatismo 83 di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente
fini- to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti locali e
personali » (1). La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio
par- ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po- veri
framinentli finiti del tutto (2). In nessuna religione il Divino, il
principio dell'aiuto e della giustizia, è ri- guardalo come onnipolente
in pratica (3). Il politeismo originario dell'umanità si è svolto
solo imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo
stesso, in quanto è veramente una reli- gione e non il tema di conferenze
universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un
primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre- sicdono alla
storia del mondo e la formano {4). Il tei- simo pratico e popolare è
sempre stato piu o meno francamente un pluralismo, per non dire un
politei- smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo
risullante di più principì indipendenti gli uni dagli al- tri, purchè gli
sì permetta di credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto)
sia il principio supre- mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E
vero che questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo-
sofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che ab- bianìo così
severamente giudicali. È «unico », è «in- finito »; l'idea che possano
esistere -più dei finiti nn è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto
che il po- polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti
di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà la credenza
religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in cui si
può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le
esperienze (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,
(2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa. e
svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le
Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp. 447-457, anno
1906. (3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì. (4) TAMES, Der
Pragmat., p. 192. (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.
pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@ en
TEZZE RR a ge 84 La Religione nel Pragmatismo
dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che esta: esisle
per ogni individuo una porsnza supe: riore & lui, e a lui favorevole,
alla quale può \.nirsl perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per
susci- tare la confidenza dell’uomo pasta che quel potere sia assai
grande, sia più grande dell'io cosciente, non è necessario che sia
infinito © unico. Si potrebbe conce- irlo come Un “ jo» più grande € più
divino, del quale io attuale non sarebbe che l'espressione in
piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di questi
«io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso- luta. Questa specie di
politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è ancora (1). La
credenza opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVI-
denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il mondo ideale è il
mundo reale, i supporre che le po- lenze spirituali intervengano nel
gioco delle forse tisi- Vide che a determinarne gli avvenimenti
particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del Divino e ì
praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.
smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono
persuaso che questa è L'ipotesi che sod- ita disfa un più gran numero di
legittime aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il pragmatismo
la fa sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da ai cerle
esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate st Riti sanno che nol
abillamo in un ambiente spirituale in- visibile, donde ci viene l’aiuto;
che la nostra anima è misteriosamente una con un'animu più vasta di
cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che uesta
anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu- rale e più probabile è
ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0
nell'uno e neli'al- } tro (2). 1:4% (i)
gas, L'Erpér. relig., DD, 194495 - 7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si
trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli.
— A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2 Giovanni
Mul il quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di religione
ine L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To credo
che : unicamente un Dio finito è degno di questo nome », appunto
perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione. *
bd mici dissi a = o Ie Les
Il Pragmatismo E così è sciollo il
problema del male. Im questa con- cezione Dio non è responsabile
dell’esistenza del male, non lo sarebbe nemmeno se il male non dovesse
mai esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto, - il male,
come ogni altra reallà, deve avere il suo prin- cipio in Dio: e la bontà
di Dio, che è essenziale asso- lutaumente alla religione — dice lo
Schiller — come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin dall'origine il
mon- do è un insieme di principî distinti, che il male non è parte
essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di Dio è salva: il
problema teorico del male è- sciolto. E col leorico anche il
pratico. Se tullo ciò che è, è essenziale, come parte dell'Assolulo, il
male è indi- struttibile; se invece è elemento non appartenente al-
essenza della realtà, noi possiamo sperare di poter- Ì lo espellere (il
male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a le forme di teologia, eccettuata
quella più filosofica che ee ha subito l'influsso degli assolutisli,
concepiscono di fulto il male come dovuto a un potere che non è Dio
e ne è in qualche modo indipendente: è denominato variamente: «materia »,
« volontà libera », 0 « il dia- volo ». La onnipotenza di Dio dei teologi
non è quella dell’Assoluto: essa è dipendente da necessità metafi-
siche (2). HE Concludendo: In questa concezione di Dio
elaborala col criterio del valore pratico sulle rovine della
critica. È dell'Assoluto e del leismo scolastico e in armonia
col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle. 4
esigenze umane del divino; è salva la libertà del- l'uomo: è dato un
fondamento alle sue speranze è al suoi desideri di salule ed è resa
possibile la massima. intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento
e intimità morale, cioè la vera religione, che tanto ha operato e
opera sulla condotta. : Noi chiediamo ; « Di che natura sono le reallà
spl TOA =
(1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. . “A () ScHILLer, Stud, in
Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,, - -.86
La Religione nel Pragmatismo ; P, rituali più alte? »
« Io l’ignoro » risponde il James (1). Chiediamo ancora: ‘ esistenza di
Dio è un puro "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè
am mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re- |
ligiosa, è reale, che ha un'efficacia reale e che tutto | accade come Se
una forza sopramondana agisse diret- tamente sul mondo dell'esperienza
umana (2); am mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale va-
lore pratico quando è affermata con fede, specialmente coloso com'è
quello del pluralismo ; ‘in un mondo peri ina noi sappiamo
dal James stesso « che certi oggetti ovocano in nol delle reazio-
uramente intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli
oggetti sensibili o reali (3). Ora è precisamente questo che domandiamo:
le realtà sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen-
dente per sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in-
dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer-
- miamo lale? e TS il pragmatismo questa domanda non ha
sen -S0; richiamiamoci alla mente la sua dottrina della verità,
della realtà e della conoscenza. Una dottrina che nega il valore
rappresentativo dei concetti e professa il nominalismo; che dichiara
di te abbandonare la logica francamente, recisamente ©
irrevocabilmente (4) » non può condurre che all'agno- slicismo e allo
scetticismo. È
G 4. — Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione
pragmalistica del criterio delle conseguenze alla reli- gione
dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che cos'è la religione? È
assai probabile che nen e che quindi è impossibile definirla. «
Religione » non designa un principio unico, ma piuttosto una
collezio- ne: non v'è un'emozione religiosa elementare, come
(1) L'Expér. relig., D. 136. (2) James, L'Erper. relig.. D.
433, (3) Zut, p. 45. ù (4) A_Plur, Univ., p. 24.
arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-
Il Pragmatismo 87_ non esistono nè un oggelto religioso nè
un atto reli- gioso specificamente determinati. Se è impossibile
da- re una definizione astratta della essenza della religio- ne non
è però impossibile delimitarne il campo e in- chiudere in una formula i
lraiti caratteristici empimci délla religione. Una divisione salta subito
agli occhi: tra istituzioni religiose (0 religioni stabilite) e
religioni individuali (0 personali). La religione stabilita è un
in- sieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici
propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si può definirla:
un'arte pratica di assicurarsi il favore della divinità, La religione
personale è la vita interio- re dell'uomo religioso; gli atti che
essa produce sono | personali, non rituali ; l'individuo sbriga da
sè i pro- pri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli,
coi suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa in ultima
linea. Si può definire: «le impressioni, i sentimenti, gli atli
dell'individuo preso isolatamente in quanto si considera in rapporto con
ciò che gli ap- parisce conie divino » (1), comunque poi s'intenda
que- sto divino: come legge dell'universo, come anima del mondo o
come un Dio personale. Parliamo anzitutto del valore della
religione in senso personale e poi del valore delle religioni o
istituzioni religiose. — Per quanto grande sia la differenza con
cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli altri elementi del
pensiero, anzi, per quanto diverso sia il principio stesso religioso
nella molteplicità delle sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi
possiamo affermare che le credenze più caratteristiche della vita
religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che una parte d'un universo
invisibile e spirituale, dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine
dell'uomo è l'unione intima, armoniosa con questo universo.
(1) James, L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons exclusivement
par le divin une réalité première de telle na- ture que l'individu se
sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle ‘une attitude solennelle
et grave, en Jaissant de coté tout blasphème et toute plaisanterie » (p.
34). — Son io che sot» | tolineo. (2) JAMES, L'Expér,
relig., P. 406, tas dee tie. nea
880. La Religione nel Pragmatismo 9.0. La preghiera, cioè la
comunione con lo spirit dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente
una ; legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne i risulla
un influsso di energia spirituale che può mo- “A ‘ dificare in una
maniera sensibile (anto i fenomeni materiali quanto quelli
dell'anima (1). (ei Nella valutazione di queste credenze il
criterio non sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eolo-
gico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce.
l'albero. E poichî nella religione il senti- mento vi ha la parte
fondnmentale, vediamo qual'è il valore affettiva della religione. Tolstoi
ha detto che Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli-
gioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dine- mogenica che tonifica
e rianima la potenza vitale: aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli
oggetti più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se la
religione non avesse che questo valore soggettivo, IR
non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto
intellettuale, vera 0 falsa che cessa RAI — fosse, nol sarebbe meno una
delle funzioni biologi- UU: che più importanti della specie umana;
ciò che ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non
è 373 Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2:
non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2). Ma la religione ha
anche un'immensa fecondità pratica sociale. JI frutto della
vila religiosa è la santità, che inchiu- de in sè tutto ciò che di meglio
ci abbia dato la sto- ria. La santità ha avulo bensì delle
manifestazioni ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE
n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive- lavo nei santi dei
precursori © dei creatori. La san- lità accresce nel mondo în somma di
energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con
la (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le
varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza e per quali
ragioni. 2 (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas
dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire
que l'on s'en serta, nn
HI Pragmatismo 89
sua forza d'animo, col suo amore eroico pei mise- rabili più
ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è un fallore essenziale del
benessere sociale. La reli- gione è la condizione necessaria di certi
effetti, la «fonte dei quali nè l'individuo nè la società hanno sa-
| puto trovare altrove: il disinteresse, l'energia, la per- severanza
(1). : 2 BAR Olire questo valere affettivo, o biologico,
indivi duale e svciale, la religione ha anche un valore in-
lelleltuale? Questa questione si divide in due — dice il James: — «Solto
la moltitudine delle credenze vi sono delle affermazioni comuni? » E:
«sono vere tali affermazioni?» La risposta alla prima questione è
affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali —»- —. d'anima
identici: il sentimento d’inquietudine che <S in noi c'è qualche cosa
che va male, e il sentimento che noi siamo salvati dal male entrando in
rapporto con esseri superiori — con qualche cosa più yrande di noi:
lotta e liberazione: ecco la sintesi della reli- gione personale e il
perchè del suo immenso valore sulla vita. Ma che cos'è questo qualche
cosa di più grande? È reale o immaginario? Come possiamo en- {rare
in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità della religione?
Xispondeve a quesle questioni impiicile nelia se-. conda è
costruire delle sopracredenze (surcroyances) individuali e collettive,
tutte buone se aiimentano il nucleo vitale della religione. Vi possono
essere e vi sono di fatto tante aggiunte individuali alla credenza
unica quanle sono le anime o i lipi religiosi (2), Il «rapporto col
divino potendo essere, o essere inter- { pretato come rapporto o morale o
fisico, o rituale, «Si capisce come possano nascere delle
costruzioni 7A _ losofiche e leologiche — delle quali abbiamo visto
| Valore — e anche come sorgano le Chiese (3). . James, e con lui,
naturalmente, più o meno tuil SA (1) JAMES,
L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX. E) (2) JasrEs, ivi, pp,
406 e 423-125, — Ci è nota la sua croyance. 0%
‘La Religione net
Pragmatismo pragmalisti — non ama — a dir poco — le Chiese,
con la loro organizzazione, coi loro. dogmi, con le loro tradizioni,
perchè in esse è uccisa la vita inte- AQ ogni modo e dogmi e culto
e mi debbono es: sere giudicati daì frutti individuali e social, e i
frutti della vita religiosa sono sommessi alla giurisdizione del
buon sense (2) e dei pregiudizi filosofici e istinti morali — dice
allrove (3). Ed essendo questi pregiu- ‘dizt, questi istinti e questo
buon senso frutti, essi stessi, dî una. evoluzione empirica incessante,
anché le idee religiose si andranno incessantemente modi- ficando.
Dal giorno che ìi frutti di una data forma re- ligiosa perdono ognì
valore, dal giorno che la vec chia credenza è in contraddizione con un
nuovo idea- le; dal giorno che la ragione la dichiara lroppo pue-
rile, troppo assurda o troppo immorale... essa cade trascinando, nella
sua caduta, il Dio creato dall'uo- | mo per «servirsene » (4). E noi
confessiamo che in i una dottrina interamente antropocentrica, nella qua-
d le l'uomo è la misura di iulte le cose, cioè, le esi» È enzo, i
desideri e gli interessi umani nel modo che s'è veduto, lutto ciò è
logico ©... anche utile, fino & un certo punto: Ed è naturale che il
pragmatismo creda di fare un mondo di bene alla religione € alle
religioni. Ci dice lo Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha
dimostrato che la volontà di credere sta. ulla base, non solo della
religione, ma di qualunque - gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e
che, quindi, la sfera dei iudizi di valore non è coestensiva solo |
|» alle verità religiose, ma a qualunque verità: la fede i lia così
cessato dì essere un ‘avversario e un sosli- i | futo della ragione ed è
diventata un suo costitutivo | essenziale. ‘ Come potrà la ragione
contestare la validità della dor: L'Erpér. relig., speclalinente
Chap. IK, pp. 281-293: IA Ivi, p. 293. (9) /vi, p. 281.
7 (4) Ivi, p. 272. — Pel «s î actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita
ancora il Lepba L x»
lì
Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla sua stessa
validi- tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni (concrete)
possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che l'umanismo assume davanti
agli istinti religiosi del- la nalura umana e verso le evidenze e i
metodi delle religioni. 1l pragmatismo, affermando il fatto reli-
gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza inte- riore e dei
risultati individuali e sociali, rende vani gli altacchi razionalistici e
mette la religione al sicu- ro dalle confutazioni dialettiche. Il
pragmatismo inol- (re, come si è mostrato un eccellente « eirenicon »
tra le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon» non meno efficace
tra le religioni. Non è vero che lutte operano (in senso pragmatista) in
una cerchia più o meno vasta? Ma allora esse sono identiche nella
loro parle veramente vilale, attiva: e che importa sc dif-
feriscono teoricamente? Terzo beneficio: il: pràgma- lismo libera, così,
le religioni da ciò che vi è in esse di non-funzionale, dalle
incrostazioni parassilarie ed csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce.
— Che cos'è la parte non-funzionale della religione? È il suo lato
teologico (2). 18 qui una tirata contro i sistemi teolo- gici, contro le
infiltrazioni della metafisica greca nel « Credo atanasiano » e contro
l’identificazione di Dio con «l'Uno». Già! — La conclusione possiamo
ac- cettarla anche noi, ma basandola su fondamenti af- futio
diversi da quelli del pragmatismo: «La reli- 5 gione più vera è quella
che proclama una vita mi- $ , gliore e la promuove» (8). ;
(1) Stud. in Hum., pp.
352-353. | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p. 363. | ,..(8ì E la
conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri ligion in: Stud.
in Humarism, p. 369: «the truest reli tons that Which issues in and
fosters the best life», Rd A \-
IV. SCHILLER L LA LOGICA FORMALE —
— eri della Logica formale nella con= Sommario: S 1.
Caratt — { 2. La validità formale. cezione dello
Schiller. gi. Lo Schiller (1) sotto il nome di « logica
forma- le» inchiude e condanna non solo quella che da al tri è
designata col nome di « logica formalistica » mn anche la logica
formale propriamente detta, e, cri | licando e condannando quella,
presume di aver cri ficato e condannato anche questa, cioè, in
blocco, . tulla la logica tradizionale e classica, alla quale do-
vrà sostituirsi la logica psicologica, 0 psicologistica, cioè quel
complesso di leggi o regole o norme del pensiero che risultano
dall'analisi psicologica del pen siero, ossia dalla considerazione
dei processi del pen- | siero, non in una pretesa forma di esso
di materia idel concetto, del giudizio, del raziocinio con: siderati
astraltamente nella loro forma verbale di temine, proposizione €
sillogismo considerai9 esso pure, a sua volla, astrattamente), ma nel
loro sor- gere e syolgersi allraverso la fitta rete psichica di
Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello psicologi smo e della forma
speciale di esso offertaci dal prag- matismo, insomma. Una logica &
posteriori risut 1) F. C. S. SCHILLER. — Formul Logic. A
sclentifle and s0- cial Problem. ——> Un yol, in:8 pp. XII-123,
Macmillan and 0.9, ‘London 1912. stinta dalla |
Îl Pragmatismo 93
er selezione, non a
priori, una logica, pare, SOA sì, ma indotta in base a postulati,
non dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura del pensiero
non esistono; quindi ogni logica è neces- sariamente empirica nella sua
origine e nel suo va- lore. E così con la logica sillogislica è
condannata anche la logica del concello col solo semplicismo che
abbiamo imparato a conoscere altre volte nello Schil- ler. Ma,
evidentemente, prima di condannare in bloc- co, bisogna vedere se tra la
logica formale e forma- lislica c'è idenlità, o se non c’è invece una
diiferen- za radicale che impone una pertraltazione a parle e
radicalmente diversa di quelle due discipline. La lo- gica formale vera è
la dottrina della forma unica del pensiero: il concelto, come sintesi di
individuale c come concelto universale contro, come scienza
del concetto puro. Per essa la forma verbale in cui si suole
incarnare generalmente il concetto non ha nes- sun valore logico e si
guavda bene dal cousiderane le distinzioni verbali come distinzioni
conceltuali 0 l’identità di forma verbale come identità
concettuale. La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti
le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei giudizi le
modalita e le specie delle proporzioni, lra- sporta nei raziocinì le
figure e ì modì dei sillogismi: anzi la distinzione stessa delle forme
logiche in con- celti, giudizì e raziocini è nient’allro che una
proie- zione di forme verbali nell’altivita del pensiero. Per- ciò
la logica formalistica qua talis, non ha valore speculativo (logico in
senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con piu o
meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo
51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila "a discussione
delle idee; è un'arte in senso di tecnica, 9 meglio, è una collezione
(non connessione) delle forme del discorso empirico umano, una specie di
leltorica 0 grammatica messa a servizio non del par- lur bello ma del
parlur giusto. Può essere ed è fino a un certo punto praticamente utile
come tutte le. discipline descriltive assunte a discipline
nurmative d universale, come storia o guidizio sintetico, a
priori, .
PR TA
DA | Sèhiller e la Logica Kormale e
precettistiche, ma non ha valore speculativo, ron ci dè, anzi ci
nastonde la forma intima. del pensiero necessario € unico, © SÌ
contenta di offrire! le forme esteriori, arbitrarie è quindi componibili
€ combina: bili all'infinito. - . I Jo Schiller na un
buon gioco @ mostrare il caral- tere arbitrario di questa logica, la
astrallezza di essa, la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa
può anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della mente
individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs nol .? ossible t0
abstract {rom the aclual use of the logical | material and lo consider —
forms ol lought — @ 4 Ihemselves, voilout incurring thereby @ total
loss, 1’ hi nol only of Wrui, but also of
meaning ” (IX). i s 2. — Ma con ciò non si è déito che ba ragione @
| ‘non riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica, |
tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale cu- | mè la chiama
erroneamente lo Schaller), c'è la logica i formale vera secondo la quale
la maleria è fusa nel la forma, poichè per èssa la forma logica,
concel- ‘tuale, sintesi di materia e forma, di pensiero e lup-
‘esentazione: è forma Non astratta me concrela ;
e tulto il pensiero reale storico perchè appunto sun: f (esi
univarsale individuale: è il razionale-reale, il fl concetto.
È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0 psicologi- | stica!
Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di # meno arbitrario che
nella logica forinalistica non sì ì trova neanche quella apparenzà di
necessità e di as- Solutezza che la logica tradizionale ci oifre, sia
pure solto una forma astratta e verbalistica. Finchè non si accetta
e non SÌ capisce la logitù del concetto puro e semplice, ogni tentativo
di riforme logiche sarà nulla più che un saltare dall'arbiltàrio
all’avbitrario, dall'astratto ali’astratto e un aggiungere al mele
131 nuovo male o una forma nuova del male. L per yite- nere questo
scopo non mette certo conto di scrivere un grosso libro come
questo. Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che lui
ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1o-
| Ml Praqmalismo' (h) gica formalistica
e cioè: I° la credenza che sia pos- sibile considerare la «validità
formale» come una cosa a parle e indipendente e astrarre dalla
verità «materiale »; 2° la credenza che sia possibile tratta- re la
iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrar- re dal contesto atluale
in cui le asserzioni sorgono, tempo, luogo, circostanze, Scopo,
personalilà, ecc. (P. 375) e se avesse poi esaminato con più
spassio- natezza la logica del concetto-sloria, non avrebbe for- se
futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi- zionale cd avrebbe trovato
che parecchie delle sue critiche sono state già fatte da altri, i quali
non sen- lirono però il bisogno di sostituire, come fa lui, le
elichelte psicologiche alle elichette della logica for- malistica. In
questo libro c'è molto del buono anche perchè dai principio alla fine
corre nelle pagine una domanda sempre crescente di concretezza ce,
anzi, pare a volte che lo Schiller abbia colto il centro della
critica e della ricostruzione. Purtroppo i: pregiudizi pragmalislici gli
impediscono di assurgere ad un punto di vista superiore; anche lui, pur
nella lotta contro gli schemi e !e elichetle, maneggia schemi ed
etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon pragmatisla, ne è
consapevole. V.
VALUTAZIONE CRITICA. SommMario:= & | La reazione
contro l'intellettualismo. — | $ 2. Verità e ‘utilità. | gi,
— Del pragmatismo non si parla più che com di un indirizzo di
ricerche e di asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto d'ora
di celebrità pei scomparire per sempre e senza visibili influssi
sullu svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une
reazione all'intellettualismo razionalislico ed empiristico, che non
sapevano valutare l'attività de: soggetto nella creazione del mondo del
pensiero € della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:;
nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha sapulo nè volulo
evilare, con una doverosa distin: zione dì logica e psicologia, lo
scoglio terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte
lt cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È
inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto
dell'individuo, © ad espressioni del la nostra soggellività volitiva e i
giudizi scientifici speculativi a semplici giudizi morali; negala la
pos sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima immanente
e ascendente dell'essere o del divenire con l'affermazione della
universale soggettività e Ie ‘natività; posto l’utilitarismo a base di
ogni costruzio: ne concelluale e considerati, quindi, i concetti
com‘ funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale,
il pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può
essere metodo per sè, I
i UT Il Pragmatismo : i lla vita colta non
filosofia sc IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei s o ve omalismo
profes- E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso non ha sa
di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan: dog int aa istcao mon è forse
una dottrina? Magli vamestto he riassume il me- Non è una dottrina
la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er 6 da acco
utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza in: ilitari
ico e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo ab: Dima
definito, credo, Felino due aspetti più es- ziali la teoria
pragmati nd AR Sa CLES Della quale non è qui il luogo di
TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D
pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al- l'eccesso opposto
nella sua reazione all intellettua- lismo, perchè ha negato addirittura
il concetto come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso,
vano, perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in- dirizzo,
quella che, purificata di tutto l’utilitarismo + materialistico che
troppo spesso la intorbida, si può esprimere nelle parole evangeliche:
«Dai frutti co- noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso
spirituale altissimo della parola — è un aspetto della verità: la
verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non
dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare,
perchè e in quanto è utile, ma è utile perchè‘vera. .La
verità metafisica e logica di una idea e di un Sistema d’idee è il
fondamento di tutti gli altri at- tributi dell'idea e del sistema e di
tutte le loro cor- rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.
Yogi Pragmatis
NOTA BIBLIGGRAFICA
—_——_—- “ Rimandiamo alle seguenti pibliografie: « The Pych
Zev. » vol XVIII, 1911, pp. 157-165; G. Parini, Sag- gì pragmatisti, R.
Carabba, Lanciano; Ugo SPIRITO, JI pragmatismo nella Jilosofia
contemporanea, Firen- ze, Vallecchi 1921; Sinvio TISSI, Nota bibl. al
vol. su James, Milano,. Ed. Athena 1924. | Segnaliamo poi, nella
ricchissima bibliografia del- argomento — oltre ui molti scritti
segnalati occasio- almente nelle note — le seguenti opere: G.
VAILATI, Scritti, Firenze, Secher 1911; G. Papini, Sul Pragma- |
lismo, Milano, Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato ‘dal Vallecchi nel
1920); M. CALDERONI è G. VAILATI, IL $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba,
1920; U. SPr- “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O.
CAM- 7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», 1924.
IT. I. III. —
INDIVI - LUO INDICE LINEE FONDAMENTALI
DEL PRAGMA- TISMO. — $ 1. Il Pragmatismo anglo- americano. —
$ 2. Pragmatismo e Umani- smo. — $ 3, Pragmatismo e conoscenza.
LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTÀ. — $ 1. La condotta. — $ 2, La
dottrina dolla verità. — fg 3. La dottrina della realtà. x : 5 0
LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. — $ 1. Lo preoccupazioni etiche e
reli- gioso. — $ 2. L’esistonza di Dio. — $ 3. Il concetto di Dio.
— $ 4. Religione e Religioni , ò . . . 3 SCHILLER E LA
LOGICA FORMALE. — $ 1. Caratteri della logica formale nella
concozione dello Schiller. — $ 2. La vali- dità formale Ù 5 5 9 -
VALUTAZIONE CRITICA. — $ 1. La rea- zione contro
l’intellottualismo. — $ 2. Ve- rità e utilità . È - ‘ - NOTA
BIBLIOGRAFICA . Da è pag:
5 28 57 92 96
I MAESTRI DEL PENSIERO.
VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE
i) ei n VALENTINO
PICCOLI À { Bi: INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA | i PAOLO ROTTA PAOLO
ROTTA | ì | ARISTOTELE BERKELEY | IALENTINO SETCOO LI ! GIUSEPPE
TAROZZI | PLATONE LOCKE | S: PICURO. E. PAOLO LAMANNA AAA °
"KANT 6000 V. ARANGIO-RUIZ na * LOTINO GIUSEPPE MAGGIORE
|» FICHTE HQ P. E. CHIOCCHETTI
S. AGOSTINO PIETRO
MIGNOSI E. CHIOCCHETTI SCHELLING | "S TOMA ASO GIUSEPPE
MAGGIORE | CHIOCCHETTI HEGEL i S. PONAVENTURA Big ni x
TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI
o SPINOZA STUART MILL “50 »ALENTINO PICCOLI E. MORSELLI Î Y
MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P. ROTT _
SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER P. LAMANNA
— KA MAGGIORE — FIGI TITE . E. CHIOCCHETTI — S. TOMASO
VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI — COMTE BOT}
— ARISTOTELE —_ SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio
Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know
that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher,
and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica,
Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716695872/in/photolist-2mN2zUd-2mKCVsF/
Grice e Chiodi – esistenti – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice:
“I like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian
language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to
play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians
only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent
‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” -- Pietro Chiodi
(Corteno Golgi) filosofo. Figlio di
Annibale e Maria Romelli, frequentò le scuole elementari al paese natio e le
medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida del prof. Credaro, che lo
avviò allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito nel 1934 l'abilitazione
magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò il 27 giugno 1938 in pedagogia
sotto la guida di Nicola Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di
storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò per
18 anni. Qui entrò in contatto col professore di lettere Leonardo Cocito, del
quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi lo scrittore Beppe
Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i
loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny,
il personaggio di Monti. Grazie ai suoi
contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, Chiodi entrò, Il 2
luglio 1944, a far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col
nome di battaglia di “Piero”. Il 18
agosto di quello stesso anno Chiodi venne catturato dalle SS italiane, assieme
ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a
Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di
rimpatrio. Il 30 settembre alle ore 07:30 era alla stazione di Innsbruck
diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la
sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio,
mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi
intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località
pilone Virle) il 7 settembre 1944, insieme ad altri patrioti. Nel 1946 narrò la propria esperienza di
lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e
pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici
italiani. Dopo la liberazione di Torino
nel 1945, Chiodi era tornato all'insegnamento ad Alba. Nel 1957 si trasferì
come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Vittorio Alfieri del
capoluogo piemontese. Nel 1955 ottenne la libera docenza e dal 1963 fu
incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà
di Lettere e filosofia a Torino, insegnamento che ricoprì fino alla sua
prematura morte nel 1970, affiancandolo all'incarico di Pedagogia. Nel 1961,
l'Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della
Pubblica Istruzione per la filosofia e nel 1964 gli fu conferito il Premio
Bologna. Alla ristampa del 1961 di Banditi
Chiodi premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La
presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far
rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando
consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li
attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà
nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in
tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente
da chicchessia». Raccolse grande stima
ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande
Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio. Attività filosofica L'attività filosofica di
Pietro Chiodi si concentrò specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave
positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Martin Heidegger. Egli fu il primo traduttore in Italiano di
Essere e tempo, nel 1953, e il terzo in assoluto a realizzarne una versione in
un'altra lingua, dopo il giapponese e lo spagnolo. Proprio a Chiodi si deve la
definizione della terminologia heideggeriana in Italiano, divenuta poi abituale
tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione del tedesco Dasein con
l'italiano Esserci, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non
ancora raggiuntain questo specifico casoin altre lingue. Al filosofo tedesco
dedicò anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger (1947),
L'ultimo Heidegger (1952), Esistenzialismo e fenomenologia (1963). Fu, inoltre,
traduttore di L'essenza del fondamento (1952) e Sentieri interrotti (1968). A
Immanuel Kant dedicò, invece, La deduzione nell'opera di Kant (1961) e ne
tradusse nel 1967 la Critica della ragion pura e gli Scritti morali, usciti
nella sua versione nel 1970. È infine da ricordare il suo interesse per
Jean-Paul Sartre, del quale si occupò nel 1965 nell'opera Sartre e il
marxismo. L'esperienza partigiana rimase
sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi, per cui il valore
della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio faccia
rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento
ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua
breve e unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e
morale ma anche letterario, è stata definita da Davide Lajolo «Il libro più
vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità, 10
ottobre 1946) e da Franco Fortini «quasi un capolavoro [...]. Ci sono dei
tratti straordinari, nel tragico come nel comico». Opere Chiodi Pietro, Banditi, con
introduzione di Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 2002 [1961], 978-88-06-16322-8. Chiodi Pietro, Esistenzialismo
e filosofia contemporanea, Giuseppe Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale,
2007, 88-7642-194-7. Note Deportati Politici Italiani, su
restellistoria.altervista.org. Chiodi, Banditi, Torino, Einaudi, 1975V. ,
Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, 1994132. Resistenza italiana Deportati politici
italiani Esistenzialismo Martin Heidegger Opere di Pietro Chiodi,. Biografia di Chiodi nel sito
dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi 'Beppe
Fenoglio'CHIODI Pietro, su centrostudibeppefenoglio. V D M Antifascismo
(1919-1943) Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani 1915 1970 2
luglio 22 settembre Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati
politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla annhihila, Kant
imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical reason,
existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality, maxim
universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51771911472/in/dateposted-public/
Grice e Chitti – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Citanova).
Filosofo. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about –
law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French
philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to
express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo
fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed
all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato
e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio e di Saveria Barbaro, nativa di
Napoli. Partecipa a Napoli, col padre ed
i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel
Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse
amicizia con molti patrioti del tempo.
Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la
professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la
feudataria del luogo, Maria Grimaldi-Serra, ultima principessa di Gerace,
davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la
restaurazione ebbe la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e
Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia
di Emanuele Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Fu
coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti
Morelli e Silvati, fu quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo
a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ebbe l'inibizione ufficiale a
rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si
recò a Bruxelles. In Belgio da lezioni
di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario
della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli conferì la
licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel
Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture furono intitolate da lui stesso
«Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non
comune cultura sull'argomento. Pubblica altre opere ed in seguito alla fama
acquisita, il governo belga gli conferì la carica di Professore alla facoltà di
diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi lavori e
strinse amicizia con Gioberti, che lo definirà valente economico. Nonostante la
revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimase in Belgio ancora per parecchi
anni fino a quando partì per il nuovo mondo.
In America, tenta varie imprese
commerciali, ma difficoltà sopravvenute gli fecero abbandonare presto i suoi
progetti e si stabilì a New York. Altre opere: “Trattato di economia politica o
semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si
consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali
dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del
Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of
Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì.
New York Daily Times pag. 4 Daily Free
Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for
Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley
Online Library Vincenzo De Cristo, Prime
notizie sulla vita e sulle opere di Chitti Economista, Prem. Tip. e Lib.
Claudiana, Dizionario biografico degli italiani, 25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Per una rassegna delle
interpretazioni dell’azione economica corporativa si veggano i nostri :
Lineamenti di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Ca¬
tania, Studio Editoriale Moderno, 1932. Sono ivi ricordati i
contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo dell’azione
economica corpora¬ tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo
Oeconomi- cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti
del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essen¬ ziale dei
contributi italiani allo studio dell’economia corporativa, tralasciando
di segnalare gli studi, nume¬ rosi, di carattere polemico e
giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e, spesso,
deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ «
Ho¬ mo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬ nale degli
economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬ nomia Nazionale corporativa,
Roma, Libreria del Lit¬ torio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa,
Firenze, Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬
fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti
cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica economica, in «
Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934 (Classifica le varie politiche
economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni economici
particola¬ ri, con il compito di emanare misure rispondenti, nei
rami particolari, alla politica economica generale ema¬ nante dal governo
economico centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni economici particolari).
Bru- guier G. : A proposito di interventi statali, in «Ar¬ chivio
di studi corporativi », Anno IV, Fase. III, Pisa, 1933 ; Borgatta G. :
Prefazione al nostro vo¬ lume av. cit. : Lineamenti di politica economica
corpo¬ rativa; Carli F. : Teoria generale della economia poli-
r > V I
136 LELLO GANGEMI tica nazionale, Milano, Hoepli,
1931; e dello stesso: Le crisi economiche delV ordinamento corporativo
della produzione, in « Atti del II Convegno di studi sinda¬ cali
corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e forme delT attività
economica, in «Rivista di Politica economica » del 31 gennaio 1931.
(Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che un’
economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua
realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell individuo
con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e
nuovo corporativismo eco¬ nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica,
in onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio V au¬ tore
conclude che il corporativismo italiano pur traen¬ do alcuni suoi
elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬ novesi, dal Bastiat e dal List si
differenzia da queste in quanto che inquadra le sue idee in una
concezione piu larga, che non tiene solo conto degli interessi dei
singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale, che per essere
sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della Nazione, viene
organizzata gerarchica¬ mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma
e la sostanza della economia corporativa, Firenze Poli¬ grafica
Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento
corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società pel Progresso
della Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre 1930;
Einaudi L. : Trincee economiche e corporativi¬ smo in « La Riforma
Sociale », novembre-dicembre 1933; e dello stesso: Corporazione aperta in
«La Riforma So¬ ciale » Marzo-Aprile 1934. Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Fer¬ ri C. E.:
L’ordinamento corporativo dal punto di vista economico, Padova, CEDAM,
1933; Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e
dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei «
Pro¬ blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬ mia
corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Ca¬ mera corporativa e redditi
di gruppo, S.A.T.E. Ferrara 1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di
ima econo-
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
137 mia e di una pplitica economica corporativa, in : «
Rivi¬ sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene questo
A. che tanto la politica economica corporativa, quanto l’attività
corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati
di una coscienza corpo¬ rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione,
e in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬
scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo be¬ nessere individuale compatibile col benessere della
Na¬ zione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬ ciente
chiarezza (univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Pur¬ ché non si mescolino precetti e teoremi, e
peggio, non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente
legittimo fare della economia corporativa una « eco¬ nomia » astratta,
trovare il nocciolo razionale del con¬ creto empirico). Gobbi U. : Il
procedimento sperimen¬ tale della economia corporativa, « Giornale degli
eco¬ nomisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa politica,
Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle
imprese industriali, Firenze, Poli¬ grafico Universitario, 1934; Jannaccone
P.: La scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
al¬ l’inaugurazione dell’anno accademico della R. Univer¬ sità di
Torino, 5 novembre 1931), e dello stesso : Scienza, critica e realtà
economica, in « La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1930; Lanzillo
A.: Studi di eco¬ nomia applicata, Padova, Cedam, 1933 e dello
stesso A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivi¬ sta
Bancaria », novembre 1928, ed Economia corpora¬ tiva e politica
economica, in « Giornale degli Econo¬ misti », ottobre 1930; Lo Stato
come fattore di produ¬ zione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo
Stato come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche
Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica
tradizionale e la notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i
quali riescono inte¬ ressanti a seguire non come simpatizzanti delle idee
li- erali o di altre tendenze, ma come scienziati del-
l’economia, riconosce che per dare un carattere di socialità, che
concili l’interesse privato con quello sociale o nazionale, alla economia
privata, non è ne¬ cessario giungere alla totale abolizione
dell’economia privata ed alla identificazione dell’ economia
pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente al
centro dell attività economica umana la produzione e non lo scambio non
ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’ interesse individuale e
dell’ interesse sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è
in¬ dividuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,
come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei valori economici
ed il movente egoistico dei fatti eco¬ nomici e identificare F iniziativa
economica privata coll’ iniziativa economica pubblica o statale,
bisogne¬ rebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬
nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni, di
desideri e di gusti che esistono ed esiste¬ ranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riu¬ scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia
corporativa la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione
eco¬ nomica della produzione invece dello scambio, inteso nel senso
della ripartizione del prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti
i fattori della produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del
lavoro, del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli
intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la
definizione dei fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso,
infatti, si dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione
econo¬ mica col passaggio di tutta l’iniziativa economica pri¬ vata
alla Corporazione e con la conseguente trasfor¬ mazione di tutta
l’economia privata in economia pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la
Corporazione non as¬ sumerà la direzione della gestione economica della
pro¬ duzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eli¬ minare
il classismo o particolarismo economico, di im¬ pedire che uno o più
fattori della produzione si fac-
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 139
ciano la parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di
adeguare l’andamento dei prezzi al pro¬ duttore con quello dei prezzi al
consumatore. Cfr. di questo A. : Il problema fondamentale
delTeconomia corporativa, in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ;
Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬ logia
economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi modificazioni gli
scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito di un tentativo di
teoria pura del corpora¬ tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio
1930 e dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in
«Giornale degli economisti», settembre 1930 (in questi scritti il Pagni
critica a fondo la costruzione teorica cor¬ porativa del Fovel. Contro
questi si schiera anche Bru- guier nello scritto sopra citato ed anche
noi nei nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini
G.: L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-
rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933; Serpieri A.: Lo
Stato e Veconomia, in «Educazione Fa¬ scista », giugno-luglio 1927 e,
dello stesso : Economia cor¬ porativa e agricoltura, in « Atti del II
Convegno di studi sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.:
La critica dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello
stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano, Treves 1932, e
Capitalismo e corporativismo, Firenze, Sansoni, 1933.
L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo A. sono
dovuti a ragioni di carattere esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha
espresso il giovane filosofo. Nella critica all’economia liberale,
infatti non fa che ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto
dai seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituziona- listi
americani contro la economia liberale. È confusa la scienza economica con
la praxis dei governi liberali e demoliberali. Nella critica al
capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart
ha espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo e quanto
altri economisti contemporanei hanno scritto contro il sistema
capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna
discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare
che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio.
Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo fasci¬ sta
tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della << Carta del
Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa
n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il
pen- siero di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella
costruzione teorica la quale e apparsa a sfondo social-comunista per
l’ammis- sione della corporazione come proprietaria. Propugna,
inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e
già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può
Scorgere nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per
cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬ rativismo si
riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri
grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche
corpo¬ rative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.:
Capitalismo e Cor¬ porativismo, Sansoni, Firenze, 1933). Contra
a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit.,
Moretti, appresso cit.. Vinci, ap¬ presso citato, ed i seguenti scritti:
Croce B.: L’eco¬ nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20
gen- naio 1931 ; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo Stato
in «La Vita Italiana», novembre 1933; (jANGEMI L. : Individuo e Stato
nella concezione corpo - ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi
Sinda¬ cali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu- leri
A.: L economia corporativa, in «La Civiltà Cat¬ tolica», 16 dicembre 1933
e dello stesso: Crisi e capi- talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio
1934, etc. Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e
Stato nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora- .V'iV-’i 193
- 3 ’ anno *V, f asc - IV) mostra come la formula dell identità è
chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo
moltiplicando le sue forze
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE 141 non rinuncia ad essere sè stesso. Il
grande significato del Corporativismo è la disciplina economica
nazionale. Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’og¬
gettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata, sopratutto la
oggettivazione delle scelte economiche. Il nuovo modello della realtà
economica non potrà non essere anch’eseo, naturalistico e deterministico:
non c’è scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬
zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato Corporativo non
vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con
l’economia de¬ gl idealisti non va assolutamente confusa con le
invet¬ tive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I
principii della Scienza Economica e l’economia corporativa
(«Rivista di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. ri¬
fiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando ® correggendo
le opinioni di Arias e Fovel considera l’economia corporativa come una
economia non eu¬ clidea. Papi U. : Un principio teorico deW
economia corpo - rativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930
e più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e
Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese con¬ tro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica
il concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬ ria
dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento corporativo traduce nel
diritto positivo un complesso di norme di diritto naturale, che
presiedono al feno¬ meno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto
cor¬ porativo, definizione giuridica della libertà economica c e
sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo
corporativo si risolve nell’uomo eco¬ nomico libero. L’economia
corporativa importa la pe¬ netrazione nell’organismo produttivo di un
sistema or¬ ganico, razionale di politica economica. L’economia
Liz ---- LELLO GANGEMI corporativa risolve il
contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica. Dover
essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬
mismo economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo
e la scienza economica («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio
1934. Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fat¬ tori
di produzione e fra le varie imprese e delle con¬ dizioni di concorrenza
mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e l’autodecisione,
ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni e dei con¬
sumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬ l’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Cor¬ porazioni, imponendo al Consiglio
Nazionale delle Cor¬ porazioni un continuo, pericoloso compito di
revisione e di conciliazione in base a valutazioni complicatis¬
sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». APPENDICE
III Sulla Finanza Corporativa. Si espressero anni addietro a
favore del contingente : Griziotti, Finanza di guerra e riforma
tributaria, in «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il
contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬ nanze, Torino, 1932,
pag. 257-262. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più
seri): Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa,
in « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordi¬ namento
corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. II; Bonanno:
L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e
prat. trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la
sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357;
FINANZA CORPORATIVA 143 Uckmar :
Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in «
Diritto del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato
corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬ nanza corporativa,
in « Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed infine, sempre dello
stesso: Ordina¬ mento corporativo e ordinamento tributario, in «
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara,
1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale trova favorevoli
Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia
individualista e per¬ ciò la vorrebbe riformata in un senso meno
individua¬ lista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che
trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che riconoscono
doversi inserire nell’ordinamento cor¬ porativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬
sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco
(«Comunicazione al II Conve¬ gno di Studi Sindacali e Corporativi »,
Ferrara, 1932, voi. II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o
per lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali ed alla
loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato,
riconosce che il potere impo- sizionale tributario spetta allo Stato.
Quest’autore quin¬ di può inscriversi fra i fautori di una finanza
coordi¬ nata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate
e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a presentare un
contenuto politico, riveste un con¬ tenuto tecnico con il quale male si
accorda la improv¬ visazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la
soddi- stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per
cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere
incoraggiato i salti nel buio che in materia finan¬ ziaria si scontano
amaramente dalla Nazione, e perciò si ritengono solleciti dell’interesse
nazionale e cioè non meno rivoluzionari dei loro colleghi che
manifestano i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra
tanto 144 LELLO GANGEMI
contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che
accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in ™° m A a C °p 1
^gamzzazione corporativa: Garino Ca- Problemi di Finanza, Torino,
Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Cor- porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello
TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria», giugno 1929;
Gangemi L- rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica
Economi- Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza
nello Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e
S“,° Ì 93 £ r” cernii in «Rivista di Politica Economica»,
1931, fase. VII-Vili (e una carica a fondo contro la funzione
graduale, ransitona e limitata del contingente come è propu¬ gnata
da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi
nella Rivista «Il Commercio» f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli
Colonna: Teoria e problemi della- economia finanziaria corporativa,
Ales¬ sandria Colombani, 1932 (è questa una diligente ras- segna
dei problemi corporativi della finanza). Infine, si segnala 1 eccellente
studio del Borgatta: Le funzioni m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo
Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi
nanze ’ Padova, CEDAM, 1934) non sembra opportuno affidare
all’Asso- ciazione Sindacale la ripartizione degli oneri
tributari a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬
te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe
spesso non sarebbero neppure in grado di svolgere efficientemente data la
limitatezza e l’inade- guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,
anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m
tal modo animosità lesive di quella compattezza dell’Associazione
Fascista, che costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in
relazione ai fini propostisi dal nostro legislatore» (pag.
210-211). Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La
ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e corag¬ giosa: due tipi di imposte dirette,
proporzionali, l’una
FINANZA CORPORATIVA —" : 145
. ' ■ * sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro
sistema at¬ tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da
una imposta personale, la complementare, che con i procedimenti fatti
approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura che le consente di
assolvere agli im¬ portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè
la riforma proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro
sistema d’im¬ posizione diretta, sono necessari, per giungere ad
essa, lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,
sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi, sulla
organizzazione tecnica della nuova amministra¬ zione; sopra tutto
occorre, per concepire ed attuare una riforma così vasta e complessa che
le condizioni del- 1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino
in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte cose queste
di cui il Benini è consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti
il quale fra le due opposte opinioni che esiste una finanza
corpora¬ tiva oppure il contrario che questa non esiste sostiene
una terza e differente che trova riscontro nei seguenti scritti: La
trasformazione delle finanze pubbliche nello Stato Corporativo fascista,
in « Il Diritto del Lavoro », fase. II, 12, 1929); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo
Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.
glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le finanze pubbliche e
l’ordinamento corporativo, in « Eco¬ nomia », N. 6 del 1930. Il Griziotti,
se non erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate in modo
da rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬ stema
tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia nella
ripartizione dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata
ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fa¬ scista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste
idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento del¬ le imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
so¬ praredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM, 1932,
pag. 54-55) « Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi
fonda¬ mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè
alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista viene
apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del
controllo sociale che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi,
viene attuato dallo Stato ». . Nello Stato corporativo anche
la politica fina 1 - ziaria deve necessariamente seguire le direttive,
che non coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista
(benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle del sistema
collettivista. Essendo l’imposta uno dei principali strumenti
di cui lo Stato — qualora rispetti il principio della pro¬ prietà
privata — si può valere, per intervenire nel cam¬ po dell’economia,
individuale, è logico che ad essa fac¬ cia più largo ricorso uno Stato,
che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale
lo ri¬ chieda. E essenziale rilevare che nel sistema
corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:
mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si pro¬ pone fini di
benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di
tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo
Stato corpora¬ tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si
fa esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione de¬ gli
scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le
FINANZA CORPORATIVA - 147 forze utili' ai
propri fini, ma facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere
le forze individuali all’ob¬ biettivo prefisso. Non possiamo
chiudere questa nota senza ricordare il contributo che, anche in questo
campo ha dato Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista,
in « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori
sistematici ed i creatori di schemi astratti fareb¬ bero bene a leggere
ed a meditare se veramente sono, come si ritengono, difensori
dell’interesse nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia
sociale, economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia
corporativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689157376/in/photolist-2mKArEy
Grice e Cicerone – Marc’Antonio – filosofia romana –
Luigi Speranza – (Italia). Ciceronian implicaturum:
Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone
ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo
romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone
IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to
provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I
would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for
the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- Marcus
Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important
not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for
anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas,
Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of
a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of
Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of
Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and
not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However,
unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind
phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism.
Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about
knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false
impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive”
probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed
accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course
between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest
of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits
them to criticism, and tentatively supports any positions he finds
“persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature
of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and
natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is
cool, witty, and skeptically detached
much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with
Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic
arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes
Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on
death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus
Tullius 143 143 ness in Tusculan
Disputations 45. Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical
system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the
eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what
had become authoritative professional systems often displays considerable
reflectiveness and originality. “Cicero
= Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’
is more of a description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed
by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’,
along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the
Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never
quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed
courage. Cicerone affronta e sviluppa la
problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica:
(i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se gni divinatori.
Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi to, possiamo osservare
che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi.
Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo
genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so cio-politico,
volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società
romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in
queste opere tut to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come
un vasto campo di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto
diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazio ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com
pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in
generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio,
che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso
non trova un'adegu�ta
giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è
dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria
ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è
un'opera giovanile di Cicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da
Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro
vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito
si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma
proposizionale, come an tecedente che permette di scoprire un conseguente.
Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire,
l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine
compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale
con il fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i
punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la
classificazione dei segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da
quelle precedenti. Essa ap pare infatti all'interno della teoria della
argumentatio (ar gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale
vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi:
"L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco gita da qualche
genere e che rivela un'altra cosa in maniera 210 9. RETORICA LATINA
probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo do necessario
(necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il
normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio
il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che
viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a
questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa
debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon
strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono
così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può
verificarsi né essere pro vato diversamente da come viene detto"
(ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo"
(ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De
inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione inscindibile (cum
priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto
di rinvio non necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso"
(De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due
caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi
era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i
primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come
eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran
caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico
rapporto di generalizzazio ne che per Aristotele definisce il verosimile
(Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta
polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv.
, 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più
vicino al s�meion
aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una
sottopar tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le),
ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre
nozioni appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet
fiori élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio� � � �--- --- - l "'·-- signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luo ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle
"prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i
responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6).
Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda lica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del para digma divinatorio all'interno dei fatti
semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.
9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che
riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode,
in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con
indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare
dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81;
Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni
umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin seci, in particolare tra
quelli che riguardano lo stato di cau sa congetturale. Infatti la congettura
può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le
notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice
Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a
esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare".
Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il
carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita
come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa
certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi
dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e
dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di fdion s�meion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei
quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, edagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekm�ria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones
oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì
anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono
dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni
non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i s�mefa da un punto di vista episte mologico
per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora
si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215
coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum
(•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia
fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu
rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di vinazione
artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione
naturale. Infine, come Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i
segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente
oppo sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa
propongono dello stesso fatto due interpretazioni di verse ed entrambe
plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre
nutre una diffidenza enorme nei confronti della di vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato st��so; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén�), non è conoscibile per intero da parte
degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De
div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con nessioni passate, si
crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare
così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato
sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo
di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una
parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento
futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i
segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi
nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale,
mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia
veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come
se gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come
degli antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri
rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone
tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma,
mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è
motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div., II, 74).Grice: “Most English
gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit
for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes
dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation,
/kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of
attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to
cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses
Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS –
virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in
keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to
the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the
‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and
future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first
beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a
lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming
free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the
Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is
a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN
man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was
that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN
man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his
SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be
a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this
‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it
was the job description of a job he never applied to. The other very useful
institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically
between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some
overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no
reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution
by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary.
Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to
pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please.
Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a
latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED
to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as
self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act
would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all
this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be
ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of
the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire.
When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they
were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not
represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law
against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the
two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and
literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic
references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and
eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair
with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio
a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and
controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner subservient!” Manetti
has explored the semiotics of CICERO in some detail. In general, he approaches
first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on rhetoric for long
attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based. His idea is that
if x, y. x is a sign of y. y is the
cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as part of the
analytica – or demonstration which is not necessary. It is interesting to
compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian,
possibly a homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally
meaning that the person is a homosexual. He said there were none. It is in this
discussion that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra
augustea della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth
of Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are
natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly,
semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’
conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary
Latin into extraordinary philosophese!” Cicerone – Keywords: Marc’Antonio, untranslatable,
signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773595825/in/dateposted-public/
Grice e Ciliberto – il principe e il suo
principato– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting
way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not
explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that
everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses
the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti
del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”.
“Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul
Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S. A. Associazione di
Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della
sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno
e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione
italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica
e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa. Altre
opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali
e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo
& Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia
e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La
ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno,
Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova
edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel
Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita”
(Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari,
Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari,
Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine,
concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura
italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,.
Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo,
neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza);
“Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli
Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Preludio
al Machiavelli * Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola
— dalle legioni chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn
inciso U motto di Ma ’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò
troncò gli ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924
\l Pnncipe di Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade
ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà
Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-
ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe
loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S , e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -
po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel
Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari
vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non .8
uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita
vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi , e f° Se ’ ^ 3
SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f q
uind i una fredda dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto
un dramma, se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico
il tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli del MachiaveUi potrebbero
ave- * Da “Gerarchia”, n. 4, aprile 1924, III. I ,i .
•>\fruzione del regime (1922-1932) 229 i. iniit
t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic
del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in >
111 1 11 scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte
> I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente
attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la
dottrina • li Machiavelli è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se
gli nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non
si h« i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e
dei itopoli. >. ln politica è l’arte di governare gli
uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro passioni, i loro
egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine generale che
trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che l’elemento
fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa
Machiavelli degli uomi- nl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo
“uomini” dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli
uomini, cioè degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie della eternità”?
Mi pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
de- gli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.
Orbene, t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura
del Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti
della nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno
Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco
documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti. (,li
uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose chc
al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. A1
capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: IVrché
delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili
.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro
bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi, .piando el bisogno è discosto, ma quando
ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è tutto
fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Scritti politici di Benito
Mussolini Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte
varie quanto segue: Gli uomini si dolgono piu di un podere
che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto,
perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò
pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello
non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al
capitolo terzo dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è
necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella,
presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a
usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera
occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità,
ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito
ogni cosa di confusione e di disordine. Le citazioni
potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono
sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su- gli uomini, non è
incidentale, ma fondamentale nello spirito di Ma- chiavelli. È in tutte
le sue opere. Rappresenta una meritata e scon- solata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tem- po, ai fiorentini, toscani, italiani che
vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza
limitazione di spazio e di tem- P 0 * pi tempo ne e passato, ma se mi
fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in
alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse,
aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe.
L’antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di
Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo,
cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Prin- cipe deve intendersi come Stato. Nel concetto di
Machiavelli il Prin- cipe è lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, aH’atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizza- zione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano
il proprio io sull altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di
ri- volta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII
e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base
di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere
come 1 .1 nìstruzione del regirne (1922-1932)
231 hii.i enianazione della libera volontà del popolo. C’è una
finzione .• tma illusione di piu. Prima di tutto il popolo non fu mai
definito. I una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di
sovrano •ipplicato al popolo è una tragica burla. II popolo tutto al piu,
de- lcga, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi
rappre- M-ntativi appartengono più alla meccanica che alla morale.
Anche nci paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli
e necoli, giungono ore solenni in cui non si domanda piu nulla al
popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strap-
pnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi nor- mali — e
gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di
marciare verso l’ignoto di una guerra. A1 popolo non rcsta che un
monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità
elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui
potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o
è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria ainministrazione. Vi
immaginate voi una guerra proclamata per refe- rrndum ? II referendum va
benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per
collocare la fontana del villaggio, ma quan- do gli interessi supremi di
un popolo sono in giuoco, anche i Go- vcrni ultrademocratici si guardano
bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V’è dunque immanente,
anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia —
che peccava, attraverso Rous- seau, di un eccesso incommensurabile di
ottimismo — il dissidio fra forza organizzata dello Stato e il
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno
probabilmente mai. Ben prima del mio oramai famoso articolo Forza e
consenso, Machiavelli scriveva nel Principe , pagina 32: Di
qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché
la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è
difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere
ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro
per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati. IL
SINGOLARE LIBRO SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI
DOPO LA MIA PREMESSA, SEGUE IL "PRELUDIO" DI MUSSOLINI
POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU
MACHIAVELLI DI DIEGO FUSARO UN LINK CON UN ARTICOLO DEL Prof.
Pellegrino/Prof.ssa M.Mangieri >>>>>> ED INFINE ANCHE
IL TESTO INTEGRALE DE "IL PRINCIPE" PREMESSA:
Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi
centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni
critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo
(1789-1790) del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento
riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M.
Galanti, autore nel 1779 di un "Elogio di Niccolò Machiavelli".
Galanti faceva propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che
già era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme"
dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel
"Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai
re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il
libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi
in "Dei sepolcri". Contro questa interpretazione Vincenzo
Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica,
mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una
monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.
Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come
risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano
nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di
lunga fortuna nello storicismo tedesco. In Italia nell'età risorgimentale
l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna
dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione"
come profeta della riscossa nazionale. Il superamento di tali posizioni
si possono considerare le pagine appassionate di F. De Sanctis(saggio che fra
breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto
(pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè). A De
Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma
come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e
impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di
una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in
terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per
Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della
politica come attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
"Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di
Machiavelli e del suo mito fu fatta da Benito Mussolini che prima un suo
articolo - nel '23 - lo scrisse su "Gerarchia", poi nel '24 - curò la
prefazione (che chiamò "PRELUDIO") di una nuova edizione del Principe
(adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra - del De
Sanctis). In queste pagine su Machiavelli, è piuttosto singolare che per
fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare
Mussolini. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio
l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In
queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta
l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del popolo a un
nuovo fascismo !! (prima fin dal 1883 ve n'erano stati molti di
"Fasci", creati dai socialisti violenti, che incitavano a ribellarsi
con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare
libretto (che possediamo) lo riportiamo integralmente, perchè all'interno
Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche): sulla dubbia
validità del potere esercitato dalla "sovranità popolare", e sulla
stessa utopica "democrazia popolare". Per Mussolini il Principe
del suo tempo è lo Stato. E lo Stato è il Principe, cioè - nei tempi moderni -
(che dopo aver preso il potere nel '22 - doveva essere Lui e solo Lui.
(Siamo lontani da quando (1905) - prima come anarchico poi come socialista -
lui esaltava il proletariato come futura classe dominante, e faceva l'apologia
della "rivoluzione violenta" indicata dalla dottrina di Hengel che
presentava nella sua teoria la "morte dello Stato" - E
nell'organizzare gli scioperi, lui era un vero e proprio "fascista
socialista violento " (così chiamavano - abbiamo detto sopra - fin dai primi
fasci del 1883 i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi (1883-1919)
sono QUI in Togliatti >>>>>>>> E nel farli gli
scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un "violento
socialista", e andò più volte anche in galera come sovversivo. Poi
improvvisamente nel '15 lui diventa "interventista" nei confronti dei
suoi ex socialisti che come "anti-interventisti" si opponevano a
quella guerra che dicevano voluta dalla più becera Borghesia con nessun
vataggio per il popolo analfabeta chiamato solo a dare il suo sangue.
Seguì la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, - uscendo
dal giornale "Avanti" che dirigeva - e fu poi perfino cacciato dal
Partito Socialista. Poi durante e dopo la guerra - soprattutto per come
finì il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi "fasci",
cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche
una certa (nuova) borghesia, che ora guardavano a lui che mirava a un
"Socialismo Sociale" e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra
operai e industriali (soprattutto nelle sciagurate "Settimane Rosse"
del '20 e '21. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali,
a pagare erano gli operai sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare
la fame. "La sovranità, al popolo - affermava Mussolini - gli viene
lasciata tutto al più solo quando è innocua (es. quando deve scegliere il luogo
dove collocare la fontana del villaggio). Mentre quando gli interessi supremi
sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli
al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica
burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità
alcuna". Mussolini inizia a guardare proprio alla "forza" (che
prima era usata dagli inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche
dai nuovi comunisti (sorti nel '21). Ci vediamo in questo suo Preludio su
Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del Principe; e come detto
sopra, appoggiandosi pure al saggio di De Sanctis. Abbiamo detto
utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che aveva intuito una nuova forma
di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella
collettività, nello Stato, il quale così diventa uno Stato "etico"; è
evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia
del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello Stato,
concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso
(es. "usare la forza"), dando origine a quel mito del
"machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da
altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità
del singolo uomo. Insomma Mussolini fece del Principe il suo vademecum.
Sbagliando però. La sua storia fu poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel
fidarsi troppo di quella gente che lo circondava - finì molto male e sbagliò
proprio sul popolo (che alcune volte nella storia con la sua vituperata
irrazionalità "fa quello che vuole"). E suona dunque privo d’effetto
quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli: "quando non
credono più, bisogna ricorrere alla forza". Era questo sì
l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi sarà perdente.
Perchè la sua forza iniziò a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui
solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli
(oltre ...le pagliacciate di Starace). Lui - in questo Preludio - citava due
frasi di Machiavelli, ma non ne seppe coglierne l'essenza. "Cum parole non
si mantengono li Stati" "Quel Principe che si é tutto fondato
sulle parole, trovandosi nudo, rovina". (che profezia!!!) E Mussolini nudo
si ritrovò prima in quel famoso 25 luglio. ( Lui si aspettava una reazione al
suo arresto. Ma fu una realtà molto amara.... "Ma come - disse preoccupato
- mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi (di assoluta provata fede)
?" - "Si eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro comandanti
hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione".
Lo aveva abbandonato perfino suo genero: Ciano. Ma poi - perso per strada anche
gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il
popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare "quello che
voleva" lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. "Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore". "I meccanismi politico-sociali ed
economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche,
perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. "L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso
investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno
disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale
per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio che si crede
onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa
dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate
della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una
buona formica". E ancora ("non sempre nell'asservimento (l'azione),
la retroazione è controllabile"). Questo non è il ragionamento di un
filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione):
Norbert Wiener - Mussolini usò tante parole. "Ma quale
fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile
prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone:
"qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil
prudenza machiavellica" Paradossalmente proprio su Napoleone,
Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui fallì miseramente perchè
aveva creduto troppo negli uomini". Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo "suo il popolo": "devono solo Credere,
Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse il consenso, c'è la
forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo
prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto
spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al Ministero delle
Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più
razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte? Io potente? basta
un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A Piazzale Loreto
andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. __________________
_______________________________
______________________________________ * ecco qui sotto il
"preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis
(datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e
il contesto storico di Machiavelli. Mussolini: " Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono
li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema
che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento
dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare:
Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà
intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia,
come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle
opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il
minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri,
tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la
sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini
e cose, fra la sua e la mia pratica di governo. Quella che mi onoro
di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni
altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo
senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso
delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si
pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I
consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i
reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é
circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente
limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente
attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di
Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti
esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate
profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la
politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare,
educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi
d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento
fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli
degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo
interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani
che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli
uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito
"sotto la specie della eternità" ? Mi pare che prima di
procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così
come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale
concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare
sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si
esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato
sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne
gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si
dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che
fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La
ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno
fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo
podere". E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano
tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni
storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella,
presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la
malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli
uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà
abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni
e di disordine ». Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I
brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli
uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in
tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo
punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i
successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel
concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente.
Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la
guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il
proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta
potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato
di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato
al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo
esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono
più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono
in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda
più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si
strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e
gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di
marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un
monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita
graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe
sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata
tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione. Vi immaginate
voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si
tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del
villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i
governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo
stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati
dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso
incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente
mai. Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e
consenso" (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina
32: "Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una
cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere
ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per
forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati
disarmati". Benito Mussolini
_______________________________________ POCHI MESI PRIMA DI QUESTO
ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA" MUSSOLINI AVEVA SCRITTO
NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE ANCHE
QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia,
marzo 1923 " Forza e consenso " "Certo liberalismo
italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi,
rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso,
come quest'ultimo, crede di possedere "scientificamente" una verità
indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo.
Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in
tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora
la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui
vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del
tempo, del luogo, dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno
fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e
il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci
sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità
alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto
che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo,
cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella
storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e
rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai
stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia
in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun
governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque
soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi
della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti.
Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà
del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.
Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei
liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi
ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade
vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque, una volta per
tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e,
se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o
meno decomposto della Dea Libertà". Benito Mussolini, da Gerarchia,
marzo 1923 ANDIAMO ORA AL TESTO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE
INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de "IL PRINCIPE"
Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio, proprio utile per
capire il ns. passato) DE SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in
Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non
celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista,
ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini,
che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè
contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro. Niccolò
Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente
fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone,
che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate,
verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel
Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.
Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose
sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e
dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato
segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte
legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose,
e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere
le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte
si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche
faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle
sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non
potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte,
sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze,
volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e
trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei
Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che
il nome. Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par elogium".
I suoi Decennali, arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni »,
scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di
bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione,
delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti
carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono
lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra
il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il
verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni
sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di
un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca
l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c
è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico
Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue
e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io
spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso
core; io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non
par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa
mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e ardo, e paura ho
di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle
cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto?
Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento
Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la
scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe
pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si
mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite,
nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi
personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al
tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici
dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei
Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle
Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai'
periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito
incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana
in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini
e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo
generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro,
e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione,
un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma
un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità
della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più
esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota
e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della
sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi
artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai
mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua
fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni
degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno
battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora
indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte
le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore
è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che
questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il
fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato
"machiavellismo" questa dottrina. Molte difese si sono fatte di
questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è
anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica,
oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i
fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la
coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità,
dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento.
In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione
della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le
passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in
solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di
staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? - L'Italia
aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di
Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo
modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava
per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva
senza contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo
sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono
e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità
dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri,
tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati,
artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei
campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i
lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie
di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro
principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza
celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata
dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani. Fra tanto fiore di
civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto
Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera
salute. Quello che oggi diciamo « decadenza » egli disse « corruttela », e base
di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza
italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di
questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel
clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in
mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società
e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che
dava sapore alla vita. La licenza, accompagnata con l'empietà e
l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti
Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le
ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi
concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal
pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non
contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero
non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia
nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio
e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano,
parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione
della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei
baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita
seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e
agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola,
ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile
alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a'
loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel
carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto.
Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella
coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che
pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo,
concorse alla sua demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore
platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o
meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento
ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua
opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il
suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua
negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza
vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua
coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero,
guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni
sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto
un nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla
verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì
la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La
realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E
l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o
nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti
visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo
della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica
una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa
licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo
concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la
faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo
che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su
questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco
d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte.
Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.
Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza,
ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua
attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La
contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica.
La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano
costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione come il nemico
più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par
proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che
bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere. Quel «dover
essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento,
deve far luogo all' « essere » o, com'egli dice, alla verità « effettuale ».
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo
reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base
del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone
a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il
suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della
patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di
fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e
dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo
della società. Intorno a questi due « Soli » stavano gli astri minori: re,
principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i
comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni
esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore,
e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione.
Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il
diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le
idee di quel tempo. C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma
l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi
colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico
linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità;
l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e
ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della
cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in
Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli
vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma
il principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto,
e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne'
mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro
allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia
nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte
gli ultimi vestigi del medio evo. La «patria» del Machiavelli è naturalmente il
Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e
dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore
sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano
formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte
le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e
non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi,
che si chiamavano "Stati" o "Nazioni". Già Lorenzo,
mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l' « equilibrio » tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure
non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone
addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo
d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca
è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la « patria »,
nazione autonoma e indipendente. La « patria » del Machiavelli è una
divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio
degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori
bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella
vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion
di Stato» e «salute pubblica» erano le formule volgari, nelle quali si
esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità
era scesa di cielo in terra e si chiamava la « patria », ed era non meno
terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre
l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo
era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la
servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi
"repubblica". E dicevasi "principato" dove uno comandava e
tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era
sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza
dello Stato. Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui
trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate
dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la
sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva
alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello
Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza
una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo
perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri,
ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel
popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di
Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era
perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli
statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza,
l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga
bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come
ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre
virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in
quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi
contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che
vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si
emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta
era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni,
ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che
ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «
disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a «
sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est
». Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza
della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa «
forza », « energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle
grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari
incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come
egli dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i
popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le
tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la
loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza
virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E
parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè
nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria,
Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra,
gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale.
Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee
che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca.
E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il
mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano,
che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non
è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata
dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue
facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento
di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di
effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni
e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e
di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base
scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi
successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia. Questi
concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una
lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel
grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione
dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il
possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo
ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo
pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo
spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è
Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le
gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza », come
preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i
miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà
principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini
fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le
due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il
misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che
ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove «
non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio,
e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono
maculati di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i
costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi
tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di
quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e
una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in
quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento,
con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio
evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana
è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla
alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con
lineamenti molto precisi de' tempi moderni. Il medio evo qui crolla in
tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo
negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione
sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento.
Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra
l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un
nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri
distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le
repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che
riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e
la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali,
e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma
degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare.
Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi
Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il
Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante, combatte
la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati
ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La
religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non
meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E'
in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai
fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico
del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione
della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo
tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele,
ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la
virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I
suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel
calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è
il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di
allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da
parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca
di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale,
vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito
umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso
«cogito », nel quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo
emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama
la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si
rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi
astratti, e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di
teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione,
fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale; e perciò il modo di
cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente
dei fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo
fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate nella pretesa
esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta
e naturale. Le proposizioni generali, le « maggiori » del sillogismo, sono
capovolte, e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata
dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie », cioè a dire
concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in
questo esempio: Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo
imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le
occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva
molto nella guerra senza alcun risultato: dallo spendere molto ne risultava
molte imposte, imposte infinite, insofferenze del popolo; e poichè questa
guerra era amministrata da una magistratura di dieci cittadini... la
moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della
guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in modo che si
appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata,
che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima,
che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina
ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende
profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso
che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma
è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì
che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo
ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è
ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così
l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e
farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono
anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e
non dimostra nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del
mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia.
Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella
bocca di tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o
quell'ironia de' « profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e
del male si affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli
». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un
intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue
spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una
mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la
forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori
didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione
corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi
«dimostrazione », se la materia era intellettuale, o « descrizione », se la
materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato
ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha
artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma
stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità
riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo
contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più
corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè
nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che
la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è così e
così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere
altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum »,
la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare,
il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della
vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa
di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo
superiore, il suo motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si
appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e
tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni,
le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli
ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e
perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà una serie
stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti
gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de
minimis », di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di
guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio,
come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di
visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti
mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è
insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli
spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli
oziosi. La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è
magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel
nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina
prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La
prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna
coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura,
la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel
lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta
l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato
lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi « forma
letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo
e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche,
comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui
l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il
Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa
generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce
maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto.
Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo
caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola.
Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con
lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la
cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò
naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di
dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è
chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera
di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal
medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora,
di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il
marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le
impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei
Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel
mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento
in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono",
che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa,
asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto
già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il
supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno.
Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo
concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un
attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi
«fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze,
appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da
una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di
Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era
sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola
delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. -
Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore,
l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è
essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La
virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente
forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la
forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato
lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola
cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni.
La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino
scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo,
tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in
Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli
è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e
meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I
personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non
è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena,
ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i
motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e
tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e
impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a'
moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita
intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena
e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve,
come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena
finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a
quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e
contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di
quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di
fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione,
tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione,
come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di
gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò
che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi,
perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee,
mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da
una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice
che ti pare superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli
uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non
hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà.
Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la
risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie
di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o
appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso
storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a
un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e
incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,
come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi:
degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia
non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini
politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a
fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono «
gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica
non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si
ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran
parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi,
degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere »,
cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o
così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e
perciò freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere umano ha
questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed
esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi;
onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia
intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il
mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua
immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di
questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro
con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria,
ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non
può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza
de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo,
tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le
buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente,
protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli
uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è
la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto
eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine
principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun
riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi
troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita.
L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non
secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve
domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole
o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato
dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti
poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in
lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo
dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli
bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da
elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E
il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e
regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano. Vedasi il capitolo
decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma,
posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e
saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi.
Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere,
nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o
lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per
fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti
fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei
romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del
mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo
straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano solo velleità.
E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra,
attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione,
libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà
tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui
è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito
d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima
sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la
repubblica. Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro.
Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere « uomo »,
iniziando l"età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo
principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era
appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo
cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si
presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza
gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la
forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane,
Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela
delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico
intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari
di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito
italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a
fare per una spada e uno scudo quello che aveva fatto per impossessarsi di lei:
- Non fu amore che ti mosse: « fu naturale ferità di core ». - Lo spirito
italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco
disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo
principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò
che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale,
che precorreva l'Europa di un secolo. Ma in Italia c'era l'intelligenza e
non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere
cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta,
una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la
scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un
contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è
fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello
spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile
ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli
stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità
intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il
coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti
intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.
Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli
diceva, «corruttela»: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non
mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto
gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con
l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali,
e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è
questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le
fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e
la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il
pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero
era il comento: "La... religione, se nei principi della repubblica
cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato,
sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non
sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa,
quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana,
capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i
fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello".
Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un
dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: "Chi nasce in
Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia
turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi". Per lui è questo una
sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la
storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia,
in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del
soldano, e le geste della « setta saracina », e le virtù « de' popoli della
Magna » al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente
in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il
paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza
di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati
europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria
decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare
i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà
alle sue parole una grande elevatezza morale: "Se la virtù che allora
regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole, andrei col
parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede,
sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi
tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno,
possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio
d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non
hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci,
alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono
un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua
promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che
ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi,
che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non
accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti
pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a
fuggirsi e non a difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive:
"Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo,
predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che
essi hanno condotta Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i
gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa
pittura " "Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono
dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o
di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono
perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi
che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè
tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è
qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior
nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha
rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il
sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del
lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte
le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola:
"Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e
chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma
non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi
sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei
mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna...
dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge
i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi
considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato
loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun
riparo". Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca
un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la
riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo,
a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come
Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio
originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di
Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con
la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro
proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare
di sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal
cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di
Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di
quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del
redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano
da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », « Italia », « buoni ordini », «
buone armi », erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun
raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo
tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite,
animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno
patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua
indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la
spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine,
inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani,
perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro
poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli
stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca
fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello
stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio,
per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un
linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le
aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.
Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo
onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come
pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli
della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un
avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del
presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con
tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto
illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo
nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca »
e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole
ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
nondimanco gridare da San Casciano". Questo non è che plebeo, ma
diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella
viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte,
sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde
dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio
scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e
di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle
antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi
pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi
per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel «
libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico,
entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato
dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa
della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia
è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il
principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il
poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli
serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli
opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del
Petrarca "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter
corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma
furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo
morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica
Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un
mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da
quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la
sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta
con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De'
principi ecclesiastici scrive: "Costoro soli hanno Stati e non li
difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi
non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè
pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione
superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè,
essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e
temerario il discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile
sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei
contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'
osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo
alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha
rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi
niente". Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da
questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le
sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi tentativi idillici, la
commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva
per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino
e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal
latino. Talora gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa -
scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella
gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai
Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche.
"Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio...
tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere
che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici
d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...:
colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello
atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi". L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse,
una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un
carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
"La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un
capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima;
dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni
pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi
s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi
seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati
all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una
fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide"; .....dice
sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte
ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e
poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti
pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà
d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al
caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo
mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che
debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto
nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il
suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di latino,
gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più pratica
del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in Calandro: si
sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie,
virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non
con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della
Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia
Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana
si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito,
Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo
ingegno a scriver commedie? Scusatelo con questo: che s'ingegna con
questi van pensieri fare il suo tristo tempo più soave, perchè
altrove non ave dove voltare il viso; chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue, non sendo premio alle fatiche
sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre
Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si
scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, « assassinato di
amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli
Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo,
consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie,
ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che
usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa,
come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli
attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo
ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui
freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è
dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che
l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il
suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi
lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete
false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i
deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale
coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende
comico "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte
mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle
piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si
commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la
lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma
queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il
marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato
e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle
figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa
ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con
tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto
comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli
tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle
ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel
teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere
Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una
luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer
Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza
superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è
terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in
poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco
criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle
ragioni della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola
mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu
dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte
mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti
che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo
faccia senza pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -
« ... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia)
alle mie voglie ». Il carattere più interessante è fra Timoteo,
precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della
chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la
bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non
sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io
dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi
una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante
volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi
se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!"
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un
dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità.
Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua mercanzia".
E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: " ...Madonna Lucrezia è
savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco
cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché
in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce bene i suoi polli:
"Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose.
Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i
fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche".
Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con
la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che,
promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: - «
Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta
ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene
». - Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione,
sempre che gliene venga utile: " Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia
segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non
me ne pento". Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia "Dio
sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il
mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura".
Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la
sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che
sa del Vangelo e della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia;
- ma non credo mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non
dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo
misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la
madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti
e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un
« misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano
indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece
ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del
Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e
nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non
lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista. Appunto perciò
la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata
in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La
depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla
famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una
commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui
perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico
che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione
non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella
spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il
gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e
descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle
impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E'
un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più
profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da
forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare
la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono
nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa
calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono
detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e
nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie :
«d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse
nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di
quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella
complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione
è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da
una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra
commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due
qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti
e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o
istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo,
come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il
pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più
volgare e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ».
C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava
allo scrittoio. Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli
una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua
parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte
sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo». Anche
oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama
«patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo
chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il
machiavellismo. E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che
parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è
avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in
lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato
«machiavellismo » quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è
dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un
Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E'
tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel Machiavelli una logica formale e
c'è un contenuto. La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò
ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi
conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma
nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la
volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le
apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le
paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar via
dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e
fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo
può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori
dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di
vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta « uomo », in
declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il
vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa
generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso
libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini
liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il
resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma
da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e
de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo
nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di
mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio
e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del
Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che
abbiamo già delineato ne' tratti essenziali. La serietà della vita
terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo
principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col
suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo
organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze;
con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente
nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del
genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: « altere et pati fortia ».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la
porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento,
l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la
scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi
giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto,
ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si
avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando
crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica
alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane
suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere
temporale crolla, e si grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al
Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue
transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale,
antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi
mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e
di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il
mondo è fatto così, la colpa non è mia. Ciò che è morto del Machiavelli
non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo
l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo «
Stato » non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto
il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La «
ragione di Stato » ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e
la «salute pubblica» le sue mannaie. Fu Stato di guerra, e in quel
furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno.
Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza,
l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se
chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei
fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i
fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è
sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia
posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli
che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è
migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e
produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli:
allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode,
le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già
tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le
rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età
dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che
d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri
un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a
maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal
Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo
nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare
Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della
storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella
qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della
coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi,
è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente
rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle
qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa
quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il
calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è
l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i
grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è
essenzialmente relativo e variabile. Il machiavellismo, in ciò che ha di
assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e
bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le
leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e
come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze
sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che
alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero.
Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno
trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui
rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le
transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria,
sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità
e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è
la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali,
e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi
dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche;
è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e
ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E'
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre coorte di
naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e
di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il
precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà,
concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli. "Tre cose - scrive -
desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non
vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra;
l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di
questi scellerati preti". Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e
l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del
Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la
bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i
desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso
nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che
scrive: « Conoscere non è mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare.
La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola
della vita è « l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini
biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio
temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa
caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità
» ; ma «per il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici
e servire ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in
molte parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con
le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella
mente delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed
eccelse », ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria,
e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per
sè, « nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma «
non s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna.
Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè
« mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul
popolo », e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito
». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti
abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che
altrimenti fanno sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà »,
ma « in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il
mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne
venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi
». La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era
vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al
cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il
cielo per lui, ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui
questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub
conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice,
cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al
patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse
proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri
li chiama « pazzi », come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni
ragione opporsi », quando « i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta »,
e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei
pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la
corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile
cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta
rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con
la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha
illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli
pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la
corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del
Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio
degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni
vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.
Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e
contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è
saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il
Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue
illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe
in questo motto sanguinoso: "Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola
allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro,
e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità
disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino
facesse il corso di un cavallo". In questo concetto della vita il
Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima
esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno
altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma «
per debolezza di cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle
impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo
risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia
via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come
dice il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si
richiede la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' «
esperienza » che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al
reale e non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la «
discrezione » o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose
del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché
quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non
si trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il
vero libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il
quale si richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non
basta, e non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa
volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in
speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti». L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari
» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che
scrivono le cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » :
perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha
servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa
base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e
l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il
sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma
anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico
e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di
asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella
tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il
mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si
riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di
premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la
povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare,
più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore
ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia
di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non
meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «
credi poco e fidati poco ». Questo è il succo dell'arte della vita
seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il
Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e
sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana,
tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e
alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza,
trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo,
avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il
Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni
e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si
riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il
Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla
potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente
italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il
Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da
lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e
non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie,
non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno
ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo
turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina,
l'esperienza, il naturale buono e la discrezione. Meravigliosa è
soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute,
e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità,
quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un
altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste
disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena,
dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli
il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo
studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non
la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li
vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con
la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è
il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il
Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva
de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè
ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle
pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua
franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di
sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo
se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da
un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal
1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di
tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa
tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La
tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le
arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti «
atrocissimi accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di
Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi
erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da
passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere
vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo
modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più
interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che
l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come
riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò
chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica
non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti,
perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e
tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare
nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che
sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis Una pagina
di Diego Fusaro LA VITA , LE OPERE E IL CONTESTO STORICO DI NICCOLO'
MACHIAVELLI Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a
Firenze il 3 maggio 1469, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli
veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il
provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l'attività diplomatica e
politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di
Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che
rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole.
Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in
parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività
pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l'avventura
savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della seconda Cancelleria .
Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica
pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza
diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi
che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza
e lo scontro , sul nostro territorio , delle due nuove potenze europee, la
Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte (nel 1500,
nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere molto bene la struttura di
questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del
prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro insuccessi. Ma non meno
importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia ,
l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI , che
aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava
direttamente e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così
era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre
del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio
fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni
potè trarre argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità
diplomatiche di questo signore "molto splendido e magnifico" che
diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu
solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue
ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo
pontificato di Pio III , fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire
il conclave e potè assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia
e sua " ultima ruina " . In quella occasione , e in una successiva
legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento
del nuovo papa , dell'energia e del " furore " che lo misero al
centro degli avvenimenti politici di quegli anni . Se si aggiunge che il 1507
il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi
per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto,
alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che , dal 1506 in poi
, negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e
istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse
l'esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea
gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario
moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione
italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi
egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del
modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del
denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di
Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto
delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il
Decennale secondo . E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli
vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua
completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima
esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo
imprigionarono ( e lo torturarono pure ) , sospettando che avesse partecipato
alla congiura del Boscoli , poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni , sino
al 1520 , e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un
parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra
il riformare lo stato di Firenze ) , di narrare la storia della città ( di qui
le Istorie fiorentine ) , di andare come ambasciatore presso la "
repubblica degli Zoccoli " , cioè presso il capitolo dei Frati minori di
Carpi . Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante :
quello di cancelliere dei Procuratori delle mura , preposti alla difesa di
Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato
anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Morì tra il 20 e 22 giugno
1527. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritirò in una villa
presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella
lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste,
il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e
scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo
studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: "e
non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non
temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in
loro". E' dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e
con i morti, coi passanti e i loro "vari gusti e diverse fantasie e coi
grandi uomini dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e
il 1520) le grandi opere machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima
Deca di Tito Livio, i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio
Castracani, La Mandragola. Frequentazione con i vivi e con i morti,
abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di
essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi
elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al
Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto,
cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo
classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non
significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non
sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai
problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità,
utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e
alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia
nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria
dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale l'elemento
caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema
dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato
effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe
dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti al Principato" con
gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino
- ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al
capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi
debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli
sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la "virtù"
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di
"energia" e "capacità" - con le scelleratezze di Agatocle e
di altri, qui egli non manifesta più dubbi. La politica ha alcune
leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può
sovente procurare la "ruina" di un principe, al contrario, mancare di
parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di
immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del "fine che
giustifica i mezzi" che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si
limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono
politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto
all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema
non lo interessava: la "realtà effettuale" italiana non suggeriva certo
un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra
tutto, invece, sulla figura del "principe nuovo" come la sola che
possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi
fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni
inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema
della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e
i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei
suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà
un posto che non ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é
" più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe "
e che " se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi ,
formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare
a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche
moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le
permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi
l' argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un
campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il
discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere
costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i
cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e
stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il
discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando
in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la
necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle
cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente
" nella prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in
" questo tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é
già consapevole della sua libertà ed individualità " e il "
ragionamento a piramide degli scolastici " cede il posto al "
ragionamento a catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha
costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a
un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni .
La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che
squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era
in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge ,
di frequente , con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi
compagno e sodale del suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze
di questo . In tal senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E
quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario
fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule
condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera , il lettore ha la
sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa
possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della
gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una
realtà mortificante , la " ruina d' Italia " , nelle sue istituzioni
comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell' avvilimento del
popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare
distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi
appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo
della Mandragola , il capolavoro del teatro del '500 . Egli , però , ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa , sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta . IL PENSIERO POLITICO E FILOSOFICO Machiavelli non è un
puro teorico , inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire
" in laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto
diretto con la realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie
agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta
ad incidere in quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive .
Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi :
la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta
la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi
che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto
l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano
le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati
regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda
ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti
" cittadini " , che soli possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza
, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o
comunque si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento
saldo ad un vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati
esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo
spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore
, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che
induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna ,
senza reagire e senza lottare . Perciò , come hanno dimostrato le guerre
che si sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani
sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti
delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola
. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria
" gravità de' tempi " é un principe dalla straordinaria
"virtù" capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora
sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza
forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo
obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica
di Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio
di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio
paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano
porterebbe a travisarne completamente il senso . Tuttavia quel
pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti
non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella
situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a
quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira
ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore
, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche
la fisionomia di una vera teoria scientifica . Concordemente
Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica:
innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza ,
distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell'
agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente
l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie
leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in
base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe ,
valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere
propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei
cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o
violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non
é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di
sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura
occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che
avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali "
che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler
andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anzichè all'
" immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere
insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a
chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata
applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo
autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente
il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla "
verità effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve
tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall'
indagine sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi
universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può
poi giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può
essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale
alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi
. Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente
" esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique
" . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè
studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento
anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati ,
dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di
questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente
naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al
pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come
non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha
fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti
storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e
proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é
costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il
comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di
modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri
" , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell'
imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é
pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca
quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione
naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale
dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici
rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di
condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é
una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo
agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause
, non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente
commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua
malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori
e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e
dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio
: la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori
sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non
deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè
andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono
" laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli
occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà
animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle
situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla
parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose
ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in
politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue
istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero
" cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni
malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di
una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera
" cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli
semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri
criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno ,
invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che
disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le
une alle altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a
Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di
verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di
salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " ,
ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi
principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a
mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva
già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi
Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere
spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che
essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di
governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella
repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il
principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria ,
indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai
suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma
repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha
istituzioni stabili e durature. IL PRINCIPE Il 10 dicembre 1513 ,
dall' esilio dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di
aver composto un " opuscolo de principatibus " , in cui si trattava
" che cosa é principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono ,
perchè e' si perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera
può dirsi compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale
periodo sia stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi
diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai " Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio " . Oggi gli studiosi tendono a
collocare la composizione tra luglio e dicembre 1513 , in una stesura di getto
, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo
de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di
appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " ,
sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato .
Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di
tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata
interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che
rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai
problemi attuali della situazione italiana . Il Principe é un'
operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di
pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei
titoli in latino come era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse
sezioni . I capitoli I - XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a
individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo ,
conferendogli forza e stabilità . Machiavelli distingue tra principati
ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro
volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un
principe ( capitolo III ) o del tutto nuovi ( capitoli IV - V ) ; a loro volta
questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV
- V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui
si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro
che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli
distingue tra la crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella
impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore
utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il
tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno
. Nel capitolo IX si affronta il principato " civile " ,
in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina
come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei
principati ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa
, come nel caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati
al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli
eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale
nell' Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e
pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati
italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza
, per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su
armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano
per difendere i loro averi e la loro vita stessa . I capitoli XV - XXIII
trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici .
E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica
precedente é più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il
catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro
alla " verità effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono
malvagi , avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto
ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare
anche ad essere " non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve
guardare al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà
saranno sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno
immediatamente suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su
Machiavelli l' esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause
per cui i principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della
libertà italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é
essenzialmente l' " ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non
hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva
avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce
naturalmente l' argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna ,
cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre argini alle
variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa
allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo , il
XXVI , é , come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo ,
accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l'
Italia dai barbari . (il testo sopra è di Diego Fusaro - visitate il suo
sito di filosofia ) http://www.filosofico.net/filos1.html
ANDIAMO ALL'ARTICOLO DEL Prof. G.Pellegrino/Prof.ssa
M.Mangieri IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI
>>>>>> OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA
ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE >
> HOME PAGE STORIOLOGIAGrice: “When I created Deutero-Esperanto,
I felt like the principato senza il principe!” --. Michele Ciliberto. Keywords:
il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di
grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro,
i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine,
e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la
tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia
rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla
rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il
barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di
cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non
puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772686966/in/dateposted-public/
Grice e Cimatti – pooh-pooh and other
products -- il non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Cimatti – for one, he
develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS
an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto
Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre
opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario);
“La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano”
(Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio
Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani”
(Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla
zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del
cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di
filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per
una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio
degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di
distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7
questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili.
Già la nozione di "voce" (phon�)
presenta alcune interes- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1
santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (s� mantik6s) (Il, 420 b,
29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi
(''rumori"), hanno tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che
li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono
convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono
"per na tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Po�t.,
1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di
semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,
"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate di
significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non
combinabili (Po�t., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i
caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli
animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -
elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi
dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -
elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d�-
loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo d�lofìsi
(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del
linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa.
Il linguaggio degli animali. Del resto, l'opposizione
convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra il linguaggio umano e
i suoni (vox, Grice’s ‘sound’) emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente (i) vocali (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a
product) e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone, vox
– cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a product’) presenta alcune
interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il
‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the characterization of a
product (e.g. a sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox]
quando: (i) sia emesso da un essere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di
significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un animale,
per quanto definito psophos (''rumore"), ha tuttavia le due precedenti
caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due
fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di conseguenza non puo essere né
simbolo né nome), ma è "per natura" phusei (De int., 16 a, 26-30);
(ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili" o "non
combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e
sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il
cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi
in unità più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono
(Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si
possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese linguaggio
umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali,
attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per
convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile
ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr.
Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word –
meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome.
Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento
in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o
manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra
l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal
verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The
Bow-Wow Theory According to this theory, language began when our
ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech
was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and
bang. What's wrong with this theory? Relatively few words are
onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance,
a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in
China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all
are derived from natural sounds. The Ding-Dong Theory This
theory, favored by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose in
response to the essential qualities of objects in the environment. The original
sounds people made were supposedly in harmony with the world around them.
What's wrong with this theory? Apart from some rare instances of sound
symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an innate
connection between sound and meaning. The La-La Theory The Danish
linguist Otto Jespersen suggested that language may have developed from sounds
associated with love, play, and (especially) song. What's wrong with this
theory? As David Crystal notes in "How Language Works"
(Penguin, 2005), this theory still fails to account for "... the gap
between the emotional and the rational aspects of speech expression...
." The Pooh-Pooh Theory This theory holds that speech began
with interjections—spontaneous cries of pain ("Ouch!"), surprise ("Oh!"),
and other emotions ("Yabba dabba do!"). What's wrong with this
theory? No language contains very many interjections, and, Crystal points
out, "the clicks, intakes of breath, and other noises which are used in this
way bear little relationship to the vowels and consonants found in
phonology." The Yo-He-Ho Theory According to this theory,
language evolved from the grunts, groans, and snorts evoked by heavy physical
labor. What's wrong with this theory? Though
this notion may account for some of the rhythmic features of the language, it
doesn't go very far in explaining where words come from. Wikipedia
Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il
linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento
che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo.
L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens
da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce
evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti
devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.
Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla
Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia
illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono
lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano
lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si
differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte
possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare,
tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere
l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere[1][2]. Tutti gli
esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture
biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione
biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3]. Le
lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano
moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune
è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e
fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo
lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero
le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al
Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal
punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti
i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di
comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente
sviluppata. L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e Grimm Modifica Il problema
dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo. F.
W. J. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e
autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni
differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo del 1850[4],
parla di tre ipotesi fondamentali: Ipotesi teologica, secondo la quale il
linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione.
Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine
grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la
quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo
e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo
di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il
testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling:
egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due
sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla
creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo
alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che
la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una
conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei
bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua
evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime
produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio
dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del
linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di
esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio,
migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7].
Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine
del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale
dell’uomo strettamente connessa con il pensiero. Parola e lingua Modifica
I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il
parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili
parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni
modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione
di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso
parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene
considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica
che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo
dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari
a sostenere la lingua stessa. Comunicazione animale Modifica Sebbene tutti gli animali usino una
qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano
questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione
di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane.
I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani,
chiamandosi per nome[8][9]. Linguaggi dei primati Modifica Non si sa molto a proposito della comunicazione
tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della
loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior
parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata
insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi
— cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso
delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare
correttamente centinaia di lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke
nel cervello dei primati sono responsabili del controllo dei muscoli della
faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come di riconoscere i
suoni. I primati sono noti per le loro "grida vocali", che vengono
generate dai circuiti neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema
limbico. Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie
Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di
dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per
avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed
includono un "grido del leopardo", un "grido del serpente"
ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa
strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte
prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre
vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un
cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie
si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10]. Antichi
ominidi Modifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens[3][11]. Un altro punto di vista considera
invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della
parola[12]. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista
Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una
sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un
vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio
nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati
superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate. Le
caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua
evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi
ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più
avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che
probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più
sviluppata degli altri primati[14]. Neanderthaliani Modifica La scoperta nel 2007 di un osso ioide
di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani potessero
essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli moderni umani e
altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli ominidi
aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale
ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua
dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di
300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé
che a quelli umani[15][16][17]. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato
intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli
antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla
loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso
interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il
cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità
necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la
produzione dei fonemi era già ben sviluppato[18][19]. La questione sul livello
di sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi
controversa. Homo sapiens Modifica
I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima
volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero
anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili
non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano
preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano
meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni
modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di
un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia
sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo
costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un
consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni
climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del
periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con
più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e
corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla
funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi
per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio
gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza
l'aiuto della lingua[21]. Il passo più grande nell'evoluzione del
linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo
pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una
lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere
stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello,
come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed il
sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche negli
esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del
linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a
"tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione
linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che
l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il
ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo,
il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri
umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa"
("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"),
circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette
nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe,
che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. Monogenesi Modifica Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine
monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la
"lingua primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero
poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione
umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo
include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono
rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi
dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute
indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile
dai sostenitori della monogenesi[24][25]. Tutti gli esseri umani odierni
discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa
circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia
possa essere datata approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie
su un effetto a collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la
teoria della catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad
un certo punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000
individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia
sarebbe un eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale,
anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il
linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori di tale ipotesi,
come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni
modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi
utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per varie
ragioni[28][29]. Scenari dell'evoluzione della lingua Modifica Teoria dei gesti Modifica
La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato
dai gesti che venivano usati per la semplice comunicazione. Due tipi di
prove sostengono questa teoria. Il linguaggio dei gesti e quello vocale
dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che
sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a
stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di
comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la
"posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli
esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un
considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni
dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e
che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno
dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti
capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione
sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei
segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto.[32] La questione
più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio
allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni: I primi esseri
umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le
mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede
che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in
cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio
quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere
frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere.
Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per
'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente
e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali
quando parlano, specialmente quando le persone che comunicano non usano la
stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte interamente da segni e
gesti. Pidgin e creoli Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua
semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi
che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il commercio, il cui
vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in
cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le origini del
linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente semplificate,
con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del
loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi,
senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e congiunzioni.
La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza desinenze di
declinazione.[9] Se questi contatti tra i gruppi si mantengono saldi per
lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian piano sempre più
complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano
il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che si fissa e
acquisisce una grammatica più complessa, con una fonetica fissa, una sintassi,
una morfologia. La sintassi e la morfologia di tali lingue presentano a volte
delle innovazioni locali che non derivano dalle lingue da cui sono nate.
Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato che possiedono
somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate uniformemente dai
pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono evidenti quando le
lingue creole non condividono alcuna lingua originale. Inoltre le lingue creole
hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate isolatamente rispetto alle
altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine delle parole Soggetto
Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue con ordini delle
parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue creole tendono ad
avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed indeterminativi e
regole di movimento simili per le strutture frasali anche quando le
lingue-genitori non le hanno.[9] Grammatica universale Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili
della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky
hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià
inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia
gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di
tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica
universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole.
Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo
di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini
imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle
creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica
creola.[9] Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per
la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni
nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua dette inizio
al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò
non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale
stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Nel 1983 il
centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di
insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva
insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece
enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni
da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il
programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non
riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole. I primi
bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza
all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero
messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di
comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano
più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano
avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano
meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro. In
seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta
della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri
ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più
giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano
portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre
convenzione della grammatica.[34] Approccio sinergico Modifica
La Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del
linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo
evolutivo della scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto
differenti fasi: Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase
II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema =
sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica)
Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema
= frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma
(linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico)
Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido,
all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e
poi la parte della parola[non chiaro][35],[36] Storia Modifica
La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia
anche la mitologia classica. Storia della ricerca Modifica Verso la fine del XVIII secolo od
agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo
riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più
avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La
linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi
romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero
molto influenti fino al XIX secolo. La questione delle origini della lingua si
dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società
Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della
lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla
linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale
di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per
la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la
grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la
glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante
emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana
in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della
lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla
psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero
solo negli anni novanta. Esperimenti storici Modifica La storia
ha un vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini
della lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto,
che racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere
due bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua
avrebbero parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a
lui, uno di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola
frigia per pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima
lingua. Si racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento
simile, e questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca
medievale Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono
un esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e
morirono.[37][38][39] Nella religione e nella mitologia Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento
in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno
delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La
maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma
credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue
mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la
lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di
particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di
penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura
intuitiva anziché discorsiva. Uno dei migliori esempi nella cultura
occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di
Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come
Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e
creandone di nuove (Genesi 11:1–9). Un gruppo di persone dell'isola di
Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di
Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i
costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero
differenti lingue"[senza fonte]. Note Modifica ^ Primitive
languages, su Language Miniatures. URL consultato il 27 febbraio 2007
(archiviato dall' url originale l'8 febbraio 2007). ^ Steven Pinker, The
Language Instinct: How the Mind Creates Language, New York, Harper Perennial
Modern Classics, 2000, pp. 13–14, ISBN 0-06-095833-2. ^ a b (2001). The
Handbook of Linguistics, eds. Mark Aronoff & Janie Rees-Miller. Oxford:
Blackwell Publishers, pp. 1-18. ISBN 1-4051-0252-7 ^ Vorbemerkungen zu der
Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine del
linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband
(volume supplementare), Monaco 1959, pp. 503-510. ^ Über den ursprung der
Sprache", ristampato in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino
1864, pp. 255-298. ^ J. Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio,
Milano, Marinotti, 2004, pp. 80-83. ^ J. Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine
del linguaggio, Milano, Marinotti, 2004, pp. 106-108. ^ Dolphins 'Have Their
Own Names', su BBC News online, 8 maggio 2006. URL consultato il 9 settembre
2007. ^ a b c d e f g Jared Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and
Future of the Human Animal, New York, Harper Perennial, 1992, 2006, pp.
141–167, ISBN 0-06-018307-1. ^ Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys Drop Hints on
Language Origin, su nytimes.com, The New York Times, 23 maggio 2006. URL
consultato il 9 settembre 2007. ^ Fitch, W. Tecumseh, The Evolution of Speech:
A Comparative Review ( PDF ), su www3.isrl.uiuc.edu. URL consultato il 9
settembre 2007 (archiviato dall' url originale il 9 agosto 2007). ^
Ohala, John J.. (2000). The irrelevance of the lowered larynx in modern man for
the development of speech Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In
Evolution of Language - Paris conference Archiviato il 22 ottobre 2006 in
Internet Archive. (pp. 171-172). ^ Steve Olson, Mapping Human History, Houghton
Mifflin Books, 2002, ISBN 0-618-35210-4. «Ogni adattamento prodotto
dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in futuro indefinito. Così
l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni
delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva»
^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, 1994, ISBN 0-471-58426-6. «Earlier human
ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely have possessed
less developed forms of language, forms intermediate between the rudimentary
communicative systems of, say, chimpanzees and modern human languages» ^
Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the
Evolution of Human Speech ( PDF ), in Human Biology, vol. 75, n. 4, agosto
2003, pp. 473–484, DOI:10.1353/hub.2003.0057. URL consultato il 10 settembre
2007 (archiviato dall' url originale il 12 giugno 2007). ^ DeGusta, David
et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the
National Academy of Sciences of the United States of America, vol. 96, n. 4,
1999, pp. 1800–1804, DOI:10.1073/pnas.96.4.1800, PMID 9990105. URL consultato
il 10 settembre 2007. «Hypoglossal canal size has previously been used to date
the origin of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and
to assign modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are
based on the hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of
speech capabilities.» ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language
Evolved ( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference,
Rome, aprile 2006, p. 152, DOI:10.1142/9789812774262_0020. URL consultato il 10
settembre 2007 (archiviato dall' url originale il 15 ottobre 2006).
«Hyoid bones are very rare as fossils, as they are not attached to the rest of
the skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg et al.,
1989), very similar to the hyoid of modern Homo sapiens, leading to the
conclusion that Neanderthals had a vocal tract similar to ours (Houghton, 1993;
Bo¨e, Maeda, & Heim, 1999).» ^ a b Klarreich, Erica, Biography of Richard
G. Klein, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United
States of America, vol. 101, n. 16, 20 aprile 2004, pp. 5705–5707,
DOI:10.1073/pnas.0402190101, PMID 15079069. URL consultato il 10 settembre
2007. ^ Klein, Richard G., Three Distinct Human Populations, su Biological and
Behavioral Origins of Modern Humans, Access Excellence @ The National Health
Museum. URL consultato il 10 settembre 2007. ^ a b Schwarz, J. uwnews.org
uwnews Risorse e informazione. Archiviato il 4 maggio 2009 in Internet Archive.
^ Lewis Wolpert, Six impossible things before breakfast, The evolutionary
origins of belief, p. 81, ISBN 0-393-06449-2. ^ Minkel, J. R., Skulls Add to
"Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of skull variation
bolsters the case that humans took over from earlier species, su sciam.com,
Scientific American.com, 18 luglio 2007. URL consultato il 9 settembre 2007. ^
Klein, Richard, Three Distinct Populations, su accessexcellence.org. URL
consultato il 10 novembre 2007. «You've had modern humans or people who look
pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil
evidence behind the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they
only spread from Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that
long lag, 80,000 years?» ^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language,
The New York Times, 15 luglio 2003. URL consultato il 10 settembre 2007
(archiviato dall' url originale il 18 febbraio 2008). ^ Sverker,
Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses ( PDF ), su
arthist.lu.se. URL consultato il 10 settembre 2007(archiviato dall' url originale
il 16 dicembre 2008). ^ Ruhlen, Merritt, Language Origins, su findarticles.com,
National Forum, 1996. URL consultato il 10 novembre 2007. ^ Whitehouse, David,
When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC News Online, 9 giugno
2003. URL consultato il 10 novembre 2007. ^ Rosenfelder, Mark, Deriving
Proto-World with Tools You Probably Have at Home, su Zompist.com. URL
consultato il 10 novembre 2007. ^ Joseph Salmons, 'Global Etymology' as
Pre-Copernican Linguistics, in California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk Notes, vol. 25, n.
1, Program in Linguistics, California State University, 1997, pp. 1, 5–7, 60,
ISSN 1548-1484. ^ Premack, David & Premack, Ann James. The Mind of an Ape,
ISBN 0-393-01581-5. ^ Kimura, Doreen, Neuromotor Mechanisms in Human Communication,
Oxford, Oxford University Press, 1993, ISBN 978-0-19-505492-7. ^ Newman, A. J.,
et al., A Critical Period for Right Hemisphere Recruitment in American Sign
Language Processing, in Nature Neuroscience, vol. 5, 2002, pp. 76–80,
DOI:10.1038/nn775. ^ Kolb, Bryan, and Ian Q. Whishaw, Fundamentals of Human
Neuropsychology, 5th edition, Worth Publishers, 2003, ISBN 978-0-7167-5300-1. ^
A Linguistic Big Bang ^ Mammadov J.M.: Origine della lingua. p.160-172 ^
Azerbaijan Linguistic School: The origin of language ^ Maryanne Wolf,Proust e
il calamaro.Storia e scienza del cervello che legge, trad. di Stefano Galli,
Vita e Pensiero, 2009, Milano, pag. 33, ISBN 978-88-343-2361-8 ^ Re: Did hitler
experiment with babies ^ Linguistics 201: First Language Acquisition, su pandora.cii.wwu.edu.
URL consultato il 28 gennaio 2009 (archiviato dall' url originale il 20
luglio 2017). Bibliografia Modifica
Allott, Robin, The motor theory of language origin, Sussex, England, Book
Guild, 1989, ISBN 0-86332-359-6. Cangelosi, A., Greco, A. & Harnad, S.
(2002) Symbol Grounding and the Symbolic Theft Hypothesis. In: Cangelosi, A.
& Parisi, D. (Eds.) Simulating the Evolution of Language. London, Springer.
Crystal, David, The Cambridge encyclopedia of language, Cambridge, UK, Cambridge
University Press, 1997, ISBN 0-521-55967-7. Deacon, Terrence William, The
symbolic species: the co-evolution of language and the brain, New York, W.W.
Norton, 1997, ISBN 0-393-03838-6. Dunbar, R. I. M., Grooming, gossip and the
evolution of language, Londra, Faber and Faber, 1996, ISBN 0-571-17396-9. T.
Givón, The evolution of language out of pre-language, Typological studies in
language, vol. 53, Amsterdam: John Benjamins (2002), ISBN 1-58811-237-3.
Harnad, SR, Lancaster, JB; Steklis, HD, Origins and evolution of language and
speech, New York, N.Y., New York Academy of Sciences, 1976, ISBN 0-89072-026-6.
Hauser, M.D., Chomsky, N.; Fitch, W., The Faculty of Language: What Is It, Who
Has It, and How Did It Evolve?, in Science, vol. 298, n. 5598, 2002, p. 1569, DOI:10.1126/science.298.5598.1569,
PMID 12446899. J Hurford, Nativist and functional explanations in language
acquisition, pp. 85–136.; in Roca, I.M., Logical issues in language
acquisition, Foris, 1990, ISBN. Komarova, N.L., Language and Mathematics: An evolutionary
model of grammatical communication. In: History & Mathematics. Ed. by
Leonid Grinin, Victor C. de Munck, and Andrey Korotayev. Moscow, KomKniga/URSS,
2007. P. 164–179. ISBN 978-5-484-01001-1. Edward Vajda, The Origin of Language,
su pandora.cii.wwu.edu. URL consultato il 28 gennaio 2009 (archiviato dall' url
originale il 1º febbraio 2009). FBM de Waal, Pollick AS, Ape gestures and
language evolution, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol.
104, n. 19, 2007, pp. 8184–9, DOI:10.1073/pnas.0702624104, PMID 17470779.;
popular summary in L Williams, Human language born from ape gestures, Cosmos
Magazine, 1º maggio 2007. URL consultato il 20 febbraio 2008 (archiviato dall'
url originale il 7 febbraio 2008). Wong, Yan; Dawkins, Richard, The
ancestor's tale: a pilgrimage to the dawn of life, Londra, Weidenfeld &
Nicolson, 2004, pp. 36–87, ISBN 0-297-82503-8. J. Grimm, F.W.J. Schelling,
Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, 2004. Voci correlate Modifica Lingua
(linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Collegamenti
esterni Modifica
Language and Social Organization, su evolution-of-man.info. Controllo di
autorità LCCN
( EN ) sh85074529 · GND ( DE ) 4077740-6 Ultima modifica 1 mese fa di Paroll
PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i
principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati
per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine africana dell'Homo
sapiens Wikipedia Il
Grice:
“I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic
continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot
perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot,
who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other
pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to
cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti.
Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia innaturale,
non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale, bestia,
linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente,
cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia
innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione,
percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita,
psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772632281/in/dateposted-public/
Grice e Cione – il corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – la idea corporativa come interpretazione della storia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Cione; my favourite
is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the
Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione
philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of
course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and
Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic,
and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’
reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the
illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e
in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima
ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi
mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal
Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e
ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde)
per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito
Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale
Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista
Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini,
sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il
Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che
durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una
possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro
ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non
ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di
crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di
Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro
dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno
importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da
Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito
avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo
nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò
assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la
magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò
positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo. Home
Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di Edmondo
Cione By Redazione 4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale
ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una
caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili
lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di
compromesso. Nel 1943-45, in particolare, vi furono diversi tentativi, tutti
falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più
indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento
partigiano e, infine, al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto
complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità
che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti)
potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite
dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord
Italia in nome di un socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da
Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un
po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da
parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i
sindacalisti Ugo Manunta e Ottavio Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo
Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da
parte socialista, Corrado Bonfantini, Gabriele Vigorelli, Carlo Silvestri,
Pulvio Zocchi e soprattutto Carlo Andreoni, autore di un confuso ed equivoco
tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di
Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln.
Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei fu Edmondo Cione,
filosofo, collaboratore di Benedetto Croce, antifascista liberale fino al 1940,
confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decise di puntare
sulla riconciliazione degli Italiani. Un progetto ambizioso, non sempre
sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati
importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, Cione riuscì a
catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che operò per
il passaggio indolore dei poteri; in secondo luogo, riuscì ad avere la fiducia
di Mussolini che gli finanziò un quotidiano, “L’Italia del Popolo”, infine
riuscì a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale,
il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Carlo Borsani,
Franco De Agazio e Concetto Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti,
come Alessandro Pavolini, Fernando Mezzasoma e Giorgio Almirante. La
dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è il
filo conduttore del volume di Edmondo Cione, Storia della Repubblica Sociale
Italiana, edito in prima edizione nel 1948 e quindi nel 1951, che, a
sessantasei anni di distanza, viene ora ripubblicato da Altergraf. Si tratta di
un libro che, tra i primi, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è
soprattutto questo. Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di
quelli che cercarono di costruire dei “ponti” tra fascismo e antifascismo è
complesso ma, in genere, comprende, come si è detto, fascisti di sinistra (più
moderati e aperti al pluralismo) e socialisti (insofferenti al peso del Pci).
Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di
novità che va tenuto presente per sottolineare l’importanza e l’opportunità di
una riedizione. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano
accettò di sostenere i 18 punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo
fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta
effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il
costante richiamo alla concordia nazionale. Una concordia che non è però
soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a nostro avviso
centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo – antifascismo,
considerando Cione il fascismo un elemento essenziale nella storia italiana,
del quale è indispensabile tenere conto, non per esaltarlo ma piuttosto per
proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e senza
demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per Cione, fu quello di ritenere di
potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di
potere non considerare con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur
in un quadro autoritario, aveva individuato allo scopo di contribuire a fare
ritrovare unità e concordia nella società italiana. In questo senso
l’esperienza corporativa, che Cione intese sempre in senso produttivistico
piuttosto che in termini rivoluzionari, poteva essere interessante da
recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la risoluzione
dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la
ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della
categoria del “nemico assoluto” da abbattere. Essendo più filosofo che storico,
Cione non si rendeva conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non era
più quella precedente e il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla
guerra civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia,
dimostrava quello che acutamente aveva colto Giovanni Artieri, e che cioè Cione
“pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di Giolitti e di
Scarfoglio”. Il saggio di Cione sulla RsiIl saggio di Cione sulla Rsi In
questa sua incapacità di leggere fino in fondo la lezione del Novecento si
trova la sua inattualità politica, ma anche il fascino dell’impolitico, di chi
cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni anche se esse non sono più
in grado di produrre effetti politici. La sua originalità risiede anche
in un ultimo aspetto: se è vero che in Italia gli intellettuali tendono a
correre verso il carro del vincitore, la storia di Cione è quella di un
filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori, volle stare dalla
parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere meno dura la
vendetta finale. *Edmondo Cione, Storia della Repubblica Sociale
Italiana, edito da Altergraf (pp. XXII + 398, euro 30,00 – da richiedere
a Domenico Edmondo Cione nacque a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano
Cione, brillante avvocato di origine pugliese e da Emilia Faraone, proveniente
da una agiata famiglia di commercianti. Compiuti i suoi studi prima presso il
consolato germanico, poi presso il Liceo- ginnasio Vittorio Emanuele II, si
iscrisse nel 1923 al Collegio militare della Nunziatella. Il Cione, sottoposto
a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa disciplina
scolastica, manifestò idealmente i primi segni di ribellione rivolgendo
precocemente il suo interesse verso gli studi storico-filosofici e
allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella nel 1926.
Grazie a Floriano del Secolo cominciò a frequentare la casa di Benedetto
Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli
insegnamenti. La sua prima opera, pubblicata a Napoli nel 1929 e intitolata
"Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui
aveva preso posizione contro Giovanni Gentile, gli procurò violente critiche da
parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di
collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Nel 1930
conseguì la laurea in giurisprudenza e nel 1932, assecondando le sue reali
aspirazioni, conseguì quella in lettere e filosofia. Nel 1933 concorse a un
posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico presso la Biblioteca
Nazionale di Venezia. Nel 1936 fu trasferito presso la Biblioteca Nazionale di
Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come il conte Sforza, Mario Vinciguerra,
Alessandro Casati ed altri personaggi di quel tempo. Gli anni '40
segnarono una svolta nella vita personale, politica e intellettuale di Edmondo
Cione. Proprio nel 1940, a causa dell'intercettazione di una sua lettera, il
cui contenuto era stato male interpretato, Cione fu arrestato dalla polizia e
internato nel campo di concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in
seguito confinato a Montemurro Lucano. In questi anni egli maturò la revisione
delle idee antifasciste e decise di abbandonare le posizioni liberali; evento
non meno significativo nella vita del Cione fu la definitiva rottura dei suoi
rapporti con Benedetto Croce, a causa della revoca da parte del Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che Edmondo Cione aveva preparato
sull'opera e sul pensiero del filosofo. Il volume fu poi pubblicato dalla
casa editrice Laterza di Bari nel 1942 con il titolo "L'opera filosofica,
storica e letteraria di Benedetto Croce". Dopo l'internamento e il
confino del 1940, ritornato in libertà, Cione fu in servizio come bibliotecario
presso la Biblioteca Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista
diretta da Federico Chabod "Popoli", dell'Istituto per gli studi di
politica internazionale. Nel 1942 ottenne la libera docenza di storia della
filosofia e nel 1949 quella di storia moderna. Tra le sue numerose opere, il
volume edito a Milano nel 1944 e intitolato "Benedetto Croce", la cui
polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere della
Sera, procurò a Edmondo Cione numerosi consensi anche da parte di Benito
Mussolini, che Cione incontrò personalmente grazie alla mediazione dell'allora
Ministro della Cultura Biggini. Nel 1945 il Cione fondò, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri fu sospeso a causa di una polemica
con l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della
seconda guerra mondiale, Edmondo Cione nel 1946 fu reintegrato nel suo posto di
professore di liceo e nel 1948 anche all'Università degli studi di Napoli dove
tenne corsi di filosofia. Nel 1951 entrò nel Movimento Sociale Italiano e nello
stesso anno fondò la rivista "Nazionalismo popolare". Nel 1952 fu
eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli,
che aveva alla sua testa Achille Lauro. Nel 1953, dopo essersi candidato al
Senato come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entrò nelle file della
Democrazia Cristiana. Collaborò con numerose riviste culturali e filosofiche e
con diverse testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" del 1956,
nella quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere di
Benedetto Croce e le opere su Benedetto Croce; l'opera "Francesco de
Sanctis e i suoi tempi" vincitrice nel 1961 del Premio Napoli e due volumi
di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo",
pubblicate la prima a Napoli nel 1958 e la seconda a Bologna nel 1962. In esse
l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva
all'esistenza umana. Edmondo Cione morì a Napoli il 12 giugno 1965. Fra le sue
ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli, pochi
mesi prima di morire, il suo archivio personale, affinché esso non andasse
disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi.documentazione
collegataEdmondo Cione fontiGennaro Incarnato, in Dizionario biografico degli
italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia
(1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993. CIONE, Domenico Edmondo
di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)
Condividi Pubblicità CIONE, Domenico Edmondo. - Nato a
Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di
recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone, figlia di commercianti
di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il consolato germanico, poi
al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla
Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata istruzione integrò la
severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con
fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in
permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella si tendeva a
sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento
sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del
C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di
tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella
ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli frapposti
dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno
unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle
gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da
cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.
Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee,
attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito
moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato
un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi
violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì
le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli
anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la
frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione
a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e
tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo
gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente. I numerosi studi sul De
Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla
Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche
sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce.
Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla
mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante
rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di
Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura
umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla
rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non scevro
di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca
appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano (Napoli
romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del suo
carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo piano,
quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo sviluppo
culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non propriamente
favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come un'incapacità
tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie romantiche di origine
più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno mito del C., riemerge
con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli
è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di
numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del famoso Viaggioelettorale,
traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per venire incontro ad
aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e nel 1932, seguendo i
suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune familiari registrano
nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un posto di ordinatore nelle
biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non veniva ancora richiesta
l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu trasferito alla Nazionale di
Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con l'opposizione liberale
al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed aveva rapporti di amicizia e
scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati, Ramat, Russo ed altri,
anche se spesso si aveva la sensazione che fosse frequentato più perché allievo
ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti intrinseci. Tra il 1930 ed il
1940 l'adesione al sistema crociano era del resto indiscussa. Malgrado una
tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi sul
Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica al marxismo), sul Valdès e
dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis, l'emancipazione non era così
consapevole come tenterà ad affermare in seguito. Nel settembre 1940
l'intercettazione di una lettera da parte della polizia, che ne interpretò
malamente il contenuto, provocò il suo internamento nel campo di concentramento
di Colfiorito di Foligno, i cui rigori furono mitigati dal confino a Montemurro
Lucano. Qui maturò la sua crisi politica e la rottura col Croce. La convivenza
con oppositori socialisti, anarchici e comunisti aveva su di lui un effetto
contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponevano al fascismo
sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnavano nei loro programmi di far
uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso
antitetici, lo indusse alla revisione e all'abbandono, dell'antifascismo.
La compilazione di un volume celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli
studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la
rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rese possibile la
pubblicazione L'opera filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942),
dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle
biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista
Popolidell'Istituto per gli studi di politica internazionale, diretta da F.
Chabod. Nel 1942 conseguì la libera docenza in storia della filosofia; fu
professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, e nell'aprile 1943
ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi
annullato, a professore di storia della filosofia, nell'università di Napoli.
Nel 1949 conseguì la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo
colse a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di P.
Martini, antifascista di tendenze moderate e conciliatrici; il movimento venne
poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finì
trucidato alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a Milano con un giudizio negativo
sull'antifascismo del quale coglieva solo gli atteggiamenti scomposti di una
fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A
Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il momento ed il luogo della
pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione
della polemica prefazione del C. sulle colonne del Corriere della sera, nella
Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la
soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini mostrò
d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della Cultura,
s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù
dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21 ottobre
1944 il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il
linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e
dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli antifascisti
hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a
sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla
vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione
l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri"
(Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a
servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.
Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da Mussolini dopo
il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale
repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed
un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento
non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni
dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò
così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo
compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare Spinelli, direttore dell'Ente italiano
audizioni radiofoniche gli negò la pubblicità per il giornale, considerando il
suo "un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una
polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo
e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un
numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.
Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa
ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di
professore e nel 1948 riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi
attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con
virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei
giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro
comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del
Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al
tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia
della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951). Nel 1946
ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica
anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel
recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non
con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle
premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al
cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori
filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo,
Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul
Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò alla rivista di C.
Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia
all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio
presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle
illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma
ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con
una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare
fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del
partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.
Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della
gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini.
Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai
nella direzione nazionale dei partito. Sull'onda dello spostamento a
destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto
prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli
capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere
eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove
però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale
di S. Riccio. Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli)
di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e
alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto
sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di
Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina,
Napoli 1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana
(Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli
1960)per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi
sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione
di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano
1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di
impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo
(Bologna 1962). Il C. morì a Napoli il 12 giugno 1965. Fonti e
Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte Cione (finora sono stati parzialmente
riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica...,
in Cronache della Facoltà di lettere e filosofia dell'Istituto magistero di
Napoli, anno acc. 1960-61, pp. 65-69; A. Manno, Dall'idealismo al
cristianesimo, in Studi francescani, LX (1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin,
Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, pp. 733, 762 ss., 777; R.
Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino 1964, pp. 438, 495; E. Capanna,
Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965), pp. 1637 ss.; E. Santarelli,
Storia del movimento e del regime fascista, Roma 1967, II, pp. 568, 570;G.
Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari 1966,
pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari 1977, pp. 130, 308, 310 ss.,
329. APPENDICE I. Sulla bibliografia
Fascista Molti sarebbero i lavori di
carattere descrittivo me¬ ritevoli di essere
ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i
campi. Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a
cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma,
1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione
del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a
cura di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi dei vari
aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bi¬ bliografia fascista a
cura di L. Màdaro); Il Libro (Vita- ha; nel decennale della Vittoria,
Milano, 1929 (complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a
cura di C. S. Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, ed.
tedesca, Heidelberg, 1928; ed. italiana, Firenze, 1927. Studi vari :
Opere e leggi del Regime Fascista, Roma, 1927; Mussolini e il Fascismo,
Roma, 1929 (complesso di 30 studi); Dottrina e Politica Fascista,
Venezia, 1930 (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le
realizzazioni del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della «
Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma, 1930 (complesso di 64
studi). Il Bilancio dello Stato dal 1913- 14 al 1929-30 e la Finanza
Fascista a tutto Vanno Vili. A cura del Ministero delle Finanze, Roma,
Polig. dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto
l’esercizio 1932-33 con la seguente pubblicazione annuale a cura
dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale del Patrimonio
dello Stato per l’esercizio finanziario 19... ecc. Per la storia
finanziaria fascista si vegga : De Stefani A. La Restaurazione
finanziaria (1922-25). Bolo¬ gna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata:
Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio, 1929; Gangemi L. :
La politica economica e finanziaria del Governo fa¬ scista nel periodo
dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli, 1924; Gangemi L. : La politica
finanziaria del Governo Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi
L.: Le Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova Italia », 1932.
Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori Pubblici).
Roma, 1934. La Nuo¬ va Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Mi¬ nistero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori,
Milano, 1933. Nei riguardi della difficile questione meridionale, si
vegga l’esauriente volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel
mezzogiorno d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni
straniere quelle tedesche sono le più ricche e meglio informate.
Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più cono¬ sciuti in
Italia come quelli che meglio compresero il Fascismo e la sua
organizzazione economica, e cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.;
Bernhard L.; Eber- lein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich
W.; Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.;
Reupke H.; Vochting F.; (per i parti¬ colari bibliografici si vegga:
Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma, X.).
Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.: Wirtschaftsverfassung des
Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche Bedeutung des
italienischen Faschismus, entrambi pub¬ blicati in « Festgabe fùr Werner
Sombart », lierauegege- ben von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed
anche: Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen,
herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing, 1934 (è una raccolta di
studi dovuti ad italiani, tedeschi e svizzeri).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 135 ■
APPENDICE II Bibliografia essenziale sulle interpretazioni
dell’azione economica corporativa Per una rassegna delle
interpretazioni dell’azione economica corporativa si veggano i nostri :
Lineamenti di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Ca¬
tania, Studio Editoriale Moderno, 1932. Sono ivi ricordati i
contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo dell’azione
economica corpora¬ tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo
Oeconomi- cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti
del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essen¬ ziale dei
contributi italiani allo studio dell’economia corporativa, tralasciando
di segnalare gli studi, nume¬ rosi, di carattere polemico e
giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e, spesso,
deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ «
Ho¬ mo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬ nale degli
economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬ nomia Nazionale corporativa,
Roma, Libreria del Lit¬ torio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa,
Firenze, Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬
fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti
cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica economica, in «
Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934 (Classifica le varie politiche
economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni economici
particola¬ ri, con il compito di emanare misure rispondenti, nei
rami particolari, alla politica economica generale ema¬ nante dal governo
economico centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni economici
particolari). Bru- guier G. : A proposito di interventi statali, in
«Ar¬ chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III, Pisa, 1933
; Borgatta G. : Prefazione al nostro vo¬ lume av. cit. : Lineamenti di
politica economica corpo¬ rativa; Carli F. : Teoria generale della
economia poli- r > V I
136 LELLO GANGEMI tica
nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le crisi economiche delV
ordinamento corporativo della produzione, in « Atti del II Convegno di
studi sinda¬ cali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e
forme delT attività economica, in «Rivista di Politica economica » del 31
gennaio 1931. (Secondo questo autore J economia corporativa non è altro
che un’ economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella
sua realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell
individuo con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore:
Vecchio e nuovo corporativismo eco¬ nomico in «Saggi di Storia e Teoria
economica, in onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio V au¬
tore conclude che il corporativismo italiano pur traen¬ do alcuni suoi
elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬ novesi, dal Bastiat e dal List si
differenzia da queste in quanto che inquadra le sue idee in una
concezione piu larga, che non tiene solo conto degli interessi dei
singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale, che per essere
sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della Nazione, viene
organizzata gerarchica¬ mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma
e la sostanza della economia corporativa, Firenze Poli¬ grafica
Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento
corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società pel Progresso
della Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre 1930;
Einaudi L. : Trincee economiche e corporativi¬ smo in « La Riforma
Sociale », novembre-dicembre 1933; e dello stesso: Corporazione aperta in
«La Riforma So¬ ciale » Marzo-Aprile 1934. Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Fer¬ ri C. E.:
L’ordinamento corporativo dal punto di vista economico, Padova, CEDAM,
1933; Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e
dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei «
Pro¬ blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬ mia
corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Ca¬ mera corporativa e
redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara 1930; Fossati A.: Premesse per lo
studio di ima econo-
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE 137 mia e di una pplitica economica
corporativa, in : « Rivi¬ sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933.
(Ritiene questo A. che tanto la politica economica corporativa,
quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui
dei gruppi animati di una coscienza corpo¬ rativa sono teorizzabili: il
secondo per definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano
attribuirsi alla co¬ scienza corporativa (all’autore parendo il più
adatto perchè conforme alle direttive del Regime quello che ha a
base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬ nessere individuale
compatibile col benessere della Na¬ zione); ed il primo, quando le norme
abbiano suffi¬ ciente chiarezza (univocità) e costanza da
consentire una costruzione logica di conseguenze possibili. Pur¬
ché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non si confondano gli
uni con gli altri, è perfettamente legittimo fare della economia
corporativa una « eco¬ nomia » astratta, trovare il nocciolo razionale
del con¬ creto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimen¬ tale
della economia corporativa, « Giornale degli eco¬ nomisti», ottobre 1930;
Galli R. : Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico
Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle imprese industriali,
Firenze, Poli¬ grafico Universitario, 1934; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto al¬
l’inaugurazione dell’anno accademico della R. Univer¬ sità di Torino, 5
novembre 1931), e dello stesso : Scienza, critica e realtà economica, in
« La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1930; Lanzillo A.: Studi di
eco¬ nomia applicata, Padova, Cedam, 1933 e dello stesso A.: Il contenuto
dell’ economia corporativa, in ««Rivi¬ sta Bancaria », novembre 1928, ed
Economia corpora¬ tiva e politica economica, in « Giornale degli
Econo¬ misti », ottobre 1930; Lo Stato come fattore di produ¬
zione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato come inserzione di
volontà nell’ attività economical. Anche Ettore Lolini, a parte la sua
antipatia per la scienza economica tradizionale e la notevole
incompren¬ sione degli economisti ortodossi i quali riescono inte¬
ressanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li- erali o di altre
tendenze, ma come scienziati del- l’economia, riconosce che
per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse privato con
quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è ne¬ cessario
giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è in¬ dividuale, il risultato è
sociale. Per eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti eco¬ nomici
e identificare F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica
pubblica o statale, bisogne¬ rebbe trasformare la psicologia umana,
abolire la perso¬ nalità economica umana e con essa tutte le diff
erenze di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esiste¬
ranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono la base dello
scambio e la molla del progresso economico e che nessun sistema di
economia socialista è mai riu¬ scito a sopprimere. Il porre a
fondamento dell’economia corporativa la produzione e quindi
l’organizzazione e la gestione eco¬ nomica della produzione invece dello
scambio, inteso nel senso della ripartizione del prodotto di ogni
grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione
mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro, del capitale,
della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari, porta a delle
conseguenze pratiche fonda- mentali per la definizione dei fini e delle
funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe
giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬ mica col passaggio
di tutta l’iniziativa economica pri¬ vata alla Corporazione e con la
conseguente trasfor¬ mazione di tutta l’economia privata in economia
pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬
sumerà la direzione della gestione economica della pro¬ duzione, ma avrà
la funzione economico-sociale di eli¬ minare il classismo o particolarismo
economico, di im¬ pedire che uno o più fattori della produzione si
fac-
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 139 ciano la parte del leone
nei confronti con gli altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi
al pro¬ duttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di
questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia corporativa, in «
Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ; Masci F.: scritti cit. e: Saggi
critici di teoria e metodo¬ logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti
con lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni
C.: A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬
tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in «Giornale degli economisti»,
settembre 1930 (in questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione
teorica cor¬ porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche
Bru- guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri
scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione
dell’equilibrio economico nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato»,
aprile, maggio ed ottobre 1933; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in
«Educazione Fa¬ scista », giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia
cor¬ porativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi
sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.: La critica
dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello stesso: I fondamenti
dell’ economia corporativa, Milano, Treves 1932, e Capitalismo e
corporativismo, Firenze, Sansoni, 1933. L’interesse suscitato
degli scritti filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di carattere
esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituziona- listi americani contro la
economia liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei
governi liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa
che ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso
nella sua opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti
contemporanei hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A.
si guarda bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione,
fra capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che
m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di
costruzione teorica del corporativismo fasci¬ sta tiene conto, in
particolare delle dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che
rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n
clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen-
siero di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione
teorica la quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-
sione della corporazione come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il
partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e già discusso
ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere
nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per cui dopo
aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬ rativismo si riuscirà a
capire meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri grossolani errori
espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corpo¬
rative, come per es. su quelle in cui consiglia per il nostro Paese una
industrializzazione ad oltranza, la emissione di prestiti esteri, una
politica commerciale che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc
(Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Cor¬
porativismo, Sansoni, Firenze, 1933). Contra a Spirito, si vegga:
Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit..
Vinci, ap¬ presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬
nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen- naio 1931 ; Galli
R. : SulF identità delV individuo con lo Stato in «La Vita Italiana»,
novembre 1933; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo
- ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali e
Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu- leri A.: L economia
corporativa, in «La Civiltà Cat¬ tolica», 16 dicembre 1933 e dello
stesso: Crisi e capi- talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934,
etc. Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato
nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora- .V'iV-’i 193 - 3 ’
anno *V, f asc - IV) mostra come la formula dell identità è chiarissima
nel pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo
moltiplicando le sue forze
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE 141 non rinuncia ad essere sè stesso. Il
grande significato del Corporativismo è la disciplina economica
nazionale. Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’og¬
gettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata, sopratutto la
oggettivazione delle scelte economiche. Il nuovo modello della realtà
economica non potrà non essere anch’eseo, naturalistico e deterministico:
non c’è scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬
zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato Corporativo non
vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con
l’economia de¬ gl idealisti non va assolutamente confusa con le
invet¬ tive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista di
Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. ri¬ fiuta 1
identificazione fra Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le
opinioni di Arias e Fovel considera l’economia corporativa come una
economia non eu¬ clidea. Papi U. : Un principio teorico deW
economia corpo - rativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930
e più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e
Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese con¬ tro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il
concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬ ria
dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento corporativo traduce nel
diritto positivo un complesso di norme di diritto naturale, che
presiedono al feno¬ meno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto
cor¬ porativo, definizione giuridica della libertà economica c e
sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo
corporativo si risolve nell’uomo eco¬ nomico libero. L’economia
corporativa importa la pe¬ netrazione nell’organismo produttivo di un
sistema or¬ ganico, razionale di politica economica. L’economia
Liz ---- LELLO GANGEMI corporativa risolve il
contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica. Dover
essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬
mismo economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo
e la scienza economica («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio
1934. Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fat¬ tori
di produzione e fra le varie imprese e delle con¬ dizioni di concorrenza
mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e l’autodecisione,
ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni e dei con¬
sumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬ l’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Cor¬ porazioni, imponendo al Consiglio
Nazionale delle Cor¬ porazioni un continuo, pericoloso compito di
revisione e di conciliazione in base a valutazioni complicatis¬
sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». APPENDICE
III Sulla Finanza Corporativa. Si espressero anni addietro a
favore del contingente : Griziotti, Finanza di guerra e riforma
tributaria, in «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il
contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬ nanze, Torino, 1932,
pag. 257-262. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più
seri): Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa,
in « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordi¬ namento
corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. II; Bonanno:
L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e
prat. trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la
sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357;
FINANZA CORPORATIVA 143 Uckmar :
Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in «
Diritto del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato
corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬ nanza corporativa,
in « Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed infine, sempre dello
stesso: Ordina¬ mento corporativo e ordinamento tributario, in «
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara,
1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale trova favorevoli
Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia individualista
e per¬ ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individua¬ lista,
ma nei suoi studi esprime delle proposte che trova consenziente tutti
coloro, fra i quali lo scrivente, che riconoscono doversi inserire
nell’ordinamento cor¬ porativo anche la finanza allo scopo di raggiungere
quei fini che gli conferiscono caratteri fascisti. Sono
contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬ sione fiscale e riforma
tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco («Comunicazione al II
Conve¬ gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932, voi.
II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per lo meno alla
riduzione degli organi finanziari statali ed alla loro sostituzione con
le Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere
impo- sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quin¬ di
può inscriversi fra i fautori di una finanza coordi¬ nata all’ordinamento
corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e rivoluzionarie
trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto politico,
riveste un con¬ tenuto tecnico con il quale male si accorda la
improv¬ visazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-
stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre
agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel
buio che in materia finan¬ ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e
perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto 144
LELLO GANGEMI contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra
i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in
™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca- Problemi di Finanza,
Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Cor- porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello
TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria», giugno 1929;
Gangemi L- rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-
Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello Stato
Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r”
cernii in «Rivista di Politica Economica», 1931, fase.
VII-Vili (e una carica a fondo contro la funzione graduale,
ransitona e limitata del contingente come è propu¬ gnata da Montemurri e
dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il
Commercio» f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria
e problemi della- economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria
Colombani, 1932 (è questa una diligente ras- segna dei problemi
corporativi della finanza). Infine, si segnala 1 eccellente studio del
Borgatta: Le funzioni m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio
e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,
CEDAM, 1934) non sembra opportuno affidare all’Asso- ciazione
Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin associati. Le
associazioni sindacali, probabilmen¬ te « non sarebbero neppure molto
disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in
grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-
guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche a prescindere
dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo animosità
lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista, che
costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore» (pag. 210-211). Un
chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La ritorma propugnata da
questo autore (studio cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è
vasta e corag¬ giosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali,
l’una
FINANZA CORPORATIVA —" : 145 . ' ■ *
sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.
Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso evolutivo della
legislazione fiscale degli Stati moderni pongono in evidenza i tributi
globali e personali come il fondamento di un corretto sistema di
imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa
di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema at¬ tuale
è fondato appunto sui tributi reali, integrati da una imposta personale,
la complementare, che con i procedimenti fatti approvare dal Ministro
Jung pre¬ senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬
portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal
Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’im¬
posizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e
ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e
sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministra¬ zione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare
una riforma così vasta e complessa che le condizioni del- 1
economia nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di
sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini
è consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra
le due opposte opinioni che esiste una finanza corpora¬ tiva oppure
il contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente che
trova riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze
pubbliche nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro
», fase. II, 12, 1929); Idee generali sulla trasformazione del
nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno di Studi Corporativi
a Roma, in « Bollettino del Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia»,
maggio 1930; Le finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in «
Eco¬ nomia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo, desidera
un sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le esigenze della
produzione. Vuole un si¬ stema tecnico e razionale che sodisfi anche i
criteri della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici.
Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce
che l’opera del primo periodo della finanza fa¬ scista ha tenuto conto
delle esigenze della produzione. Queste idee evidentemente indicano nel
Grìzìotti un fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non
ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento del¬ le imposte,
tassazione esclusiva delle rendite e dei so¬ praredditi, ecc.). Ma su
questo sarebbe lungo il discorso. Secondo un distinto allievo del
Griziotti, il Pugliese (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli
Stati Moderni, Padova, GEDAM, 1932, pag. 54-55) « Nello Stato
Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬ mentalmente sulla
iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che reggono
l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge
un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato
». . Nello Stato corporativo anche la politica fina 1 -
ziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non
coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse
siano assai più vicine) nè con quelle del sistema collettivista.
Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo Stato —
qualora rispetti il principio della pro¬ prietà privata — si può valere,
per intervenire nel cam¬ po dell’economia, individuale, è logico che ad
essa fac¬ cia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio
l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo ri¬ chieda.
E essenziale rilevare che nel sistema corporativo, mutano
fondamentalmente i modi dell’azione statale: mentre nel sistema
liberale-capitalista lo Stato si pro¬ pone fini di benessere e
prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle
forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato
corpora¬ tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione de¬ gli scopi
suddetti, non solo proteggendo e favorendo le
FINANZA CORPORATIVA - 147 forze utili' ai propri
fini, ma facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’ob¬ biettivo prefisso. Non possiamo chiudere
questa nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha
dato Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti fareb¬ bero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli
della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra
ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione del colpo di Stato ed el 25
Iuglio” p. 58, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; p. 99;
“La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il
Manifesto di Verona”, p. 159, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La
lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211, “La politica di
conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale della tendenza
autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e
quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il
regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il
Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”;
“L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a
”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista).
“Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia –
con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico
Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del
nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la
civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo,
corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come
corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772827898/in/dateposted-public/
Grice e Civitella – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo.
Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice:
“I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite
summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the
beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos,
‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the
point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is
desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in
philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente
ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte
opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta
istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che
interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro
merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di
maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate
a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica, nacque nel
castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua
famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser
Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il
proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica
Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era
“de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre
III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici
ed in seguito inviato a Napoli, per il
completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi
per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno
per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far
parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.
Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli
archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle
Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla
presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a
Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al
conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei
conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel
fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento
del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che
caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non
più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale
corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da
poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo
tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il
Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo
Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a
Teramo e alla frazione di San Nicolò
(nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna
Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano,
Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a
Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone. Questo
interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta
documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua
appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume
di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I principali indizi si
possono così riassumere: I maestri ed amici di Civitella, come Genovesi,
Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni; In un diario del curato
Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a
Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove
un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella
rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski
ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda
il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a
studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del
tempo. Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter
con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se
"il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre opere:
“Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini);
Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie
confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su
la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in
Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,
Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili
del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De
Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli
studii, delle opere e delle virtù di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti,
Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti,
Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in: Dizionario bibliografico della gente
d'Abruzzo, ITeramo, Ars et Labor, ora in
Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio
delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Vincenzo Clemente,
Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico.
Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche,
Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica
di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,
Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli
prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre
incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero
ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono
bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a
trattare, come quelle che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed
accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che
della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più
importanti. Fra gli innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo
quello di cui tutti gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro
ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto
Sesto Pomponio, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo,
rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato
giureconsulto aveva raccolto su tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio
incomincia la storia del dritto dai re di Roma, dello stesso momento conviene
seguirlo. In questa prima epoca abbastanza oscura non vi sarà pero materia di
dispute, poichè Sesto Pomponio parlando conformemente alla ragione ed alla
storia dice che Roma da principio visse con incerte lege gi e con dritto
incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per
quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella qual forma Roma ebbe
il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle precise parole.
Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere instituit. Ne altrimenti
doveva avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente
malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società,
doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando che da un stabilimento
positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il numero de primi suoi
compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era retto ve s9 ) da che si
puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti
furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri della patria, i
forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo questi primi tratti
caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a raccontare tradizione, che
essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo divise il popolo in tante
parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va cura delle pubbliche cose,
e fece in seguito la legge che si chiama legge curiata, come no, fecero ancora
i re successivi, e tutte furono, raccolte da Sesto Papirio, il quale visse al
tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome dell'autore quella raccolta fu
chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle dispute istoriche e critiche
delle quali si occuparono gl' interpreti di Pomponio, ma osservero che sebbene
da principio parli dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non
modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu data una forma, non una costituzione
alla città nascente, e come dai re fu promulgata la legge curiata. Per due
secoli e mezzo in circirca; quanto duro la regia signori, Roma non ebbe dunque
che questa o quella legge occasionale, e la società fu mantenuta più col
governo che colle legge. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza
de’ tempi seguenti, non sarà inutile il presentare in poche parole lo stato
politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della
legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non ebbero autori
contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed
esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni
pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra
l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia
da un adu namento di persone appartenenti a vari popoli non solo italici, ma
greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione avendo Romulo per capo
visse da principio di prede e di rapine, gusto che fece il perpetuo carattere
della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avol toi
comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono poscia nobilitati in aquile
vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio bisogno di leggi, la
legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu fondata come Livio si
esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute erano decise dalla
volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’
briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel formarsi tali
associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia, e così avvenne di Roma.
Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono quattro zolle che
lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’ commilitoni o complici
delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche
superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile plebe o volgo profano.
Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’
‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va.
rj rapporti ne' quali erano considerati, o di Senato consultivo, o di corpo
aristocratico, o di superiorità immediata su le divisioni della plebe, la quale
che che ne dicano i tardi autori della storia non ebbe alcuna parte di potere
nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere
questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva
trascritto le notizie dagli antichi autori, parlando dell’origine delle
clientele si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione
di gregge piuttosto che d'un popolo. Patrocinia appellari capra sunt cum plebs
distribuia est inter paires. Ne si devono contare per un ordine intermedio di
citetadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma,
poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è
possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere
come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da
principio era stata abbozzata. Sotto il re Numa vediamo i primi passi di
qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima
legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degli
interpreti della divinità; ed in somma un principio di governo teocratico, pel
quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare su le cose
civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente
riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo ebbero i primi principi le
scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica
per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gli atti umani e farli nascere ancora
in un popolo quanto ignorante tanto superstizioso. Così par che facesse Numa o
per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural
corso del sociale andamento; cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale. Su
questo piano Roma crebbe successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda
contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e
sacri seppe sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale
idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il
primo per quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il
quale riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia
indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra
le favole e le ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un
principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società
primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla
qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna
superstizione. Le luminose tracce di Vico furono poi seguite dal Duni e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma
nacque aristocratica, che il re none che il capo dell’aristocrazia, che i soli
patrizi ebbero la quarta di cittadini che furono in perfetto stato di
combinazione l’aristocrazia politica e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome
di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli patrizi appartenne, come quelli che soli
godevano del dritto della cittadinanza (cives polis), i quali poi furono
gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia luminosamente la contradizione
in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio e fa vedere che il re non ha che
una parte del governo o dell’amministrazione, ma che la somma dell’autorità, la
vera sovranità, il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra
risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il dritto di eliggersi il loro re
o principe. Furono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (Duni Orig.
del Citted. Romano. 1) ministri ed interpreti: e siccome per un’eterna verità
l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio della superstizione. Cosi dal
corpo aristocratico si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici
fu specialmente destinato a dar i giudici alle divine cose ed umane. Quindi la
conoscenza della legge e l’amministrazione delle medesima fu un dritto
esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del
mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine
de’ patrizi. Codesta emanazione della prima teocratica idea non solo si conserva
per quanto ebbe di durata il governo del re ma per quanto visse la Roma. Una
repubblica, colla sola differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i
necessari riflessi della ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e
di eguaglianza, così quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè
non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le
cose senz’alcuna effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione,
per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione
giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci
nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con
sicurezza affermare che la legge fu minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione
delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni
individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare,
arbitraria, e quale ad una nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva
solo convenire: e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio
scrisse, che sotto i re sine lege Gerta, sine jure certo vissero i romani.
Lascio agli ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi
superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti
ne fecero poco conto e le lasciarono finalmente perire. Chi volesse però
riconoscerle, troverebbe in esse la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche
della prima aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che
il governo di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare
gli eroi della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che
gli eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libera
però non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della
libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero
cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica
e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita
dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad
intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus..ae. iterumque cæpic populus
Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem, idque
prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto abbassata
dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione
ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti,
e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale
ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il
potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti,
tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano
oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo
debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata
dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps),
che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può
escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute;
ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri
si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut
civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che
niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi
una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e
l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano
ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre
al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge
e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per
frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri
costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores
patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni,
e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo
espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di
sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei
sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero
quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche furono messe
in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più buona fede sopra
i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali dovevano
mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la
legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in qualche luogo
d'Italia, e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali e perchè nulla mancasse di condimento aristocratico,
si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal
partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle dodeci
tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, sarebbe
un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dovesse
servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio o la
privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il
patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la
usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la
religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del
linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che
la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il
patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi
stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il
popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole;
sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante
vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella
legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza
resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da
Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può
scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi
di quelle leggi. La scovri ancora il E 4 po. (Vico: Scienza nuova; Bonamy, Memoir.
de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom. XVIII; Duni: Dėl Cittad. Rom) popolo,
quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi
bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li
avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai
suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo
malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue
pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti
delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per
vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente
onorate dagli antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne pro
venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate.
Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi
molto felice nel darne le pruove; così condanna Solone, per non aver imposto
pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale
per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per
aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam !
esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa
viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si
riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche, ingiuste, severe,
é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci
sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia: se per quella
della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti
del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana
loghe alle leggi ed all' usanze: se per la parte te stamentaria, è facile il
vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica, per conser vare
in forza gli Aristocratici dritti: della stessa indole furono le indegne leggi
relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali
sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge
furono pur sempli ci, come devono essere in un popolo barbaro con pochi
rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà
esaminar quel te leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che
le leggi devono avere colla natura e collo stato civile, troverà senza fallo
ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti. Ma forse
neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo par che
fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al
suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap
prese a memoria, era poi passato di moda tal co stume: discebamus enim pueri
XII. ut carmen ne cessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di
Gellio erano cadute. in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero
le leggi dei Fauni e degli Aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel
quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali;
poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti
che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a
quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore
della prima. Ma che i Giure consulti moderni, e quelli specialmente della setta
degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come
il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su
gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario
fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo
credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu
infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu
cangiata, e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di
acquistar la condizione desiderata. Per quel principio Teocrático, di sopra
accen nato, ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che
privati, il patrizio dal plebeo, era il dritto degli Auspicj. Era questo dritto
che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili; ed
incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj
si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il carattere di
padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie
di nozze era de' soli patriz;; poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o
naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli
auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver
drito 1 (76 ) alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato.
Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto
importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro; e la Storia
c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler
introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la
giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asse rire, ch ' esse
non avessero propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII
tavole. Si crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due
qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e
stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie,
ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti
la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno nascer gran
dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la misteriosa cu stodia
delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava il privilegio
esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del (77.
Det ZE =; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza Romana era
fondata parte su l’ingiustizia, parte su l'errore: su questo, perchè la loro
scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al volgo i misteri della
natura, l'origine della cose, l'enera gia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non pud appartener mai il nobile titolo di scienza o sapien. ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo facevano servire all'
ingiustizia, poichè con tali mezzi si mantenevano nell'assoluta disposizio ne
delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più
forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle
leggi qualunque fossero erano pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell'
aristocratico potere sarebbe andato a svanire, se non si fosse trovato un modo
col quale si ae vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si
effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col
rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78
)* gi; se non fossero state avvalorate dalla doro re condita sapienza. Essi
dovevano spiegarne il sen so; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal
legge; qual era l'azione che ne proveniva, quale il modo o la formola di
proporla, quale l'eccezione che poteva impedirla; e finanche si arrogarono come
un mistero sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza
offendere i Numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere
inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta
un ori gine Aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla
malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su
bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie; pu re non si confermd, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le
mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le ne by cessarie dispute del foro. Tali
dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79
) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con pocabolo comune
è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si
fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare: ed
sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere
certe e solenni '; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge,
o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie
di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile deriva „ to da esse; ed
azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti, La scienza poi tanto
delle » leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse era
riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che
pre sedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine visse il
popolo per cento anni in » circa, „ Quale orribile contradizione ! Appena
pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata
cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta
zioni. E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi?
Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis
80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile
tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni
de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti erano mai
quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi in
massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune. intelligenza e
di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse, e si
mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið era sicuramente
per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione
arbitra sia, qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico. L'unico
mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni, cioè
delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in giudizio, ma
secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti civili,
accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di aver la
privativa de' giudizj; poichè colle leg gi certe difficilmente avrebbero potuto
abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova
pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza mistica delle
leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale prima delle
XII. tavole teneva no le antiche consuetudini. E perchè non si man casse di
venerazione a tale straordinario stabili. mento, i Pontefici ne furono fatti
depositarj egual mente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta non a
dispensar giustizia, ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo, darà segno, di
non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non
si trattava già di fac leggi, si trattava solo di tener il popolo in schia vitù:
perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di privata cittadinanza avesse
potuto godere anche quello d'Isonomia, cioè dell' eguaglianza delle leggi,
qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione,
avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che tanto F ambiva, ma che più
sentiva che conosceva. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o
privala legislazione, dicendo, che la sua condizio de ea in questo assai
peggiore di quella dei po poli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc
che riguardava i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali,
ciocchè agli altri non era Ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana era
inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il
dottissimo Vico con gran proprietà d' intelli genza penso che quel notissimo
motto di Solone: conasciti, fu piuttosto un précetto politico che mo rale.
Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve ra giustizia Solone ricorda va con
quel motto all' oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi
per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano
non eb be un Solone, che gli desse così utili ricordi; ne forse ne aveva
bisogno, poichè abbastanza si ri conosceva, ed agli insulti de'Patrizi
rispondeva, che non erano fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù
dall' Empireo. Avrebbe perd avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una
costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte
degli abusi del potere Ari „ stocratico, ma non giunse mai a formare una pere
ferta Repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi
della Giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla
grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde an che presto nella voragine del
disporismo. Ma ritornando a quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente
alle XII tavole, e che diede nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato,
dirò, che sebbene da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa
giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre
Gravina, tuttochè pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe
nascon dere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan
in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj
Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F
2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica
giurisprudenza, avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive
giuris prudenze dette media e nuova, ed avrebbe discon * fessato gl '
inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto perd si
è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris
prudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon
senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi
nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle
per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le
leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella
corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la
ragion civile, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare
gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di
guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono
mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll' inventare le
azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono; ma de' nuovi stabili men (85 ) menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut Senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante ato. bitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa legge, come vedre mo in altro
luogo, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri Monopolisti delle leggi.
Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani avessero a vile codesto
mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre
con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte
cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro
di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presentava al
cuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle
belle arti, dalle scien ze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende
solo piacevole; perciò chi non amava l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva, in
vece di darsi alla cabalistica (Livio) e viziosa giurisprudenza, si riparava
nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi
pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la
più in festa allo Stato, la perpetua persecutrice della li bertà popolare e
della Giustizia pubblica fu una famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia;
e sempre si è veduto che dove dottori e forensi 80 no, la discordia prende il
luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a Pomponio. Egli
ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la
storia pero a gli altri autori dicono, ch' ebbe una durata eguana le a quella
della Repubblica, toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il
fondo del la cosa · Seguita dindi Pomponio a racconta re, come quelle formole
ed azioni, essendo ri, dotte in forma da Appio Claudio, cotal mistico libro gli
fu involato da Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio:
ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, » questo gli fu si grato,
che lo fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe, Senatore, ed Edile „
Questo libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato, dal
nome dell'editore fu deno (87 ) Si po, mitato drino civile Flaviano, benchè
egli nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e
nel multiplicarsi gli affari maticando alcune specie di formole, Sesto Elio non
» guari dopo compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto
Eliano,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa
publica la scienza arcana, il dritto cívile, le ' azioni, la pratica, e le
leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su
i principj legali, sulla condotta degli affari, sul modo di amministrar la
giustizia,. sulle ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione
de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu '
al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj perdere per alcun
modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma va la
base principale del loro ingiusto potere, tro* varono il'modo, onde far rimaner
il popolo de fuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni
mistici destinati al riconoscimento, pres stamente si cangiano, e de ' nuovi si
surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono,
cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell' ordine, e conservarono il
grande arcano della Giurisprudenza. Le formole e le azioni furono cangiate, e
forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo
nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, Cicerone, il
qua le ce ne dà il più distinto divisamento; Erant in In igna potentia qui
consulebantur: a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis petebantur. Inventus est
scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con Fixerit, & singulis
diebus ediscendos fastos populo proposuerit & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin
sapientiam compilarit. Itaque irati llli, quod sunt, veriti, ne, dierum
ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi. notas quasdam
com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun utile
dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve tempo
seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue, la Storia
troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi
sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa
condotta". La Giurisprudenza fu latente, in çerta, arbitraria, ignota al
popolo,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi da
quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che cerca
il vero, per render lo di comune demanio; da quella Giustizia trova i principj
nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore; da quella naturale
benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato;
da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla
Giusti, zia;, lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio non
sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di
corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali, dal vile
interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso di
un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza !
Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto Romano ci accenna
l'origine de' plebi. -. sciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate
dal popolo o dal Senato, e delle quali in appressa, vedremo gli effetti ee'l'l
valore, e soggiunge, che » nel tempo stesso anche dai Magistrati nacque » un' 1
el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini,
di qual dritto i Magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura,
& perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degli editri, da quali si
costitui il » Dritto onorario, cost detto perchè proveniya dall'onor del
Pretore, • E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che
nacque delle costituzioni de' Principi, cost riepiloga tutti i fonti che
costituiscono il 'dritto Romano.,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la
legisla os zione è costituita del dritto" o sia legge; da » quello che
propriamente si chiama Dritto civile, che non è scritto, è consiste nella sola
interpre mtazione de' prudenti: dalle azioni della legge » le quali contengono
le formole di agire; dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del »
Senato, dagli edini de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario; dai
Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente,
dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che Pomponio ci
ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori
tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa
giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per
quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri
d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion
popolare andasse ac quistando qualche dritto su l'Aristocrazia, puro questa
sostenuta dal Sacerdozio, qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa
de’dritti pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi, e sotto
le chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della
giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giu stizia, e che tanto più diventa tale autorità effica cé,
quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie. Ma per vedere come
questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della
stessa indole, prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de'
senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel
dritto; cui si volle dare il titolo di onorario, ma che ves dremo' non essere
stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle
vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a
perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le. deridevano
e tenevano in altissimo disprezzo, cre do che dopo due mille anni potremo far
noi al-, trettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della
Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente, che quando di cose
sem., plicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte
d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non
necessarie, e surrogare impropriamente le imma gini e le finzioni alla
semplicità e realità delle co se e delle idee: specie di geroglifici che deve
ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento
però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso
infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe
dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i
dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, facevano tuttogiorno
rimbombare de loro schiamazzi il foro Romano; ma accennerò so, lamente ciocchè
importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione
non aveva più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per
cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin
allora erano stati privativi de patrizi, come fu quello della questura e de'
tria buni militari, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se
non ottenevano la massima delle Magistrature, vale a dire il Consolato. E
poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della
Religio ne i patrizj cercavano coprire le loro pretese, o tependone lungi il
volgo profano, ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj
abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si
rendeva necessario l ' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar an
che essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le
rogazioni che fecero cor rendo alla fine il quarto secolo di Roma, furo no
queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si
facessero de De. cemviri, e che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti
plebei: e che nella nuova elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine, e
l'altro pae trizio. Invano Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa
ma una predica Teologica contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli
animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte
obsolete; invano minacciò d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali
mi nacce: Roma (diceva egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di
pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e
fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione
de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun
magistrato plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare
i Consoli dalla ple. be, quanto il rovesciare interamente la religione, ed
incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si
gravi rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato. Se
questo colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare;
ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace, si
rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipendeva dal consolato. Pensarono dunque sta (12 ) Lir.
lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare
nell'ordine patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario,
e tuttociò che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto
che i Consoli erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti, onde
non poteva no adempire agli ufficj della giudicatura, proposent to di stabilire
un nuovo magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione, e fu
ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore. La pretura dunque
fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario
o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele. Le leggi
e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate, ma per poia chi anni
durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura. Eccoci intanto al tempo
nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che passo
di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il
no. me Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato
Pomponio, nacque da gli editti, che emanavano į Pretori nell'entrare in
esercizio della loro Magistratura, ed essa façeva il maggior latifondio della
Scienza forense. L'im para the S6 ) portanza dunque della medesima ci merte nel
do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel
corso della Storia', ve derne in qualche modo l' uso, il carattere; e gli
effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comu nicazione a tat
officio delle plebe, e più dopo ese guito il censo di Fabio Massimo il governo
di Roo ma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed
io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella
forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare fu molta, e
qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in licenza, poichè essa non era
limitata dalla legge; ed il dritto de' suf fraggj ed il potere legislativo non
ebbero mai quel la regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso
un popolo regnante e tranquillo. E non fu mai tale il popolo Romano, poichè la
for ma del suo governo non fu costituita su d'un pia no antecedentemente
ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse ri
montato alla necessaria divisione del pubblico po tere, e questo ripartito in
modo che le varie par ti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. →
toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente
contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo
perciò quind' innanzi frequente oco casione di parlare dei disordini dell'
Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e
della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla
facile germi nazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però
tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma
passiamo final mente a vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata,
mente trattarono degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto
Eineccio ed il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non
tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12
) Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in
Roma e per l'Impe, so ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati
erano detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal
carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare degli edinti Quante che
fossero adunque le divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario,
ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto,
ebbero l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando
dai Pontefici e dai Tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e
passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero
avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale
facoltà o prerogativa era compresa. Fra tanti Magistrati perd che eb bero o si
arrogarono cotale autorità, gli editti di maggiore celebrità, e che
contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori.
Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire
questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita
che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che
il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol, (99 molto
intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse
la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal
carica, mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino;
ciocchè' avvenne circa un secolo dopo, cioè nel anno 510. Coll’andar del tempo
si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni erano addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da altri, cioè
che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli esercita vano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giu risprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto rità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si po trebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giu. 3. G 2 (100 ) Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essen
do essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli
editti seppero per tal modo usurpare l'autorità Legislativa, che il dritto fu
cangiato, e gli editti più che le leggi furono osservati, e maggior uso ed
autorità ebbero nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè
Magistrati di Giustizia, il loro officio era solo di applicare.la legge al caso
particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di.
sputava. Un Giudice non può creare un dritto col le sue sentenze, poiché esse
altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel
caso proposto si verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in
giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non
può crear un dritto, molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di
Magistrato o in forza della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i
quali si alteravano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre
temporarie, ci pre sentano degli atti di autorità arbitraria, tempora ria, ed
incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo
emanare dalla - potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo,
fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica
siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà,
che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica
contenga almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del
disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel
crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di
tal fatta, ma come codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che
avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per
questo per quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano
tratti, non fu difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque
giusta mente la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere
giudiziario, ma da quello di far gli editti. In fatti se si va all'origine di
que sto dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod
jubemtis fieri: espres sione tanto generale, che potrebbe comprendere
l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la le gislativa; e perciò
fiequentemente le parole di G leggi e di editti furono di uso promiscuo: Ma
Papiniano è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto
pretorio dicendo che fu introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e
corriggere il drilio civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel
corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium: Ecco dunque la
vera origine del drixco Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal
fare gli editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, cor
reggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di
amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto,
alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano
supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa
volontà sia giusta o ingiusta, utile o noci va alla Repubblica (13). Ma che
altro è mai il Dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti:
Se le leggi mancano, bisogna far le, e non solo il Ministro di giustizia, ma
niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13)
Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle
cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad
interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio ni o circostanze delle
leggi, sopra le quali non pud cadere alcun dubbio, che il restituirle in qualun
que modo non possa spettare ad altri che al So vrano; ma in quanto all'
interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabia lita
la sua autorità, rifletterò che l'interpetra re o interpatrare da principio fu
in Roma del so to ordine del patrizi, quando tutti i poteri e spe cialmente il
legislativo erano ristretti nell' ordine "Aristocratico. Essi dunque che
facevano le lega gi erano i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro
potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una
leg ge è oscura, non vuol dir altro, che il non sa persi precisamente, ciocchè
essa comandi o pre scriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete le girima di se stessa. Ne i
giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima
della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e
Giustiniano stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le
leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro
difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da
esse prodotto fu d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la
corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani
furono cogli Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai
Pretori cogli editti prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era no
così incomplete, come sono quelle dei popoli bara bari; e che i Romani lo
furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà,
ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia
ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come
scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù,
e che con nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma
gli onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola
Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per
quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto
Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, do vremmo
anzi prenderli per riformatori o corret. tori delle leggi. Tali furono in fatti,
ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa: lo furono
solo per abuso, vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura, e fer
nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti
delle sue leggi, e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la dif
ferenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar
veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene, avrebbe trovato più oppor tuno
mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione. Ciascuno sa che
in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propo neva
annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste erano poi
approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta
meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto rità
straordinaria, se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio
stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo
potere per trent'anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse,
devo ricordare, che vi erano quattro specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ
jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di
ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ri
stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che
quelli editti i quali do vevano contenere il sistema giudiziario attuale del la
pretura, furono quelli appunto, da'quali deri varono maggiori abusi, cioè
quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il Pretore esponeva nell' albo
le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali
avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto
civile de' Romani in tali formole era com preso, chi era autore delle formole,
lo era in con seguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio
mancava a quelle formole per qualun que causa, cadeva dall ' azione, o rimaneva
con inutile eccezione cioè perdeva la lite anche che intrinsecamente avesse
avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato
div enuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere,
che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non aven do idee certe e
generali de' principj del driito, fa cessero gli editti ciascuno secondo le
proprie co gnizioni ed idee: poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni
delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di
giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non
sarebbero stati prescrizioni annua li, ma avrebbero avuta una continuazione o
vera perpetuità. Nè ci faccia illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis,
poichè quella perpetuità era ristretta ad un sol anno. Il Pretore o Pretori che
succede vano alla carica, avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo
un nuovo sistema giudi ziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj;
e sebbene questo non si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i
succes'sori conser vavano integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti,
ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, era sempre però
in liber tà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo co nio, che perciò portarono
il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono
portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agli amici
della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio
pretorio, e gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le
loro fora mole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni
o le opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo, che fossero mol
te le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè faceva un nuovo intrigo, ed
accresceva l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pre
tori furono varj, e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati, poichè
ciascuno a suo modo proponendo gli editri, quel ch'era giusto pres. so di uno,
si trovava ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le
opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva, allungava o accorciava
secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sem. pre dall'
arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Ammi
nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di
Magistratura, non avrebbe potuto 1 dirs (109 ) diffondersi tanto l'incertezza
della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gli ammiratori o visionarj della
Sapienza Romana, trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine. Il
progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi
multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare
e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo fune stamente
imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società si aumenta è
vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per questo crescono i
rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se
stessi. Non crescendo i rapporui non devono multi plicarsi e variarsi le leggi,
le quali ne sono I espressione; ne devono quindi" crescere e di
versificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o
dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono
essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il
dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e le
gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e
multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere: ciocchè però non accade quando
si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino. In questo caso,
la legislazione sarà uni voca, generale, uniforme; i limiti del potere giu
diziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le
Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e
fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui
sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e, per conseguenza col governo o
collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo
medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della piccio lezza,
più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti
favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con venevolmente
diviso, senza gelosia e senza inte-, ressi contrarj avrà la dignità che deve
aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed
esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni
caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla
legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover
osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua,
ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura
sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente
arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute
leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame,
come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un
Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante
l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed
un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità
di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico
vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che
per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per
la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di
vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali
abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che
portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si
svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica
disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud
vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non
sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo
Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i
doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l '
amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più
infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i
Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù.
Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii che la nobile gio venid
coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel
foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per
ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi
contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per
attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti
prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di
partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani
nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura.
Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici
del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno
cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della
Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a
nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo
termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la
Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano
le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto
conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto
susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato
contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai
stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle
depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la
rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori.
Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la
sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a
conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale
ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi
sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa
ad altro tempo più tranquillo. Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò
= Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie
jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo
potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di
Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone:
Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era
già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon.
in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non
seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe
potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de'
Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giu risprudenza e nuovo metodo giu
diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza,
l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi,
che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva.
Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig.
de Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud
istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus
difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta
aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la
Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per
giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza.
Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà
consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo
aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la
prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị
barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che
fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono
surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per
eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano
espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo
Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando,
le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè
le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice
il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva
i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i
viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te
maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni
favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì
fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti
somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza
furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per
le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre
si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (Vico Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la RomanaRepub. blica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione
e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono
essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che
perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo
all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se
vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur
confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai
nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o
sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50,
che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta
la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do
resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed
incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte
in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere
legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato
delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll'
Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs &
libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di
nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c.
non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere,
me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le
processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi
d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale
delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le
gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é
divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente
consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di
sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi
prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si
disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè
mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per
la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi
continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla
frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai
sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia
conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che
vergo gnosamen te li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il
cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi
non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato
censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica
non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad
alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana,
rispondero, che tali non sono poic (123. Det poichè quando si parla delle leggi,
convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore,
dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or
potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E
quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da Canulejo; pure in un
frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di
Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a
partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e
non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di
classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso
e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea
prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear
pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana,
vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia
certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte
in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi
costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di
communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà
pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di
suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no,
e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede
simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è
libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence
colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione
casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il
corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò
solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere
l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un
corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato
quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso
p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze
erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono
correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf (18)
Dionys. Antiqu. Romanarum lib. z. (126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi
si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè
i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere
legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza
alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro
dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere
legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata
per Cen turie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere
legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo
molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni,
giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i
Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle
quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol
to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu
meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun
stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà
legislasiva. (127 ) el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti
colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati,
delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello
della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso
della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo
Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per
mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme,
le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio,
non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di
Cittadino era misus rata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la
volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà
generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi
s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la
quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la
volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un
sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel
giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i
principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere
legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni
simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di
un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni
sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero
Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu
risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano
in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e
sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i
quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del
suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il
Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza,
che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò
mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo
non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più
giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai
Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti
la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le
quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono
tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero
leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi
necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da
imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone
cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche
fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si
avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi,
ma che toline i due Gracchi, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi.
Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi
an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a
pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de'
Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo
più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad
esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che
avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico
sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono
far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie
testimonianze, e spes cialmente da una di Cicerone. Possiamo da esse
raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de'
Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi
quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto
dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi
il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in
volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi
curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131
) si. Almeno cosi ci attesta Cicerone, assicurandoci, che per saperle, o per
conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam
nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a
librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha
bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum
literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che Tacito
caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero
elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta
una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi
posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per
convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra
gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che
il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse
parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere
da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti
c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam
sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione
ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque
ob prava, per vim taie sunt. (20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a
quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che
meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un
popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e
l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e
della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma
colla scorta della Storia, e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri
della infantile prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato. Se Dionigi d'
Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in
struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo
di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva
nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo
Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa,
come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici
indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non
veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli,
senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma
alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece
di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo
scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo
Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori
parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a
credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di
is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si
tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il
cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra
le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi
tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di
monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però
non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto
il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono
questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della
Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli
Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente
dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi
antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le
leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle
quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando
di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo
stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e
non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo,
qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni
de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero
facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè
per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e
di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione
e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il
carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete
(Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento
morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione
della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della
morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione
morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La
benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La
felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana
dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere
della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza.
L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei
varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della
Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le
memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento
delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle
memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto
il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela
del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi
ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed
inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine
naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica
incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità
della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli
antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I
bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il
bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello
ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del
bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E.
reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis.
Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli..... pag. 138
Spallanzani a M. Delfico..... pag. 140 Luigi Grimaldi a M. Delfico.....
pag. 141 Toaldo a M. Delfico..... pag. 142 Spannocchi a M. Delfico.....
pag. 143 V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]..... pag. 148
Michele Torcia a G. Berardino Delfico..... pag. 148 Gaspare Mollo a M.
Delfico..... pag. 151 Alessandro Carli..... pag. 152 F. Mùnter a M.
Delfico..... pag. 154 Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159
Mùnter a M. Delfico..... pag. 160 Filippo Mazzocchi a M. Delfico.....
pag. 163 Gazola a M. Delfico..... pag. 163 Giuseppe Micali a M.
Delfico..... pag. 170 L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico..... pag.
178 Il medesimo a M. Delfico..... pag. 179 L. Brugnatelli a M.
Delfico..... pag. 179 Antonino Anutos a M. Delfico..... pag. 180
Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M. Delfico..... pag.
183 Giuseppe Palmieri a M. Delfico..... pag. 180 Tommaso Gargallo a
M. Delfico in Teramo..... pag. 190 Giuseppe M. Galante a M. Delfico.....
pag. 194 Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico..... pag. 194 Mattia Ab.
Zarillo a M. Delfico..... pag. 195 Giuseppe M. Giovene a M. Delfico.....
pag. 197 C. Amoretti a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..... pag.
203 Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo)..... pag. 205 Fortis a M.
Delfico..... pag. 205 Pietro Zannoni a M. Delfico..... pag. 206
Bossi a M. Delfico..... pag. 206 Tommaso Frantoni a M. Delfico..... pag.
209 Daniele Felici a M. Delfico..... pag. 209 G. Napoleone a. M.
Delfico..... pag. 212 G. Giacomo Trivulzio a M. Delfico..... pag.
212 G. Melzi a M. Delfico..... pag. 223 San Severino a M. Delfico.....
pag. 23 Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231 Tracy a M.
Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..... pag. 240 Angelo Maria Ricci a
M. Delfico..... pag. 241 Donati Gioli a M. Delfico..... pag. 243
Luigi Dragonetti a M. Delfico..... pag. 243 Giuseppe Zurlo a M. Delfico.....
pag. 246 Michele Arditi a M. Delfico..... pag. 249 Antonio Orsini a
M. Delfico..... pag. 250 G. M. Burini a M. Delfico..... pag. 251
Taranto a M. Delfico..... pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico.....
pag. 252 L. Cicognara a M. Delfico..... pag. 258 F. Santangelo a M.
Delfico..... pag. 259 Sebastiano Ciampi a M. Delfico..... pag. 260
Donato Tommasi a M. Delfico..... pag. 261 Il Duca di Laurenzana a M.
Delfico..... pag. 262 Giuseppe Grimaldi a M. Delfico..... pag. 264
N. Santangelo a M. Delfico..... pag. 271 Lodovico Bianchini a M. D......
pag. 272 Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico..... pag. 272 G. B.
Niccolini a M. Delfico..... pag. 274 Giuseppe Rangone a M. Delfico.....
pag. 276 Leopoldo Pilla a M. Delfico..... pag. 278 Il Duca di
Gualtieri a M. Delfico..... pag. 281 II Barone Poerio a M. Delfico.....
pag. 283 Leopoldo Armaroli a M. Delfico..... pag. 283 G. Neroni a
Leopoldo Armaroli..... pag. 286 Francesco Fuoco a M. Delfico..... pag.
287 Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis..... pag. 288 Aggiunta
agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..... pag. 293 Al sig. Pasquale
Borelli..... pag. 307 Al sig. Antonio Orsini..... pag. 313 Al sig.
Conte Armaroli..... pag. 315 Alessandro Volta a Orazio Delfico..... pag.
317 Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico.
Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326 Stati Romani.....
pag. 327 Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi
nella provincia di Teramo..... pag. 335 Discorso del Cav. Comm. Gian
Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M.
Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo.....
pag. 363 La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari.
Episodi della vita del Delfico. Opere ignorate del Delfico. Il contenuto delle
opere. Catalogo per materia delle opere di M. Delfico. Lettere del Delfico e al
Delfico. La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero
Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico
(1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente
provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento
(1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel
1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le
lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla
cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del
movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano,
Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una
«benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi
un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno,
suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non
di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).
È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle
lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo
napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico
matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività
sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della
necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e
giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana
(8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua
attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori
di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno,
anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie
denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false
o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti,
ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione,
titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10). Sebbene
notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista
meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica
degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione
del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più
provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento
del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico,
sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il
pensatore che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il
pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra.
«La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le
immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito
prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un
gusto particolare per i morali sentimenti» (13). Già nel Saggio
filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo
ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore
abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti
umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo
nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e
propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come
desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau,
Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte continua «di sensazioni e
di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso
debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e
più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della
condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione
nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla
parità dei diritti e dei doveri fra i sessi. Del 1775 sono gli Indizi di
morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo che ne dispone il
sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali «svelano assai più a
fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura» (15). Sul piano
filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo
di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non
si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica.
Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la
modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi
sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali
hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità
di comprensione della qualità degli oggetti e gli individui sono messi nelle
condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. «È nel
passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare», scrive, che «le nazioni
godono del colmo della virtù» e «nasce quella gara di Eroismo che è difficile a
trovarsi nelle Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di
tutti i particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano
maggiormente alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta
in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione
di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia
borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque
priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la
propria simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una
svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno
politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche
contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico,
realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo
di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e
di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a
fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui
ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso
del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza
- afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone
politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense
che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al contrario, il persistere
dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già
precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità
perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la
virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20). Dopo il sequestro degli Indizi
di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico, Delfico incorre in un
nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del
vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto
rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di
certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo (21). L'exequatur del
Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine
di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22)
presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi
dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla
conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno
1780. Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di
distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore
teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con gli ambienti
riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della
cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri,
Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la
provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema
feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la
necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i
centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla
quale tutti attendono una politica di riforme. Ritornato a Teramo,
Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia
provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20 giugno 1783), la nomina ad Assessore
militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico Filangieri,
inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore
di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza
politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione
militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di
corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la
vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo
sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della
società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso
civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino
(23), così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad alimentare
la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano
legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario,
contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle
Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo
Consiglio delle Finanze. Sorto nel 1782, il Consiglio si prefiggeva di
riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire
l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei
sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla
coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783.
Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti
economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere
di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici,
responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo (25).
La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di
produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le
restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di
mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà
fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole.
All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda
amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende
coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di
risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile
terremoto calabrese della primavera del 1783. La condotta della corte borbonica
gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di
contraddizioni. Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784,
dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica,
come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore.
Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo scrittore abruzzese si
sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a
Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi
roussoiane sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo
quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni»
(28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente
al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de
Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo
quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione
rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno
di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più
concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in
funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la
nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di
fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la
conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.
Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si
trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86,
fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di
origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con
l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter,
con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le
rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza
una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per
l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica. A Napoli Delfico
pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata,
assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34)
dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del
Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato
pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione»,
che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti,
fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un
languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria l'affermazione del principio
della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a
proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del
celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza
delle nazioni. Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia
(36) in cui Delfico rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le
concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di
quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non
più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente»
amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed
infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un
obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad
una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero
sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di
cittadino» (37). La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della
società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello
Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti,
interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle
sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte
settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima
volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica
del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui
denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di
continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle
popolazioni, finiva per immiserirle sempre più. Si coglie in questi
scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la
sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore
di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto,
quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria
sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il
principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema
mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione
che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza)
favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai
privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di
tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e
impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che
la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento
dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere
individuali. In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio
della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della
capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le
provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro
desiderato (40). Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia
nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del
potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi
da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver
presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de'
beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale
in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della
sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della
sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42). La
notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno
napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre
del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze
naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha
modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto
con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri,
Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di
scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei
quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è
difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli
guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la
determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono
a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e
rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non
indugino più sulla strada delle riforme. Rianimato da queste speranze,
nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale
(44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del
1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al
dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed
esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare.
Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e
de' suoi cultori (46), che rappresentano «la più forte manifestazione del
pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui
viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo,
«uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello
vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole
delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in
Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile
e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne
costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si
fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica
senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione
della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale Delfico
non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui
legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante
tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del
1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle
vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia
borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della
volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di
abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso
«scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la
fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del
quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un
nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di
grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della
politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande
stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo.
Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore,
a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura
pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno
borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella
capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in
una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della
congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti
ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi
(49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.
L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina
tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in
giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di
loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali
riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare
un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la
contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di
libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti
orrori». Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo
per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi
per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva
ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi
al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François
Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per
quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia.
Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova
non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le
innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796)
sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di
cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è
invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97
egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non
scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà
guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà
nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di
rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle
trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il
susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da
parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale
prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni
«malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55).
Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica,
tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo,
assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo
a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità
della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale
dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il
Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo,
che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi
organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui
il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il
territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che
è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione
(60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie
del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia
pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno
VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui
maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi
e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i
provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica
napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni
capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento;
l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio
ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria;
l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici
nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a
meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo
dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.
Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23
gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante
in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle
insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non
solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando
che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio
durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi
piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti
e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle
Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama
l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà,
sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di
subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la
sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare
le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo.
Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di
tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi,
mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio
forse delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di
quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni. Il 28 aprile
1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta
della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo
Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre
successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806,
quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno
sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine
secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva»
manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i
loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia,
afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia,
«abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse
proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva
prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau,
Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva
avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non
poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia» (67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico
trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si
sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua
tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza
rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica
saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per
«proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a
cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle
forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San
Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non
utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di
società» (69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva
al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo
prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803
soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a
Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel
capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della
legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo
Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro
Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo
Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il
celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna
assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli
altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso
anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello. È, quello
sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva,
riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino
e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due
edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà
presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche
diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute
iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali
riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile
sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta,
scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di
come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e
serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello
politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e
Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola
Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende
di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa
«rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano (74). Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza
storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza
di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera
esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia
utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché
questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici
inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del
passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet,
Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri (77),
nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in
grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la
storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone
principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della
storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che
ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione
incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto
che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica
storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e
nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel
loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le
loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli
uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo
gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci
i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare
in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (78). Così
concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente
l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire
una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione,
questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824,
Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio
Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli
«impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in
realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una
conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti
naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti
«favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico
tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito
umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva
maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i
primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male
e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero
così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno
neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del
popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno
stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il ritorno a
Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una
nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano
quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo
induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese,
nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova
amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di
un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva
necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva
l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari,
sia contro le intemperanze dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte
consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione
delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione
dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato.
Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni
per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la
procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica
istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello
Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato
commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da
Gioacchino Murat del titolo di Barone (86). I numerosi incarichi di
responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata
sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il
suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808),
sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana.
Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera
più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la
sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità
della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la
Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico
dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno
successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche
sul Bello (89), pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la
restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita
politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820,
Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del
1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro
della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino
al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel
Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821,
quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine
all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario.
Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà,
il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi
che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia
tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le
civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno
accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.
Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza
alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta
speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una
particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico
contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi
un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la
«viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre
fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione
di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale
Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati
italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le
tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni,
e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se
da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue
speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso
mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo
realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione
machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice»
(94). Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito
compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi
valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche,
politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono
tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come
l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo
e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei
«gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei
loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il
merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di
aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale
correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati
basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria
«affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte
dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le
condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico
fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è
concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più
«conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva
manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde
soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei
diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno
successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla
primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione
materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico
e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e
tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e
necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla
numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le origini italiche (98). Non verrà meno neppure il suo impegno
riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal
titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto
da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali
si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco
sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del
commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza
delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le
strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la
realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe
sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso
di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari
abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato
pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia.
Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che
potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far
nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle
esistenti. La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del
fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel
Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra
loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la
determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità
che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per
l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta
di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di
avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto
centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade,
l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima
verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo,
ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che
renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di
Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando
era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano
fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per
agevolarne gli scambi commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro
anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à
la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H.
Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana
incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore
Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del
testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da
alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei
presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto
del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs
jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie,
datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei
vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per
meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in
proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per
cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta
legata a quest'unica notizia. Nel 1829 Delfico pubblica la lettera
Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in
cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in
gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della
vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo
risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine,
ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
«rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le
regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di
Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore
il 21 giugno 1835. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla
sua morte Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a
Giovanni Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto
l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una
dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa
considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si
determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la
cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze
intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito
di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo
delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore
napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato
il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che
del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di
Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella
relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la
sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della
Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo
della storia e della politica. (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un
paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico,
si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a
Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche,
la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836,
arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni
dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei
frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. col titolo
Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico
e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di
Melchiorre Delfico. (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi
furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino,
Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso
Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di
economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il
«partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura,
società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e
46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti
1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento
dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4) Sul riformismo
borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma
1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di
M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799,
in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il
riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il
secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa
contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato
assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire
l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche
detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli,
uscì a Napoli nel 1753. (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la
questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764),
Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese,
Feltrinelli, Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione dell'influenza
di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro
sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel
Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del
regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo
tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di
E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol.
II, pp. 744-780. (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti
dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio
Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze
1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg. (9) Le due
Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di
Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città
d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico
dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita,
esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo
Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda,
invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e
lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc.
V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III,
Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti
delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti),
esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L.
Savorini. (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.
(11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi
italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle
opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11. (13) M. Delfico, Memoria
autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo,
fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846. (14) M. Delfico, Saggio
filosofico sul matrimonio, in Opere complete, cit., vol. III, p.
126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e
il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
(16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino
1988, pp. 501-508. (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., (20) Ivi, p. 47. (21) Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il
Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp.
71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori
napoletani, cit., p. 1168. (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno
sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia,
Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario
alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della
defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo
Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27)
Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in
essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con
la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di
costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione»
(Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.
(29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité
parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard,
Paris 1964, p. 193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253. (31) Su tale associazione,
fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli
Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla
rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334. (32)
Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di
Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem
Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen
Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse,
Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state
riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre
Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e
157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad
alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp.
140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo. (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della
Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno,
Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
265-323. (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L.
Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone
l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera
sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a
Palermo nel 1783. (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia,
cit., p. 279. (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la
necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna
temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
359-396. (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p.
370. (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita
di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza
serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.
(39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la
Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t.
XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura
di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985)
con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo
con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e
moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio,
auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il
compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili
avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle
Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol.
II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria
sulla libertà del commercio. (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio
del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il
ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il
ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più
agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno
invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del
1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo
«fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli
sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle
nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà
di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la
Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e
G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo,
Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7. (41) La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine
del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367. (42) M. Delfico, Memoria per
la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354. (43) Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n. 402. (44)
In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi
trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza,
Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su
questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di
rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
403-431. (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le
reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu
pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a
Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815. (47) C.
Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in
«Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte
II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.
(49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i
maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del
Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia
d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto
della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di
Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi
anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94.
Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno.
Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima
del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province
napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867. (50) B. Croce, La
rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24. (51) Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere
di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46. (52) Si veda la lettera di
Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo
per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura
italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419. (53) L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra
le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui
intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche
se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso,
fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda
G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta
partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a.
XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le
delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni
sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato
pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la
nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie
confinanti del Regno, ancora tutte inedite. (55) Lettera di Delfico a
Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi
Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari
teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla
famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793
(pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico
per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era
costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a
causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia
del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che
Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di
Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto
del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di
conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25
marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone. (56)
Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una
loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno.
Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e
da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in
proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799,
scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in
un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che,
condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e
trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in
seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da
V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V
(1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p.
375 sgg. (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in
Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in
fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23
dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per
una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni,
L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo
e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo
rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri
luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi
seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione
del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca
inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp.
269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995),
n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n.
3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al
1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a
Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in
funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo
presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M.
Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica
del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189.
Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F. Masciangioli,
Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed
esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp.
41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a
trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie,
cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica
di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg. (60) Cfr. G.
Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984),
fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p.
519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni
ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio
del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere
ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno
importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza
pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale venivano fissate
alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due
testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G.
Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999,
pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la lettera di Delfico al Governo
Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il
Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp.
695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di
massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc.
1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo
giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995. (63) Per il
testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139. (64) Sulla
permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli,
Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda,
San Marino 1935. (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di
Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg. (66) Si veda l'ormai nota
Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804),
in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250. (67) Ivi, p. 472.
(68) Ibidem. (69) Ivi, p. 250. (70) Il libro, il cui titolo
originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due
anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La
seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814. (71)
M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.
(72) Ivi, p. 246. (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984),
n. 3, p. 94. (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni
della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di
allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo
radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce,
La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni
nostri: 1. Il «secolo della storia» e 2. Il nuovo pensiero
storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp.
16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana
nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp.
158-165. (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza
ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit., vol. II, p.
11. (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées
à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney,
chez J.A. Brosson, Paris an VIII. (77) Sull'affinità di vedute dei due
autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une
discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et
les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.
(78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima, cit., p. 43. (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II,
pp. 307-325. (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed
inutilità della medesima, cit., p. 174. (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca
I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie
sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico
e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina
venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa
nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano,
molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis. (82)
Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una
ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in
«Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori
di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre,
L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come
prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato
pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.
(84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85)
Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli,
Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti grafiche
Della Balda, San Marino 1934, p. 53. (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione
francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese
(1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in
appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia
amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985,
pp. 125-135. (87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
471-497. (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp.
501-528 e pp. 531-550. (89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol.
II, pp. 187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a
cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999. (90) Per un quadro d'insieme
dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno
napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla
prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia
meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio
francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai
Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli
nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli
1985. (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di
esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di
Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e
59-79. (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino, cit., p. 20. (93) Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi,
pp. 29 e 70. (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di
Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I,
lib. II, cap. XII, p. 79. (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p.
159. (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588. (98)
L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di
Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno
con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol.
II, pp. 299-505. (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp.
293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti,
La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp.
37-50. (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37. (101) M.
Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32. (102) M. Delfico, Breve
cenno, cit., p. 38. (103) Cfr. ivi, pp. 47-49. (104) Ora, tradotto,
in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia
inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico. (105) M. Delfico, Della
preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli
Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere
complete, cit., vol. IV, pp. 31-45. (106) Cfr. la lettera di Delfico a
Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e
politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156. (107) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87. (108) Per un quadro
d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G.
Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari
1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. (109) Per una
ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e
prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in
«Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40. DELLE OPERE
M1B1D ©l®D$tID<D Digitized by Google
Digitized by Google 1 1 3
CATALOGO %t JStamflmk i Saggio filosofico sul
matrimonio. I. voi. in 16. 1774* ( segnato nell'indice de' libri
proibiti ). a Indizi di morale. I. voi. in 16. *775. (
proibito prima di pubblicarsi ) . 3 Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale. I. voi. in 8. Teramo 1782. 4
Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo . I. voi.
in 8. Napoli 17 83 . presso Porcelli . 5 Elogio del marchese
D. Francescantonio Grimaldi . I. voi. in 4 * Napoli 1784* presso
Vincenzo Orsino . 6 Memoria sul tribunale della grascia e
sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno . I. voi. in
4 * Napoli 1785. presso Porcelli . 8
Digitized by Google DET.LE 01 ERE
I l4 7 Memoria sulla necessità di rendere uni-
formi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti 4 * Napoli 1787.
presso Porcelli . ’ - 8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su
la servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma- rittime degli
Àpruzzi. I. voi. in 8. Napoli 1787. 9 Discorso sul tavoliere di
Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor- ma. I. voi. in 8. Napoli
1788. 10 Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri.
I. yol. in 4 * Napoli. 1788. ( stampata una col reai dispaccio di
appro- vazione ) . I I Riflessioni su la vendita de’ feudi
umi- liate a S. R. M. I. voi. in 8. Napoli 1790. presso Porcelli
. 1 2 Ricerche sul vero carattere della giu- risprudenza
romana e de’ suoi cultori . un voi. in 8. Napoli 1791. presso Porcelli :
( ristam- pato in Firenze , ed in Napoli un altra volta nel 18 15
) 1 3 Lettera del signor duca di Cantalupo ( su feudi ) . I.
voi. in 4 * Napoli 1795. •4 Memorie storiche della repubblica
di San Marino I. voi. in 4 * Milano 1804. dalla tipografia di
Francesco Sonzogno . 1 5 . Memorie sulla libertà del commercio
: ( stampate nella Collezione de classici italia- ni di Economia
politica : parte moderna : Mi- lano i 8 o 5 . voi. XX XIX. )
1Q Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità della
medesima . I. voi. in 8. Forlì Digitized by Google
LIBRO SECONDO 1 15 1806. ( ristampato in
Napoli nel i8og. e nel 18 14 - ) 17 Pensieri sopra alcuni
articoli relativi all’ organizzazione de’ tribunali : ( stampati
sen- za il nome delF autore , nè V epoca , dalla stamperia reale di
Napoli nel 1808. ) 18 Lettera al Climo sig. Abate D. Gasparo
Selvaggi ( sulla Tragedia. Pubblicata dal Gior- nale enciclopedico di
Napoli An. XII. num. 2. i 8 i 5 . e stampata anche separatamente.
19 Nuove ricerche sul Bello. I. voi. in 8. Napoli 18 j 8.
20 Ricerche sulla sensibilità imitativa con- siderata come il
principio tìsico della sociabilità della specie , e del civilizzamento
de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac- cademia
delle scienze di Napoli il 17. feb- braro 181 3 : pubblicata tra gli Aiti
della me- desima voi. I. Napoli 181 3 ; e stampata anche
separatamente in un libro in 4 • sen ~ za data , insieme alle altre due
seguenti Me- morie ) . 21 Memoiia su la perfettibilità
organica considerata come il principio fisico dell’ educa- zione ,
con alcune vedute sulla medesima : ( letta nel 1814 ■> e pubblicata
come sopra ). 22 Seconda memoria sulla perfettibilità
organica ec. ( letta nel 1816. , e pubblicala come sopra ) .
23 Ragionamento su le carestie ( letto nell ’ Accademia delle
Scienze di Napoli il 1. dicembre 1818 , e pubblicato negli Atti
della medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) . Digitized by
Google I»6 DELLE OPERE 24 Poche idee su V accusa
de' ministri . Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di
Napoli il z 3 . dicembre i 8 ao. a 5 Dell* antica numismatica della
città d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le Origini
italiche ed un appendice su’ Pe- lasgi ed i Tirreni. I. voi. in fol.
Teramo 1824. con tavole in rame . 26 La stessa Opera coir
aggiunta di Ri- schiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal
Micali su la stessa , e di una Lettera al sig. Conte Zuroli su le antiche
ghiande missili di piombo. I. voi. in fol. Napoli 1826. , dalla
tipografia di Angelo Trani : con più tavole in rame . 27
Della preferenza de’ sessi. Lettera all’or- natissima signora contessa
Chiara Mucciarelli Si- monelti . I. voi. in 8. Siena 1829. (
Ristam- pata in Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di
Longano nel l 834 ) • 28 Lettera all’ autore delle Memorie
in- torno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa- ta in fine
delle stesse Memorie , Ascoli i 83 o ). 29 Espressioni della
parlicolar riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta
alla memoria dell’ immortai Ferdinando I. ( Stam- pate negli Annali
civili del regno delle due Sicilie : voi. II. i 833 ).
Digitìzed by Google -LIBRO SECONDO * IV]
%t %ntViU ♦ 3 0 Inforno a’ dritti sovrani di Napoli
sul- la città di Benevento. Memoria. 1768. 3 1 Intorno a’
diritti sovrani di Napoli sul- la città di Ascoli . Memoria . 1
768. 3 a * Lettera a' fratelli sulla eruzione del Vesuvio nel
<779. di pagine 8 . ** 33 Estratto ragionevole del trattato
degli animali . pag. 8. 34 Lettere sulla cavalleria ed i
romanzi . P a S- 7 - 35 Lettera al sig. Michele Torcia
sul tratto di paese che si estende dal Fortore al Tronto . 1784 .
pag. 1 5 . 36 Supplemento alla Memoria su la gra- scia , per
rapporto all' estrazione degli animali vaccini . 1 ^ 85 . pag. 18.
37 Memoria per lo ristabilimento del tri- bunale collegiato nella
provincia di Teramo . 1786. pag. 11. 38 Memoria per lo
stabilimento d’ una uni- versità in Teramo . 1786. pag. 7.
• I titoli in carattere corsivo sono per ^quegli scritti che 1’
autore lasciò senza una denominazione . ** S’ intende per lo più di
pagine scritte , come si dice , alta spagnola , ossia nella sola metà .
Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro
. Digitized by Google 1 J 8 DELLE
OPERE 3 g Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy 83 . -
l'jSy. pag. 58 . 4 0 sii ministro Corradini sulle maioliche
de' Castelli. Lettera. 1788. pag. 24* 4 1 Appendice al discorso sul
Tavoliere di Puglia . 1788. pag. 84. 42 Sull’ aumento de'
soldi a.' magistrati nel iygo. pag. 8. 43 Estratto ragionato
del Saggio analiti- co su le facoltà dell’ anima di Carlo Bonnet .
pag. 100. 44 Seconda Memoria sulla vendita de’ be- ni
allodiali. 1791. pag. 7. 45 Breve Saggio su l’ importanza di
abo- lire la giurisdizione feudale , e sul modo di ese- guirlo .
pag. 32. 46 Supplemento alla Memoria pe’ regii stucchi . pag.
xo. 47 Degli Appalti. Memoria, pag. g. 48 Per la città
di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di S. Agostino .
pag. 11. 4 g Memoria per la decima impesta al re- gno . 1797.
pag. io. 5 0 Memoria intorno a’ danni sofferti nella
provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e
de’ mezzi opportuni da ripararli . 1797. pag. 20. 5 1
Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del regno . 1797.
pag. 17. 5 a Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.
Digitized by Google LIBRO SECONDO I 1 f)
53 . Novena di San Marino . pag. 8. 54 Intorno all’
imposizione per la cac- cia , ( Questo ed i selle seguenti scritti
si suppongono composti in Napoli dal 1806. al 18 15. 55
Rapporto alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto di stabilire
nelle provin- cie del regno altre società simigliatiti , pag. i 5 .
56 Considerazioni sul debito pubblico , e su’ beni nazionali
relativamente alla legge de’ a. luglio 1806. pag. ia. « 57.
Breve esame dell’ indole delle dogane interne . pag. 20. 58
Rapporto per gli stabilimenti di uma- nità e di pubblica beneficenza .
pag. 26; 5 g Osservazioni su d’ un progetto d’ istru- zione
pubblica . pag. 23 . 60 Sulla tassa fondiaria . pag. 1 3 .
6j Osservazioni sulle procedure criminali die si chiamano Nullità .
pag. 14. 62 Parere intorno ad un’ opera del Sig. Biie D.
Davide JV'uispeare , intitolata : Storia degli abusi feudali. 1811. pag.
4* 63 Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni
scrittori . Opuscolo, pag. u . 64 Lettera sulla imputabilità de’
muti . 65 Pochi cenni su’ fondamenti delle Scien- ze morali.
Discorso ( letto nella reale Accade- mia delle Scienze di Napoli nel
iSlij , e de- stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti della
medesima , insieme al seguente Opti* scolo ) . Digitized
by Google I 20 DELLE OPERE 66 Sulla necessitò
di cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa . 67 Alla
Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione . 1820. pag,
7. 68 Memoria in favore di alcuni impie- gati destituiti nel
1821. pag. 18. 69 Osservazioni sopra alcune dottrine po-
litiche del Secretano fiorentino. 1821. pag. 5 o. 70 Proposta di
alcuui mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3
o. t&arzo 18 23. pag. 19. 7 1 Deli’ importanza di far
precedere le co- gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intellettuale . Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di
Napoli il 26. lu- glio 1823. ) pag, 18. 72 Elogio in morte
della Duchessa di S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. 1823.
73 Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto- ria e sulla incertezza
ed inutilità della medesi- ma , per risposta alle obiezioni di Amaury D
re- vai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A ( Questa lettera
, e tutti gli altri scritti che seguono nella presente classe furono
compo- sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruz- zo )
. 74 Sulle origini ed i progressi delle So- cietà ossia
Saggio filosofico sulla storia del genere umano, pag. 216. 75
Proposta di alcune riflessioni sulla filo- sofia medica ed intellettuale.
Opuscolo, pag. 8. . 76 Giudizio sulla storia fi losofica di Da
- miron. Lettera, pag. 3 . Digitized by Google
LIBRO SECONDO 13* 77 Lettera su cF un manoscritto
comuni- cato , riguardante politica, pag. 28., 78 Due biografie
di se stesso : una scrit- ta nel i 8 z 5 , t altra nel 182J.
79 Delle cagioni per le quali il civilizza- mento non ebbe molti
progressi . Opuscolo. pag. io. 80 Sulla perfettibilità.
Lettera, pag. 8. 81 Sulla guerra. Lettera, pag, 8. 82
Sulla medicina omiopatica . Lettere due. La prima di pag. 16. , V altra
di a 6 . 83 Sulla dottrina medica di Samuele Hanhemann. pag.
142. 84 Memoria sul riso secco cinese, pag. 17. 85
Sullo stesso argomento . Lettera al Mse. Tommasi. pag. 18. 86
Sullo stesso argomento. Lettera pole- mica. pag. 29. 87 De'
confini del regno di Napoli nella linea del Tronto ; ossia : Sugli
antichi confi- ni del regno, pag. 171. 88 Sugli stabilimenti
di beneficenza. Let- tere 3 . Digitized by
Google 132 DELLE OPERE
Élen^UtmlnìxU ♦ 89 Catechismo di moral ; civile , ossia
trattato pratico de’ doveri del cittadino. 24. feb- braio 1 774. pag. 5
a. 90 Del dritto naturale delle genti , ossia della morale
delle nazioni, pag. 34 * 91 Sistema di ragione e benevolenza
uni- versale. pag. i 5 . 92 Sull’origine de’ popoli, pag.
io. 93 Sulle Capitali. Opuscolo, pag. io. 94 Degli
affari fiscali. Memoria. pag. i 4 * 95 Sulle proprietà, pag. 123.
96 Sugli stabilimenti di umanità, pag. 96. 97 Deir unione
della Ideologia colla Fi- losofia. Dissertazione, pag. 12. 98
Dell’ eguaglianza de’ diritti delle don- ne , considerati specialmente
nelle successioni, pag. n 3 . 99 Distinzione fral merito c la
gloria. Dritti politici e dritti civili, pag. 14. 100 Sul
quesito : Quale sia il miglior de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag.
26. 101 Ricerche su le teorie fisiche della ra- gion degli
Stati , o sia de’ veri principi della Politica, pag. 5 a. 102
Delle leggi e del regimento de’ comu- ni. pag. io. 10 3 Sulle
leggi forestali. Discorso, pag. 7. 104 Sulla vociferata abolizione
della pro- vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 .
Digitized by Google LIBRO SECONDO I 23 10
5 Ricerche su le leggi coniugali , con- siderate ne’ rapporti da’ quali
devono sorgere , nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali
e civili, pag. 3 fi. 106 Sulla Vita e la Vitalità, pag. 74.
107 Della specificità in medicina. Pensie- ri. pag. 5 fL 108
Osservazioni sull ’ opera intitolata : De’ principi della scienza
etimologica, pag. niL 109 Saggio filosofico su la guerra e su
la pace. pag. fili. i_lq Igiene, pag. %
JFritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello
stile , pag. sLm 112 Sul poeta Orazio. Critica, pag. a, 1 l3
Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. pag.’ 224. 1 1_4
Qualche osservazione sull' opera di Neker Sur 1 ’ administration.
pag. t i fi Del Vesuvio, pag. £L 1 ifi Del tempo musico e
filosofico, pag. l* 1 17 Idea d’ una legislazione, pag. ì. v 118
Per le origini civili, pag. ili. 119 Alle nobili fanciulle mie
concittadinc. ( Prefazione per una raccolta di aneddoti ) .
pag. 2. m 120 Sulla Città di Reggio, pag.
Digitized by Google DELLE OPERE
124 uxi Sul travaglio, pag. 2« 1 22 Progressi
dello Spirito - Orgoglio na- zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso
di tipografia, pag. 18. 128 Su’ pastori, pag. 2.
124 Saggio sull’ adulazione. ( Progetto di un' opera ) . pag.
2. iz 5 Ricerche storico - filosofico - polili- clie su la
nobiltà. ( Progetto di un' opera ) . pag. a. 126 Istoria
dell’ anima, pag. 5 L 1 27 Sugli ospedali. ( Molti pensieri
non legati) . pag. 96. 128 Progetto d’ un nuovo giornale
delle mode. pag. 1 Q. 129 Notizie su le opere impresse nel pri-
mo secolo della stampa , per ordine alfabeti- ca fino alla lettera P.
pag. io 4 < 180 Qualche pensiero di dritto pubblico, pag.
7. 18 1 Delleraccomandazioni. Articolo mo- rale. pag.
i 3 a Considerazioni su’ magistrati munici- pali. pag. 4^
1 33 Della Solitudine, pag. 2 ^ 1 34 Qualche osservazione
sulle Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. pag. 8. 1 35
Qualche osservazione sull’ opere fi- siologiche di Spurzheim.pag.
8. 1 36 Della civiltà, pag. 2. 107 Catechismo
universale, pag. 2. 1 38 Della ragion di stato, pag. 4 i
Digitteed by Google LIBRO SECONDO
I 25 1 3g Estratto della politica d’ Aristotile.
PS- 4- 140 Morale nelle leggi, pag. 36. 1 4 1
Piano di scienze morali, pag. 4- 14 ^ Dell’ origine e significato della
parola morale , e delle varie applicazioni della mede- sima.
pag. 4 * i43 Frammenti diversi sulle Leggi, pag. 36. z 44
Osservazioni sulla risposta del pro- fessor Rosini ad una lettera del
cav. Monti sulla lingua italiana, pag. 5. 145 Esame de'
classici italiani, pag. 2 . 146 Su' trecentisti, pag. 2 .
147 Romantici, pag. 2 . 148 Osservazioni sull ’ opera di
Lemer- cier riguardante i teatri, pag. 9 . 149 Osservazioni
sul passato secolo ad uti- lità del presente, pag. 3. 150
Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione, pag. 3.
151 Frammenti diversi sugli affari poli- tici del l8ao. pag. 70 .
\ 152 L’ obolo della vedova . All’ Italia, pag. 3.
153 Qualche ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi.
pag. 5. 154 Rapporto storico su’ progressi delle Scienze
naturali, pag. io. 155 Al sig. Ab. D. Cataldo Jannelli .
Dell’ uso vero della Storia, pag. 5. 156 Meditazioni d’ un
solitario che vive in mezzo alla società, pag. 2 . 157 Sull’
Inghilterra, pag. 8 . I a6 DELLE OPERE i 58
Sopra un libretto che riguarda la divozione pel Sangue di Gesù - Cristo,
pag. 4 .. i 5 g Miscellanea di cose Jìsiologiche . pag.
182. 160 Miscellanea di cose economiche . pag. 60.
161 Miscellanea di cose filosòfiche . pag. i 52 . 162
Miscellanea di cose politiche, pag. 58 . Il cavaliere Commendatore
Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella.
Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul
bello, estetico, sensus, senso e consenso, il vero carattere della
giurisprudenza romana, suoi cultore, benevolenza
conversazionale, giustizia conversazionale, il principio di sensibilita
imitativa, imitazione, l’estetico, l’imitazione della natura, naturale,
contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e
unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica,
aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689415138/in/photolist-2mRRHVK-2mKLP2r-2mKBLhJ
Grice e Cocconato –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Grice: “I
like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian
philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname –
I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that
the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice:
“Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!”
-- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e
Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della
penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il
suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente
in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora
tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche
ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo
coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il
cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti
della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a
corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la
Curia romana. Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion
pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of
the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il
precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato
cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come
un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire
dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli
agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine,
rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la
fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a
far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione
intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza"
tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi
libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité
contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e
sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali,
storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato
clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e
Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da
un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà
e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a
Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il
sequestro e la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto
successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione
di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale
alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia
priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione
ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella
gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la
vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo
stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza
che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola
tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini
della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi
olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a
Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad
aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per
il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal
Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi
provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente
movimento e autoregolazione. L'universo è un mondo infinito in perpetuo
movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa
cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della
materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna
lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e
trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile
architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine
della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta,
perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci
anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione:
come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.--
è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla
sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici
della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina,
Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se
non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del
bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della
natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro
mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da
stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho
sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò
una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire
dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti,
riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti
gli esseri?» Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti.
Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli,
Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri
Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo,
Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo,
Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il
Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check);
edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione
filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi
sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino,
Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, Franco Venturi, Settecento riformatore, I,
Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati
in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti
inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini:
materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano,
in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy
and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso
Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte,
Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e
Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione
ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri
Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I
Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and
Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves
and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van
Gent, Ashgate,,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano.
Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII
Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted”
(London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by
the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill).
Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S.
M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla
fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa -
Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and
Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de
Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for
the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil
de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez
la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A.
R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage.
Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration
de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne
a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker
Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius
neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la
religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare
les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe
a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda
fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour
rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son
maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la
grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée,
traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane
comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a
C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la
Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti.
Fu edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua
grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e
hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura,
e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti
nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a
Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui
abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March,
del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia
fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa
Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed
è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese
sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al
March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile
poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni
di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di
dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un
“Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his
conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al
primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il
Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il
Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours,
Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux
ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che
questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel
Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due
testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più
salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di
vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima
mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au
lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime
note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza
capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione,
corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato
impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le
notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo.
L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del
testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I
titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i
seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and
Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of
Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the
Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great
Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of
Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That
neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the
Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make
use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and
their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente
confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi
qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo
contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di
Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo
Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo.
Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve
les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de
son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti,
avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son
rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de
Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili.
Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux
partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère
s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda
lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e
attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger
dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau
de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince
d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il
eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte
de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi
de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du
royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe,
traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi
de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr.
OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication
de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et
des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De
l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée
II, Anecdotes de l'abdication du Roi de
Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il
Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de
Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des
moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur
celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per
quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di
annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di
questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto
il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: "
A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the
Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or
rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in
brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore
e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1).
Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal
Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto
afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata
tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il
nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa
andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della
lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione,
ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS, op. cit.
loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER: op. cit.
loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però
compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo
di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i
" Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel
" Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano
rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista
la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere
edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de!
1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver
visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di
conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più
dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con
quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese
la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il
" Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da
pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi
che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo
svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto
riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E
AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the
benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098.
MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK:
Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18
Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando
del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui
de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in
foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad
averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante
omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great
PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and
as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his
Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that
if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been
conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have
alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more
intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in
all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word,
the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse
it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do
declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and
Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I
have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD
and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is
to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long
since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER)
and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very
humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and
Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples,
and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See
the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with
what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this
is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I
tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
„. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII )
And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond.
pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione
olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è
qualificato: 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz.
de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag.
2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz.
Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ "
généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion
e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or
Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the
Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside
the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. -
In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole
Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a
mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a
hungry Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without
exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy.
For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di
sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 -
continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag.
26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il
medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz.
Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63
(dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz.
di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo.
But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of
the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging
that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the
Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of
that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so
many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith
alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but
to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the
ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „.
James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion,
and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that "
Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This
Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha
t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he
is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***)
Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without
that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to
be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in
speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as
those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye
that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag.
165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti
sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant
ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz.
Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By
natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each
individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as
he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are
forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they
eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of
them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the
greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right,
and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are
determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural
right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most
certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over
every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends,
so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of
nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and
consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of
every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the
right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry
that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings,
that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in
his power, without regarding anything save his own preservation. it follows,
that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end
according to the power which nature has given him. In this state man is not to
be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words,
reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and
unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the
foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according
to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is
determined by nature to such and such a thing, without being able to act
otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted
with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit
of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of
their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue,
and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he
who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to
him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and
foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite
suggests, and to live according to its dictates. For, according to the
apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could
sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the business of that reason, or
justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of
every individual. For, so far is nature from determining us to live according
to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding
education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is
the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve
our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of
appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us
are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among
us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the
nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere
nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without
exception, because nature has given all to every man, and may use it without a
crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or
threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to
hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal
may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support
his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine
that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of
the same kind, as many have thought, because nature has previded them
necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel
esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with
Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of
nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him
without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a
man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of
the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part
3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them,
which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make
their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali
Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature,
commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions
to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently
to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to
it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on
Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h
on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order
to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they
have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or
drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them
ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever
Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never
forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and
a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a
greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they
have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are
guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which
cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind
are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches,
without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only
makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There
is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man,
which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to
life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz.
1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi
differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i di quest a edizione son o
son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles
en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di
pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag. 224-248; Ediz. Rot.)
Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society
by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that
consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione
olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del
titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di
queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority
in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera
pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz.
Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag.
524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh.
5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon
and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's
time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con
tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be
allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the
Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la
seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica
differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of
Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own
power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun
fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.;
Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data
dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12:
Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „
contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „
ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „,
sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro
ultima redazione francese. Notiamo invece per le operette " d „,
" e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere
l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi,
anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa
possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R.
ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a
noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle
in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia
conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la
traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for
preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their
parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non
esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del
testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione
a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „
immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione
della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „
della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa
di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus
interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova
ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata
l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14
formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine
numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n.
14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e
convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National
Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla
rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift,
London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of national biography,
edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231, T
III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris,
1827 > T. III. N. 16186. commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8,
nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „
manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.;
pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces
Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn.
del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz.
esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la
nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.;
pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag.
32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la
citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo
ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence
„ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères
„ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo
ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In
merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal
Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è
confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando
se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale
attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il
Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad
affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un
seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata),
come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736,
facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione
dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che
nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti
potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima
volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè
possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come
stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la appariscente diversità
dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già
da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse
trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico
nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per
i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti
interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere,
per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra;
e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del
R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia degenerativa e
strategie di controllo 1. I/epithymia nella fenomenologia
degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per
il sa- pere del filosofo giunge infine alla liberazione e
soddisfazione dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da
una prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-
lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig- matiche
di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in- dagine
privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al- la disamina
delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo- gia e alle derive
psicopatologiche tracciate da Platone nel libro Vili, nonché alla
dinamica dei processi onirici e alla mania di- segnate nel IX. Da ultimo
ci soffermeremo sulla contrapposi- zione strutturale tra repressione e
canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed eros, che attraversa
il grande dialogo. A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico
volto a riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di ori-
gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a
convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi- 1
Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui voi.
Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del
desiderio cfr. M. VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a
cura di), I Greci, voi. I, Noi e i Greci, Torino 1996; pp. 431-67 (p.
441); sul rapporto complessivo psyche-so- ma, cfr. T.M. ROBINSON, Plato
's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54. 472 ' PLATONE, LA
REPUBBLICA ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei
cardini metapsicolo- gici della fenomenologia degenerativa del libro
Vili, fa tutt'u- no con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una
sfera "pro- pria" di desideri esplicitata nel libro IX:
«siccome tre sono le parti della psyche, triplici mi sembrano anche i
piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il
loro ruolo di comando» (580d6-7). Con ciò la statica tripartizione
deli- neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata,
retroattivamente, all'interno della dinamica psico-politica e quindi
delle forme caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino,
l'attribuzione rende conto del legame tra il governo del logistikon e il
desiderio di sapere del filosofo, il go- verno dello thymoeide s e
il desiderio di onori e gloria del carat- tere timocratico, e le tre
forme caratteriali dischiuse dal gover- no del polimorfo epithymetikon,
contenente tre specie di desi- deri e piaceri: 1) i «necessari», dei
quali «non ci si può libera- re», quali fame, sete ed eros riproduttivo,
il cui appagamento è utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono
essere «al- lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene,
talvolta anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge,
per- versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi
allonta- nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale
pog- gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico,
do- minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio
per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-
mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri non
necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure 2 La
convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio
Fici- no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio
di bellezza"; soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le
tensioni tra concupiscentia, appetitus e desiderium derivate dalle
letture scolastiche della metapsicologia aristotelica: cfr., per es.,
TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul- la revisione
dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A. GRAESER,
Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.
22-24. COMMENTO AI LIBRI Vm E IX, [H] 473
deYL'erottkos e del tirannico, invasi e pervasi dai desideri para-
nomoi? Questa diairesi delle specie del desiderio,
tassonomica- mente inerente d& epithymetikon, eccede euristicamente
la ca- talogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene
con- 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei
desideri e il poli- morfo epithymetikon, cfr., per es., D. HELLWIG,
Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX,
Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte «discrepanza» e «aperta
contraddizione» tra la tripartizione psichica e r«improwisata» diairesi
dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia- logform und Argument. Studien zu
Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat- tutto pp. 61-62, 237-40,
-appellandosi alla possibilità che le forme costituzio- nali e
caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione psichica
sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero che
rimangano delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al desiderio
necessario del carat- tere oligarchico: l'ossessione per il denaro
potrebbe a rigore esser interpretata quale elemento appartenente al regno
del non necessario - tuttavia Y epithy- metikon stesso, in ragione della
sua natura polimorfa, supporta perfettamente i tre tipi caratteriali
degenerati, come anche eventuali altre forme "interme- die".
Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme
politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's
'Republic', Goteborg 1971, pp. 155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin
Plato's 'Repu- blic', Sankt Augustin 2003, ha ultimamente sostenuto, di
contro a Andersson, il carattere meramente «analogico», «non causale»
dell'isomorfismo, cfr. so- prattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi
implica però l'esclusione della kallipo- lis e della tirannia (p: 53 e
pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia (p. 69); vi è poi una
tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo (cfr. per
es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della di-
namica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani,
come 544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata
la degenera- zione caratteriale come a p. 67 ove non considera che il
giovane timocratico «esce di casa» etc. (550a), e che la figura paterna
risulta infine «sconfitta» per- ché è collocata in un contesto etico-politico
che osteggia il suo modello psico- caratteriale (549c, 550b); analoga la
questione rispetto al carattere oligarchico (pp. 71-71) ove Ferrari elude
553a-d, e rispetto al carattere democratico (p. 74) ove tace su 557b,
563d e 564a, nonché 559d sgg. In breve ritengo, di con- tro a Ferrari,
che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di
corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia
semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva
nel 474 PLATONE, LA REPUBBLICA templata la
possibilità che i desideri possano essere allontanati o meno, approccio
che mostra come la materia epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle
strategie di controllo adottabili nei suoi confronti. E questa la
prospettiva all'interno della qua- le si articola la catalogazione, non
viceversa. Sull'altro fronte, anche qui sorvolando al di sopra dei
contenuti specifici veico- lati dalle singole epithymiai, viene rimarcato
il peso che la loro soddisfazione gioca rispetto al benessere o al
malessere psicofi- sico complessivo del soggetto. Questi due fattori,
modalità di gestione tese al contenimento e allontanamento del
materiale epithymetico più pericoloso, insidie e derive psicopatologiche
ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre la dege-
nerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la loro unità nel
concetto di repressione, dal quale cominceremo, ri- percorrendola a
ritroso, la nostra ricostruzione della degenera- zione. 2.
Repressione ed esilio Kolazomenai: i desideri possono essere e
talvolta vengono repressi: Fra i piaceri e i desideri non
necessari, alcuni mi sembrano essere contrari alle leggi. Essi
probabilmente nascono in ognuno, ma se ven- gono repressi (kolazomenai)
dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della ragione, nel caso
di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure restano pochi e deboli,
in altri (restano) più forti e numerosi (571b4-cl). La
repressione dei desideri non necessari, ed in particolare di quelli
paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita rispetto alla
modalità funzionale, tripartita quanto alle catego- rie
caratterologiche. contempo la relazione causale circolare
dal punto di vista dinamico-tempora- le, dialettico.
COMMENTO AI LIBRI VITI E IX, [H] 475 a) L'allontanamento: 1)
nel primo caso i desideri repressi «si al- lontanano del tutto»
(pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più in generale,
alla repressione giovanile dei de- sideri genericamente non necessari:
«si potrebbero allontanare (apallaxeien) , se ci si prendesse cura di
farlo fin da giovani» (559a3). Ancora: se il desiderio non necessario «è
represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può es-
sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli uomini»
(559b9-10). b) La permanenza: i desideri repressi permangono
esplicita- mente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un
caso permangono «pochi e deboli» desideri; condizione che non viene
però contrapposta al loro intero allontanamento: le due forme riguardano
la stessa categoria di persone. 3) Nel terzo caso permangono desideri
«più forti e numerosi»» sì che viene delineata una seconda categoria di
persone. 4 Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le
con- seguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie re-
pressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla transi- zione
dal carattere oligarchico a quello democratico. Analizzando l'aspro
conflitto intrapsichico che lacera il giovane democratico, 5 Platone
traccia anzitutto una esplicita distinzione inerente alle strategie di
repressione e contenimen- to del desiderio: alcuni desideri (non
necessari) vengono di- strutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson)
(560a4-7). Ab- bandonati i desideri banditi al proprio destino, Platone
si con- 4 Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che
permettono di «abwenden» i desideri non necessari e il «fortdauern» dei
paranomoi attestata dall'analisi dei processi onirici, di H.P.
VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute bei Platon, Wurzburg I960, pp.
113-15. 5 Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un
fronte la specie dei desideri necessari, "alleati" alla figura paterna,
rappresentanti della parte oli- garchica, e la specie dei desideri non
necessari, fomentati dalle cattive compa- gnie, rappresentanti della
parte democratica. I 476 PLATONE, LA
REPUBBLICA centra quindi sull'analisi di «altri desideri affini a
quelli che so- no stati messi al bando», dei quali scrive, in un
passaggio ne- vralgico, che, in talune occasioni, «cresciuti di nascosto»
(hypo- trephomenai) , diventano infine «molti e vigorosi»
(560a9-b2). Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto,
in- sensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse
«unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla» (560b4-5).
Essendo tale proliferazione «nascosta», «segreta», «furtiva» {lathra), 6
siamo di fronte ad una crescita effettiva- mente «inconsapevole»: ciò
alle spalle di cui crescono, ciò da cui si nascondono non può essere se
non ciò che noi usualmen- te indichiamo con l'espressione «coscienza». In
breve, sfuggo- no alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri
non necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intra-
psichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera co-
sciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri para- nomoi
repressi nel caso in cui restano «forti e numerosi».
L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici
pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto atte- stata in
diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove leggiamo che si deve
evitare che i giovani, frequentando perso- ne viziose, ammassino «senza
accorgersene {lanthanosin) un'u- nica grande mole di vizio nelle loro
psychai» e che, al contrario, devono crescere tra «opere belle» così che
la loro «aura», «fin da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li
conduca «al- l'armonico accordo con la bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed
an- 6 Anche D. HELLWIG, op. cit. (n. 3), pp. 121-22, 130,
sottolinea come le «Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la
Harmonie psichica e pos- sano poi rafforzarsi «in heimlichem».
7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze 1954, voi. II, pp. 601,
395 parla a questo proposito di «inconscio», così come J. Lear, La
psicoanalisi e i suoi nemici (1998), trad. it. Milano 1999, pp. 183,
XVIII; il termine «incon- scio» però, in questo caso specifico, non può
essere inteso nel senso classico e ristretto (dinamico) di Freud, poiché
slegato da processi riconducibili alla ri- mozione.
1 COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]
477 cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione
esce dalla mente» «in modo involontario» (412el0-413al), come
accade in «coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni
e che se le dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il
ra- gionamento, le portano via di nascosto {exairoumenos lantha-
nei)» (413M-7). Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati
da Plato- ne all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i
desi- deri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto,
«hanno infine conquistato l'acropoli della psyche» (560b7-8). L'acropoli
raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luo- go nel quale si
controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le particolari
sfere di desideri ad esse pertinenti pos- sono governare l'individuo. I
conflitti, lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano
intimamente la psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la
«regale fortezza», penetrare attraverso i «portali» che conducono al
cuore del soggetto, al sé (553b7-d7). La repressione che si
limita ad allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque
esclusivamente a dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo,
si lascia allora intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di
continua difesa, resistenza e opposizione al loro rientro in essa.
Dinamica raffigurata nel mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali,
che altro non so- no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano
l'accesso alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui
la politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo
metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro- cessi
psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-
rettamente, in questa dimensione concettuale. Un ultimo elemento
chiave inerente alle strategie repressi- ve, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente «rende schiavi», «mette in
schiavitù» i desideri 478 PLATONE, LA
REPUBBLICA non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che
riemerge, in generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e
mette- re in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te
kai doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro-
cessi onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette le
opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo- lo cruciale.
Il punto che ora ci preme sottolineare è che la re- pressione in taluni
casi si configura come un processo seguito da una forma di controllo
radicale, di incatenamento. In conclusione, la repressione dei
desideri, paranomoi ma più in generale non necessari, è un processo tale
per cui essi vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa
comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della
co- scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi
di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo- mento, tentare
un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico del represso
I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del libro
IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3), inaugurando così
l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un contributo tanto
stringato quanto sorprendente per la sua modernità, essenziale
nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie di
controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie dei
desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II «risveglio» avviene
quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adat-
to al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di ci-
bo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di
aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi (571c3-7).
Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, sti- molato
fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via il
COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H] 479
sonno; ciò comporta il sincronico «risveglio» dei suoi desideri; ed
una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò non può dominare la
parte desiderante. E associato ad esso anche ciò che è «socievole», 8
probabilmente lo thymoeides. Il proseguo del brano fa luce su tale
stato psicologico: «Sai bene che in un simile stato essa osa fare di
tutto, come sciolta e liberata da ogni freno di vergogna e di
ragionevolezza» (571c7- 9). H sonno del logistikon, l'istanza cui va
ascritta la phronesis, e verosimilmente dello thymoeides, al quale
possiamo attribui- re, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne,
viene quindi a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza
che impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore
quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni so- no
perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto dall'ecci- tazione
della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pres- sione dei
desideri, segue la loro emersione e soddisfazione per- messa
dall'inattività delle forze razionali, morali. Date tali
condizioni, tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina)
non la imbaraz- za affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi,
animali, e commette- re qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun
cibo (571c9-d3). Quadro «edipico», 9 perversione, aggressività
omicida. Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli
occhi dell'impotente sognatore. Posto che l'attività onirica
rappresenta la «soddisfazione» «immaginaria» o «visionaria» di desideri
repressi (571dl; 572a9-bl), riprendendo la topica dell'acropoli la loro
appari- 8 Su hemeron e thymoeides cfr. W. JAEGER, A New Greek Word
in Plato's 'Republic' (1946), in Scripta Minora, 2 voli., Roma 1960, voi.
II, pp. 314-16. ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano,
tra gli altri, K.R. POP- PER, La società aperta e i suoi nemici (1966 5
), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi. I, p. 421; C.H. Kahn, Plato's
Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics», XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p.
83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der Staat, Munchen 1991, p.
506. 480 PLATONE, LA REPUBBLICA
zione e sincronico appagamento potrebbero essere
interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la
vigilan- za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione,
an- che se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela
nell'uni- co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno
l'a- cropoli si verrebbe così a configurare come sfera della
coscien- za, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri
impon- gono la visione della loro drammatica rappresentazione,
diven- tando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare
le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,
priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini spaziali
il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il sogno
rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è possibile prendere
coscienza di quei desideri repressi e tenuti in schiavitù che nella
veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha così dischiuso e
percorso la «via regia per l'in- conscio» tracciata nel Novecento da
Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia intendere alla
luce della rimo- zione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché
quest'ultima, che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken),
12 10 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte
(1982), trad. it. in G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia,
Roma-Bari 1988, pp. 103-20 (p. 109). La più articolata trattazione
platonica di ciò che noi indichiamo con le espressioni «coscienza» e
«autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi,
utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un indivi- duo
«vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opina-
te» (39b-c), poi che egli «scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della
Re- pubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte
psichicamente, pare presupporre una concezione della «coscienza»
simile. u Parlano di desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn,
op. cit. (n. 9), p. 82, e J. LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142.
12 «Ci sono nella vita psichica desideri rimossi [...]. Ci sono non è
inteso storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi
sono stati distrut- ti; per la teoria della rimozione [...] simili desideri
rimossi esistono ancora, ma contemporaneamente esiste un'inibizione che
pesa su di essi. Il linguaggio COMMENTO Al LIBRI Vm E LX,
[H] 481 dal carattere «morale», 13 tesa a
contrastare una sfera di deside- ri «immorali, incestuosi e perversi, o
di voglie omicide, sadi- che», 14 anziché condurre ad «una completa
distruzione» 15 dei desideri, si limita al loro «allontanamento»
(Entfernung) dalla coscienza. 16 Questi perciò «permangono»
(Fortbesteben) al di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola
parola, il rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito",
"proscritto", "fuori- legge". La
rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio ta- glio. Su un fronte,
al rimosso viene normalmente impedito di «scaricarsi nell'azione reale»,
19 gli viene metaforicamente nega- to l'accesso alla Festung freudiana,
la «fortezza» dalla quale si colpisce nel giusto quando
parla della "repressione" (Unterdrucken) di tali impulsi.
L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di
realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei
sogni, in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino 1967-80, voi. Ili,
p. 220; originale: Die Traumdeutung, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist.
Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami
a Freud si riferiscono a queste edizioni). 13 S. Freud, L'Io
e l'Es, voi. LX, p. 498; cfr. anche Lo., Breve compendio di psicoanalisi,
voi. IX, p. 592. 14 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 158. 15 S. Freud,
Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 201
[S. FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoa-
nalyse, voi. XV, p. 98: «eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo
successivo è certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico, voi. X,
p. 3 1; cfr. anche S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p.
290. 16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37:
«la sua essenza consiste semplicemente nelPespellere e nel tener lontano
qualcosa dalla co- scienza» [Die Verdràngung, voi. X, pp. 252 250]; cfr.
anche Lo., L'Io e l'Es, voi. IX, p. 480. 17 S. FREUD,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, voi X, p. 251].
18 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300
[Hemmung, Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185]. 19 S. FREUD,
Al di là del principio di piacere, voi. IX, p. 205. 482
PLATONE, LA REPUBBLICA «domina la motilità». 20 Sull'altro però
esso «sopravvive al di fuori» della coscienza godendo del «privilegio
della Exterrito- rialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente
può «sviluppare derivati e annodare connessioni», «prolifera per
così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rap- presenta
la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23 Da qui la necessità
di una costante attività di «resistenza» alle so- glie della coscienza.
24 In termini spaziali: espulso un ospite in- desiderato si deve «poi far
sorvegliare perennemente la porta da un guardiano giacché altrimenti
l'individuo respinto la for- zerebbe». 25 Poste queste
premesse, Freud, ricalcando ancora le orme platoniche, 26 individua nel
sogno la via regia per l'inconscio perché in esso i desideri repressi,
approfittando del cedimento della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e
godendo del casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei
sogni, voi. Ili, p. 517 [Die Traumdeu- tung, voi. II/III, p. 573].
Riprende questa stessa immagine, accostandola ai conflitti della psyche
platonica, M. Stella: cfr. qui voi. III, [J], p. 317. 21 S. FREUD,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hem- mung, Symptom
und Angst, voi. XIV, p. 125]; cfr. anche Id., Il problema del- l'analisi
condotta da non medici, cit, voi. IX, p. 370. 22 S. Freud,
Metapsicologia, voi. VIII, p. 39 [Die Verdrdngung, voi. X, p. 251].
23 Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia,
voi. VILT, p. 44. 24 Sul dispendio psichico della resistenza
cfr. per es. S. Freud, Metapsico- logia, voi. Vili, p. 41; Id.,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 303. Sulla distinzione tra
derivati e rimosso originario, e tra rimozione originaria e post-
rimozione, cfr. Id., Metapsicologia, voi. Vili, pp. 38 sgg. 25 S.
Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque
conferenze sulla psicoanalisi, voi. VI, pp. 143 sgg.; Id., Introduzione alla
psicoa- nalisi, voi. Vili, pp. 454 sgg. 26 Cfr. in questo
senso anche A. KENNY, The Anatomy of the Soul, Oxford 1973, p. 12.
27 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni),
voi. XI, p. 134. COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]
483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta
a farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze» della co-
scienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che condu- ce alla
motilità» durante il sonno viene «chiusa» dal «guardia- no», 30 il sogno
rappresenta infatti la «soddisfazione allucinato- ria», non certo reale,
del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi peculiari del sogno 32 e delle
possibilità con le quali la censura inconscia può deformare i pensieri
onirici latenti, anche per Freud accade talvolta, sebbene «raramente»,
che si formino sogni che «significano proprio quello che dicono, e non
hanno subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello
cui allude Giocasta nell'Edipo re». 34 Infine, considerato
che il concetto di inconscio in senso stretto (dinamico e non descrittivobè
direttamente «ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il
rimosso «è per 28 Cfr. S. FREUD, Inibizione, sintomo e
angoscia, voi. X, p. 304; Id., Intro- duzione alla psicoanalisi (nuova
serie di lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico- logia, voi. Vili, pp.
40-42; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509,
viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei pro-
cessi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L
'interpreta- zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C. 29 S.
Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp. 317-18;
cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111. 30 S. Freud, Il
interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp.
104- 05. 31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione
alla psicoanalisi, voi. VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, pp. 134, 142. 32 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni),
voi. XI, pp. 135 sgg. 33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni' , voi. X, p. 158. 34 Ibidem.
Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non
temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so- gno
con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).
484 PLATONE, LA REPUBBLICA noi il
modello dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato dal fatto che i
desideri confinati «non possono divenire co- scienti perché una certa
forza vi si oppone», 35 esattamente co- me accade per i desideri repressi
platonici tenuti in schiavitù, possiamo concludere affermando che, di
fronte alle analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi
possono essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque
inconsci in senso stretto (dinamico). 36 4. Difese
pre-oniriche La difesa approntata da Platone per prevenire
l'emersione onirica dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così
deli- neata: ci si deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben
de- sto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere assopito Ye-
pithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per cui non resti
né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infi- 55 S. Freud, L'Io
e l'Es, voi. IX, pp. 477-78. 36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER,
op. cit. (n. 7), voi. II, pp. 599, 602; T. GOULD, Platonic Love, London
1963, pp. 175, 108; J. Lear, op. cit. (n. 7), pp. XIX, 34, 140-42; A.
HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good,
Cambridge 2000, p. 57; O. GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L. MONTONERI,
Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi
greci e il piacere, Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e
salute, Milano 1999, pp. 281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più
cauti, cfr. E.R. DODDS, Plato and the Irrational Soul, «The Journal of
Hellenic Studies», LXV (1945) pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n.
26), p. 11. Di diversa opi- nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in
Plato's 'Protagoras' , in Procee- dings of the Boston Area Colloquium in
Ancient Philosophy, VI (1990), pp. 115-140, rispetto a Repubblica cfr.
soprattutto pp. 116-18, 135; egli rimanda però alla messa in schiavitù
del logistikon da parte déH'epithymetikon (589c6- 590c6), che abbiamo
visto essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfrut-
tamento" e non all'allontanamento (cfr. n. 42), dalla messa in schiavitù
dei de- sideri paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione
in M. SOLI- NAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons
'Politeia' und bei Freud, «Philosophisches Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp.
90-112. COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]
485 ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le
visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi»
(571d6-572bl). 37 Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides
presenta un carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare
l'e- mersione del materiale represso, il suo risveglio rappresenta
però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitu- tiva
ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la sua natura bestiale,
aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica che potrebbe suggerire
che esso possa contribuire alla manife- stazione stessa dei desideri
paranomoi nel loro carattere marca- tamente omicida, e che renderebbe
conto del legame tra il logi- stikon ed un vago «ciò che è
socievole». Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità
del lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un richiamo alla
concezione del desiderio quale soddisfazione di una mancanza (cfr. 43
9a), sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalo- rata dal fatto
che l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta comprendere oltre
alle sue «gioie» anche i suoi «dolori» (572al: %aipov r\ À.imo'unevov).
Richiamo all'incubo che trova un puntello già nel libro I: l'uomo
ingiusto «spesso si risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al
terrore» (330e6-7). Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da
«buoni discorsi e ricerche» (571d7), emerge un'asimmetria funzionale: il
sonno rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e
resi- stenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di
svolge- re alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di
funzio- ni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza»
po- trà «venire in contatto con la verità» (572al-3). 38 Attività
che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra
tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n.
10), p. 108. Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il
fegato a fornire una conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la
ragione deve «interpretare con 486
PLATONE, LA REPUBBLICA non ha, quindi, niente a che
fare con l'emersione dei desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe
pensare alla netta di- stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio
svolto nel sonno dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39
Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter- vento
diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare o compiere una
qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali intemperanze delle altre
istanze. Il loro assopimento, come vie- ne ribadito due volte nel
proseguo del passo, deve essere per- seguito e raggiunto prima di
abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto questo compito ci si
può finalmente conce- dere il riposo (572a7). La non-emersione dei
desideri è, dun- que, garantita univocamente da un intervento
consapevole, pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi
oniri- ci paiono perciò significativamente ridotte rispetto a
quelle della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e
proprio conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere
«turbata» dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon (571e2),
accenno che sembra indicare che essa si limiti a percepire
passivamente, ad assistere impotente alle sue turbolente
manifestazioni. In conclusione, il quadro dei processi onirici è
così artico- lato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed
allora «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle il ragionamento» (72a) dopo il risveglio. Sempre diversi da
quelli di Repubbli- ca sono i sogni quali appaiono in Fedone 60e, Critone
44b, Leg. 909e-910a, Epinomide 985c, poiché veicolano messaggi di origine
extra-psichica: cfr. al riguardo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale
(1951), trad. it. Firenze 1997 2 , pp. 122-31. 39 Cfr., per
es., S. FREUD, Lio e l'Es, voi. IX, p. 489: «un lavoro intellet- tuale
sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,
può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza.
Non vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel
sonno», e Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni),
voi. XI, p. 136: la funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere
«durante la notte» ma «non ha nulla a che fare con il lavoro
onirico». COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]
487 leggi», ed esso può attivare le sue funzioni
intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son
desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi.
Es- sendo l'esito univocamente determinato da un intervento indi-
retto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare con la
«difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, di- retta ed
inconscia. 40 In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non
compaiono affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.
5. Strategie di controllo e caratteri universali Ora, poiché
leggiamo che proprio chi «si trovi in una con- dizione di sanità e
moderazione» deve ottemperare alle sud- dette misure preventive prima di
concedersi il riposo, sì da evi- tare la manifestazione delle empie
visioni, è necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo della
loro comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della precarietà
di ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche
ri- spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi
dei processi onirici: Però parlando di queste cose siamo
andati troppo lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno -
anche in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è
senza dubbio presente una forma di desideri terribile, selvaggia e
illegale, che si manifesta chiaramente appunto nel sonno (572b2-8).
Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap- parenze,
il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro che più sembrano
moderati, nonostante ciò possa parere inam- 40 Cfr. per es. S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni), voi.
XI, p. 130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e sulla
«resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-
nalisi, voi. XI, p. 594. 488 PLATONE, LA
REPUBBLICA missibile, ebbene anche in loro, anzi in «noi» -
Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie di
desi- deri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno».
Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la migliore
repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse- re stati
«interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né pochi né deboli né schiavi.
Ciò nonostante tale operazione la- scia aperta la via alla possibilità
del loro ritorno. Lo stesso peri- colo affiorava del resto nel brano
sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini «cari agli dèi», in
altri termini i mode- rati, predispongono la «guardia» alle porte
dell'acropoli (560bl0). Ta hautou ethe: nel sogno V
epithymetikon soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri»
(571c7). In questa defi- nizione sta la chiave che spiega l'incombenza
del pericolo: sia- mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda,
selvaggia e illegale» che costituisce un elemento strutturale dell'
'epithyme- tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e
origina- ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata
non può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò
Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi- deri
paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5- 6). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'a- cropoli fin dalla
giovane età, come mostrano i molteplici ri- chiami ad operare una loro
repressione ed educazione «fin da giovani» (559al sgg.).
Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana- ti
«esistano» anche nei moderati non significa che il loro status sia lo
stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo- derati. Con
ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio- ne i cui fili è
giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo dal carattere
oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari (554a7), in
altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza» (554cl:
katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone:
COMMENTO AI LIBRI Vili E EX, [H] 489
[il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su
di sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo
abitano, non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore,
né li ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della
necessità e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei
[...] oì> TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p). La
capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe- ra razionale è
qui direttamente contrapposta alla forza o vio- lenza (bia) di una
repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di ge- stione del desiderio alternativi: l'uno
repressivo, negativo, l'al- tro persuasivo, positivo. 41 Di
contro, è anche vero che Platone discutendo del carat- tere democratico
scrive: se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono
relativi ai desi- deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che
bisogna praticare e ono- rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i
secondi, in tutte queste occasioni scuote la testa e afferma che essi
sono tutti uguali e di pari rispetto (561b8-c4). Poiché qui
la messa in schiavitù assume un valore positivo, sembra emergere una
contraddizione. In verità però come il processo di repressione svolto
dall'oligarchico è «apprezzabi- le» nelle intenzioni, è comunque meglio
di niente per un indi- viduo degenerato, così nel «discorso vero» che
deve esser fatto passare nella psyche del giovane carattere democratico,
che è ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non
41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste
su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit
Gewalt un- terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al
carattere ed alla co- stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera
fenomenologia degenerati- va; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon- do adottati da
Platone. 490 PLATONE, LA REPUBBLICA
preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe
già sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-
re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a- dozione
della strategia più drastica: la loro repressione e messa in schiavitù.
Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei
degenerati caratteri oligarchico e democratico (e anche del timocratico),
nei quali il logistikon, l'unico in gra- do di gestire i conflitti in
modo «armonico», è ormai «asservi- to» 42 all' ' epithymetikon (o allo
thymoeides: 553dl-7) 43 Stringente il parallelismo semantico e
concettuale che si pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la
degenerazione poli- tica e sociale permette la nascita e proliferazione
di «ladri, ta- gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della
polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
for- za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou).
Il circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico,
si avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con-
turbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e polis,
di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e patogena,
ancorché lodevole, della repressione violenta. 44 42 In
questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del- lo
sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare
le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei
desideri ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento,
espulsione, allonta- namento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's
Comparison of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla- ton.
Politela, Berlin 1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.). 44 Diversa la
questione che si pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg., ove
Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen-
de la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le
di- rettive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui
considerate non pie- namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta
di una extrema ratio, nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche
costitutive, tali per cui l'auspicata ar- monia sociale trova agli occhi
di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- COMMENTO
AI LIBRI Vili E IX, [H] 491 Riprendendo i
fili delle diverse strategie di controllo dei desideri non necessari
emergono allora quattro modelli para- digmatici (escludendo la loro
soddisfazione): due repressivi, uno misto, uno persuasivo: 1) quello per
cui essi vengono «di- strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in
schiavitù»; 3) quel- lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene
«allontana- to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è «convinto» e «ammansito». 45
Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside- ri
paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla loro
esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è esattamente una
medesima operazione repressiva come l'ab- biamo interpretata
inizialmente, ma rimanda a due strategie af- fini ma distinte. La prima
rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù» ed ha l'esito
univoco di spostare e incatena- re il desiderio. La seconda rientra nel
modello per cui il deside- rio «represso ed educato [...] viene
allontanato». Qui la com- presenza di repressione e educazione, sì che il
desiderio «allon- tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente
incate- nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione
in un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno
interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali per- mangono ma
sono «pochi e deboli». Modalità nella quale po- tremmo forse inserire
anche quei desideri «banditi» che Plato- ne abbandonava al proprio
destino: in tutti e tre i casi i deside- ri vengono repressi, non
distrutti, ma si tratta di una repressio- ne per così dire morbida,
tendente perlomeno in parte alla loro «educazione», sì che essi non
permangono, in massa, alle porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia
puramente repressiva, di ce viene criticata una modalità di
controllo metapsicologica che adotta, a priori ed unilateralmente, un
approccio brutalmente repressivo, lacerante. 45 Cfr. rispettivamente:
1) 560a5: diepbtbaresan; 2) 561c2-3: kolazein te hai doulousthai; anche
554a7: douloumenos; 3) 559b9-10 kolazomene kaipai- deuomene [...]
apallattesthai; anche 559a3: apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia ka- techei
[...] oupeitho [...] oud'henieron logo. 492
PLATONE, LA REPUBBLICA messa in schiavitù, lascia
intonso il potenziale energetico dei desideri; è questa la via che
conduce prima al democratico, poi' alla mania del tiranno. In
conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emer- gano oniricamente
i desideri paranomoi si lascia intendere co- me se, piuttosto che singoli
desideri incatenati che premono ininterrottamente alle porte
dell'acropoli, siano gli ethe origina- ri e costitutivi dell' '
epithymetikon a riuscire talvolta ad approfit- tare di una certa
eccitazione pre-notturna e del sonno del logi- stikon per mostrare le
strutture universali, esse stesse «incon- sce», 46 che generano e
sospingono in avanti i singoli desideri paranomoi - come sarà poi per
l'Es, non solo per i singoli desi- deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là
di ogni modalità di controllo adottata e adottabile, siano pure le più
persuasive, il sogno mo- stra che è impossibile sradicare definitivamente
la «specie» dei desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di
quella «be- stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo,
e fa sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche
in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48 46
W. Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di fronte
alle «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso
A. Kenny, op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n. 10), p. 108;
W. Janke, AAH0E- LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie»,
XLVII/3 (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera del resto una
distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali»,
«innate» ed «inconsce» dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi,
cit., voi. XI, pp. 572 e 590; Id., Luomo Mosè e la religione
monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id., Metapsicologia, voi.
Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id., Dalla
storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591. 47 Cfr., per es.,
S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495: «tutti gli
uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Al-
cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 159; Id.,
I miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T. GoULD, op.
cit. (n. 36), p. 175. 48 Sostengono apertamente
l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri, W.K.C. Guthrie, A
History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge COMMENTO AI
LIBRI VITI E IX, [H] 493 6. Dal sogno
alla realtà: derive psicopatologiche Se ritorniamo alla
degenerazione caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle
modalità intrapsichiche di con- tenimento del desiderio l'approccio
univocamente repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile
della deriva psico- patologica. La rottura dell'armonia
intrapsichica, condizione necessa- ria dell'integrità, salute e
euàaimonia individuale assicurata dal governo del logistikon, ha inizio
con il carattere timocratico, che colloca sul trono dell'acropoli lo
thymoeides (cfr. 550b4 sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora
una figura pa- tologica in senso stretto le conseguenze del
defenestramento si fanno però sentire nella figura immediatamente successiva:
il carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari
dell 1 ' epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met- tere
in schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri- solve ma
acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non
potrà dunque esser libero da conflitti interio- ri, e non sarà uno ma in
un certo senso doppio» (554d9-10). In negativo: «la vera virtù, quella
della psyche concorde a armo- niosa, fuggirà via lontano da lui» (554e4-5).
La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane figlio
democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare con la forza
quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non 1975, p. 534; A.
BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150; C.H. KAHN,
op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in Plato
s Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp. 341-56
(p. 347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear, op.
cit. (n. 7), p. 142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel
migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da
rendere inoffensivi o da ri- muovere». 49 L'approccio
duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza
nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la
persuasione ma con la forza» (548b7-8). 494
PLATONE, LA REPUBBLICA necessari» (558d4-6: Bice Sri
kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv), In questo modo però, se
talvolta alcuni desideri ven- gono distrutti, talaltra invece proliferano
«inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli.
Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere
le porte della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il
pudo- re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia, superata la
lacerante fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra
parzial- mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi
in passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5). Il passo
che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de- terminismo
degenerativo disegnato da Platone, è però ormai cortissimo: l'Eros
tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero sciame dei desideri
paranomoi, facendosene «capo» e «guida» (573 a-b), e quelle opinioni che
gli fanno da «scorta», si libera- no definitivamente «dalla schiavitù»,
mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le
opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le
cate- ne della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi- ta da desto
quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da
alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione (574e2-4).
L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come l'avevamo
descritto nei suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi- sta della
fenomenologia degenerativa questa figura è dunque dovuta, a livello
psicodinamico, al «ritorno» di un represso che scavalca le barriere
oniriche: si transita dall'appagamento oni- 50 Cfr. anche J. Lear,
op. cit. (n. 7), p. 193: «La comparsa dell'uomo de- mocratico è, in linea
di principio, il ritorno del represso nella generazione successiva»;
sull'oligarchico cfr. ivi p. 182. 51 Se sono le opinioni che si
liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i suoi desideri a riempire di
contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni dissolute del
tiranno. COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]
495 rico a quello reale dei desideri repressi,
dall'estemporanea rap- presentazione della loro soddisfazione nel teatro
dell'immagi- nazione alla conquista permanente dell'acropoli.
L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni settore
della psyche abitandovi come un tiranno» (577d; 329c- d; 573 d; 575a). I
rapporti di forza della psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è
l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni
oneste» (573a3-b7). Tirannia che genera una profonda lacerazione,
un'espropriazione della «vo- lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei
suoi desideri più sel- vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso
ormai comple- tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. 53 Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori». 54 Riepilogando, dal punto di vista
intrapsichico il processo di degenerazione avviato dal defenestramento
dell'armonico ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia
del- l'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi,
quale risultato di un approccio brutalmente repressivo del
materiale epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza
e il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei
processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigo-
ritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psico-
patologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed espropriazione
maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodina- mica è dunque a tale
strategia di controllo che deve essere at- tribuita la più grave
responsabilità della fenomenologia dege- nerativa. 52 Sul
doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia, cfr.
O. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a),
«Museum Helveticum», XLV/3 (1988) pp. 129-53 (pp. 135-42). 53 Cfr.
573d-574a, 579d-578a. 54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te
k<xì épcÓTCOV. 496 7. L 'altra via: la
canalizzazione PLATONE, LA REPUBBLICA La
strategia antitetica alla repressione è quella della per- suasione e
educazione del desiderio. L'architrave metapsicolo- gico sotto il quale
si dispiega tale modalità è rappresentato dal- l'adozione di un modello
pulsionale "idraulico" che assicura all' epithy mia, e
all'eroi-, una intrinseca malleabilità. Uepithymia, anzi le
epithymiai dal punto di vista dinamico si delineano quale forza fluida,
canalizzabile, come emerge lim- pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che
quando le epithy- miai di una persona si concentrano con forza in una
sola dire- zione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il
resto, come una corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone,
«in quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli
studi e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il
piacere della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del
corpo», come accade nel philosophos (VI 485dl0-12). Se, allora, si
con- sidera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente sin-
golarità, si tratti di specifici desideri necessari, non necessari e/o
paranomoi, ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà, esse risultano
essere una forza energetico-pulsionale unitaria, canalizzabile verso mete
diverse, anche opposte, secondo un modello economico. Anche da qui
l'insistere di Platone, a monte, piuttosto che sui contenuti specifici,
sulle strategie di gestione del materiale epithymetico. Questa
è la ragione, dalla nostra prospettiva psicodinami- ca, con la quale si
spiega perché l'estensione metapsicologica della tripartizione del libro
IX poteva coniugare esplicitamen- te, in modo simultaneo e complementare,
piaceri, desideri e governi: ogni parte, in conformità con la sua natura
intrinseca, «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere
preservati, rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù
dell'egemonia intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché
le Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae
àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E IX, [H]
497 epithymiai sono una risorsa unitaria e
limitata. 56 Modello rafforzato, descrittivamente, da una sorta di
estremizzazione erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del
filosofo o meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la
sua forma» (V 474d8-10), come chi «desidera qualcosa la desidera in
tutta la sua forma» (V 475b4-6). Estremismo che conforta la tipologia caratteriale
del libro Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni,
psicodinamica e caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità
di misura comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes
della ve- rità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione
strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radica-
lizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scor- re il
fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i ter- ribili
desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare .aperto
deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma benefica
corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza psichica che in
virtù della sua potenza può supportare la lunga navigazione che permette
infine di approdare nel porto sicuro della dikaiosyne. 38 In
conclusione, posta la permanenza di specie di desideri stabili,
indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento, come quella dei
desideri paranomoi, dalle quali non si può mai svincolarsi del tutto, una
parte cospicua del materiale epithy- metico, decisivo rispetto agli
equilibri o squilibri dei rapporti 56 Cfr. in questo senso anche J.
ANNAS, An Introduction to Plato's 'Repu- blic', Oxford 1981, pp. 137-46.
57 501d2; cfr. anche 485al0 sgg., 490bl sgg. 58 Sulla
centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di
una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel
Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino
2003, soprattutto pp. 136-40. Rimarca la necessità di non confinare l'eros
nel- la dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of
Plato's 'Re- public', Toronto 1994, p. 271: «a psychology that confines
eros to the sub-ra- tional parts of the soul most definitely falls short
of the truth». 498 PLATONE, LA
REPUBBLICA di forza intrapsichici complessivi, è
intrinsecamente trasforma- bile, manipolabile. E questa l'energia
pulsionale, in gran parte riconducibile all'universo dell'eros, che non è
solo possibile ma doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete,
anziché tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di
an- nientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E
questo lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi i due
approcci fondamentali, le due strategie basilari di con- trollo del
desiderio adottate da Platone: repressione versus ca- nalizzazione,
violenza versus persuasione, schiavizzazione ver- sus educazione. È
questo il bivio dal quale si può imboccare la via che conduce
all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo,
o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania
del tiranno. L'uomo massima- mente ingiusto, infelice, malato,
espropriato, travolto da una massa di epithymiai feroci, incontrollabili,
ormai liberatesi dal- le catene di quella schiavitù che le relegava al di
là dei confini della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e
per- mettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi
l'esplosione finale del loro devastante potenziale. Alberto Radicati,
conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e
tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692059125/in/photolist-2mKRjfH
Grice e Coco – mutuale prevalente – il
contratto di carattere mutuale prevalente -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Umbriatico).
Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with
words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a
work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of
the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’,
short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly
fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco
is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define:
so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate –
in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements
for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --
Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm,
teoria da Kelsen. Si laurea a Napoli. Sostituto
procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale
presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario.
Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del
nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi
entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in
materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli
eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M.
Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio
in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo
capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria);
“Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed.
Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice
Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni
sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale
(recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI);
“Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma,
U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro
e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli,
SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna
di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista
di diritto pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto
pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La
giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e
legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli
allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e
Giacomo Calabria. La giustizia
tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società
tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr.
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e
procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua
carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni
dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di
sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura.
Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di
Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una
solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del nuovo
Codice Civile e del Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti
dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una
delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia
leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo,
inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un
arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si
accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le
codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una
grande norma fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico,
rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in
una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci
consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla
semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del
singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come
all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non
corrispondesse eguale severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica
amministrazione. Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della
pubblica amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo
stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso
ricordare. Dal padre, persona di cultura, ricevette i primi
rudimenti di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno,
successivamente, in taluni suoi saggi filosofici su Aquino. Iniziò la
carriera giudiziaria a soli ventiquattro anni e ottenne la nomina a
Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere
successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino.
Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti oltremodo
favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e
Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi
permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello.
Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello
di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a
presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della
Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”, pubblicazione
mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della nostra famiglia,
di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di
appartenere, nonostante l’altissimo grado che ricopre nell’ordine
giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di
Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin
dagli anni ormai lontani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra
i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto
e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema Corte. Non appena
conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere,
partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così eminente consesso.
Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sarebbe di buon
gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore; non possiamo,
peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore
di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento di Diritto
Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore Capo
della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se
indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti di così eletto
Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita
carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo anche dal
nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie, alle quali
porta il valido contributo della sua competenza, ma soprattutto una grande serenità
ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati dall’articolo dell’epoca,
c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da solidissima
dottrina e da rigorosissimo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione
costante all’evoluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale
attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura,
ossia dell’organo politico e politico-amministrativo, anche se in base alla
legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva
ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa
di attuazione gli diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario
civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu
tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni,
perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento
in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito,
svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i
più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano,
ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto
rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio
del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il
Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal
coerente riferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento
giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che
va dal primo dopoguerra all’ avvento del fascismo,
costituisce una parentesi temporale di efficace e prorompente
elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sindacale, o “giuslavorismo”,
costituendo davvero una novità assoluta nelle scienze giuridiche del tempo.
Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0economiche che
metteranno a rischio l’assetto della produzione, la politica e i sindacati
troveranno i loro punti d’incontro nel noto Statuto del Lavoratori, una
ri-edizione aggiornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo
breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali appunto Coco. Altro aspetto
qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai
cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore
anche del Codice di Procedura Civile, emanato anch’esso, furono chiamate
le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa
(il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza
della promulgazione, il Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di
ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte
della sua vita coincide con l’immane conflitto mondiale, con
la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo
la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene
invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a
Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente
rifiuta. Ebbene, nonostante tale ferma presa di posizione nei confronti del
regime fascista, sulla base di taluni articoli che aveva scritto su “Il
Messaggero” di Pio Perrone, di commento a leggi e questioni giuridiche di alto
livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta Commissione di epurazione,
su decine di articoli scritti in una pluridecennale collaborazione, ne scova
qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando
era nota a tutti la dirittura morale del magistrato integerrimo, del quale va
appena ricordato, ammesso ve ne fosse bisogno, che la sorella del Duce,
Edvige Mussolini, gli fece pervenire sollecitazioni per una causa che la interessava.
Ebbene, Coco procedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla
sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono
anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni,
soprattutto per il fatto che per meriti poteva benissimo aspirare alle
funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapidamente le
condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ricorso contro i
provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortesemente anche una
candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli
avevano offerto con affetto e riconoscenza. Spira serenamente, non mancando
nel suo testamento di perdonare cristianamente quanti gli avevano provocato
tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e
della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali –
cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa
cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della
prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente. Del Lavoro. Le Società di Mutuo
Soccorso in Italia. I. — Le origini. Il prof. Gobbi,
nel suo pregevole libro: « Le Società di Mutuo Soccorso » (1) dice che «
il nome di Società di Mutuo soccorso è co¬ munemente assunto da
associazioni, le quali hanno per loro scopo principale di dare ai soci
sussidi in caso di malattia o in altre even¬ tualità che interessino la
loro famiglia o l’esercizio della loro atti¬ vità economica, ricavando i
mezzi all’uopo principalmente da con¬ tributi dei soci stessi ».
Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi mu¬
ralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie di essi
si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e mestieri, nelle
maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste associazioni si
proponevano scopi di difesa professionale, di perfezionamento nelle arti
esercitate dagli associati ; qualche volta, in via secondaria, l’eser¬
cizio di pratiche religiose; e spesso assumevano importanza politica di
prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nelle arti della repubblica
Fiorentina. Abbiamo però nel nostro paese esempi di società
mutualiste sca¬ turite dal vecchio tronco della corporazione o del
Collegio, o meglio che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e
non altrimenti noi possiamo considerare la Società fra i falegnami e
fabbri di Faenza che fa rimontare la sua origine al 1410; l’altra pure
di Faenza fra calzolai ed arti affini che si dice sorta nel 1474; la
So¬ cietà Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del 1454 ; la
Società Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei Cappellai
di Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del
deci- mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610);
le due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra
falegnami ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai,
sellai, fabbri¬ canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni
di Asti (1681); la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed
affini e fra fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di officina)
(1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova (1713); le
Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia (1736); il Pio
Istituto lavoranti cap¬ ii) Milano, Società editrice libraria,
1901. — 2 — pellai di Torino
(1736); la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino (1748).
Quantunque sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di
Torino può dirsi la prima che abbia assunto dalle sue origini e poi
meglio perfezionati con successivi adattamenti, i caratteri del mutuo
soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti 19 agosto 1751 e poi nel
suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E ira i
sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo e possiamo
considerare, al pari della Unione Pio Tipografica di To¬ rino, come le
più antiche Società di mutuo soccorso, meritano par- ticolar menzione: la
Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del i/54 e la Società dei
Servitori di Faenza del 1790. T . 1 -^ a s ? c °nda metà del
secolo decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società di mutuo
soccorso, secondo il concetto mo- Daese affe[>m are che di buon'ora si
manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza
sociale. Ed è cosa singo- concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la
evoluzione logica del Sassari dalIe , f orme più semplici di essa
dovrebbe videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della
pre¬ previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più
tardi della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del
risparmio auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel
1822, litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù
so- adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova
l’organo domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti
quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che
l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che
versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della
mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta
alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar- occorre per i
bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S
a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro- primo
dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851 società di mutuo soccorso
(1). di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo : nel 1810.
Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni
SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in
seta areento l a Società di M. S. fra cap- ’ aigento e oro di Tonno; nel
1884, la Società -
3 — Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che
la unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il
rapido incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo
della prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro
la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35
anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896
So¬ dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722,
con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza
siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica,
pub¬ blicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della
Previdenza. IL — I caratteri. Le Società di mutuo
soccorso italiane, nella loro generalità, sono associazioni che
esercitano in modo prevalente funzioni di carattere assicurativo col
principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste altre funzioni
accessorie dirette ad accrescere le forze economiche e intellettuali e
morali dei soci. Fra le funzioni di carattere assicurativo ha
prevalenza in tutte l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia.
Spesso vi si ag¬ giungono le spese funerarie in caso di morte ed un
sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono
commisurati ai contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta
alla stregua di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le
Societàc he con¬ cedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al
sussidio fissano un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente
chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il
sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1);
tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi,
e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24
mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a
12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non tutte le Società concedono
il sussidio dal primo giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle
che lo concedono; le al¬ tre fissano un periodo, che chiamono periodo di
carenza, nel quale i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di
carenza è di ordi¬ nario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e
per poche So¬ cietà va oltre i dieci giorni. orefici ed arti
aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo;
nel' 1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di
Verona; nel 1836, la Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la
Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra
lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la
Società operaia di M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società
di M. S. fra parrucchieri di "Torino;, nel 1843 , la Società dì vi.
s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio
Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la
So¬ cietà fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M.
S. fra farmacisti, medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti
calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra ma¬ rinai pescatori di
Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e
provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di
Roma e sua pro¬ vincia, la Società mutua beneficenza di Citta di
Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra calzolai di Alba, la Società
medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S, l’Unione operaia pa¬ triottica
fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la
So¬ cietà Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie
di Verona, la Federazione italiana fra lavoranti del libro (compositori)
di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i pompieri municipali di
Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma (I)
Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la
quale la statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta
quindi di osservazioni che con¬ cernono 1548 Società soltanto.
— 4 — Nè il sussidio è concesso per tutta la durata
della malattia. J37 Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo
termine; ma nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni
in un anno, e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre
120 giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2
per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in
molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti
giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro
gl infortuni del lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai,
ma non H tutela tutti : l’artigianato, la mano d’opera agricola, le
industrie ohe non appli¬ cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo
dell assicurazione obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell
azione dei nostri sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria,
un aiuto inte¬ gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la
invalidità temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965)
conside¬ rano questa agli effetti-del sussidio come una malattia
ordinaria; le altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il
numero delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita
permanente (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un
assegno una volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il
numero maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo
la entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor
numero sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di
in¬ fortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in
misura determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi
o di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.
Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno
valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussi¬
diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli
oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor-
Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,
per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una spesa
media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia, sussidiati
e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussi¬ diate
giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate 5.52.
Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia
Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento
tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corri¬ spondenza fra i
mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono con la promessa
statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia, annualmente, risulta
di lire 5.64 per ogni socio esistente. Nell’ordine stesso del mutuo
soccorso devono porsi i sussidi per spese funerarie di soci defunti.
Molte Società provvedono diretta- mente alle spese funerarie, alcune
concorrono con la famiglia alle spese stesse. Non sono infrequenti poi i
casi di Società che danno sussidi alle famiglie dei soci morti sia una
volta tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente poche le
Società che concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per
100). Nè sono molte le Società che provvedono con sussidi ai soci
disoccupati (il 6.5 per
— 5 — 100). Questi dati si riferiscono
a tutte Società delle quali si occupa la statistica recente.
Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società mu- iualiste è
di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar vita ad
istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa geniale
filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mu- tualista fu
rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno studio che, per
conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia delle nostre
Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri
(1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa. Nel quadro
seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo Soccorso che
esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI
Prestiti ai soci Magazzini di consumo
Cooperative di lavoro Cooperative di
credito Piemonte. 174 281
2 Liguria. .. 19 15 —
Lombardia. 233 ■ 46 1
Veneto . .... .... . 161 32 Emilia .
. , . . . . . 182 23 1
Toscana. 92 58 1 Marche.......
■ 128 24 1. — Umbria. . .
. . . . 72 18 — —
Lazio.. 63 .2 . ■ —
— Abruzzi. 82 5 —
— Campania. . . . . . 150 10
— — Puglie . . . . . . . 1 • 57
7 1 ; “ Basilicata. 27
— — Calabria . . . . . . 47
14 — — Sicilia. 95
17 — — Sardegna . .
15 — Regno . . . 1597 |
. 552 ■ 5 2 Nella maggior parte dei casi
non si tratta di istituzioni autonome fondate secondo le norme del codice
di commercio, ma di i-ami di attività della stessa Società di mutuo
soccorso operante coi fondi di questa. Le Casse di prestiti sono
principalmente dirette al fine di produrre un maggiore rendimento coi
fondi sociali, e quindi si com¬ prende come esse siano in numero maggiore
(il 24.9 per 100). I ma¬ gazzini di consumo, che sul totale rappresentano
8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il
21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e
merita par¬ ticolare mensione quello della Società Generale operaia di
.Torino, reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di
consumo dei ferrovieri. (I) La Prévoyance Sociale en Italie
- Paris, Armand Colin et C.« Editeurs —
Fra
gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano poi
particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le Società
vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive, scuole
di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di premi, la provvista
dei libri e così via. Altri scopi accessori sono il collocamento
dei soci disoccupati^ ed alcune Società hanno annessi veri e propri
uffici di collocamento; il conferimento di doti alle figlie dei soci; la
costruzione di abitazioni operaie; la concessione dei sussidi alle
famiglie dei soci richiamati sotto le armi. Nei riguardi
della costruzione delle case operaie la legge del 1903 sulle case
popolari contempla in modo particolare le Società di mutuo soccorso, dando
ad esse facoltà di impiegare una parte dei loro fondi in costruzione di
case pei propri soci. La legge vuole soltanto che le Società, le quali
questa impresa intendono assumere, costituiscano una sezione speciale. E
già sotto l’impegno di quella legge parecchie Società hanno chiesto ed
ottenuto 1’ autorizzazione di intraprendere la costruzione di case
Operaie. Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di
mutuo soc¬ corso è quello di promuovere la iscrizione, collettiva o
individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per la
invalidità e la vecchiaia degli operai. Contiamo nel nostro
paese Società le quali assicurano pensioni di vecchiaia tecnicamente
calcolate: sono modelli del genere le due Società, maschile e femminile,
di Cremona. E sonovi Società le quali non pensioni ma sussidi di
invalidità o di vecchiaia promettono ai loro soci in misura e qualità
corrispondenti ai fondi disponibili. E siccome le Società che
corrispondono pensioni o sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale
servizio costituito un fondo speciale alimentato da speciali contributi o
da avanzi di bilancio, la legge institutrice della Cassa Nazionale di
previdenza consente’ a queste Società di versare alla Cassa i fondi così
raccolti e le future contri¬ buzioni, inscrivendo ad essa collettivamente
i soci aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i
più anziani, qualche maggior favore. ^ Quel precetto della
legge è provvido, contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato,
fecondato da nuove e più larghe con¬ cessioni per condurre i sodalizi
mutualisti a divenire organi inter¬ medi attivissimi fra l’operaio e la
Cassa Nazionale, sull’esempio di quanto con maravigliosi risultati viene
praticandosi nel Belgio. Alcuni credono che, per mantenere vivo lo
spirito di fratellanza per aumentare gli elementi che fanno fiorire e
cementano la soli¬ darietà mutualista, sia opportuno conservare alle
Società di mutuo- soccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di
perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli
contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia
sufficienti ai più elementari vorrebbero che una parte delle risorse
assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a
quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato
servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato
Io non posso, senza venir meno alle mie
convinzioni, manifestate già in pubbliche conferenze, accogliere 1’ una
tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe considerazioni per dimostrare
condannevole la prima. In un paese in cui è sorto un Istituto, il quale,
con mezzi forniti dallo Stato, può assicurare pensioni di vecchiaia in
misura superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o sodalizi
pri¬ vati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori consigliandoli
a preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui
appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un
gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza
e della soli¬ darietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la
Cassa Nazio¬ nale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi
li afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i
feno¬ meni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che
colmano le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un
momento turbato. La seconda tesi è pericolosa per le
conseguenze cui condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali
per dare il maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e
solido organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di
assicurazioni, la legge così proficua dei grandi numeri. In
un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella
obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo Stato,
il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto al¬ l’Istituto
nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente di
attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,
vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procu¬
rando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sot¬
tratti all’Istituto Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione
libera non può farsi che all’ombra di un grande Istituto verso il quale
convergano le cure assidue dello Stato, la simpatia delle classi
dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La legge operò quindi
saviamente quando volle associare alla grande opera dell’assicurazione per
la invalidità e la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei
sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà
gli stimoli, con un ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione
dei soci della Società di mutuo soccorso. Intanto sono
salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del grande Istituto adopera
presso le nostre Società mutualiste, fu prov¬ vido il pensiero del
Ministero di agricoltura, industria e commercio, il quale, con R. Decreto
19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in medaglie d’oro e
di argento da conferire a quelle Società di mutuo soccorso che al 30
giugno del corrente anno di¬ mostreranno di avere contribuito
efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di
previdenza. Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i
primi frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o
procu¬ rato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie
precise di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73
Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano
particolare mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto
Fiorentino che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m.
s. per le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia
di — 8 — m. s. di Modena che ne ha
inscritto 519; la Società di m. s. di Mol- fetta. (Bari) che ne ha
inscritto 512. 3.° La legislazione e la giurisprudenza.
Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge 15
aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il
legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconosci¬ mento
giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della pote¬ stà
politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mu¬
tualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le
Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il
riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La for¬ mula
rigida della legge è stata però largamente temperata dalla giu¬
risprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi operaia una
Società costituita in gran parte da operai. E così si è potuto am¬
mettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti, di
soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il benefico
ufficio del patronato. Le Società di mutuo soccorso non composte di
operai possono ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo
2 del codice civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo
furono tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno
rile¬ vare che la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di
mu¬ tuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette
che in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa essere
distribuito fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi
afllni o in opere di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo
soccorso nello acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di
legati siano au¬ torizzate con decreto Reale, ai termini della legge del
1850 che con¬ templa appunto enti morali. -------- a
uà, ^aucenena aei j naie Civile, depositando copia autentica dell’atto
costitutivo e statuto. statuto.
Le condizioni che la
legge vuole adempiute sono soltanto le se-> guenti : 1. Le
Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti: assicurar
ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impo¬ tenza al lavorò o di
vecchiaia ; venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti.
Possono inoltre; cooperare all’ educazione dei soci e delle
loro famiglie ; dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi
del loro me¬ stiere ; esercitare altri uffici propri delle
istituzioni di previdenza economica. 2. Gli statuti delle
Società devono determinare espressamente; la sede dèlia
Società; i Ani pei quali è costituita ; le condizioni, la
modalità d’ammissione e di eliminazione dei soci ; i doveri
che i soci contraggono e i diritti che ne acqui¬ stano ; le
norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del patrimonio
sociale ; la disciplina alla cui osservanza è condizionata la vali¬
dità delle assemblee generali, delle elezioni e delle deliberazioni;
la costituzione della rappresentanza della Società in giudizio
e fuori ; le particolari cautele con cui possono essere
deliberati, lo scioglimento, la proroga della Società e le modificazioni
degli sta-, tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie alle
disposizioni della legge. La concessione della personalità
giuridica alla Società di mutuo soccorso è quindi secondo la legge del
1886, subordinata soltanto all’ esame estrinsero dell’adempimento delle
condizioni dianzi indicate. Non si chiede come ne fn manifestato il
proposito in alcuni disegni, di legge presentati prima che si giungesse
alla legge del 1886, la dimostrazione tecnica della corrispondenza fra
contributi e sussidi, non si impone l’impiego dei fondi sociali in
determinate specie di investimenti. Deve però avvertirsi che la legge
parla di sussidi e dalla discussione parlamentare risulta che si volle
escludere pen¬ satamente la parola pensioni, implicando un regolare servizio
di pensioni necessariamente la dimostrazione di un ordinamento tec¬
nico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di cor¬ rispondere
pensioni possa vedersi compresa nella formula della legge : « esercitare
altri uffici propri delle istituzioni di previdenza economica ». Si
tratta di una funzione che ha speciale importanza che non può essere
esercitata senza un ordinamento tecnico preciso, che implica impegni a
lunga scadenza e non si può in modo asso¬ luto ammettere, tenuto conto anche
della discussione parlamentare, che il legislatore abbia voluto concedere
di straforo l’esercizio di una . così importante funzione. B
la giurisprudenza ha confermato il pensiero del legislatore ammettendo
che occorra una speciale concessione governativa per' esercitare il ramo
pensióni di vecchiaia o di invalidità; concessione —
10 — subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che
dia sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1).
Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a
concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®
Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di più di
quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può sembrare a
una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne meno
favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 cono¬ scimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si
consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore
coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale
discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬ taglio negli Statuti.
E nello stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche
proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La
legge chiede il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e
meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di
mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle
tasse di bollo e registro, conferita alla So¬ cietà cooperative
dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa
sulle assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’
articolo 8 della legge 24 agosto 1877, nu¬ mero 4021;
parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per la
esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’im¬ posta
di successione o di trasmissione per atti ira soci ; esenzione da
sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci.
Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle ri¬
conosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio
Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle
comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali sono
compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente. Il
Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli per la
migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia il sodalizio
contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto impiego dei fondi
disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle Società
registrate, nè esercita ufficio di vigilanza so¬ vra di esse, non potendo
sottoporle ad ispezioni, scioglierne le am¬ ministrazioni, nominare
Commissari Regi. Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i
vantaggi di ordine fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso
aiuti diretti o in¬ ni Il Consiglio di Previdenza non espresse
divei del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo so<
lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile -- -.-e
pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi i una
nota al modello di statuto spirano ad ottenere la persona- s
possono proporsi di assi-
11 — diretti dello
Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva- mente, o quasi,
eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefat¬ tori, attingendo le
proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio,
costituisce il loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli
aiuti di carattere non continua¬ tivo e straordinario che vengono ad esse
nei concorsi a premio e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di
agricoltura, industria e commercio. Nel campo dei concorsi a
premio meritano particolare mensione quelli che una volta con alquanta
frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di
mutuo soccorso meglio ordi¬ nate. Nel 1882 fu bandito un
concorso a premio, di lire 3000 (1500 of¬ ferte dal comm Besso e 1500
date dal Ministero) per il miglior or¬ dinamento delle Società di mutuo
soccorso; enei 1901 ne fu indetto un’altro dal Ministero con un premio di
mille lire, due di cinque¬ cento e con medaglie di argento o di bronzo a
quelle Società ope¬ raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad
organizzare e ga¬ rantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei
casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito
fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale
di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso a premi del
1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società
di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.
Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il
Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima
Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a quelle
Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordina¬ mento e di più
lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le scuole e
con le biblioteche alla istruzione degli operai. E frequensemente il
Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi operai che hanno
dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e di costante
devozione ai principii della mutua¬ lità. Nè sono infrequenti i sussidi
in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo stanziato,
che il Ministero dà alle So¬ cietà operaie che più si addimostrano
bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale. La recente
statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate dell’ Ispettorato
generale del credito della previdenza, registra la esistenza in Italia al
31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali riconosciute
1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi
che la statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la
esistenza di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in
luogo di riscontrare un incre¬ mento, come erasi verificata, e notevole,
dal 1885 al 1894, si constata uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in
cifra media, del 2 - 8 per cento. La diminuzione più notevole si osserva
nell’Italia meridionale e nell’insulare ed in parte della centrale; si
giunge sino al 48. 1 — Ì2 — per cent©
nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia
settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì
notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0 per
cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di
mu¬ tuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo
decimonono, andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e
riportammo, a dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del
1894. La dimo¬ strazione riesce più evidente classificando il numero
delle Società per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le
medie seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904:
Società fondate prima del 18*0 — % . 1.0 » ,, dal 1850 al 1859 — »
. 2.7 » » dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3 » » dal 1870 al
1879 — » . 19 . 2 » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9 » »
dal 1885 al 1889 — » . 14 . 5 » » dal 1890 al 1894 — » . 12 .
6 » » dal 1896 al 1899 — » . 8.7 » » dal 1900 al 1904 —
». 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889,
con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo
il decennio 1870-79 con 19 2. . Ma l'incremento più rapido si
determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai
vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in
queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società nel
periodo 1895- 1904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita
più breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:
Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle
sciolte nel decennio: Piemonte Liguria
Lombardia Veneto. Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo
danno le Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la
Sardegna. ° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre
1904 sono composte di soli uomini . » » di sole
donne » » di uomini e donne se ne ignora la
composizione . 5,078 252 1,017
189
— 13 — Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto,
sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale
e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15
aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi
fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per
%• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società
esi¬ stenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri
che la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli
e formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione
nello esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi,
non le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il
lento incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero
ri¬ spetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto
in pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori,
nella imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica
reca, indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla
legge. Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che
esulano dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste
tendenze trovano più conveniente esplicazione in altre forme di
organizza¬ zioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto
di cit¬ tadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e
per la protezione del lavoro. Il,numero dei soci aggregati
alle Società di mutuo soccorso, se¬ condo le statistiche alle tre date,
risulta nelle cifre seguenti: nel 1885 — 730,475 nel 1894 -
933,685 nel 1904 — 926,026 Siccome però non tutte le Società
diedero sulle tre indagini le indicazioni del numero dei soci, assumendo,
per la integrazione, il criterio della media dei soci per ciascuna
Società, si avrebbero le cifre seguenti : nel 1885 —
760,085 nel 1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media
dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3,
nel 1904 di 145 . 9. Il numero dei soci è aumentato in tutti i
compartimenti dell’Ita¬ lia settentrionale, escluso il Piemonte: è
aumentato anche nell’Emi¬ lia, nella Toscana, nell'Umbria e nella
Sicilia; ed è diminuito in tutti gli altri compartimenti. Nel periodo
1895-1904 il numero medio dei soci è aumentato in Liguria, Emilia,
Campania, Sicilia e Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia ed è
diminuito negli altri com¬ partimenti. Sopra 100 Società esistenti
al 31 dicembre 1904, la diversa com¬ posizione numerica di esse è
indicata dalle cifre seguenti: Sino a 99 soci . — 53 . 6 Con
soci da » » da » » da » » da »
» da » » da b b da 1000 a 1500 — 0 . 5 b b
oltre . 1500 — 0.3 100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 — 27 .
3 300 a 399 — 4.5 400 a 499 — 2.3 500 a 699 — 1.2 700 a
899 — 0.8 — 14 — In complesso, in tutti
i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e la
Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società
conta meno di 100 soci; ed in ge¬ nerale un quarto circa delle Società
conta un numero di soci da 100 a 200. La statistica del 1904
discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei 926,026, soci, 849,418 sono
uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico dqlle Società
di mutuo soccorso si pos¬ sono fare raffronti con la statistica del 1885;
quella del 1895 non con¬ tiene alcuna notizia sul patrimonio sociale.
Ecco i dati riferentisi alle due date: Entrata. Spese
. Patrimonio L. 7. L. 14,632.425 .404.205
» 11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per
ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L.
12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi
non diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come
cri- terio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti:
Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle
entrate ed alle spese. Secondo tali risultati,!che non si possono
discostare molto dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un
aumento di L. 4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di
L 33.748 218 sul pa¬ trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per
100. t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta
di L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli
Abruzzi e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia
di Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un
Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la
„ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le
entrate sono tre: “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non
effettivi, do¬ nazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni
cento lire di entrate nel 1904 ,1 tre elementi davano le cifre
seguenti: Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80
Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28 Altre entrate
. . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come
abbiamo già no¬ tato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la
proporzione diventa maggiore quando si consideri che le altre entrate
slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla loro volta
derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate 1eT3 V 9
ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo Liguria 58 P °° m
Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in
— 15 — Si hanno
notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società riconosciute ;
ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al 1903. Le
percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi
patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi . . .
Redditi straordinari | Rendita di beni immobili ... 1.
69 ( Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60
^ non effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo ... 27.
58 1 di aziende sociali.6.85 .7.16 Anche
per queste Società, nella media generale del Regno, il maggiore delle
entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi, esclusi però il
Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene da¬ gli introiti dei
magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate
sono dovute alla assunzione da parte di due So¬ cietà di Palermo, quella
fra la gente di mare e T altra dei capitani marittimi, di appalti di
carico e scarico di merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci
effettivi eguagliano quasi i redditi patrimo¬ niali; ivi infatti sono le
Società più antiche e con patrimonio più rilevante. Le
contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109 nell’Umbria,
al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle So¬ cietà di questa
regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media
per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire
13. Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30
per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle
della provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si
riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed
il massimo delle entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un
minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in
Liguria. Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una
minuta discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due
grandi divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904,
rispettivamente ad ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre
seguenti: spese per sussidi.51.4 altre
spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto
in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate.
Nelle So¬ cietà della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la
proporzione delle altre spese alle entrate è superiore a quella delle
spese per sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e
parsimonioso or¬ dinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte
maggiore delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro
famiglie. Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti
rag¬ guagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante
l’anno 1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di
spesa Spese di malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità
ed impotenza al lavoro Sussidi di vecchiaia. Soci
defunti Altri sussidi l Onoranze funebri. . ^
Sussidi alle famiglie 19,45 3.01 4,40 10
87 0.75 2.62 1.34
03 ( Magazzini di consumo . “■§ <
Altre aziende sociali . . ’S g ( Altre spese. Spese di
amministrazione Spese straordinarie. . . Le spese per sussidi
assorbono il 42.44 per cento del totale delle spese e vanno da un minimo
del 14.21 per cento in Sicilia ad un massimo del 69.57 per cento nell’
Umbria. In tutte le regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior
parte delle spese per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del
50 per cento nel¬ l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi
di vecchiaia. Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel
Piemonte (56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria
(39.97 per cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per
cento in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. . 28.78 .
7.05 . 2.6S . 13.14 . 5.91 La sostanza
patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è
di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci e distinta fra
Società registrate e Società non registrate, dà le cifre seguenti:
patrimonio medio. per ciascuna Società Società
riconosciuta 24.267,00 Società non riconosciuta 7.887,67
Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per ciascun
Sòcio 123.32 60,16 82,50 È più
alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬ stra che il
riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi ele¬ mento di
singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬ tati e
quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della
personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per
Società si discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel
minimo la Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano
nella media del pa¬ trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in
Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio
soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre
1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute
ammon¬ tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni
stabili ...... L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati .... »
15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374
40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima
di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5
per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per
cento. Negli investimenti in titoli pub¬ blici e privati il massimo è
nella provincia romana col 70.3 per
cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in
mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta
invece in que¬ sti impieghi il minimo col 13.8 per cento.
Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società di
mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬ duto.
Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società
per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società
che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999 Cifre
assolute 1.517 Su 100 Società 23.6 11 1000
a 4999 2.117 35,3 » 5000
a 9999 9S9 16.5 n 10.000
a 49.999 1.239 20.6 n 50.000
a 99.999 156 2.6 n 100.000
a 249.999 60 1.0 ii 250.000
a 49.1,999 12 0.2 n 500.000
a 1.000.000 5 0.1 Oltre un milione
4 tu Senza indicazione del patrimonio 535
— Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro
pa¬ trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un
patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11
23.6 per cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il
35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento
un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un
patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio
da lire 50.000 a 100.000. 5. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬
noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬ messa la
costituzione di consorzi fra Società riconosciute per for¬ mare un fondo
di riserva consorziale, per assumere impiegati co¬ muni, per stipulare
contratti con medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o
anche alcune assicurazioni. Si può strin¬ gere anche un accordo fra
Società non tutte legalmente riconosciute per esercitare un controllo sui
soci sussidiati o per regolare il pas¬ saggio dall’uno all’ altro
sodalizio di quei soci che cambiano resi- ^Ta legge francese del
1898 sulle Società mutualiste consente la costituzione di unioni fra le
Società, conservando ciascuna la propria autonomia, aventi per oggetto
principalmente : l’organizzazione a favore dei membri effettivi delle
cure e dei soccorsi indicati nella legge e specialmente la instituzione
di farmacie nelle condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia
; l’ammissione dei membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il
regolamento delle pen¬ sioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di
assicurazione mutua pei rischi diversi a cui le Società debbano provvedere,
specialmente la fonda¬ zione di Casse di pensioni e di assicurazioni
comuni a più Società per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di
lunga durata; il servizio del collocamento gratuito. La
statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi o d
Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta
- 18 — analogia eon quelli indicati nelle norme. In
recenti Congressi regio¬ nali di Società di mutuo soccorso fu deliberata
la costituzione di unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se
furono costituite e per quali scopi. Nel primo Congresso
nazionale delle Società di mutuo soccorso tenuto a Milano il 29 giugno
1900 fu deliberato «d'organizzare fra m loro tutte le Società operaie di
mutuo soccorso in federazione nazionale, salvo studiare il modo di
organizzarle razionalmente, con a nomma di una Commissione esecutiva
provvisoria », fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl , pre ,. 5 per le
Societ à aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un numero
superiore; e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società
operaie, quelle delle Ca- La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per
un’intesa comune ». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso
anno 1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen
temente d'indole morale. Società federate ed? ,?^ ed - ere . alla tutela
de ^ interessi delle nomico delle classi i a JÌ ,!f + lb - U ^ re a
miglioramento morale ed eco- raS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza
». Per aggiungere p ento la Federazione si propone in modo
speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^
istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris
S°"- fare opera di solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de ! lavoratori;
e ,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r
slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema completo di
legi- a tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i
dell’associazione, sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che
gravano nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate,
intervenendo mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e
6 di P revid enza, meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo
soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di siano
inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto - P^chè- videnza. P p l0
ndamentali della mutualità e della pre- di iirc 5 se
hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100 a
500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno più
di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a e
hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva
in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl
che la Federazione stabilirà nell’in- àana, monitore della 6
P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione Ita- Congresso; ^aerazione, ed
una copia degli atti di ogni
— 19 — « d) di ottenere
gratuitamente consulti legali e pareri di in¬ dole amministrativa;
« e) di valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare
quelle questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e
della previdenza ». Gli organi della Federazione sono: il Congresso
delle Società federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri
eletti dal Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione
esecutiva composta di nove membri scelti fra i soci delle Società
federate e residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le
circoscrizioni stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei
Sindaci com¬ posto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal
Congresso fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le
Commissioni di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne
fosse re¬ clamata la costituzione. La Federazione ha
organizzato tre Congressi nazionali: quello di Milano nel 1900; quello di
Reggio Emilia nel 1901; quello di Fi¬ renze nel 1904. Le Società federate
sono andate crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella proporzione
seguente: 1901 — 548 1902 — 573 1903 —
720 1904 — 733 1905 — 745 In un Congresso
internazionale e nel chiudere questa rela¬ zione la quale dimostra quale
sia la condizione delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo
che si possano presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e
proposte che abbiano riferimento alle particolari condizioni delle nostre
Mutue ed al loro avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un
voto il quale ha necessario legame con la proposta costituzione di una
Federazione internazio¬ nale della mutualità, che sarà vanto di questo
III Congresso, poiché, a mio giudizio, una Federazione internazionale
deve trovare il suo principale fondamento nelle organizzazioni federative
nazionali. Ed il voto è il seguente: Che si promuova in
Italia la costituzione di Federazioni od Unioni regionali di mutuo
soccorso, le quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio
specificati dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle
particolari condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che
le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione Nazionale, la
quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è nel programma
dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici propri delle
federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire i soci dei
sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di lavoro o per
altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la Federazione
regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se
il tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali
aggiunge nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni , è bello invece
vedere per virtù popo- lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso
anche in Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.
Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà , e non mossi da
studio di soverchio guadagno , finiscono col raccogliere anche la
ricchezza , come premio della loro virtù e col dare un'alta pro\a di
quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei
conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di pic-
coli indaslriali , svincolale dai vecchi rancori , amiche deirordiiie e
della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni
dell' azione, c creando una buona Digitized
24 ' PARTE PRIMA. Speranza per l'avvenire della nostra
patria. Fatta Tlta- lìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e
ca- scanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero , sì
sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associa- zione.
Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di
onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio,
tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le
citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali
sappiano inlen- dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le
opere buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella
spensieratezza , colla quale i più le stemperano nella ca- scafigine e
nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi
nei gruppi de' nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti
discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi
volumi di economia politica , senza lettori, val- gono a provare colla
evidenza dei fatti , che la maggiore delle industrie è l'onestà dei
costumi, e che il lavoro e r associazione non accrescono soltanto la nostra
fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti
e delle virtù nostre. Di fronte al movimento d'associazione che si
estende da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui
s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associa- zione.
Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla avevano per unica
mira il guadagno di coloro che le di- rigevano. Questo guadagno talvolta
eccessivo , aveva per motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la
speculazione e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno
fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c ro- vina di una
falange di creduloni e di delusi. Le società cooperative hanno
invece per ragione la fra- ternità, per principio l'eguaglianza, per
mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e
per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà ai-
Dìgi}ized by spiaiTo d' associazione.
25 r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè
stesso ciò che gli appartiene , ed a ciascun cooperatore accorda la
facoltà di aver parte air amministrazione delle cose co- muni. Còsi la
cooperazione sorretta dall' intelligenza , vi* vificata dair amor
fraterno , rivela air uomo T arcano della sua forza e della sua potenza.
Ma peicliè giunga agli sperati e (Te ili senza deviare dai principii che
sono fon- damenlo di ogni rigenerazione sociale , si addomanda ai
cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiega- zione e
virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui rup- pero tanti , cessino di
tenersi in guardia contro i funesti allctlamenli , i desiderii ambiziosi
, le passioni egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi!
essi con- tengono i germi di discordia e di dissoluzione che bi-
sogna sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà
cooperative formate lìnora in Italia, mentre dobbiamo conoscere la
devozione , il disinteresse dei loro fondatori ed aderenti e i risultati
abbastanza fe- lici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da
supe- rare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno
sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facil- mente air
aborto. Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie
abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che un progresso
non è realmente buono se non m quanto possano tutti parteciparvi; che T
eguaglianza è T anima della cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il
genio cooperativo nel suo oggetto , nel suo scopo e nelle sue
conseguenze sociali , ha una missione immensa da com- piere, e che deve
penetrare come il sole, tanlo nelle cam- pagne quanto nelle grandi
città. Ma perchè le società di credito e di produzione pos-
sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno del- l' industria
dall'impiccio delle tante braccia strappate alle campagne e fioriate
nelle città a far una disastrosa con- correnza cogli operai. Per togliere
dallo stato precario e dalla miseria, ove si trovano, lutti questi
campagnoli che disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle manifatture
» Digitized by Google 26
PARTE PBIMA. bisognenibbe procurare la loro
emancipazione col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla
propriclà territo- riale per mozzo delle associazioni cooperative. Al
che condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli c
industriali, abbastanza potenti per oHrirc un asilo a coloro che non
hanno una via aperta alla loro aUivilà. Con questo mezzo il commercio e T
industria si trove- rebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi
superflui, poiché ove le società cooperative non propagassero ia
loro azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià, su-
birebbero i maggiori disinganni. Ed oltre a questa concorrenza dannosa,
aggiunge quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma
reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affit- jtaìuoli ,
proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa concorrenza che , a
detto loro , impedisce di vendere i frulli del campo e del lavoro a buon
prezzo, e non pen- sano intanto che la concorrenza de'' produttori coi
prezzi moderali suscita un'altra concorrenza, quella de' consu-
matori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe, quelle zappe, quei
martelli, quelle seghe a buon patio, e appunto per la concorrenza delle
fucine che procura a minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli
isiru- menti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tes-
sitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con mo- dici valori
il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra nei bisogni della
vita. Ma quando T equilibrio si rompe anche la concorrenza
diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrec- ciate agli
ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è il supremo beneficio
d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo delP opera il
far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne , nò depongano
la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La
concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la sua
perpetua alimentazione nelP interesse indi- viduale. Essa non e che il
risultato dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse , e porta
poi come ultima Oigitized by SPIBITO
D'ASSOCIAZIOMB 37 conseguenza il bene
generale. Essa è dunque il principio deir esistenza Jelle società, poiché
dalla concorrenza degli uni e degli altri promana il vantaggio di lutti;
nè per- meile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è
una compensazione che ci facciamo a vicenda. Senza la concorrenza
dei produUori i consumatori pa- gherebbero tutto ad una esorbitanza di
prezzi , e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto
cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato
alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae T
emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per
Fat- tività deir uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi-
tazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi; per studiare a
tale intento , e trovare nuovi processi di produzione più economica e più
abbondante per accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore , e per
soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la
forza deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non
sa far meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;
egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora
meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure
restrittive, chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci
forestiere , attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a
suo pro- fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra-
nieri. Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la
concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo ve- diamo i giovani
campagnoli non rare volte dalla mal tol- lerata loro condizione sospìnti
a quella delP artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga
più cara che ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo
salario alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate
agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni di quella
occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo «uila terra. Eppure
l uomo della campagna quando pensa Digitized by Google
28 PARTE PRIMA. all'artiere
della città, dice: in (jual minor conto siamo ' noi tenuti! S'inganna
esso a partito; nessuno tiene in minor conto chi guida il solco e T aratro,
ed è neces- sario che i contadini il sappiano, che abbiano
ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno allettati, e che le
provvide virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i tetti di
paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e il sarchiello non
restino mortificati dinanzi al maglio ed al telaio. Nicola
Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di
pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana,
giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione,
contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile
italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen,
grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del
contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo soccorso, le societa di
mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale
prevalente, lo spirito cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773172804/in/dateposted-public/
Grice e Codronchi -- Su i contratti e
giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il
patto comunitario -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo. Grice:
“One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a
smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and
‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted
for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i.
e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the
view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a
game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was
obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me –
when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use
‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational
move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational
‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente
alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto
dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con
Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a
consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”,
in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue
in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è
noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un
secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento
contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo
tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento
contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of
the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a
quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you
pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree
of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering
under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms
(in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and
talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features
that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have
some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may,
of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car
mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic
talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it
is a second-order one, namely, that each party should, for the time being,
identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2.
The contributions of the participants.should be dovetailed, mutually dependent.
3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is
often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue
in appropriate style unless both parties are agreeable that it should
terminate. You do not just shove off or start doing something else. SAGGIO
FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI.
Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO
CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che
sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà
di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del
la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze,
auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con
tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli
uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire.
L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a
sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che
ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha
inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla
propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca
però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria
medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che
non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone.
Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se
minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica
felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre
davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco
ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano
al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si
ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini
vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano
nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle
nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di
dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi
sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo
una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti
ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe
alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi
negri il cambio del sale colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un
vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al
bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e
lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia
ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si
espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della
sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella
uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo
della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il
limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova
maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità
e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna.
Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata
ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e
di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica
felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica
del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e
l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che
ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la
sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del
giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io
cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì
vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di
essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto
aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile
investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno
esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini
l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto
aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o
vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae),
il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice,
“Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto
considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave:
“ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una
tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran
guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la
ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo
fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel
contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma
l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla del contratto di
alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e
reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un
diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è
vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel
commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo
diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen
prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui
alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera
uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale
TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che
gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior
precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone
per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si
parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi
l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i
veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che
convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la
natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino
una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi
li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e
dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di
fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre
fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali
poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei
caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è
ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e
dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi
contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di trat to
in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la maniera di
applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto, e ſicuro
del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi. Il
gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe
debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli,
per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi
favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori, e il pre mio
che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare
alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli. So
che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto gran
Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva
logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente aſcendendo
alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi calcoli, e i
miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati ſcuoprono il
profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in quella vece di
eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco, per
riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire
l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli
enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto,
nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio
ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice, per rapporto
a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro
induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i
contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente, non altro
ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che non vi
abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura un
determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire.
Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero, che un
altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le
noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal moto
alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno, data
la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono neceſſariamente
preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei giochi di carte le
combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle, e di
dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi pure non ſolo del
gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo, e
generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove
ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi
coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita
diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le
fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria,
nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte
volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non
corriſponde; onde può dirlig. 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di
pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due
giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di
depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice
mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono
propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le
medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in
queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i
giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe
manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora
il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell'
oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori
e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il
totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli
uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente
ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei
giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque.
E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco,
per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente
ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno
ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente
la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei
caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di
rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il
numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei
favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte
due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il
canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi
favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di
incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di
accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi
quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco,
nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto
il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed
eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione
quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il
premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli
più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto,
che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole
delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'az 23
zardo ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra
accennata, che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare
una o più favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe
leggi, e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare
egli di per ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo
il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e
l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual
porzione, o di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e
faminata la natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà
ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare
quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo
conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli
caſi, ſuperi tanto quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito
ſupera quella dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado
in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve
fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa
vorevole, converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore,
altrimente la proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una
fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare,
erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj
per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj,
del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa
tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato
inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare
queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco
ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi,
quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni
addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi
ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la
faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella
dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto
che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe
di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di
due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti
che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata
porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè
coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata
per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi
compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in
ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro
appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. 26 che i vantaggi, che ha in
alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti,
quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove
giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione;
poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla
ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è
maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi
favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi
conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al
banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che
giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone
egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il
puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for
tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare
i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la
ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per
dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar
profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano
un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere
medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte
ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione
eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di
queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a
circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par
te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi
conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in
iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd
omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi
del banchiere per ogni pofta fem 1 28 plice, cominciando dalla ſuppoſizione che
vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano
dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto
un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle
paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la
media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono
compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi
ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com
penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o
fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non
poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile
una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di
ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde
ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più
della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il
prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con
tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi
vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità
luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte
occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì
di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di
gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti
infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera
faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte,
e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i
celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour
occupe Eft un dangereux aiguillon; 1 1 1 1 30 Souvent quoique l'eſprit, quoique
le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto
il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le
Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i
dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre
riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que
gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i
contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra
eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere
che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai
retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo,
che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi
eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano
31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo
ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e
combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe
contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la
ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il
ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è
baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può
cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve
ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua
dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio
per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco,
non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a
queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione,
che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento pro * 32 verebbe troppo
in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be
queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di
infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano
al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di
chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga
quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non
è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi
riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti
miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un
riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto
fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme
era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la
condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a
quella del padrone del lotto. / 33 Quì però fa d'uopo dileguare un inganno
comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima
ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato
ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe
giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e
ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto
può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con
fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che
potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore
che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te;
nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta
chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di
che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i
confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo
agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare
nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a)
Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e
di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è
padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo
valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che
ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo
mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali, o di
opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli
adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia una
piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia
ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran
numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado
di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia
conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante,
formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo
la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta,
come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render
qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco
tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35
quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza
medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi
loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più
freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo,
e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto
oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge
leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri
ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed
eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid
non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico
vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla
loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo,
e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento
però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1 36 fi
attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico,
di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono
per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che
hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo
che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto
amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti
nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte,
ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine
dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri
ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in
Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome
ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha
ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di
ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme
di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come
nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte,
perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a
quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual
prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri
relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più
vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de
dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non
ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro
che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi
impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di
Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati
così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata
regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è
ſtato mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la
ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la
proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con
al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in
eſami nare le qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco
ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi
ed altri neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta
a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful
viglietto medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere
alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere
pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio
dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono
vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini
chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di
Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad
eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa
fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un
altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione
del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non
ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma ancora in
maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua, e il
diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au tore
ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte decida
a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione
nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad
un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri
queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile,
ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che
uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che
non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere
perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i
viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei
quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di
ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri
contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque
altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il
ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto
che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di
più che fi paga, non è a titolo di compra della ſperanza, ma bensì a titolo
dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità
eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono
ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora
propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria
degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo
della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere
qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi
popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o
col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano
ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre
molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E'
incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di
queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi
offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti
Omeriche, e Virgi 41 liane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali
dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille,
ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione
della rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie.
E ſe per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli
amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d'
Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano
per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio
dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi
odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di
Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e
piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle
parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo
propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei
monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che
chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente
eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte
enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima;
eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè
tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e
commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe,
e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice
della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien
eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa
alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in
talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno,
giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione
tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento
della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti
ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono
rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei
caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri
riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i
favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma
dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può
dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello
degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all'
urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a
farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti
depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del
quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando maggior por
zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime
regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato
diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano
ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti
diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai
medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che
coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei
contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra
la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare
un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni
che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi
conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi
fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma
no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo
Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di
eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a
regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione
di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi
quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi
bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti
che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a
formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del
paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur
trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che
nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi
e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette
da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano
a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo. La ſeconda,
che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre
cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero
eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare
che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed
eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe
sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi
ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che
fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante
maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate
ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre
volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle
ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno
conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono
ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei
ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno
può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e
tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo
averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e
la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità
e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui
non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto
moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe
ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi
poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la
ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è
compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in
infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render
certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi
della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre
cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi
deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il
caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di
azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la
maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa
certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi
gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a
portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le
coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal
gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che
ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla
ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo
hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne
riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro
vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le
quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma
perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha
propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di
molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in
eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi
fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie
concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che
un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una
libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre
un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che
ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi
in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il
ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota
influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante
che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro
babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e
confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te
generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti
ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà
vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle
umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che
pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non
ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi
debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle
ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare
due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al
quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i
contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e
che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il
prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice
della legge la vince di autorità, ecco ciò che 60 ha chiamata l' uguaglianza a
preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi
attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue
maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della
medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad
eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle
bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la
preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto
neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon
ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e
poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito,
circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali
contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito,
e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo.
In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza
di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i
gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo
ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè
le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano
certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla
uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le
maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove
ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni
fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno
fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani
la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in
natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac
compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di
queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un
qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il
prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi
gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e
fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta
facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi
conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato
ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe
parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un
contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che
può un 63. altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute
cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo
del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già
eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il
mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e
la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli
che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito.
Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che
il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato
che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica
Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli
anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le
ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano,
gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima delle quali ha
faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda
compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e
inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno
trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano
eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono
l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e
queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre
ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la
validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del
ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè
l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi
ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo
poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione
ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto
l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto
il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo
ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti,
alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le
merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune
piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte
quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei
contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di
aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ
faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che
influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le
cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in
dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda; il
mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli
ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in
una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di
reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte
ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili
all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè
o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella
dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano:
l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa
dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano
fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le
fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le
uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali. 67 i Se il fondare un
calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che
ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle
cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi
che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera
libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente
probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi,
per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e
contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in
queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o
morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci
proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che
hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il
momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o
temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni,
e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In
queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle
combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave,
nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la
confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti
oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta
la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle
prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene
per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi
ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i
contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi
entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli,
perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69
ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono
oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali
perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati.
La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati,
come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e
nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la
proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei
primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può
determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente
delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione
ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe
ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i
dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far
conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la
prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato
naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche
ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei
quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza
della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi
dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e
ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi
dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche
piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però
che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione
di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi
può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali
contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione
nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all'
aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga
all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il
contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare
all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato
non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa
la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo
alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal
contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della
ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende
il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe
aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante
fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi
quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe
aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74
l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede,
qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di
pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta
ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In
queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità,
poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in
proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del
ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere
di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento
favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro.
Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera
che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto.
Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di
una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi
potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te
volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere
egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci,
ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in
altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente,
e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto.
Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo
che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione
di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della
notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a
prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne,
ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza
che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore
ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che
appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli
uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni
che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto
che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un
uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono
del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo
guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale
collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad
oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il
dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non
avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non
curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal
provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più
molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur
dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il
vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco
nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente,
accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie
mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran
lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci
domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un
frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo
l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo
paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca
il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti.
Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la
ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di
più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi
affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito
di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e
per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca
pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un
certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli
ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le.
Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo
d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia.
Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato
numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è
neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia
uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni,
o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo
che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un
vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di
perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti
gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle
medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone
che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il
diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe
ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la
media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della
ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi
ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle
quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può
dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op
porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei
noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il
prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite
vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero
dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i
quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la
ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81
ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine
del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si
ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto
numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione,
ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito
per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le
condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per
formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata
di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto
affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di
azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se
queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi
abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque
miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto
fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle
quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento,
indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali
favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari
quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono
conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più
vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi
però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me
deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte
fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto
maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della
rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del
teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la
rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'
ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto
mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato
ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della
rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro
porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non
farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che
chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale
corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia
di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte,
eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia
eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando
il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il
di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto;
il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col
tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la
differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima
ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte;
fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini
individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata
differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende,
che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo
pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che
ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da
molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la
vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet
tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime.
Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la
naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole
appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed
elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti.
Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente
le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del
temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle
prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche
riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti
oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore
omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili
le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di
curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre
con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche,
ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla
luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo
corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo
Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è
tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei
noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente.
Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari,
ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome
dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di
rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi,
che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa.
Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di
anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate
le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre
di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi
dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà
armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed
anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione,
allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli
ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus
De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la
Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages,
Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai
penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la
ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu
queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così
gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo
utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente
raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve
contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali
rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi
potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato
dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla
compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che
in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1
1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui
ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla
conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato,
e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio
dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle.
Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la
natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il
numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il
numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e
per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero
che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente
dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle
altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e
quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà
Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai
cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne
formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla
fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto
di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della
medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre
palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m;
112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto
ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di
quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io
chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità
dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e
ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe
attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due
palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei
giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi
moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare
nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che
per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo
neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa
da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97
giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe
a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa
minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a
quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche
in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto
dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio
ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe
vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra
indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i
riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza,
ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora
non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la
diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito
fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla
propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e
rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio
deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro
l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua
glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi
ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi
appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in
parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però
poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito
medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei
giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de
durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite
ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è
variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a
nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza
l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità
neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di
mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed
indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni
fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro
frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in
ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi
miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze
incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar
profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere,
imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e
alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al
loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton
capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i
piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di
cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi
favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema
III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la
regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in
103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe
io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e
in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove
trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe
e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte
per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi
raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto
queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto
diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura.
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte.
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi
dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente
poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io
dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per
queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di
fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le
combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria
una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe
pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un
infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere
offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade,
ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le
facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il
caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia,
a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò
non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato )
che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad
un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi
raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per
dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme
ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè
vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno,
che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro
diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A
non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro
diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe
combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia
palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè
croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto
prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due
coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite
diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni
delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure
ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi
che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle,
ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto.
Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la
infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a
ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine
fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo
ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così
dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti
getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non
così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili
fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici
adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove
nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che
la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare
mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità
che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia.
110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo
in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e
riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle
medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe
ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero
due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in
aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non
ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle
addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe
tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello
ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle
diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola
Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi
combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo
poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per
infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio
è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto,
che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun
riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo
alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere
la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce
ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due
tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33,
niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure
il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente
poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo,
che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei
pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro,
alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo?
perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre,
ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà
poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la
moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta
fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a
quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni
dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte
l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non
le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti;
cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi
della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare
la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert
degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata.
E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi
favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti
ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme
di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari
che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente
poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le
combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me
ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e
moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli
uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici
diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che
l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più
ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e
coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con
ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa
conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior
numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di
altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal
corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni,
conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto
maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello
degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche
cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal
ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che
vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che
o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa
faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può
gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta;
con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo
faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare
in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo.
Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che
laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite
volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo
ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme
ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli
altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo
or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non
la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua
maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del
Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro
appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la
preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che
nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della
direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente
impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120
riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa
conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un
effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli
addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non
potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo
della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza,
altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche
dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa
direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1
pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti
ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o
al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre
l ' ifteffa faccia della moneta; verità che ſi accorda perfettamente con gli
eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere,ed io
ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne
cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teo rìa non è
applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito
appariſca, per poterne formare la propor zione.. Quando poi cominci il numero
in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della
moneta, le oſſervazioni, e non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni
io dico, che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti
alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la
propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle
probabilità, che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze,
che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio
il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale
a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan
za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi
ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6;
altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in
tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita
ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior
fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero
che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata
opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123
glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a
deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino
in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto
a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver
formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e
per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o
aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già
rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la
disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia
sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore
nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col
magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a
diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile
degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla
cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i gravi studii della
giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan
nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la
poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo
lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le
stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in
Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne
gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti,
onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni
verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con
arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi
sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano
parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di
Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil
lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che
t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che
lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato
della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di
cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto
passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da
quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di
colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo
gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di
etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per
fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il
Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui
avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti
dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi
del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo
di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di
pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti
poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia
ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa
pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25
novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual
tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri,
cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di
amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri
proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che
leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove
egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per sovrano volere eb be a
recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da
maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il
provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e
pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio:
imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di
sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a
maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di
quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa
regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a
Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo
impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse
tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non
comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere
del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma
salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a
quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il
conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e
delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile
istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di
bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso;
e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè
mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe
providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della
vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della
quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena
calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed
alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della
acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per
la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono
congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re,
integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of any
text-book on Mercantile Law will hardly deny that Contract is the
handmaid if not actually the child of Trade. Merchants and bankers must
have what soldiers and farmers seldom need, the means of making and
enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to
the special case before us, we should expect to find that when Rome
was in her infancy and when her free inhabitants busied themselves
chiefly with tillage and with petty warfare, their rules of sale,
loan, suretyship, were few and clumsy. Villages do not contain
lawyers, and even in tdwns hucksters do not employ them. Poverty of
Contract was in fact a striking feature of the early Roman Law, and
can be readily understood in the light of the rule just stated. The
explanation given by Sir Henry Maine is doubtless true, but does not seem
altogether adequate. He points out 1 that the Roman house- hold
consisted of many families under the rule of a 1 Ancient Law, p.
312. B. E. 1 2 INTRODUCTION. paternal
autocrat, so that few freemen had what we should call legal capacity, and
consequently there arose few occasions for Contract. This may
indeed account for the non-existence of Agency, but not for that of
all other contractual forms. For if the households had been trading
instead of farming corporations, they must necessarily have been
more richly provided in this respect. The fact that their commerce
was trivial, if it existed at all, alone accounts completely for the
insignificance of Con- tract in their early Law. The origin
of Contract as a feature of social life was therefore simultaneous with
the birth of Trade and requires no further explanation. It is with
the origin and history of its individual forms that the following
pages have to deal. As Roman civilization progresses we find Commerce
extending and Contract growing steadily to be more complex and more
flexible. Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of
agreement which sufficed for the requirements of a semi-barbarous
people have been almost wholly transformed into the elaborate
system f of Contract preserved for us in the fragments of the Antonine
jurists. CHAPTER I. THE REGAL PERIOD: EARLY
AGREEMENTS. At the most remote period concerning which
statements of reasonable accuracy can be made, and which for convenience
we may call the Regal Period, we can distinguish three ways of
securing the fulfilment of a promise. The promise could be enforced
either (1) by the person interested, or (2) by the gods, or (3) by the
community. When however we speak of enforcement, we must not think
of what is now called specific performance, a con- ception unknown to
primitive Law. The only kind of enforcement then possible was to make
punish- ment the alternative of performance. I. Self-help,
the most obvious method of re- dress in a society just emerging from
barbarism, was doubtless the most ancient protection to promises,
since we find it to have been not only the mode by which the anger of the
individual was expressed, but also one of the authorised means employed
by the gods or the community to signify their displeasure. This
rough form of justice fell within the domain of Law in the sense that the
law allowed it, and even 1—2 4 THE REGAL PERIOD:
EARLY AGREEMENTS. encouraged men to punish the delinquent,
whenever religion or custom had been violated. But as people grew
more civilized and the nation larger, self-help must have proved a
difficult and therefore inade- quate remedy. Accordingly its scope was by
degrees narrowed, and at last with the introduction of surer
methods it became wholly obsolete. II. Religious Law, as
administered by the priests, the representatives of the gods, was
another powerful agency for the support of promises. A violation of
Fides, the sacred bond formed between the parties to an agreement, was an
act of impiety which laid a burden on the conscience of the delin-
quent and may even have entailed religious disabili- ties. Fides was of
the essence of every compact, but there were certain cases in which its
violation was punished with exceptional severity. If an agreement
had been solemnly made in the presence of the gods, its breach was
punishable as an act of gross sacrilege. III. The third
agency for the protection of promises was legal in our sense of the word.
It consisted of penalties imposed upon bad faith by the laws of the
nation, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the
delinquent belonged. What the sanction was in each case we are left
to conjecture. It may have been public disgrace, or exclusion from the
guild, or the paying of a fine. And as some promises might be
strength- ened by an appeal to the gods, so might others by an
invocation of the people as witnesses. Agreements then might be of
three kinds corre- EARLY PACTA. 5 sponding to
the three kinds of sanction. They might consist of (1) an entirely
formless compact, (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn
appeal to the people. I. A formless compact is called pactum in
the language of the twelve Tables. It was merely a distinct
understanding between parties who trusted to each other's word, and in
the infancy of Law it must have been the kind of agreement most
generally used in the ordinary business of life. Such agreements are
doubtless the oldest of all, since it is almost impossible to conceive of
a time when men did not barter acts and promises as freely as they
bartered goods and without the accompani- ment of any ceremony. Compacts
of this sort were protected by the universal respect for Fides, and
their violation may perhaps have been visited with penalties by the guild
or by the gens. But intensely religious as the early Romans were, there
must have been cases in which conscience was too weak a barrier against
fraud, and slight penalties were ineffectual. Fear of the gods had to be
reinforced by the fear of man, and self-help was the remedy which
naturally suggested itself. In the twelve Tables pactum appears in a
negative shape, as a compact by performing which retaliation or a
law-suit could be avoided 1 . If this compact was broken the offended
party pursued his remedy. Similarly where a positive pactum was violated,
the injured person must have had the option of chastising 1
Gell. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20. 6 THE REGAL
PERIOD: EARLY AGREEMENTS. the delinquent. His revenge might take
the form of personal violence, seizure of the other's goods, or the
retention of a pawn already in his possession. He could choose his own
mode of punishment, but if his adversary proved too strong for him, he
doubtless had to go unavenged ; whereas if the broken agree- ment
belonged to either of the other classes, the injured party had the whole
support of the priesthood or the community at his back, and thus
was certain of obtaining satisfaction. It is therefore plain that though
formless agreements contained the germ of Contract, they could not
have produced a true law of Contract, because by their very nature they
lacked binding force. Their sanction depended on the caprice of
individuals, whereas the essence of Contract is that the breach of
an agreement is punishable in a particular way. A further element was
needed, and this was supplied by the invocation of higher powers.
II. At what period the feshion was introduced of confirming
promises by an appeal to the gods it would be idle to guess. Originally,
it seems, the plain meaning of such appeals was alone con- sidered,
and their form was of no importance. But under the influence of custom or
of the priest- hood, they assumed by degrees a formal character,
and it is thus that we find them in our earliest authorities.
Since Religion and Law were both at first the monopoly of the
priestly order, and since the religious forms of promise have their
counterpart in the customs of Greece and other primitive peoples,
PUBLIC AGREEMENTS. 7 whereas the secular forms are
peculiarly Roman 1 , the religious forms are evidently the older,
and formal contract has therefore had a religious origin. Fides
being a divine thing, the most natural means of confirming a promise was
to place it under divine protection. This could be accomplished in
two ways, by iusiurandum or by sponsio, each of which was a solemn
declaration placing the promise or agreement under the guardianship of
the gods. Each of these forms has a curious history, and as they
are the earliest specimens of true Contract, we may discuss them in the
next chapter. III. Another method, and one peculiar to the
Romans, which naturally suggested itself for the protection of
agreements, was to perform the whole transaction in view of the people.
Publicity ensured the fairness of the agreement, and placed its ex-
istence beyond dispute. If the transaction was essentially a public
matter, such as the official sale of public lands, or the giving out of
public contracts, no formality seems ever to have been required, so
that even a formless agreement was in that case binding. The same
validity could be secured for private contracts by having them publicly
witnessed, and the nexum was but one application of this principle.
In testamentary Law it seems probable that the public will in comitiis
calatis was also formless, whereas in private the testator could
only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote" Thus the
two elements which turned a bare 1 See p. 22. 8
THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS. \ agreement into a contract
were religion and publicity. The naked agreements (pacta) need not
concern us, since their validity as contracts never received
complete recognition. But it will be the object of the following pages to
show how agreements grew into contracts by being invested with a religious
or public dignity, and to trace the subsequent process by which
this outward clothing was slowly cast off. Formalism was the only means
by which Contract could have risen to an established position, but
when that position was folly attained we shall find Contract discarding
forms and returning to the state of bare agreement from which it had
sprung. CHAPTER II. CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. Art 1. Ivsivrandvm is derived by some from
Iouisiurandum 1 , which merely indicates that Jupiter was the god by whom
men generally swore. To make an oath was to call upon some god to
witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerved
from it. This appears from the wording of the oath in Livy 2 , where
Scipio says: "Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from
the oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus,
where a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. Cicero remarks 8 that the oath
was proved by the language of the XII Tables to have been in former times
the most binding form of promise ; and since an oath was still morally
binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53. » Off.
ni. 31. 111. 10 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.,
in the time of Cicero, though it had then no legal force, the point
of his remark must be that in earlier times the oath was legally binding
also. From Dionysius we know that the altar of Hercules (called Ara
Maxima) was a place at which solemn compacts (ovvdfjtcai) were often made
1 , while Plautus and Cicero inform us that such compacts were
solemnized by grasping the altar and taking an oath 2 . It would seem
probable that the gods were consulted by the taking of auspices before
an oath was made. Cicero says that even in private affairs the
ancients used to take no step without asking the advice of the gods 8 ;
and we may safely conjecture that whenever a god was called upon to
witness a solemn promise, he was first enquired of, so that he might have
the option of refusing his assent by giving unfavourable auspices. The
terms of the oath were known as concepta uerba, at least in the
later Republic, and like the other forms of the period they were strictly
construed 4 . Periuriv/m did not mean then, as now, false swearing. It
meant the breach of an oath 5 , the commission of any act at
variance with the uerha concepta 9 . There is some dispute as to
what were the exact consequences of such a breach. Voigt 7 thinks
that it merely entailed excommunication from religious rites, but
Danz 8 is clearly right in maintaining that its consequences in early
times were far more serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2.
49. Cio. Flacc. 36. 90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12.
13. 6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37.
4. 6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149.
EFFECTS OF IVSIVRANDVM. 11 they amounted in fact to
complete outlawry. Cicero says that the sacratae leges of the
ancients confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex was one
which declared the transgressor to be sacer (i.e. a victim devoted) to
some particular god 1 , and sacer in the so-called laws of Seruius
Tullius 2 and in the XII Tables 8 was the epithet of condem- nation
applied to the undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it
seems highly probable that the breaker of an oath became sacer, and
that his punishment, as Cicero hints 4 , was usually death. The formula
of an oath given by Polybius 6 is more comprehensive than that
given by Paulus Diaconus 8 , for in it the swearer prays that, if
he should transgress, he may forfeit not onry the religious but also the
civil rights of his countrymen. This shows that the oath-breaker
was an utter outcast; in fact, as the gods could not always execute
vengeance in person, what they did was to withdraw their protection from
the offender and leave him tolhe punishment of his fellow-men 7 .
The drawbacks to this method of contract were the same as those of the
old English Law, which made hanging the penalty for a slight theft ; the
penalty was likely to be out of all proportion to the injury
inflicted by a breach of the promise. So awful indeed was it, that no
promise of an ordinary kind could well be given in such a dangerous form,
and consequently the oath was not available for the 1 Festus,
p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare. 8 Seru. ad
Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7
Liu. v. 11. 16. 12 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.
common affairs of daily life. The use of the oath therefore
disappeared with the rise of other forms of binding agreement, the
severity of whose remedies was proportionate to the rights which had
been violated; while at the same time the breaking of an oath came
to be considered as a moral, instead of a legal, offence, and by the end
of the Republic entailed nothing more serious than disgrace
(dedecus). In one instance only did the legal force of the oath
survive. As late as the days of Justinian^ the services due to patrons by
their freedmen were still promised under oath 1 . But the penalty for
the neglect of those services had changed with the development of the
law. At and before the time of the XII Tables, the freedman who neglected
his patron, like the patron who injured his freedman 2 , no doubt
became sacer, and was an outlaw fleeing for his life, as we are told by
Dionysius 3 . But in classical times the heavy religious penalty
had disappeared, and the iurisiurandi obligatio was en- forced by a
special praetorian action, the actio operarum*. By the time of Ulpian the
effects of the iurata operarum promissio seem indeed to have been
identical with those of the operarum stipu- latio*, though the forms of
the two were still quite distinct. We may then summarise as
follows our knowledge as to this primitive mode of contract :
The form was a verbal declaration on the part of the promisor,
couched in a solemn and carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen.
6. 609. 8 n. 10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.
1 THE EARLY 8P0N8I0. 13 worded 1
formula (concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari
deos)*, to behold his good faith and to punish him for a breach of
it. The sanction was the withdrawal of divine protection, so
that the delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose
to slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Art. 2. Sponsio. Though the
point is contested by high authority, yet it scarcely admits of a
doubt that there existed from very early times another form, known
as sponsio, by which agreements could be made under religious sanction.
This method, as Danz has pointed out, was originally connected with
the preceding one. It was derived from the stern and solemn compact made
under an oath to the gods. But Danz goes too far when he identifies
the two, and states that sponsio was but another name for the sworn
promise 4 . The stages through which the sponsio seems to have passed
tell a different story. The word is closely connected with
airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a pouring out of wine 8 ,
quite distinct from the con- vivial \ocfirf or libatio 6 , so that "
libation " is not its proper equivalent. The other derivation given
by 1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52. * 46
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106. 8 Festus p. 329 s.u.
spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o. 14
CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. Varro 1 and Verrius 2 from sports,
the will, whence according to Girtanner 8 sponsio must have meant a
declaration of the will, savours somewhat too strongly of classical
etymology. I. This pouring out of wine, as Leist 4 has shown,
was in the Homeric age a constant accom- paniment to the conclusion of a
sworn compact of alliance (optcia iriara) between friendly nations.
The sacrificial wine seems originally to have added force to the oath by
symbolising the blood which would be spilt if the gods were insulted by a
breach of that oath. In this then its original form sponsio was
nothing more than an accessory piece of cere- monial. II. The
second stage was brought about by the omission of the oath and by the use
of wine-pouring alone as the principal ceremony in making less
important agreements of a private nature. In the Indian Sutras for
instance a sacrifice of wine is customary at betrothals 5 , and
comparison shows that the marriage ceremonies of the Romans, in
connec- tion with which we find sponsio and sponsalia applied to
the betrothal and sponsa to the bride 6 , were very like those of other
Aryan communities 7 . We may therefore clearly infer that at Rome also
there was a time when the pouring out of wine was a part of the
marriage-contract; and thus our derivation of the word receives
independent confirmation. III. In the third and last stage sponsio
meant 1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u. spondere. 8 Stip. p.
84. 4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ. p. 448. 8
Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc. ciu
PECULIAEITIES OF SPONSIO. 15 nothing more than a particular
form of promise, and it is easy to see how this came about. At first
the verbal promise took its name from the ceremony of wine-pouring
which gave to it binding force ; but in course of time this ceremony was
left out as taken for granted, and then the promise alone, provided
words of style were correctly used, still retained its old uses and its
old name. Sponsio from being a ceremonial act became a form of words.
Such was the final stage of its development. The importance
attached to the use of the words spondesne ?, spondeo in preference to
all others 1 thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally
meant " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do
so promise," just as we say, "I give you my oath,"
when we do not dream of actually taking one. Another peculiarity of
sponsio, noticed though not explained by Gaius 2 , was the fact that it
could be used in one exceptional case to make a binding agreement
between Romans and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gaius
expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a
sacrifice of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early
formalities of an international compact (op/cia mard), it was natural
that the word spondeo should survive on such occasions, even after the
oath and the wine- pouring had long since vanished. Sponsio
being then a religious act and subse- quently a religious formula, its
sanctity was doubtless protected by the pontiffs with suitable
penalties. What these penalties were we cannot hope to know,
1 Gai. in. 93. 2 in. 94. 16 CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. though clearly they were the forerunners of the penal
sponsio tertiae partis of the later procedure. Varro 1 informs us that,
besides being used at be- trothals the sponsio was employed in money
(pecu/nia) transactions. If pecunia includes more than money we may
well suppose that cattle and other forms of property, which could be
designated by number and not by weight, were capable of being promised
in this manner. Indeed it is by no means unlikely 2 that nexum was
at one time the proper form for a loan of money by weight, while sponsio
was the proper form for a loan of coined money (pecunia nwmerata).
The making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the afibio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the
origin and early history of the sponsio is so different from the
views taken by many excellent authorities that we must examine
their theories in order to see why they appear untenable. One great class
of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institu- tion, but was introduced at a date subsequent to the XII
Tables. The adherents of this theory are afraid of admitting the
existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and
flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the
fact that no mention of sponsio occurs in our fragments of the XII
Tables. While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early 1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42.
J THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO. 17
sponsio the actionability and breadth of scope which it had in
later times, still it may very well have been sanctioned by religious
law, in ways of which nothing can be known unless the pontifical
Com- mentaries of Papirius 1 should some day be discovered. As to
the silence of the XII Tables on this subject, we are told by Pomponius
that they were intended to define and reform the law rather than to
serve as a comprehensive code 2 . Therefore they may well have passed
over a subject like sponsio which was already regulated by the
priesthood. Or, if they did mention it, their provisions on the
subject may have been lost, like the provisions as to iusiurandum, which'
we know of only through a casual remark of Cicero's 8 . The
early date here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved
by any such negative evidence. Let us see how the case stands with
regard to the question of origin. (a) The theory best known in
England, owing to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was
a simplified form of neocum, in which the ceremonial had fallen
away and the nuncupatio had alone been left 4 . This explanation is now
so utterly obsolete that it is not worth refuting, especially since
Mr Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in itself is
utterly fatal to such a theory is that the nuncupatio was an assertion
requiring no reply 6 , i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.
8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326. 5 Hunter, Roman
Law, p. 385. 6 Gai. n. 24. B. E. 2 18 CONTRACTS
OF THE REGAL PERIOD. whereas the essential thing about the sponsio
was a question coupled with an answer. (6) Voigt follows
Girtanner in maintaining that spondere signified originally " to
declare one's will," and he vaguely ascribes the use of sponsiones
in the making of agreements to an ancient custom existing at Borne
as well as in Latium 1 . He agrees with the view here expressed that the
sponsio was known prior to the XII Tables, but thinks that before
the XII Tables it was neither a contract (which is strictly true if by
contract we mean an agreement enforceable by action), nor an act in
the law, and that its use as a contract began in the fourth century
as a result of Latin influence 2 . In another place 8 he expresses the
opinion that its introduction as a contract was due to legislation,
and most probably to the Lex Silia. The objections to this view are
(1) that the etymology is probably wrong, and (2) that the inference
drawn as to the original meaning of spondere iuvolves us in serious
difficulties. An expression of the will can be made by a formless
declaration as well as by a formal one. And if a formless agreement be a
sponsio, as it must be if sponsio means any declaration of the
will, how are we to explain the formal importance attaching to the
use of the particular words " spon- desne ? spondeo." (3) This
view ignores the religious nature of the sponsio, which I have
endeavoured to establish, and (4) it forgets that sponsio, being
part of the marriage ceremonial, one of the first subjects 1
Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43. 8 Ius Nat. §§ 33-4.
THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO* 19 to be regulated by the
laws of Romulus 1 , is most probably one of the oldest Roman
institutions. Again (5), as Esmarch has observed 2 , the
legislative origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We
only know that the Lex Silia introduced an improved procedure for matters
which were already actionable, and had a new formal contract been created
by such a definite act we should almost certainly have been
informed of this by the classical writers. (c) Danz also derives
sponsio from sports, the will; but he takes spondere to mean sua sponte
iurare, and thinks that the original sponsio was exactly the same as
iusiurandum, i.e. nothing more than an oath of a particular kind 3 . .
His chief argu- ment for this view is to be found in Paulus
Diaconus, who gives consponsor = coniurator. But why need we
suppose that Paulus meant more than to give a synonym ? in which case it
by no means follows that spondere = iurare. For such a statement as that
we have absolutely no authority. Moreover, as we saw above,
iusiurandum was a one-sided declaration on the part of the promisor only.
How then could the sponsio, consisting as it did of question and
answer, have sprung from such a source ? especially since the
iusiurandum, though no longer armed with a legal sanction, was still used
as late as the days of Plautus alongside of the sponsio and in
complete contrast to it ? (d) Girtanner, in his reply to the
"Sacrale Schutz" of Danz 4 , maintains that sponsio had
nothing 1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n. 516. 3
Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif. 2—2
9 20 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. to do
with an oath, but was a simple declaration of the individual will, and
that stipulatio had its origin in the respect paid to Fides. This view
however is even less supported by evidence than that of Danz 1 .
Arguing again from analogy Girtanner thinks that, as the Roman people
regulated its affairs by expressing its will publicly in the
Comitia, so we may conjecture that individuals could validly
express their will in private affairs, in other words could make a
binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a
misapprehension of a leading principle of early Law. For, as we
have seen, no agreement resting simply upon the will of the parties
(i.e. pactum) was valid without some outward stamp being affixed to it,
in the shape of approval expressed by the gods or by the people. In
the language of the more modern law, we may say that such approval, tacit
or explicit, religious or secular, was the original causa ciuilis which
dis- tinguished contractus from pactiones. Now a popular vote in
the Comitia bore the stamp of public approval as plainly as did the
nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was clearly not
endorsed by the people ; therefore the endorsement which it needed in
order to become a contractus iuris cvuilis must have been of a religious
nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originated in a religious cere- monial such as I have described.
To recapitulate the view here given, we may conclude that sponsio
was a primordial institution 1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R.
W. i. 291. GROWTH OF SPONSIO. 21 of the Roman
and Latin peoples, which grew into its later form through three stages,
(a) It was originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact
of alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it
became a sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made
under oath such as betrothals. Just as iusiurandum for many
purposes was sufficient without the pouring out of wine, so for
other purposes sponsio came to be sufficient without the oath, (c) Lastly
it became a verbal formula, expressed in language implying the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justi- nian, Its form was a
question put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "
" Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?
Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could
use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further
proof of religious origin. Why they used question and answer rather
than plain statement is a minor point the origin of which no theory has
yet accounted for. The most plausible conjecture seems to be that
the recapitulation by the promisee was intended to secure the
complete understanding by the promisor of the exact nature of his
promise. Its sanction in the early period of which we are
treating was doubtless* imposed by the priests, but owing to our almost
complete ignorance of the 22 CONTRACTS OF THE REGAL
PERIOD. pontifical law we cannot tell what that sanction
was. Having now examined the ways in which an agreement could
be made binding under religious sanction, let us see how binding
agreements could be made with the approval of the community. There
is reason to believe that this secular class of contracts is less ancient
than the religious class, because nexum and mancipium were peculiar to
the Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio are found, as
Leist has shown, in other Aryan civilizations 1 . Art.
3. nexvm. There is no more disputed sub- ject in the whole history of
Roman Law than the origin and development of this one contract. Yet
the facts are simple, and though we cannot be sure that every
detail is accurate, we have enough information to see clearly what the
transaction was like as a whole. We know that it was a negotium per
aes et libram, a weighing of raw copper or other commodity measured
by weight in the presence of witnesses 2 ; that the commodity so weighed
was a loan 8 ; and that default in the repayment of a loan thus
made exposed the borrower to bondage 4 and savage punishment at the hands
of the lender. We know also that it existed as a loan before the
XII Tables, for it is mentioned in them as something quite different
from mancipium 6 . To assert, as Bech- mann does, that since nexum
included conveyance as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp.
435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L. 7. 105. 4
Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22. THEORIES AS TO
ORIGIN OF NEXVM. 23 well as loan " mancipiumque " must
therefore be an interpolation into the text of the XII Tables 1 , is
an arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of nexwm,
and of mancipium shows that they were distinct conceptions. Mancipium
implies the transfer of mami8, ownership ; nexum implies the making
of a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent of
obligatio in the later law. It is true that both nexwm and mancipium
required the use of copper and scales, to measure in one case the price,
in the other the amount of the loan. But this coincidence by no
means proves that the two transactions were identical. A modern deed is
used both for leases and for conveyances of real property, yet that would
be a strange argument to prove that a lease and a conveyance were
originally the same thing. Here however we are met by a difficulty. If,
as some hold 8 and as I have tried to prove, we must regard
mancipium as an institution of prehistoric times distinct from the purely
contractual nexwm, how are we to explain the fact that nexwm is
used by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equi- valent
to mancipium, or as a general term signifying omne quod per aes et libram
geritur, whether a loan, a will, or a conveyance ? Now first we must
notice the fact that neamm had at any rate not always been
synonymous with mancipium, for if it had been so, there could have been
no doubt in the minds of 1 Kauf f p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11.
p. 162 n. * ad Fam. 7. 30 ; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1.
35. ; pro Mwr. 2. 4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus
Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in Varro, L. L. 7. 105.
24 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. Scaeuola and Varro
that a res nexa was the same thing as a res mamipata. This Scaeuola and
Varro both deny, and we must remember that Mucius Scaeuola was the
Papinian of his day. Manilius 1 on the other hand, struck perhaps by the
likeness in form of the obsolete nexum to other still existing negotia
per aes et libram, seems to have made nexum into a generic term for this
whole class of trans- actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2
. The new and wider meaning, given by them to that which was a
technical term at the period of the XII Tables, apparently became general
in literature, partly for the very reason that nexum no longer had
an actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in matters
which had nothing to do with the original nexum, namely in the release of
judgment-debts and of legacies per damnationem*. One peculiarity
men- tioned by Gaius in the release of such legacies seems
altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of the
genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,
but this, as Gaius shows, was not the case. The view that nexum was
the parent gestum per 1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s.
u. nexum. 3 Gai. iii. 173-5. NEXVM DISTINCT FROM
MANCIPIVM. 25 aes et libram, and that mancipium was the name
given later to one particular form of nexum, is worth examining at some
length, because it is widely accepted 1 , and because it fundamentally
affects our opinion concerning the early history of an important
contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to suppose that nexum
narrowed from a general to a specific conception. But it is scarcely
conceivable that nexum should have had the vague generic meaning of
quodcumque per aes et libram geritur* when it was still a living mode of
contract, and the technical meaning of obligatio per aes et libram
when such a contractual form no longer existed. What seems far more
likely is that nexum had a technical meaning until it ceased to be
practised subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose
meaning was introduced in the later Bepublic, partly to denote the
binding force of any contract 4 , partly as a convenient expression for
any transaction per aes et libram\ Even in Cicero we find the word
nexum used chiefly with a view to elegance of style 8 in places where
mandpatio would have been a clumsy word and where 7 there could be no
doubt as to the real meaning. But when Cicero is writing history,
he uses nexum in its old technical sense and actually tells us that it
had become obsolete 8 . 1 See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E.
R. L. § 22. 2 .16. p. 181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum.
4 Cf. "nexu uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.
5 Cic. de Or. in. 40. 159. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii.
30. 2; Top. 5. 28. 7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.
8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. mi. 28. 1. 26 CONTRACTS
OF THE REGAL PERIOD. Rejecting then as untenable the notion
that nexum denoted a variety of transactions, let us see how it
originated. The most obvious way of lending corn or copper or any other
ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower, who
would naturally at the same time specify by word of mouth the terms on
which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
super- vision. It dealt only with commodities which could be measured
with the scales and weights, and did not recognize the distinction
between res mancipi and res nee mancipi, — a strong argument that
nescum and mandpium were, as above said, totally distinct affairs. Its
sanction lay in the acts of violence which the creditor might see fit to
commit against the debtor, if payment was not performed according
to the terms of his agreement. Personal violence was regulated by the XII
Tables, in the rules of manus iniectio, but before that time it is
safe to conjecture that any form of retaliation against the person
or property of the debtor was freely allowed. The fixing of the
number of witnesses at five 1 , which we find also in rnancipium, . is
the only modification of nexum that we know of prior to 1
Gai. hi. 174. . FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. 27
the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the
reforms of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing
the five classes of the Servian ceruma, personified the whole
people. This is a mere conjecture, but a very plausible one. For we
are told by Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject
of Contract and Crime, and in another passage of the same author 8
, we find an analogous case of a law which forbade the exposure of
a child except with the approval of five witnesses. But here a question
has been raised as to what the witnesses did. The correct answer, I
believe, is that given by Bechmann 4 , who maintains that the witnesses
approved the transaction as a whole, and vouched for its being properly
and fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the
function of the witnesses was to superintend the weighing of the copper,
and that before the intro- duction of coined money some such public
supervision was necessary in order to convert the raw copper into a
lawful medium of exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that
neacum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act per-
formed under public authority, and (2) it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of
Huschke's theory may be accepted without reserve, but the second part
seems quite untenable. We have no evidence to show that nexum was
confined to loans of money or of 1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii.
15. 4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff. 28
CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. copper. Indeed we gather from a
passage of Cicero that far, corn, may have been the earliest object
of nexum 1 , while Gaius states that anything measurable by weight
could be dealt with by neari solvtio*. No inference in favour of
Huschke's theory can be drawn from the name negotium per cms et
libram, for this phrase obviously dates from the more recent times
when the ceremony had only a formal signifi- cance, and when the aes
(ravduscvlum) was merely struck against the scales. If then we reject
the second part of Huschke's theory, and admit, as we certainly
should, that nexum could deal with any ponderable commodity, it is
evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke seems
therefore a complete anachronism. There is also another interpretation of
neawm radically different from the one here advocated, and formerly
given by some authorities 4 , but which has few if any supporters among
modern jurists. This , view was founded upon a loosely expressed
remark of Varro's in which nexus is defined as 1 Cic. de Leg. Agr.
n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87. 4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr,
Christiansen, Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n. 25.
NEXVM A LOAN BY WEIGHT. 29 a freeman who gives himself into
slavery for a debt which he owes 1 . The inference drawn from this
remark was that the debtor's body, not the creditor's money, was the
object of nexwm, and that a debtor who sold himself by mancipium as a
pledge for the repayment of a loan was said to make a nexum' 2 .
Such a theory does not however harmonize with the facts. The evidence is
entirely opposed to it, for Varro's statement, as will be seen later on,
admits of quite another meaning. Neither nexum nor man- cipium is
ever found practised by a man upon his own person. Nor could nexum have
applied to a debtors person, for the idea of treating a debtor like
a res mancipi or like a thing quod pondere numero constat, is absurd.
Again, if nexum = mancipium, the conveyance of the debtors body as a
pledge must have taken effect as soon as the money was lent,
therefore (1) by thus becoming nexus he must have been in mancipio long
before a default could occur, which is too strange to be believed, and
(2) being in mancipio he must have been capite deminutus*, which
Quintilian expressly states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly
then mancipium was under no cir- cumstances a factor in nexum.
Thus it would seem that the theory which regards nexum as a loan of
raw copper or other goods measurable by weight, is the one beset with
fewest difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in
the later law were called res fungibiles. 1 Varro, L. L. vii. 105
and see page 52. 8 nexum inire, Liu. vn. 19. 6. 3 Paul.
Diao. p. 70, *. u. deminutus. 4 Decl. 311. 30 CONTRACTS OF
THE REGAL PERIOD. The borrower was not required to return the
very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing.
And this explains why neanim, the first genuine contract of the Roman
Law, should have received such ample protection. A tool or a beast
of burden could be lent with but little risk, for either could be
easily identified ; but the loan of corn or of metal would have been
attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio
might no doubt have been used for making loans, but they both lacked .
the great advantage of accurate measurement, which neanim owed to
its public character. It was the presence of witnesses which raised
neanim from a formless loan into a contract of loan. This
general sketch of the original neanim is all that can be given with
certainty. The details of the picture cannot be filled in, unless we draw
upon our imagination. We do not know what verbal agreement passed between
the borrower and the lender, though it is fairly certain that
payment of interest on the loan might be made a part of the
contract. We cannot even be quite sure whether the scale-holder
(libripens) was an official, as some have suggested, or a mere assistant
1 . Our description of the contract may then be briefly
recapitulated as follows: The form consisted of the weighing out
and delivery to the borrower of goods measurable by weight, in the
presence of witnesses, (five in number, 1 See page 52.
EARLY FORM OF NEXVM. 31 probably since the time of Seruius
Tullius), whose attendance ensured the proper performance of the
ceremony. The ownership of the particular goods passed to the borrower,
who was merely bound to return an equal quantity of the same kind of
goods, but the terms of each contract were approximately fixed by a
verbal agreement uttered at the time. The sanction consisted of the
violent measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony pre-
cisely similar to that of the nexum itself, the amount of the loan being
weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses 1 .
Art. 4. We have now examined three methods by which a binding
promise could be made in the earliest period of the Roman Law. The next
question which confronts us is whether there existed at that time any
other method. The other forms of contract, besides those already
described, which are found existing at the period of the XII Tables,
were fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of
these have their origin before this time ? Fiducia is doubtful, and lex
mancipi, as we shall see, owed its existence to an important
provision 1 Gai. in. 174. \.t
32 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. of that code. As to the
origin of uadirnonium, we cannot be certain, but judging from a
passage in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion that
uadimonium also was a creation of the XII Tables. Gellius speaks of •'
uades et subuades et XX V asses et taliones...omnisque ilia XII
Tabhlarum antiquitas." We know that twenty-five asses was the
fine imposed by the XII Tables for cutting down another man's tree,
therefore it would seem from the context that uades had also been
introduced by that code. The point cannot be settled, but since the
XII Tables were at any rate the first enactments on the subject of which
anything is known, we may discuss uadimonium in treating of the next
period. The only contract of which the remote antiquity is beyond
dispute is the dotis dictio. Art. 5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8
informs us that in the earliest times a dowry was given with
daughters on their marriage, and that if the father could not afford this
expense his clients were bound to contribute. Hence it is clear not only
that dos existed from very early times, but that custom even in
remote antiquity had fenced it about with strict rules. From Ulpian 8 we
know that dos could be bestowed either by dotis dictio, dotis promissio,
or dotis datio. The promissio was a promise by stipu- lation, and the
datio was the transfer by mancipation or tradition of the property
constituting the dowry ; so that these two are easy to understand. But
dotis dictio is an obscure subject. It is difficult to know whence
it acquired its binding force as a contract, 1 xvi. 10. 8. 2 ii.
10. 8 Reg. vi. 1. THEORIES A8 TO D0TI8 DICTIO. 33
since in form it was unlike all other contracts with which we are
acquainted. Its antiquity is evidenced not only by this peculiarity of
form, but 9,lso by a passage in the Theodosian Code which speaks of
dotis dictio as conforming with the ancient law 1 . An illustration
occurs in Terence 2 , where the father says, "Dos, Pamphile, est
decern talenta" and Pamphilus, the future son-in-law, replies,
"Accipio"; but we need not conclude that the transaction was
always formal, for the above Code 8 , in permitting the use of any form,
seems rather to be restating the old law than making a new
enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4 and by Gaius 5 , was
that dotis dictio could be validly used only by the bride, by her father
or cognates on the fathers side, or by a debtor of the bride acting
with her authority. Dictio is a significant word, for Ulpian 6
distinguishes between dictum and promis- sum, the former, he says, being
a mere statement, the latter a binding promise. This distinction
should doubtless be applied in the present case, since dotis dictio
and dotis promissio were clearly different. The following theories seem
to be erroneous : (a) Von Meykow 7 holds that dictio was adopted as
a form of promise instead of sponsio for this family affair of dos, in
order not to hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by
appearing to question their bona fides. That theory would be a
plausible explanation, if dictio could ever have meant a 1 C.
Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4. 4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n.
9. 3. 6 21 Dig. 1. 19. 7 Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.
B. E. 3 34 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.
promise, but from what Ulpian says, this can hardly be
admitted. (6) Bechmann 1 , again, connects dotis dictio with
the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, he
thinks, was promised by a sponsio made at the betrothal, so that the
peculiar form known as dotis dictio was originally nothing more than
the specification of a dowry already promised. The dotis dictio
would therefore have been at first a mere pactum adiectum, which was made
actionable in later times, while still preserving its ancient form.
The objection to this theory is tKat it lacks evidence : indeed the only
passage (that of Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract was in no way connected
with the act of betrothal. (c) Another explanation is given by
Czylharz 2 , ie. that dotis dictio was a formal contract. His view
is based on the scholia attached to the passage of Terence, which say of
the bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non
esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an
inverted stipulation. The offer of a promise was made by the promisor,
and when accepted by the promisee became a contract. Though such a
process is quite in harmony with modern notions of Contract, it
would have been a complete anomaly at Rome. And we cannot believe that,
if acceptance by the promisee had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress 1 Rom. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. a
Z.f. R. G. vn. 243. THEORY OF DANZ. 35 upon us
that the dotis dictio could be made nulla interrogatione praecedente.
Thus the view of Czylharz besides being in itself improbable is
almost entirely unsupported by evidence. Even the scholiast on Terence
need not necessarily mean that " accipio " was an indispensable
part of the trans- action. He may merely have meant that the bride-
groom at this juncture could decline the proffered dos if he chose, and this
interpretation is borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give
formulae of dotis dictio without any words of acceptance. A
satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz 8 .
He looks upon dos as having been due from the father or male
ascendants of the bride as an officium pietatis 4 , and quotes passages
from the classical writers in which they speak of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the
obligation lay in this relationship to the bride, not in any binding
effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation
might be actionable its amount had to be fixed, and this was just
what the dictio accomplished. It was an acknowledgment of the debt which
custom had decreed that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos was precisely analogous to the debt
of service which a freedman owed as an offidum to his patron, and which
he acknowledged by the iurata operarumpromissio. The dos and the
operae were both officio, pietatis, but 1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig.
3. 59. 3 Rom. RO. I. 163. 4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2.
63 ; Oic. Quint. 31. 98. 3—2 36 CONTRACTS OF THE
REGAL PERIOD. it became customary to specify their nature and
their quantity. In the one case this was done by an oath, in the other by
a simple declaration, and in both cases the law gave an action to protect
these anomalous forms of agreement. What kind of action could be
brought on a dotis dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an
actio dictae dotis, for which he even gives the formula, but
formula and action are alike purely conjectural. We can only infer that
the dotis dictio was action- able since it constituted a valid contract.
How or when this came to pass we cannot tell. A further
advantage of Danz' theory, and one not mentioned by him, is that it
explains the capacity of the three classes of persons by whom alone
dotis dictio could be performed. (1) The father and male ascendants
of the bride were bound to provide a dos under penalty of ignominia 2 ;
(2) the bride, if sui iuris, was bound to contribute to the support of
her husband's household for exactly the same reason 3 ; and (3) a
debtor of the bride was bound to carry out her orders with respect to her
assets in his posses- sion, and supposing her whole fortune to have
con- sisted of a debt due to her, it is evident that a dotis dictio
by the debtor was the only way in which this fortune could be settled as
a dos at all. Thus the hypothesis that the dos was a debt morally
due from the father of the bride, or from the bride herself, whenever a
marriage took place, completely explains the curious limitation
with 1 XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23.
FORM OF D0TI8 DICTIO. 37 regard to the parties who
could perform dotis dictio. The nature of the transaction may then
be summarized as follows : Its form was an oral declaration
on the part of (1) the bride's father or male cognates, (2) of the
bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting forth the nature
and amount of the property which he or she meant to bestow as dowry, and
spoken in the presence of the bridegroom. Land as well as moveables
could be settled in this manner 1 . No particular formula was necessary.
The bridegroom might, if he liked, express himself satisfied with
the dos so specified ; but his acceptance does not seem to have
been an essential feature of the proceeding. Most probably he did not
have to speak at all. Its sanction does not appear, though we may
be sure that there was some action to compel perform- ance of the
promise. This action, whatever it may have been, could of course be
brought by the bride's husband against the maker of the dotis
dictio. Perhaps in the earliest times the sanction was a purely
religious one. Art. 6. Now that we have seen the various ways
in which a binding contract could be made in the earliest period of Roman
history, we may con- sider briefly the general characteristics of that
primi- tive contractual system. The first striking point is that
all the contracts hitherto mentioned are unilateral: the promisor alone
was bound, and he was not entitled, in virtue of the contract, to
any counterperformance on the part of the promisee. 1 Gai. Ep. 3.
9. 38 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD. The second
point is that the consent of the parties was not sufficient to bind them.
Over and above that consent the agreement between them was required
to bear the stamp of popular or divine approval. Even in dotis dictio, as
we have just seen, a simple declaration uttered by the promisor was
invested with the force of a contract merely because the substance of
that declaration was a transfer of property approved and required by
public opinion. Thirdly we notice that the intention of the con-
tracting parties was verbally expressed, but that the language employed
was not originally of any impor- tance (except in the one case of
sponsio), provided the intention was clearly conveyed. We must
therefore modify the statement so commonly made that the earliest
known contracts were couched in a particular form of words. For how did
each of these particular forms originate and acquire the shape in which
we afterwards find it ? By having long been used to express agreements
which were binding though their language was informal, and by having
thus gradually obtained a technical significance. Conse- quently
the formal stage was not the earliest stage of Contract. The most primitive
contract of all was not an agreement clothed with a form, but an
agree- ment clothed with the approval of Church or State.Nicola
Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di
contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto,
concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali
nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del
sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi
religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la
presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e
consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita
arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e
invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A
esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e
all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688585512/in/photolist-2mKxvEQ-2mKF3Qt
Grie e Colazza – dell’iniziazione –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Having gone to
Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites
of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta
borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore
dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club
antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza apprese
l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale,
coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente». Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La
magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di
Ur. A strong anthroposophical
influence came from Giovanni Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close
to the group, which adopted the name UR, were Guiliano Kremmerz (1861-1939 ),
founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in
casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI
DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E
CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in
francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente
come guida. L’uomo così come nella vita
quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più
o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per
ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso
del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’,
distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere
che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere
il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre
donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma
ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo
accogliere e applicare a noi stessi. Si
dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non
bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione
interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo
per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è
assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è
vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci
riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello
spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre
anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica
come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi
quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia
e riconoscenza per la gerarchia. Tale
stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri
e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.
Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro
non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il
biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime
come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è
pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto
il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi
alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più
elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più
intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi:
rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa
ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate
percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una
pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne
una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara
immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando
ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza
non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla
in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare
è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la
differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale
o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il
rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa
manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in
noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione
animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un
particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare
immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle
qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare
come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo
spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo
spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare
sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità
per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso
il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli
esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento
di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita
ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un
qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita
in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice, fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è
importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la
potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite
nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento
invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale
trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci
si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero
processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è
diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà
di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore
lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che
edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo
sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo
seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della
vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite
i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza
distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi
l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce,
disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma
non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo
trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in
oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che
voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa
prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il
fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in
modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo
abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi
esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto
immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in
cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un
individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel
sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI
DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una
maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si
aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali
pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il
fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe
priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A
seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un
nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il
proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il
tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono
venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima,
il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è
sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere
qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere
la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella
testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro
noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello,
mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la
memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente
dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e
l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di
senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è
un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando
le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle
ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è
un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere
vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto
per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda
all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione
dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla
memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra
facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su
ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il
cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e
conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo
sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si
risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una
grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza
esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo
spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare
insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la
responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo
uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie
misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla
nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di
contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina.
La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo
spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare
nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le
potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter
essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo
consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente
attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di
muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi
aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza
interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a
connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio
dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti
con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera
invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se
si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà
agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE
ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre
chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da
purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute
del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del
discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o
di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con
chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a
tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire.
È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto
della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di
separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente
ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire
un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli
altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti
hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del
pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche
operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante
ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo
nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi
dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il
corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un
arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il
rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è
mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o
fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o
di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e
allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e
che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri
fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare
l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la
vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti
condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo
che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra
descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per
porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa
perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o
ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre
pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie
terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti
orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico
stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da
innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale.
Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo
fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale
si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene
grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a
due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che
appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni
di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”,
sul capo. In un lontano passato, i fiori
di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente
solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano,
cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici
(cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta
sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della
preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta
principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso
delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale
centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri
Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto,
ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più
fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare
l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un
discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento; ogni gesto e atto deve essere sempre in piena
coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare
concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la
giustezza delle proprie aspirazioni; imparare
ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle “forme”. Come gli
altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni
da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad
ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema
o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente,
distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di
persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non
intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri
deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé.
Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo
dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai
movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire
determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro
pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità,
compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi,
gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare
la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla
comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di
criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere
utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi
che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza;
non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non
rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e
conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli
esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali
reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente
difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon
esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante
ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro
pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI
(Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le
potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è
di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la
notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno
senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata
dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa
pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E
L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in
modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve
distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui. Il fatto di poter dominare le reazioni e i
sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché
le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si
deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al
discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo
spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà
prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di
moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma
per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori,
con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in
tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui
stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato
pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano
della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi
direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo
eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si
avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente
visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano
diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era
intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro
essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti
interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si
presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima
esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al
cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi
raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità
nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie
limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo
essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato,
tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo
che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto
specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la
prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura
interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo
all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il
nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le
cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare
in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la
responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi.
Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del
proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza
si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò,
quali discepoli, superare il sentimento della paura. Il coraggio di affrontare il guardiano è
contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé
stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di
essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel
quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento
delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti
ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto
modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la
direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle
potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo.
Breno. Kur. “ Giardino di Maturità , chiamano
certi antichi saggi il luogo, in cui pone piede l'uomo allorchè gli
divengon palesi gli ar- ‘ cani del mondo. Secondo quei saggi in
quel giardino non ci sarebbe fiore, che non re- casse il suo
frutto, non uovo, che non por- tasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso descritte
le vie che menano alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu-
de quel giardino. Si assicura, però, che quel- l'oscurità diviene più
chiara del sole e che quei pericoli non hanno potere contro le
forze di cui ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate
con provvida mano da un “ mistico ,, da un “ /niziato ,.
Tutto ciò come puerile concezione di un' e- poca, in cui nulla si
sapeva delle scienze dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu-
minato, che crede di saper distinguere fra i vaneggiamenti di una
fantasia brancolante e le ponderate vedute d'un intelletto “
scier- “i So ca | oggi tificamente
disciplinato ,. E chi, ciò nono- stante, parla oggi di coteste
concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei È ,
suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo, per lo meno di
compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono I
alcuni che, come quegli antichi saggi, par- MAS lano del « rondo
dell'anima , e della “ pa- “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono
riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo
immagi- fa nario, figurato loro soltanto dalla propria | »
Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo
che ha raggiunto i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i,
now austera logica, vadano brancolando come eb- branco ‘@& bri, cui
ad ogni momento viene meno la li sicurezza, perchè non si attengono a
ciò È che esiste “ positivamente ,,. Ora, che cosa dicono
questi edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f
arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di
sè, allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti
: È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che dovete essere i
nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone da bene,
che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del Buono; ma
sappiamo altresì che Bee a), jr er
=> voi non ci potete capire, fin tanto che pen- sate come
appunto pensate. Sulle cose, delle quali noi abbiamo da ragionare,
potremo di- iscorrere con voî, soltanto quando vi sarete presi voi
stessi la pena di apprendere il lin- guaggio nostro. Dopo questa nostra
dichia- razione molti di voi, certo, non vorranno più oltre
occuparsi di noi, perchè crederanno di aver riconosciuto che al
farneticamento della nostra fantasia si accoppia in noi an- che un
immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi anche in siffatta
affer- mazione e sappiamo al tempo stesso che dobbiamo essere non
già superbi, ma mo- desti. Per incitarvi a tentare di entrare nel
nostro ordine di idee non ci resta che una cosa da dire: Credeteci, noi
non ricono- sciamo un vero diritto di parlare delle no- stre
conoscenze se non a colui, il quale sia capace di sentire con voi ciò che
vi co- stringe alle vostre asserzioni, e che cono- sca a fondo la
forza, la potenza convincente e la portata della vostra scienza. Colui
che non reca in sè la sicura consapevolezza di poter pensare
ponderatamente, scientifica mente, come l’ astronomo o il botanico
0 lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di vita
spirituale, di conoscenze mistiche do- 9 e
— = e Re vrebbe contentarsi di
apprendere, e non già volere insegnare. Ma non ci si frain-
‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti, non di studiosi,
Studioso di misticismo può : divenire chiunque, giacchè nell’
anima di ogni persona si trovano le facoltà, i poteri
presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi- stico dovrebbe parlare in
modo compren- sibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai quali,
secondo il grado del loro intendimento, egli non potrebbe dire un
centesimo della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro oggi
riconoscono questa millesima parte ; domani riconosceranno la centesima.
Tutti possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,, non dovrebbe
voler diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi alla
disciplina del più austero intelletto e della scienza' più severa.
Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedente- mente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò
che cosa viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qua- lunque
momento il solenne paludamento del mistico per indossare la modesta
tunica del fisico, del chimico, del botanico “e dello zoologo
», sitori ;' con la massima modestia li
assicura ‘che intende il loro linguaggio e che non si arrogherebbe
il diritto di essere un mistico, se si sapesse ignaro del loro
linguaggio. Al- lora, però, egli può anche aggiungere di sa- f
|pere, e di saperlo come si sanno i fatti della Ù vita esteriore, che,
qualora i suoi Opposi- ® \tori imparassero il suo linguaggio,
cessereb- bero di essere suoi oppositori. Egli sa que- sto
come chiunque, il quale abbia studiato chimica, sa che, date certe
condizioni, dal- l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua. Che
Platone non volesse ammettere ai gradi superiori della sapienza nessuno
che > mon conoscesse la geometria, non significa «già che
egli facesse suoi alunni soltanto i li Y
T Così parla il vero mistico ai suoi oppo- A 9 U
L _ dotti in geometria, ma significa che quei suoi
alunni dovevano essersi educati alla se- vera, rigida, ed esatta
investigazione, prima che venissero loro schiusi gli arcani della
vita spirituale. Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se
‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'ele-
| mento di fatto, a cui si saggia e corregge ad ogni piè
sospinto l' investigazione ordi- naria del mondo. Se il botanico si
forma “concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu-
n conci Da (UR IZA — 20 —
minano circa il suo errore. Tra lui e il mi- stico corre il
rapporto stesso che intercede fra chi cammina su strada piana e chi
ascende una montagna: il primo può cadere a terra, ma solo in casi
eccezionali potrà causarsi la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo
sta sempre dinanzi, E certamente nessuno che non abbia imparato a
camminare può ascendere una montagna. Poichè ; fatti spi- rituali
non correggono i concetti allo stesso modo che li correggono i fatti del
mondo esteriore, un pensare rigorosissimo e degno della massima
attendibilità è un ovvio pre- supposto per l'investigatore mistico.
Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti, si riconosce che cosa
intendevano dire que- gli antichi saggi, allorchè parlavano dei pe-
ricoli che minacciano chi voglia penetrare negli arcani del mondo. Se
alcuno si ap- pressa a questi arcani con mente indiscipli- nata,
essi determinano nella sua anima de- plorevoli disordini. Divengono
pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di un fanciullo.
Perciò da ogni investigatore mi- stico si esige rigorosamente che la
norma- lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica,
abbia saggiato le proprie forze SE E
attorno a problemi gravi e spinosi, prima che egli si appressi ai
compiti più elevati. Valga ciò come accenno a quel che il mi- stico
intenda dire, quando parla dei primi gradi della Iniziazione nelle verità
superiori. Pn _* * * Moltissimi, i quali
reputano di starsi SUI Mrfica | più alti gradi della cultura
moderna, stimano che sano pensare e misticismo siano due termini
incolta sano che una illuminata educazione scienti- fica
debba estirpare dall'individuo qualunque | tendenza mistica. E costoro
trovano in par- b
cora di tali tendenze chi conosca gli impor» tantissimi risultati
della moderna scienza na- | turale. Se avesse ragione chi la pensa
così, | si dovrebbe allora, certo, concedere che la Mistica non
abbia nel nostro tempo se non | piccola probabilità di trovare accesso
alle anime dei nostri contemporanei; giacchè nes- «suno, il quale
abbia intendimento dei biso- gni spirituali di questa nostra età, può
du- bitare che siano pienamente giustificati i trionfi della
scienza naturale già conseguiti. e ancora da conseguire in avvenire.
Biso- vi MER Na bilmefite antitetici. Essi pen-
K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli
so Naturalistici itreprimibili
do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti insoddisfatti <j
O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le” oro anime han
Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha
bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si In contatto
con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo
| eve incessanternente ce vino! D’ rcare: l’ali
Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito diate a
monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja cie rale, un pen
| non vj chiappanuvole vai monito, l’anima loro
sj inaridisce, econdita , . tò, in fondo all’ an ogni
individuo Verità, e i che grande maestra dell’uomo è la
] mande
AIR Chi potrebbe non dare, per intimo
consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che dagli errori e dalle
disarmonie degli uomini egli si ritira sempre con rinnovato contento,
ri- volgendosi alle eterne necessità della natu- ra? E chi potrebbe
leggere senza incondi- zionato consenso quelle parole, con le quali
il grande poeta descrive i sentimenti che lo assalirono in
una solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le quali la natura
forma le montagne ? “ Seduto su di un’ alta e nuda
vetta, e spaziando con l'occhio su di una vasta sot- tostante
regione, io posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente su di un suolo,
che ‘arriva fin giù ai più profondi strati della
terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di attrazione e di
movimento della terra quasi direttamente agiscono su di me,
in | cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli
influssi del cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi
più alti sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa
cima nuda volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia
schiu- dere l'anima propria unicamente ai più pri- mordiali, più
antichi e più profondi senti- — menti del vero. Sì, egli può dire
a se stesso: SONG). pe Qui,
sull'antichissimo ed eterno altare, im- mediatamente eretto sul punto più
basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere di tutti gli
esseri. » E' pur naturale che questa disposizione d'animo,
per cui si resta reverenti dinanzi alla grande istruttrice Natura, si
trasferisca sulla scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere
antinomia fra i senti- menti che pervadono l'anima, quando essa si
approssima alle “ austere e profondissime verità primordiali , circa la
vita spirituale, e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa
sull'attività costruttrice della natura. Manca forse intelletto al
mistico per co- testa armonia della natura coi sentimenti più sacri
all'anima umana? Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale
il vero mi- stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può
spingersi l'indagine umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante,
come legge. suprema: “ Natura è la grande guida al divino, e la
conscia ricerca umana delle fonti del Vero deve seguire le orme
della sua recondita, volontà |. Se i Mistici seguono questa
loro norma suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi- stere fra le
vie loro e quelle su cui cammi- — 9 I
nano gli investigatori della Natura. E tanto meno tale
antitesi dovrebbe determinarsi in un'epoca, che tanto deve alla
scienza na- turale. Per intendere bene quest’ ordine di
de occorre domandarci: “ In che, dune ue consistere l’ accordo fra
la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,
| aversi un'antitesi? ,, Ebbene, l'accordo non può venir
cercato | se non nel fatto che le rappresentazioni che ci facciamo
intorno alla entità dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo
in- | torno agli altri esseri della natura; nel rav- | visare,
quindi, nel ’opera della natura e nella — vita dell'uomo uno stesso e
unico tipo di “ ordine retto da leggi ,. L Un'antitesi, invece, si
avrebbe, se si vo- lesse vedere nell’uomo un essere di specie
"completamente diversa dalle creature natu- rali. Coloro che
vogliono un' antitesi in tal senso si sbigottirono fortemente quando,
più di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley, informandosi allo
spirito stesso della scienza — naturale moderna, sulla base della
somi- pigliante struttura anatomica, concluse la stretta parentela
fra l’uomo e gli animali supe- ori con queste parole: “ Possiamo
pren- sli
10h =S dere in esame un sistema di organi
qual- siasi; l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie
ci conduce sempre a questo me- È desimo risultato: che le diversità
anatomi- che, per le quali l’uomo è distinto dal go- rilla e dallo
scimpanzè, non sono tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla
dalle altre scimie inferiori ,,. Una. tale asserzione può,
però, sbigottire solamente quando la si riferisca in modo errato
all’ essezza dell'uomo. Certo ne può. facilmente rampollare il pensiero:
“ Ma come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Que- sta stretta
affinità non suscita però nel mi- stico nessuna preoccupazione , giacchè
per lui ne balza subito anche l' altro pensiero: | “A quali fini
superiori, però, possono ser- \vire gli organi che ritrovansi nelle
bestie, — allorchè sono trasformati in organi umani! » Il mistico
sa che l'occulta volontà della na- tura muta la percezione animale in
perce- zione umana cofì lo sviluppare in altra forma gli-organi
animali. Egli segue le sicure orme della natura e ne continua l'operato.
Per lui i l'opera della natura non è punto terminata con ciò che
essa gli ha donato. Egli diviene un fido discepolo della natura per il
fatto appunto di portarne l’opera a maggiore al- 1
toi tezza. La natura lo ha portato fino al
pen- sare e al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare
e questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende
capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò,
che nell'ambiente na- turale esteriore avviene indipendentemente da
essa. Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi
sono capaci di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©» nelle
scimie. Così l’ occhio può venir tra- stormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo svi- luppo
delle sue facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In
questo “ altro mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re »Yiene
Mistico rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha
prodotto senza di lui con la propria volontà occulta. Per-
di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY
CELL. PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest
NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni collo i fiat 1a
CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con la
natura, «giacchè questa trasmuta continuamente le
proprie forme: dal vecchio essa crea eterna- mente il nuovo.
Ora, chi, conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a
que- sta trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e,
ciò nonostante, non vuole trasmutare se esso , costui riconosce,
sì, la natura, ma A; nella sua propria vita si pone in
contradi- &l-zione con essa. Non si deve soltanto rice-
> noscere l'evoluzione, si seno ivato Non si limitino,
dunque, le facoltà della nostra vita ;, col tener conto esclusivamente
della nostra ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu-
cazione mistica diviene un fido alunno della natura, si
schiude il senso per la superiore evoluzione. A proposito di
questi cenni sulla Mistica e sulla /riziazione molti diranno: « Ma
che ci giova questo discorrere di facoltà a noi
sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre- deremo ! ,.
Nessuno, però, può dare a un altro cosa che questi rifiuti. E il
più delle volte ciò che incontrano i nostri mistici è .
un brusco rifiuto. Al presente essi non pos- sono fare. molto .di
più che raccontare le loro cognizioni mistiche a quelli che
vo- gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente
n nt x IE RAIPAT cn potima tl — 29 C j Pa
ENTI OT le ero Art 1 er? che, I, , a . = ì” \ wr / a)
i e. e 7 pederntdt hern ci tCAns4- 1 È à a tutta
prima un volersela cavare col RE ce raccontare che cosa c'è in
America a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,. Ma pare, non
è realmente una scappatoja, perchè i processi dello spirito sono
diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado
di fissare la verità im piena luce, egli ha la possibilità di
intrave- derla, e di accoglierla nel suo sentimento. E questo
sentimento stesso è una forza, che lo può condurre più avanti. E' questa
una fase per cui è necessario passare Chi segue con ricettivo
abbandono la narrazione del Mistico, già calca il sentiero che mena
alle verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende
completamente l’Iniziato: ma angie per vero rende anche il non iniZiato
ricettivo alle parole del Mistico. E questa sua ricet- tività è
strumento con. cui egli lavora a schiu- dere i propri organi mistici. Ciò
che prima-, mente occorre è che si abbia questo senso | della
possibilità di conoscenze superiori: al- | lorà not si passa più
incurantemente ac- canto alle persone che di queste conoscenze
superiori tengono parola. E' stato già detto che anche al
presente ci sono persone che si adoperano a rinno- vare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt
u pe ud) fasi cl fa ine piftae 1 Om?
eudere } fnmmale tri rautwews i E Qui vi
voglio intrattenere di due esempi di tal genere, cioè del libro “ //
Cristiane- simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di Annie
Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati » el geniale pensatore e
poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste opere gettano
luce sulla natura della così detta Iniziazione. Annie Besant, mostra come
il Cristianesimo debba venire compreso quale risultato di codesta
Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg- gia le figure dei massimi duci
spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione che le
grandi confessioni religiose e le grandi filosofie cosmologiche da quei
duci dispen- sate all'umanità, celano verità eferne, che si
possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche e
religiose. Ambedue queste opere trovano la propria
giustificazione unicamente nel campo del Mi- sticismo. Esse traggono la
loro origine da quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è
destinata ad elevare l'umanità da un incivilimento puramente esteriore
all'altezza (1) Traduzione Italiana di D. e O.
Calvari, Roma, 1904, (2) Traduzione Italiana edita da G.
Laterza, Bari, 1907. suh Tor ella Vea dii Conti
| RA fOdeth4, nu pori? IU) di vedute
spirituali. Verrà tempo, in cui il “ pensiero scientifico ,, non potrà
più con- trapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza
naturale riconoscerà allora che non _ si comprendé lo spirito col.negarlo
, e che | non si contr lle leogi naturali col_cer- re Treo © x iii
dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici come
oscurantisti , giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
con- sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo
esteriore, bensì na osservanza di un determinato orientamento della..vita
si- È ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe
verità, le quali non con- templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A
cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s
sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO
CA \periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò
nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I
ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P even
ord
LISI (NE presumere di dire che “ nel suo mondo vi i è
qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se un uonio ha tanta
presunzione, assomi- i glia al verme che ritiene_come orizzonte i |
della esistenza il mondo dei suoi sensi. li —_ * Giardino di
maturità » Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi gli arcani
del mondo. Per accedere a tal luogo bisogna tI che l’individuo
stesso. tenda la sua volontà AU x al raggiungimento della propria
maturità. Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da te
È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli |
see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi en- n trare per
la “ Porta stretta » Nel “ Giardino È di maturità ,. TAR Come molti
uomini insigni, anche il p Goethe espresse numerose verità dalla
pro- fonda vena del suo intuito , enunciandole non già in diffusi e
circostanziati discorsi, bensì in brevi e spesso enigmatici
accenni. sr Uno di tali accenni è in questo periodo: dg “ Nelle
opere dell’ uomo, come in quelle n e della Natura, sono le intenzioni,
che meri- / tano specialmente la nostra attenzione ,,.
E' questo un aforisma che verrà com- preso in tutta Ia sua
profondità quando lo Î si applichi ai più importanti fenomeni della
vita spirituale umana. Giacchè, come pos= Î
sigg siamo acquistarci senso e comprensione per le
azioni di un singolo individuo soltanto quando ne veniamo a conoscere
le_inten- zioni, così ci accade anche per la storia del- l'intiero
genere umano. Ma che abisso in- tercede fra l' osservazione degli atti
che si svolgono palesemente alla luce del giorno, e il
riconoscimento delle intenzioni che giac- ciono nelle regioni occulte
dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito
e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di
osser- varne le azioni; ma bisognerà avere almeno un po'
delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole
penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !
agire rimane un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la
chiave, Non accade diversamente con i grandi fatti della storia
spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli
occhi dello storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto
recondite. In queste profondità deve pene- frare colui, che vuol
procurarsi la chiave per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di
un’a- zione giacerà tanto più profondamente re- condita, quanto più
questa azione avrà im- portanza e quanto più ampia sarà la sua
8 n ce RR portata. L'intenzione di un
atto della vita quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può
essere così, naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie
di secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e
posseno con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso
che le rende realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli
/niziati. Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una
mèra successione di casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e
degli Iniziati. In tal caso non c'è che da attendere che un uomo siffatto
si ponga un bel giorno a studiare con occhio amorevole i fatti
della storia. Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un
significato, un nesso, ed egli finirà per non più conside- rare
Tortuiti quei fatti storici, come non con- sidera automa un individuo che
veda muo- versi ed agire. Giungerà così nella sua in- vestigazione
là, donde gli Iniziati dirigono il progresso umano, secondo le
conoscenze the sono avvolte nell'ombra dei Misteri.
AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £ > it hu
v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri
parlano i testi religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono
condotti coloro, che non si fermano alla vita estrin- seca dei
fondatori delle varie religioni , nè alle vicende storiche del
propagamento delle loro dottrine; ma che, invece, cercano di
elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di | religioni. Non dovrebbe
eccitare stupore il fatto che queste intenzioni rimangano av- volte
in arcana oscurità e vengano comu- nicate soltanto a degli eletti entro
le scuole di sapienza, che sono appunto i Misteri; giacchè si fa
opera saggia solo quando a un individuo si comunica ciò che egli
può capire, o, con altre parole, quando gli si comunica qualcosa,
soltanto quando egli si sia messo in condizione di capirla. Per
com- piere azioni che abbiano peso e valore oc- |_——corre possedere
un’alta sapienza, e per ap- propriarsi un'alta sapienza bisogna
passare per un periodo lungo e arduo di prepara- zione. Così
avviene nei Misteri. L’ evoluzione spirituale dell'umanità
pro- cede innanzi per opera delle varie religioni e cosmologie. Chi
coopera a questa evolu- zione mette in movimento le forze spirituali
degli uomini. Bisogna che egli conosca le leggi da cui dipende questo
movimento, DE: pri come deve
conoscere le leggi della chimica chi vuol mescolare le sostanze con
effettuale risultato. Néi Misteri vengono insegnate le . leggi
supreme della vita spirituale; viene in- _ segnata la chimica
dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere , o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro
che cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi-
rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/ Cristianesimo
esoterico, (0 I Misteri mino- ré) », di un “ lato occulto delle
religioni , (1). A lea Nell’analisi dei mistici arcani del
Cristiane- 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico,
ne. essa luminosamente si addentra e trascina. d il lettore
nell'intimo della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a
questo pro- | Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven-
gono date al mondo da uomini più saggi delle masse etniche ,
alle quali le religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo
(1) Vedi pure «Il Cristianesimo come fattore mi-, —
stico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7 porad,
Firenze). Lolo scrullo du fevomeri sia Pe i Dul
th h Ha DI ire _ eSleeml J > Uibftsore » Sé
Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino
agli individui e avere in- fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono
î tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione
potrebbe venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su
ognuno asLelo api dei quali si trovano
uomini. I massimamente evoluti stanno di un gran tratto più su dei
meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A rattere; ad ogni grado
varia la capacità di 4 .. comprendere egualmente che quella di agire.
} E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE _ segnamento
religioso; quel che gioverebbe all'uomo d'intelletto resterebbe
inintelligibil all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e in
estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì ferente il
delinquente................ 2 LE La religione deve essere graduata con
l’e- = voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB: Es.
Chr. pag. 3-4): ; Il modo, dunque, in cui il maestro di re- :
ligione parla a uomini di grado evolutivo i - . diverso, dipende dai
bisogni dello spirito e (1 . del cuore di coloro, ai quali egli vuol
giun- N | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso | porti
nell'anima propria il nocciolo della sa- "i | pienza, per mezzo
della quale egli ha da START. agire; e
il modo come egli porta in sè que- sto nocciolo deve essere tale da
renderlo capace di parlare ad ognuno secondo la sua comprensione.
Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori religiosi dal loro lato
este- riore, conosce soltanto un lato e precisa- mente quello più
estrinseco della loro sa- pienza. Acutamente accenna a questi fatti
Edoardo Schuré nel suo libro sui “ Grandi Iniziati ,. Ivi egli descrive i
grandi Maestri di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo ,
Pitagora, Platone, Gesù, da quello investigatore intuitivo, da quel
nobile artista dei pensiero, da quell'anima satura di pro- fondo
sentimento religioso ch’ egli è. Così nell'introduzione al libro egli
espone il suo. modo di vedere : “ Tutte le grandi religioni
hanno una sto- ria esteriore ed una interiore; l'una visibile,
l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da intendersi i dogmi &
i miti pubblicamente © insegnati nei fémpli e nelle” scuole,
ricono- sciuti nei culti e nelle superstizioni popolari. Per
istoria interiore è da intendersi la scienza profonda, la dottrina
segreta, l’occulto agire dei grandi Iniziati, profeti o riformatori
che hanno istituite, sorrette e propagate le reli- gioni predette.
La prima la storia ufficiale, |
- quella
che si legge dovunque, si svolge alla vista di tutti, ma non per questo è
meno oscura, complicata, contradittoria. — La se- ‘conda, che io
chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei misteri, è
difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa,
organica, sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata
la storia della religione eterna e universale. In essa le cose
mostrano il loro rovescio e la co- scienza umana il suo diritto, mentre
la sto- ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa
seconda storia cogliamo il punto ge-__ N netico della religione e della
filosofia , che _ 3) si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse
9/8, per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T} unto è
costituito dalle verità trascendenti. N vi troviamo la causa, l'origine e
il fine del tene prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della
RES 1; RARO provvidenza mediante i
suoi agenti terre- stri. ,, Questi “ messaggeri terreni ,
lavorano nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spi-
ritualistico della umanità. Ciò che li abilita a questo lavoro sono le
leggi imperiture della chimica spirituale ed i processi chimici
spi- rituali che esse operano: vale a dire i grandi prodotti
intellettuali e morali della storia del mondo. Ma ciò che fluisce dalle
loro labbra è soltanto simbolo, immagine della sapienza superiore
dimorante nella profondità delle loro anime, immagini e simboli
proporzio- nati all'intendimento di coloro, che ad essi porgono
orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle condizioni, che
garantiscono la comprensione e il “ reffo uso » della sa- pienza
superiore, questa può venire dischiusa. E allora. nella Iniziazione
mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali motivi
spirituali, con le potenze genitrici della esi- stenza.
Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com- penetrato di siffatti
sentimenti: Clemente Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e
3° secolo della nostra èra , il quale prima del suo battesimo fu un “
Misto ,, ossia A EE un
alunno dei Misteri, esalta questi con le seguenti parole : “O
veramente santi Misteri! O puris- sima luce! Una face viene portata
dinnanzi a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono
santificato, allorchè ricevo la consacra- zione. Gli arcani però .me li
rivela lo spi- rito primordiale e suggella in me l’Iniziato con
l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io
vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce- rimonie
iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu pure, e con
le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa carola
attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno spirito dei mondi, e
la favella che a te dal Cosmo viene inspirata intonerà gl'inni di
lode a questo Tutt'Uno ,.. . Si comprende la descrizione che fa
Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini- ziati devono
parlare di sè come lo fa Cle- mente Alessandrino con le parole
suriferite: “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA
siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e i posteriori pseudomisteri
di Eleusi in Gre- cia, i Misteri di Samotracia, della Scizia, della
Caldea, sono universalmente noti, al- meno di nome, come le parole d'uso
fami- liare. Persino nella forma estremamente at- tenuata dei
Misteri eleusini il loro valore viene altamente magnificato dai più
eminenti uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate,
Platone e Plutarco ,,. (1). E nei Misteri non si mira soltanto all’
ampliamento del sapere, alla sola spiegazione di cose ignorate, ma
alla elevazione di tutta la na- tura umana, di modo ch’ essa si
compene- tri di quella “sacra disposizione iniziatica, che pone in
grado di comprendere le fonti e principi del Cosmo. Il mistico non
solo conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la sua propria
natura si fonde con esse. Egli deve quindi essere preparato al fine di
po- tere accogliere come si deve le fonti di ogni vita che in lui
affluiscono. Appunto nel no- stro tempo, in cui si vuol riconoscere
come attendibile soltanto ciò che è scientifico in senso materiale,
diviene difficile il credere che, circa le cose supreme, quello, che
im- (1) V. Esot. Chr. pag. 21,
a porta veramente è una disposizione d° a-
nimo. Per tal modo si fa della cognizione un fatto intimo dell'anima
umana: e tale essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno la
soluzione di tutti gli enigmi del mondo: Il Mistico troverà sempre che
una siffatta esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'o- recchio
e svanisce, se |’ anima non. è stata prima preparata _ed innalzata ad un
livello superiore ; egli troverà che il sentimento non ne resta
affatto toccato, se non è staîc di- sposto a sentire l'accoglimenio della
sapienza come un “ Sacramento ,. Solo chi intende ciò conosce |’
atmosfera spirituale dal’ alto della quale discendono certe espressioni
del Mistico, come quelle di Filone: « Sovente, allorchè mi_riscuoto
dal sopore della corpo-4% reità_e rientro in me, distogliendomi dal
mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, . scorgo una mirabile
bellezza ; allora io sono certo di essermi internato nella parte
mi- gliore di me; metto in attività la vita vera, sono unito col
divino e in lui fondato, e conseguo la forza di trasferirmi nel
mondo trascendentale. Quando, poi, da codesta con- templazione
dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’ elemento spirituale del
mondo, discendo nuovamente alla consueta forma-
3011. VEDE zione di pensieri, allora mi domando
come potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse nel vivere
quotidiano, posto che la sua pa- tria è pur quella dove testè mi sono
sof- fermato ! “ — Chi sa quale grado di puri- ficazione del
sentimento e della funzione intellettiva sia necessario per arrivare a
sen- tire così conosce anche le ragioni per cui la sapienza mistica,
la sapienza consacrata non può essere oggetto della vita consueta
quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario, nè dei documenti della
storia esteriore; e perchè essa stia chiusa nell'anima dei di- vini
messaggeri e debba costituire, come dice E. Schurè, il riservato oggetto della
iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quan- tunque questa immediata
comprensione della verità rimanga un fatto d’ insegnamento del
tutto intimo, pure tutti gli uomini parteci- pano dei benefici della
sapienza. Come i benefici delle ferrovie elettriche ricadono su
tutta la popolazione, pur restando monopolio degli elettrotecnici
la conoscenza delle. leggi Pe così avviene, quanto ai frutti, ella
efficacia e della sapienza dei Misteri, E come il beneficio delle
cognizioni tecni- che si traduce nelle istituzioni esteriori
della civiltà. così quello della sapienza dei Mi-
‘ stici si esprime e distribuisce nel contenuto spirituale
della vita dell'umanità: cioè nei suoi miti, nei concetti informatori
delle sue credenze e delle sue religioni, nel suo mondo di leggende
e di fiabe, non solo, ma altresì nelle sue idee di morale e di diritto, e
da ultimo anche nella sua attività artistica, nelle sue scienze e
nelle sue filosofie. Il Mistico mostra «che la sapienza più profonda della
umanità è la radice di tutti questi vari con- tenuti della vita,
rendendosi ben conto che essi tutti possono trovare la loro vera
spie- gazione soltanto in quella sapienza. Clemente
Alessandrino parla del fatto che “ un uomo può avere la fede seriza
posse- dere eru Izione ,, ma al tempo stesso pro- clama essere
impossibile che un uomo senza sapienza comprenda gli oggetti che
vengono spiegati nella fede , (v. Besant, Esot. christ. pag.
84). Ogni Mistico conosce questo vero rap- porto fra Fede re
e sa che tra i due non può esistere contraddizione j ma anche alla
Mistica egli può fare riconoscere valore unicamente sulla base della vera
scien- za. Anche di ciò parla Clemente: ... Alcuni che si
ritengono favoriti da na- tura, non desiderano di occuparsi nè di
fi- GE E Je ep 46
losofia, nè di logica; anzi essi non deside- rano di studiare e imparare
la scienza na- turale; essi_ richiedono nuda fede soltanto... Io,
pertanto, chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per
la verità, così che traendo dalla geometria e dalla mu- sica, dalla
grammatica o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da
ogni as- salto..... Quanto è necessario per chi desidera par-
tecipare dei poteri di Dio il trattare filoso- ficamente soggetti
intellettuali !.... ... Lo gnostico (Mistico) si vale del
rami dello scibile vene di esercizi ausiliari vre- parativi.
(A. B. Es. Chr. Pag. 84). Chi ha colto questo profondo accordo
della Fede col Sapere si trova costretto a rile- vare sempre di
nuovo una caratteristica pe- culiarità della nostra civiltà moderna, la
quale ha invece scavato un abisso tra Fede e Scienza.
E. Schurè accenna a questo abisso fin dai periodi introduttivi del
suo libro : “Il peggior male del nostro tempo è il mostrarsi
la Scienza e la Religione come due forze nemiche e irreducibili.
Infermità intellettuale questa tanto più perniciosa in quanto che
deriva dall'alto e furtivamente LT
s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le mem- bra,
come un veleno sottile che si respiri nell’ aria. Orbene ogni infermità
dell’ iritel- ligenza diviene a lungo andare infermità dell'anima e
in conseguenza un male so- ciale. “« Fintanto che il
Cristianesimo non fece che affermare ingenuamente la fede cristiana
in seno a una Europa ancor semibarbara, come era nel medio evo,
esso fu la più grande delle forze morali, e ha plasmato l’anima
dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza sperimentale , apertamente
ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che rivendicare i legit-
timi diritti della ragione e l’ illimitata sua libertà, essa fu la più
grande tra le forze intellettuali; essa ha cambiato faccia al mon-
do, liberato l’uomo da secolari catene, e fornito la mente umana di
fondamenta in- crollabili ,,. Non meno energicamente Annie
Besant accenna a questa peculiarità della civiltà spirituale
moderna : “ ... Per ognuno che studi l’ultimo imme- diato
quarantennio del secolo passato è chiaro che persone meditative e morali
sono in gran numero esulate dalle chiesé perchè gl’ inse- gnamenti
che vi ricevevano urtavano, offen- RIN.
PSE devano la loro intelligenza e il loro senso
morale. E' vano pretendere che l’agnosticismo così ue.
largamente diffuso in questi tempi abbia ra- : dice solo nella mancanza
di moralità o in È; una deliberata involuzione della mente. Chiun-
A que attentamente studi gli esposti fenomeni, ammetterà che uomini di
forte intelletto sono stati allontanati dal seno del Cristianesimo
per via della rude goffaggine delle idee re- ligiose loro presentate,
delle contradizioni negli insegnamenti delle varie autorità, nelle
vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee n che nessun intelletto colto
e metodicamente ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare ». a
(A. B. Cris, esot. pag. 32-38). Alla domanda: “ Che cosa è da farsi
in questa direzione ? , Annie Besant risponde inspirandosi alla
veduta che anche la radice del Cristianesimo giace in una sapienza
oc- culta e che la Fede deve, quindi, per sus- I sistere
risospingersi a questa radice: “ Se il Cristianesimo vuol
continuare a vi- i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e
ria- d | vere la propria Mise € l propri insegna- sd cculti; deve
di nuovo erigersi come. ‘un istruttore autorevole di verità
spirituali, ma rivestito della sola autorità meritevole ..
x * ' Me, ù
Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè,
della conoscenza. Se questi insegna- menti ‘verranno recuperati, la loro
influenza sarà subito constatabile nelle più ampie e più profonde
vedute che si avranno circa la verità, dogmi che ora sembrano meri
gu- sci ed impacci, saranno riconosciuti subito quali parziali
presentimenti di realtà fonda- mentali. In primo luogo il
Cristianesimo esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tem- pio,
così che tutti i capaci di riceverlo pos- sano seguirne le linee di
pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo occulto ri-
discenderà nell'adito celato dietro la Cortina che custodisce il « Sancta
Sanctorum , in cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B. Es.
Chris. Pag. 40-41). Mediante il senso della vista l'uomo per-
cepisce la natura con cento e cento sfuma- ture di luce è di colore. Sono
i raggi della luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne
determinano gli aspetti cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal
fatto la percezione della luce solare sia una funzione abituale
dell'occhio, tuttavia questo non può impu- _nemente fissare la fonte
stessa de a luce: Sole; esso viene accecato dal contatto im-
mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò che ‘
0° néi suoi effetti è adeguato al compito quo-
tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof- ferenza, quando, come causa
in sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giu- sto
modo questa immagine alla vita spiri- tuale dell'uomo, comprende perchè “
coloro che sanno » parlano di “ pericoli » della Iniziazione ai
Misteri. Cotesti pericoli esi- stono innegabilmente; se non che, chi
ne parla non va preso alla lettera, interpretando la parola «
pericoli ,, nel senso usuale. La intelligenza e la ragione umana sono
tanto poco assuefatte a riconoscere le fonti del vero nel complesso
totale del mondo, quanto poco è capace l'occhio di fissare
direttamente il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon- denti gli
effetti delia luce, così intelletto. e ragione sentono a sè rispondenti
gli effetti della sapienza eterna nei fenomeni della na- tura e nel
decorso della storia degli uomini. Ma come l'occhio viene meno.
di.fronte.alla sorgente stessa della luce, così l'intelligenza
| umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri- mordiali della
sapienza. Questo umano inten- dimento nel subito arretra, rinuncia. Or
bi- sogna assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’
uomo , al fatto dell’ ab- bacinamento chel’ occhio.subisce dal
sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è
assuefatto a scorgere nella Natura e nell'attività dello spirito
soltanto il riflesso della Verità, e non questa imme- diatamente ,
egli viene meno di fronte alla verità stessa, quando questa gli si
presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la realtà gros- solana, che
quotidianamente I prnia, l'uomo sente le manifestazioni della sapienza
supe- riore come illusioni, come costruzioni di una fantasiosità
irreale: esse non gli possono dire nulla, sono per lui come forme aeree
che svaniscono quando egli le vuole afferrare, così come è solito
afferrare gli oggetti della realtà consueta. Questa lo avvince a sè
con mille lacci; ciò che essa gli può promettere egli lo conosce,
lo ha imparato ad apprez- zare in mille modi. Chi qui vede giusta-
mente, comprende che cosa intendano dire le leggende religiose quando
parlano del Tentatore, che promette tutte le magnifi- cenze di
guesto mondo a coloro, i quali vo- gliono intraprendere il sentiero della
illumi- nazione superiore. Se noh è risvegliata in. loro la forza
di resistere a cotesto Tenta- tore, essi cadono inesorabilmente in sua
ba- lia. Con ciò si accenna a quel che s'intende per “ pericoli
della soglia ,, che occorre varcare, se si vuole calcare il “ sentiero
, della sapienza. Niuno può giungere a que- sto
sentiero se non intende valersi dell’ oc- chio spirituale,
dell'intelletto e della ragione, diversamente da come vengono
adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla
soglia come un trasmutato, come "°° uno, il cni°occhio spirituale è
stato raffor- zato; ed è singolarmente difficile nell’ età nostra
attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè
appunto dalla nostra scienza esso viene rivolto o a.ciò che è
concreto li tangibile. Per compiere le sue conquiste nel campo
delle forze naturali esteriori que- , sta scienza dovè rendere
quest'occhio cieco alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si
fraintenda tutto ciò, prendendolo per un rimprovero! Chi vuol comprendere
il mec-\l canismo di un orologio non ha certo biso» i} gno di
risalire con l'indagine fino ai pen-/! ). sieri dell’ inventore
dell’ orologio ; egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato
dalla [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo
stesso meccanismo. a nessuno può com- preridere come le forze
e le cose che coo- perano nell’ orologio siano state originaria-
mente combinate, se non va in traccia dello | spirito che le
ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così
com- f frze
Tmnon © SEXI ma ) fe | fa meda; meo N el Mm NK ke -- bt
re e —————€ o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0 A 0
è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a È Logan Foe. SP RTTO el
ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può comprendere
giu- stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le cerca anzitutto
le forze con cui essa opera. "° Se afferma che queste si sono
combinate | ® cudl da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me
flat di pensare che un orologio si sia conge- gnato da sè. S
izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo
alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è, non colui che cerca
l'inventore dell’ orolo- gio, ma colui che nell’orologio stesso
im- magina ‘uno spirito , il quale manda avanti Î le lancette.
Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono coloro che vanno in
traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si può metterli in un
fascio con quelli che a buon diritto sono accusati di superstizione e
che cen altrettanto buon diritto vengono oggi riguardati come
turbapace, perchè compro- mettono i “ benefizi , che la nostra
coltura scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _ velato da.
preconcetti saprà a chi si vuol alludere nelle due categorie
citate). Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d accesso alla
visione superiore, se vuole riu i " scire ad avanzare, deve essere
provvisto della 2 sN forza che mena ad avvertire il Reale là
dov@mnn l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x
i T] x > l'intolegione I
Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A
in — 54 — x gono soltanto fantasticaggine ed
illusione. . Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto, là,
dgye all'occhio rivolto soltanto al transi* torio e temporaneo altro non
appare che fantasticaggine ed illusione. Nessun utile, dunque,
risentirà un uomo che venga con- dotto dinnanzi alla sorgente della
eterna sa- pienza colgalo corredo.della.sua intelligenza rdinaria.
Perciò nei Misteri, il primo grado d Iniziazione non consiste
nell'impartire un nuovo sapere intellettuale, ma nella com- pleta
trasmutazione delle forze conoscitive dell’uomo. Con fine intuito
pertanto, Edoardo Scuré descrive nei suoi “ Grandi Iniziati , il
cammino di chi tende al “ Sapere , me- diante i Misteri :
ALE « L’ iniziazione era a leaneno r, le di futfo l'essere umano _ad
ascen- lere le vette vertiginose dello spirito , dal- l'alto delle
quali si può dominare la vita..... , E più innanzi egli dice:
“«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo ha bisogno di una
totale rifusione del pro- prio essere fisico, morale e intellettuale.
Or- bene, questa rifusione non è possibile se non mediante |’
esercizio simultaneo della volontà, dell’intuito e del raziocinio.
Mercè il loro completo accordo l’ uomo può svi- }
;) I Fapiecinia TX. iNalonta Ponso
; I he sli luppare le
proprie facoltà fino a limiti in- definibili. L’ anima ha sensi assopiti
; l' ini- ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro- fondo e
un'applicazione costante l’uomo può _ mettersi in rapporto cosciente con
le forze occulte dell'universo. Con uno sforzo por- entoso egli puo
raggiungere la percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri
che portano. all’olt a, al superfisico, e di- venire capace di
regolarvisi. oltanto allora può dire di aver vinto il destino e di
es- Sersi conquistato fin da quaggiù la propria tiliberi divina.
Soltanto allora l’iniziato può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo,
vale a dire veggente e formatore di anime. Infatti soltanto colui,
che comanda a se stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è
libero può liberare ». (Opera cit.). La missione dei
Misteri va intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro
primo grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della
produzione di nuove forze | pudore ‘L’individuo=doveva.
trasmutarsi, ivenire un altro, prima di venir condotto
al Sole spirituale, alla sorgente della sa- pienza. Colui,
le cui forze non sono temprate al- /
dl16g — lorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,,
non sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}. che quivi
gli si fanno incontro. In luogo di — entrare in rapporto con_un mondo
supe- riore egli ricade nel mondo inferiore. À que- sto pericolo
trovasi esposto chi va in cerca delle sorgenti della sapienza. Se egli
soc- combe, allora ha temporaneamente ucciso in sè l'eterno germe.
Questo era per l'in- nanzi dormente in lui, ma, pur così dor-
mente, era tuttavia ciò che nobilitava la passeggera, inferiore natura e
la trasfigura- va. Ingenuo ed inconsapevole , l' individuo viveva
con questo rudimento di spiritualità superiore. Dal mal riuscito
tentativo, di.ini- ziazione quel latente rudimento JÉne. di-
strutto. All'individuo non resta che l'istinto di vivere nel transitorio,
di yivere «Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.
avere sentito come_illusorio il “ divino spi- rituale , , egli divinizza
il « sensibile_mate- riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può
andare perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte
immortale. Que- sto è il pericolo analogo all’ accecamento
dell'occhio nella similitudine su riferita. E' ovvio che coloro,
cui nei misteri in- combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro-
. Wei | Rito fonda
consapevolezza della propria respon- sabilità, estremamente esigenti
verso i disce- poli, giacchè tali esigenze dovevano servire a
temprare nel senso indicato le loro forze spirituali. E. Schuré descrive
la scala gra- duale della Iniziazion ‘a_praticata I riella
scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.) e-la sua descrizione è tutta
improntata di geniale senso d’arte e di mistica profondità. Mi
appoggerò appunto ad essa per parlare di quei gradi iniziatici.
Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co- loro che offrivano sicurezza
di riuscita per la costituzione appropriata della loro natura
intellettuale, morale e spirituale. Per costoro cominciava allora il
periodo della « Prepa- razione ,. Per molti anni essi diventavano
itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede autorizzato a
giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,
torse anche più sovente, quando non ha an- cora imparato nulla, non è
punto facile ren- dere simpatica l’idea" quel lungo udito-
rato. All'uditore era imposto il più assoluto silenzio, inteso non nel
senso esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso
di | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere del tutto
spregiudicatamente l’istru- due crilica
PESTO, gp zione, senza turbare questa spregiudicatezza
con una prematura analisi critica. Il saggio sapeva, e gli uditori
avevano fiducia; per un certo tempo non_.era loro
Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era appunto
ciò che occorreva per renderli maturi all critica. Come è possibile che
impari vera- [mente chi vuole immediatamente criticare \{ quel che
apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno
reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere i gradini
della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo sa.
Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano intoppi su tale
strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche. Il nostro
tempo è tutto pieno di questo_im- maturo spirito di critica: basta osservare
in- torno a noi ciò che i nostri oratori dicono e ciò che i nostri
scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo un pò di
spirito pitagorico , resterebbero. inespressi più dei nove decimi
di quanto vien detto e altret- tanto rimarrebbe non stampato di
quanto vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo in- sieme un paio di
osservazioni, o si è ap- piccicato in testa un paio d'idee, si
crede autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui
sel RARI TESE, soggetti più
essenziali. Invece un tale di- ritto spetta soltanto a chi abbia imparato
a contenere per anni il suo giudizio e a por- gere ascolto
spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate
tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace norma dell'anima di chi non è
maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale pro- prio nulla,
nulla affatto di fronte alla Ve- rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto
esa- minare dalla verità stessa. Invece di dire: “ Io esamino tutto
e voglio tenermi il me- glio » , molti dovrebbero dire : “ Io
voglio fare esaminare me stesso dalla Verità, e quando io sia
sufficientemente buono per essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi
non si è esercitato per anni ad adattare, a inal- veare la propria
vita in questo illimitato ab- bandono al giudizio delle sagge guide
della umanità, non arriverà mai a formulare giu- dizi che siano più
che fumo e vacua riso- nanza. Pa Una norma siffatta è
certamente invisa in questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui
dominano la pubblica criticaglia, e lo spi- rito gazzettaio ; invece gli
uditori pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Rag-
giunta la voluta maturità, l' uditore vedeva | 4
iena: acli Neg giunto per lui il “ giorno d'oro ,,,
col quale cominciavano le rivelazioni sull'essenza della natura e
dello spirito umano. A poco a poco i gli si faceva comprendere la “ zomìa
», le 4 B:, ” leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1
Voglia afferrare questa romia col non raffinato intelletto ordinario non
ne com- prende nulla. Il Goethe una volta accennò a questo.
Allorchè nel suo viaggio per l'I- talia e per la Sicilia si era dato con
tutta lena allo studio delle piante, e si era for- mato quelle sue
vedute tanto citate ma tanto poco comprese sulla_“ pianta archetipa
, scriveva in. Germania che avrebbe voluto fare un viaggio in
India, non per scoprire qualche cosa di nuovo, bensi per guardare
a_Suo..modo_.il già scoperto» Quel che im- porta, appunto, non è il conoscere
le leggi messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi bensi il
penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’ intima essenza della vita
vegetale. Si fica essere un erudito professore di bota-
nica e non capir nulla di questa vita vege- tale. | nostri
scienziati hauno veramente delle strane idee a questo proposito. Essi o
cre- dono che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della
natura, o affermano che la nosira indagine non è ancora fanto avan-
Db zata. Essi non sospettano che con
questa indagine mediante i sensi e l'intelletto pos- sono, sì,
moltiplicarsi con effetto benefico le nostre cognizioni, ma che per
investigare (| « interno ,, è, invece, necessaria una ma- niera di
pensare tutta diversa da quella che essi mettono in pratica. Non vogliono
sa- perne dell’ “ inventore dell'orologio ,,, men- | tre studiano
l'orologio alla stregua dei prin- cipi della fisica. Poichè non possono
tro- vare nell'orologio nessuno “ spiritello ,, che spinge avanti
le lancette, o negano lo spi- rito, che ha congegnato le ruote, o
asseri- scono che esso è inaccessibile all’umana co- noscenza, 0
del tutto o “ fino ad oggi ,. Chi parla dello spirito della Natura
viene accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua
se gli accusatori non sen- tono in ciò altro che parole! I discepoli
pi- tagorici, al secondo grado della loro istru- zione, venivano
introdotti nelloSpirito della Natura. Soltanto: dopo RARO al
questo grado, potevano venir condotti alla “« grande Ini- ziazione
». A questo punto erano maturi per accogliere in sè i “ Segreti della
esistenza »; il loro occhio spirituale era ormai sufficien- |
temente vigoroso; oramai non apprendevano 19 6a
— i | più a conoscere soltanto lo spirito delia
na- i tura, ma anche le intenzioni di questo spi- i rito. Da questo
punto in poi non sì può più i parlare dei Misteri col solito linguaggio,
ma soltanto per via d'immagini, giacchè il no- (a stro linguaggio è
tutto adeguato all'intelletto | e non ha parola adatta alla conoscenza
su- È periore, di cui qui ci occupiamo. In questo È senso va inteso
pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-
prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro- pria esistenza personale. Da
ciò traeva l' e- sperienza che quella sua vita era la ripeti- iS .
zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare “ anima , nel giusto
senso della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le
vicende e le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi
come effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti.
Egli si rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita
presente dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire.
i ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione
di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi
della “ Rincorporazione , e della “ Legge cos- —
ve = Bb: — mica », ovvero, in
altre parole, della “ Rin- carnazione , e del “ Karma ,, (1).
Queste verità potevano divenir convin- zioni per il discepolo dei
Misteri, come è verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; per- chè al
terzo grado il discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si
può avere un giudizio completamente sicuro su queste conoscenze,
unicamente perchè si è ormai acquistata la capacità di compren-
derne giustamente il significato. Anche oggi, come in ogni tempo,
molto si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene criticato in
realtà sono soltanto le arbitrarie , concezioni dei critici stessi, che
non hanno alcuna importanza. Del resto, però, si deve anche
pienamente convenire che pure molti seguaci della idea della
rincarnazione non hanno di essa concetti migliori di quelli dei
suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi difendono queste dottrine, le
comprendono veramente. Anche tra questi difensori ce ne sono molti
che sono troppo scansafatiche 0 troppo.... « consci di sè » per
apprendere in silenzio prima di far da insegnanti. 0° (1)
Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teo- sofia — Scienza
occulta — e i minori Azione del Kar- ma. Rincarnazione e Karma come leggi
naturali. LL NEI
Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era, però, in altri Misteri,
dopo la grande « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della vera “
Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto l'osservare e il pensare, ma
tutto il vivere conscio veniva esteso oltre l'immediata per-
sonalità dello individuo. Per essa il discepolo non diveniva soltanto un
sapiente, soltanto un veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza
delle cose, ma la viveva con esse. Molto arduo è dare una idea di ciò, di
cui qui si tratta. Il veggente non ha soltanto la sen- sazione
degli oggetti, bensì sente regoli og- getti stessi, trasferendosi nel
loro interno; egli non pensa circa la natura, bensì esce di se
medesimo e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo un procedimento
noto al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi dei sensi
astrali ») (1). L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi debbono
esser per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha senso
per le loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente parlare in
loro non più una persona umana, bensì la stessa Saggezza vivente.
Essi hanno fatto olocausto delle (1) Cfr. dello stesso autore: «
Come si acquista co- noscenza dei mondi trascendentali v.
EA proprie inclinazioni, simpatie,
opinioni per- sonali per poter prestare la propria bocca all’eterno
Verbo, “« mediante il quale fu- rono fatte tutte le cose ,. Giacchè
dove parla ancora l'opinione umana, dove cam- _ peggiano ancora
inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza eterna. E quando questa
giunge all'orecchio di coloro che non ‘hanno ancora sentimento per essa,
appare loro soltanto come personale parola umana, per quanto in
essa possa chiudersi una forza divina. Ma dai veggenti stessi, gli
uomini ‘potrebbero imparare ad “ ascoltare », giac- chè il veggente
fa tacere la sua umana per- sonalità quando a lui parla la voce della
Ve- rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le sue
inclinazioni gli stanno dinanzi altret- tanto insignificanti quanto il
tavolino che ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel- |
l'ascoltazione interiore. . Solo il veggente ascenderà al grado
suc- cessivo, che gli antichi chiamavano del " Teurgo » e che
nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui si
opera una “ completa riversione , delle facoltà umane. Forze che, di
solito, afflui- scono nell'individuo da/ di fuori, ora si ef-
fondono da /uîi. In certi campi, nei quali 5
RS a l’uomo è soltanto un
servitore, diviene un dominatore colui, le cui facoltà sono “ tra-
smutate ,. E poichè solo il veggente è in grado di giudicare la portata e
la maniera “a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in
possesso senza aver raggiunta la purità _ del veggente, ne farà mal
uso. E questa do « sapienza senza purità ,, è possibile a causa w
di un cencatenamento di circostanze, di cui <a qui non è il caso di
tener discorso. Sulla Ini- ziazione superiore, a proposito dei
Pitago- rici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo :
1 i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toc- +. cato la cima della
iniziazione antica. Da dr questa vetta la terra apparisce come im-
cf ersa nell'ombra, come un astro morente. \\*® Di lì si schiudono
le prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso
complesso | Le * Scegatao ii a n 1 la vista dall'alto, l'epifaria
dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era
l’assorbire VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.
È le regioni incommensurabili del Cosmo, li UH aveva tuffati negli
abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti
migliori, più forti e meglio temprati pei cimenti della vita.
I, Il Maestro aveva condotto i discepoli
per iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei
î =Sf ia Alla iniziazione
della intelligenza doveva seguire quella della volontà, ed era di
tutte - la più ardua, giacchè ora per il discepolo si
trattava di far discendere la verità nelle pro- fonde latebre dell’ esser
suo , e di porla in azione nella pratica della vita. Per
raggiungere questo scopo ideale oc- correva secondo Pitagora riunire tre
perfe- zioni: avere realmente la verità nell’intelletto, la virtù
nell'animo, la purezza nel corpo. Un'igiene sapiente, una regolata continenza
dovevano serbare al corpo là purezza che si richiedeva non come scopo, ma
come mezzo, | Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e
quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente | organismo dell’ anima, e
per conseguenza anche nello spirito... A questa altezza l'in- dividuo
diviene un adepto, e, se possiede bastante energia, entra in possesso di
facoltà e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in- terni
animici, e la volontà si riversa radiosa negli altri sensi.... (vedi E.
Schuré op. cit. Cap. 8). Di tutto ciò che l'uomo compie prima
di raggiungere questo grado, le cause sono da ricercare in regioni
a lui completamente sco- nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece,
| spazia in coteste regioni, e “ in perfetta &
=. 8-2 consapevolezza , egli irradia da sè
quanto nell'uomo dorme di solito “ inconsciamen- te , nelle più
profonde latebre dell'anima, Egli trovasi a faccia a faccia con la
sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto in- visibilmente da “
tergo ». Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb- bero leggere
periodi come il seguente, tratto. dall'antico testo di sapienza chiamato
il Mun- dakopanishad: “ Quando il veggente vede l'aureo Creatore,
il Signore, lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savio, dopo
che ha gettato via merito e demerito, raggiunge immacolato l'unione
suprema ». Alle vette, dunque, che vengono così con-. quistate
drizza lo sguardo E. Schuré; e la mistica fede nella fulgida forza di
codeste vette gli conferisce la capacità di trapassare. alcuni dei
nebulosi veli che nascondono la. vera natura delle grandi Guide
dell'Umani tà. Ciò lo rende capace di descriverli, que-. sti “
Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna, Er- mete, Mosè, Orfeo, Pitagora,
Platone e Gesù. A grado a grado da coteste Guide sono state
irraggiate nell'umanità le forze a_ seconda della maturità raggiunta dal
genere umano nelle diverse epoche. Rama condusse alla porta della
sapienza; Krishna ed Er-. ai mete ne
misero le chiavi nelle mani di al- «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora
additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta
Sanctorum ,, l'intimo sacro. penetrale. Sarebbe sciupare tutto il
singolare in- canto del libro dello Schuré il volerne rac- contare
il contenuto, nel quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da
sè. Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra- mite del Fondatore del
Cristianesimo le forze della sapienza dei Misteri sono state
riversate nelle vene spirituali dell’ umanità in forma tale, che le
orecchie dell’ umanità hanno potuto udirla. E anche in questo ter-
reno la verità deve essere cercata pei sen- tieri che E. Schurè ci
presenta. La forza . che s' irradia dalla personalità di Gesù, è
forza vivente nei cuori di tutti coloro, che la lasciano fluire in sè
stessi. Comprendere la vivente Parola che in questa forza agi- |
sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave, mercè la comprensione
della sa- pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per — quanto è
possibile, il fondamento A. Besant | col suo “ Cristianesimo esoterico ,.
E' que- | sto un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato
delle parole bibliche si svela al lettore che tutto vi si
abbandona, Sg VI
Siffatti
libri-chiave sono necessari ai no. stri giorni. L'umanità era in
condizione del F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè lE E
vangelo, “ l'annunzio gioioso ,. Oggidì l’in- telletto ha ben altro
allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’ uomo ‘può
trasmutare in vita propria la forza vivente della “ Parola palese »
soltanto se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la propria
facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero eternamente, anche se
il modo come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso i dei tempi.
Che oggi l’ intelletto e il razio- 7555 }cinio facciano valere i propri
diritti è una necessità ; chi conosce l’ evoluzione umana sa che
deve essere così. E perciò egli dà oggi all’intelletto, ciò che secoli
addietro è stato dato ad altre forze dell'anima. Da que sta e da
nessun’ altra cognizione dovrebbe scaturire l'attività del vero teosofo ,
e così vuole essere interpretato il “« Cristianesimo esoterico , di
Annie Besant. Il teosofo sa che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa
al- tresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cri- ‘sto, non è un “
Duce di morti , bensi un “ Duce di vivi ,. Il teosofo intende la
grande parola del Maestro: “ Io sono con voi tutti i giorni, sino
alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £
@ÈS te, non a quella dei ragguagli storici, si ri- volge
anzitutto chi, come A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che
la “ Pa- rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al- l'orecchio
che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua luce sul racconto
evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della Parola è rimasto qui fino ad
oggi e può dirci come dobbiamo intendere la lettera dei ragguagli
intorno ai Suoi atti e ai Suoi di- scorsi. “Le buone novelle
» debbono essere intese “ esotericamente ,, cioè, bisogna, pri- ma,
che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che imprime su di esse
il sigillo di . Gò che è “ Santo ,,. E poichè l'intelletto e il
razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà d’oggi, bisogna ch’essi
vengano libe- rati dai lacci dell’ intendimento puramente
sensistico , della comprensione meramente “ positiva , della realtà.
L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare
che lo riempie di vera religiosità , giacchè non è esatto che l’assennato
intelletto non valga che a distruggere le “ i/lusioni , di cui il
sentimento religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo dell'intelletto
abbagliato e inceppato dai successi riportati nella nozione
\ ALI: 000 e nel dominio delle forze
puramente mate- riali della natura. Gli uomini del presente e con
essi i nostri fisici, i nostri biologi e i nostri storici, si credono
Ziberi nel loro mondo intellettuale unicamente edificato sul fatto
positivo. In Verità essi vivono sotto l’azione di una Suggestione
dominante su tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre- ste
diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere
che i vostri con- cetti di rea/tà anzi di materie e di forze del
mondo, di sforia umana e di evoluzione della civiltà, non sono altro che
« sugge- \stioni collettive ,. Un giorno vi cadrà la benda
dagli.occhi, e allora soltanto speri- meénterete fino a qual punto è
verità e non . errore quel che voi pensate dell'elettricità e della
luce, della evoluzione animale ed umana; giacchè, notate bene, anche i
teosofi riguar- dano le vostre asserzioni non come errori, ma come
verità. Infatti anche la vostra in- terpretazione della natura è per loro
una “ professione di fede », e quando essi di- cono “ di volere
cercare il nucleò della ve- rità in tutte le religioni ,, fanno ciò
non solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a
Lamark, Darwin ed Hickel, ay ( (A E
opere come queile citate di E. Schuré e di Annie Besant sono
destinate a togliervi la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a
veder chiaro nelle “ vostre suggestioni ». Conseguentemente, in libri
siffatti quel che importa non è tanto il loro contenuto let-
terale, quanto le occulte forze che mossero la penna dei loro autori e
che si trasfon- dono nelle vene dei lettori, così che questi
vengono tutti pervasi da un nuovo “ senso della verità ». 1 lettori che
subiscono il giu- sto effetto di tali libri ricevono sotto un certo
rispetto una /riziazione di tipo , di- remo così, intellettuale. Chi a
questa frase mon arriccia il naso, come alla asserzione di un
miracolo, chi è in grado di scorgervi, invece, qualche cosa di più che
una va- cua frase, potrà anche comprendere, come — libri siffatti
gli vengano presentati non già per allettarlo a fare una delle solite
letture, ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per virtù
delle forze con le quali sono stati scritti, debbono suscitare in lui
forze dor- menti, anche se a tutta prima coteste forze possano essere
soltanto quelle dell'arimia in- tellettiva. Al nostro tempo,
peraltro, non c'è vera Iniziazione, che non passi per l'
intelletto. DAR; 7 GIS i
Chi vuole in oggi condurre agli .« arcani superiori , evitando di passare
per l' intel- letto, mon capisce nulla dei “ segni dei | tempi , e
non può far altro che porre sug- sa gestioni nuove al posto delle
antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday
mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were
into initiation!” Giovanni Colazza.
Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione
nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio
di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione
della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del
giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The
Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711432444/in/photolist-2mMyBgs-2mMv9UH-2mJqjKS
Grice e Colecchi – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad
Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse
perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli
ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella.
Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al
ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant.
Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a
Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa,
Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di
essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia. Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo
d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere;
L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il
raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione
eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari
sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia
valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il
principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”;
“Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se
una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello
spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia
esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune
quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia,
Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche
storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana
dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F.
Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni
biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel
Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e
nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori,
Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio
Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi,
in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio
Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica
napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia
italiana, III, Torino; F. Tessitore,
Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G.
Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi
vichiani; Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi,
Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori
gioi dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico
que ste divine idee; aveva lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra
d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”,
dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola
opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello
stesso stato in cui avealo lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi
all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione
all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto
scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la
sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata
all’induzione, si dispose Vico a crear il “diritto universale” della nazione
del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma,
brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di
stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della
mitologia, nelle lingue, nel Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi
Roma ripelere,e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni
del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea,
così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia
concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve
l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione,
politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in
mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone
degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli
ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per
distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera
immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la
sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di
Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di Koesingberga, e la sua civiltà a
poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento
delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner
il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato.
Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo
a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità ha parlato pur anche dell'origine e del progresso della
civiltà de'popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo
del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga
scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. Vico, seguace di
Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante,
l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di Vico sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di Vico, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel Vico spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di Vico pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da Vico stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per
Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero l’umana ragione (la vernunft di
Kant), la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in
quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè
turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o
Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia
rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* --
progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia
rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due
persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè o s t a p u n t o (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi,
per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio
non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina
por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità
dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al
etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua.
Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza
importautissima, dedotta dal Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al
positivista Carmignani, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà.
La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela
de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli
antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della
natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale
per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta,
ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con
la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice:
non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione.
Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso.
distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di
daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono
parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della
persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne
avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della
ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti
chiamalo secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col
Vico all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere,
con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio
deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra
con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle
viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della
legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla
legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la
mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per
altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale
divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï
delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e
patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col
Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè
dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si
ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza
frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e
poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural
pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore
disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore
al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali
cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta
il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero.
Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto
delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta
amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo
gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde
Vico, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e
unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il
fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto
grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar
colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero
quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo
in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico,
in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da
altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la
familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si
facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio
chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli
ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la
tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano
gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso
legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel
sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien
celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per
l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di
essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica,
e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun
politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari
che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati,
benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse;
tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà,
il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e
costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto
è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine
delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine,
ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale, il
quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della
legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la
leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la
deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto
non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si
eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più
secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del
certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli
Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le
leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva
Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con
verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge
morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da
nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto
certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo
libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente
che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto
che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità
che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze
de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i
quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo
essii più sapienti, i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i
scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran
pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e
tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina
di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di
collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la
volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè
egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non
può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente
con la morale. All natios bostna viSing to derive
merit from the spiendonr of their original
; and irhere history ii uleot, they
fueiuenJiy anpply the defect with fable,
llie Romans were particnlaHy dcH^OB of
being' thought descended finm the goda, m
if to hide the meaaDess of their
real anoeatry. Mueas, the Bon of
Veona and AocUaei. haring escaped ftvm
the deitniotioii of Ttey, after' 11MU17
adventures and dangers, atrived octet a
in Italy, where he was kindly
received by latinus, ' ^^'*- king of
the latins, who gave him his daughter
Lavinia in nuiriage. Italy was dien,
as it is now, divided into a
num- ber of small states, independent of
enoh other, and conse- qneatly subject
to frequent contentions among themselves. •
Tumnf, king of the Rutnti, was the
first who opposed .^^eas, he having
long made pret^uions to Lavinia himself.
A war ensued, in which the Trojan
hero was victorious, and Tomus sfadn.
In consequence of this, jSneas built
a city, which was eded lAvimnm, in
honour of hia wife, and some time
after, - engaging in another war
againat Hezentius, one of the petty
Ungs of the country, he was
vanquished in turn, and died in
battie, after a reign of four years.
AMonios, his sod, suc- oeeded to the
kingdom, and to him Silvius, a second
son, ^lom be had by lAvioia. It
would be tedious and nnin- terealing
to recite a dry catalogue of the
kings that followed, nd of whom ve
know little mtae than the namea; it
w91 be ...Bnfficient to say, that
the sacoesnoD coatiDiied for near foor
hundred years in the family, and that
Nninitor, the fifteenth from ^neas, was
the last king of Alba. Numitor,
vho took posseBsitHi of the kingdom
in conse- quence of his father's vill,
had ft brpther named Amnlius, to whom
were left the treasures which had
been brought from Troy. As riches but
too generally prev^ against right, Amo-
lins made use of his wealth to
supplant his brother, and aooo foDod
means to possess himself of the
kingdom, ^ot content with the crime
of usurpation, he added that of
murder also. Nnmitor's sons first fell
a sacrifice to his suspicions, and to
remove all apprehensions of being one
day distorbed in his ill-gotten power,
he caused Rhea Silvia, lus brother's
only daughter, to become a vestal
vii^in, w^ch office obliging her to
perpetual celibacy, made him less uneasy
as to the claims of posterity. His
precautions, however, were all frustrated
in the event; for Rhea Silvia, going
to fetch wator frqip a Qeighbopring
grove, was met and ravished by a
man, whom, pei^tqw to palliate her
offence, she averred to be Mars, the
god of war. Whoever this lover of
hers mi^t have been, whether some
person had deceived her by assoming
so great a name, or Amnlins himself,
as some writers are pleased to a£Srm,
it matters not; certain it is, that
in due time she was broug:lit to
bed of two boys, vbo were no
sooper bom than devoted by the
usurper to destmction. The mother was
condemned to be boried alive, the
usual punishment for vestals who had
violated their chasti^, and tbe twins
were ordered to be flung into tbe
river liber. It happened, however, at
the time this rigoroos sentence was
put into eieculion, that the river
had more than usually overflowed its
banks, so that tbe place where the
children were thrown, being at a
distance from thei main cnirent, the
water was' too shallow to drown them.
In this ntoation, therefore, they continued
withoat harm; and that no part of
their preservatioD might want its wonders,
we are told, that they were for
some time suckled there by a wolf,
until Fanstulos, the king's herdsman,
finding ihem ex- posed, brought them home
to Acca Laurentia, bis wife, who broi^ht
them qp as her own. Some, however,
will have it; tiiat tbe nurse's name
was Lnpa, which gaya rise to the
stoijr vt their being nouriihed by a
wolf; but it is needless to vfad
Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba%
fian 'venevntB vbtfe die vkote «
omgrowB with ftUe. Boraoloa and
Bemna, Ae twins thtu strangely prcwcved.
Memed eariy to diacover afai)iti«i uid
desiret above the me«i- noH of thor
aapposed origiiuL The ahepkenl's life be^an
to di^leaae them, aod fnaa tending
the flocks, or hantiag wild beasts,
they soon tnmed their strength agsinst
the robben lonnd the eonntry, whom
they efien atfipt of their [daader to
share it among their feUew-shepherds.
In one of these ezcmnons it was
that Remns ww taken priaoner by
Nvmttor's berdsmen, who brought lum before
the king, and aoensed him of the
very crime which he bad ao t^tea
attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer,
beii^ informed 1^ FaiiBtaliu of his
real birth, was not remisa in
assembling ft munber of hia fbllow^epherds,
in order to resooe bis brother from
posoD, and foroe the kingdtmi from
tbe bands of tbe nsnrper. Yet, being
too feeble to act openly, he directed
bis followers to assemUe near the
place by diffisrent ways, while Beniiis
with eqnal vigilaooe gm&ed npon tbe
dtiuua within. AmalioB, tfans beaet on
all sides, and not knowing iriiat
ex-^ pedient to think of for bit
seoiuity, was, daring hia amasenent and
distraotion, taken and daio, while Nnmito^
who had beei» deposed forty-two years,
recognised bis grandscns, and was once
more restored to the throne. Nnmitor
being tints in qvet posiewion of the
kingdom, hot grandaou resolred to bnild
a eify npoo those hills whoe they
had formerly lived as aheiriierda. The
king had too many oUigations to them
not to approve their des^; he
appointed tbem lands, and gave pennisnoB
to .snoh of hia subjects a» thoo^ proper
to settie in their new colony. Many
of the neil^draariiig shejdierda also, and
sncb as were fond of change, lepabed
to the intended dty, and prepared to
raise it. For the more speedy oarrybg
on this work, the people were di-
vided into two parts, each of whioh,
it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate
the otfaer. Bat what was designed fi»
an advantage proved nearly fatal to
this infimt oolony : it gave birth to
two factions, one preferring Romnlna, the
other Re- mns, who themselves were not
agreed npon the spot where die city
shonld stand. To terminate this difierenee,
they were recommended by the king to
take an omen from the ffight of Inrds;
and that be, whose omen should be
most favoorable^ afaonld in all
reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe
wiOl this advice, thej both took
their stations npon diffra«nt hilk; tp
Remns appeared six Tnlturea, to Roniulus,
twice that num- bar, to ttwt each
party thongfat itielf viotoriovi, the one
tiaviog the first omen, the other the
most nnmeroiu. Tbifl prodnoed a contest,
whitdi ended ui a batde, wherein
Bemoa was slain, and it is even
said, that he was kiUed by his
brother, who, fac- ing provoked at his
leaping contemptnoasly over the city wbU,
itrack him dead upon tbe qrat, at
the same time proKssio^, that nooe
shonld ever inanlt his walla with
impunity. Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age,
b^an the fonndation of a-city, that
was one day to give laws to the
woild. It was called Borne after the
uaaie of the foonder, and bnilt npon
the Paladne hiO, on which he had
taken lus ancceflsfol omen. The city
was at first almost square, oontaining
«bont a tlwiisand houses. It was near
a mile in compass, and commanded a
small territory ranod it of about
eight miles over. However, small as
it appears, it was, ootwithstandiiy, vone
inhabited; and the first method made
uae of to increase its numbers vaa
the opemng a sanctosry for all
male&otors, slaves, aod snch as wm«
desirons of novelty. These came in
great multitudes, and cootribated to
increase the number of our legtslatoi'B
new subjects. To have a just idea
ther^re of Rome in its infant stale,
we have only to iwsgine a coUec-
tion o( cottages, sairotinded by a
feeble wall, rather built to serve as
a military retreat, than for the
purposes of civil >o- cie^, rather
filled with a tnmoltuoas and vicious
rabble, thaD with subjects bred to obedience
and control; we have only to conceive
men bred to rapine, Iwing in a
place that merelj seemed calculated for
the security of plonder; and yet, to
our astonishment, we shall soon find
this tumulbioas coocouise unit> ingin
the strictest bonds of sode^; this
lawless rabble putting OB the most
sincere regard for religion ; end, thouf^
composed of the dr^s of mankind,
setting exai^ples, to all the worid,
of valour and riitne. Doiii,,ih,.
WWLOU SoARGB mm tbe city rnsed
abore iti &niid«tioB. vhen Hs rade
mhalulsBtB hegaa to tfauik of gmag
some fonn to their . MoslitBtioii.
Their first object was to unite
lifoer^ and em- pire; to fonn a
kiod of mixed monncby, by irfaicfa
all power vw to be dividad between
the prince and the peopte. Bo- ■nlna,
by an act of great geoeromtf, left
them at liberty to dwose whom they
wonld for dieir king, and tliey in
gnrtitiide eoBcmred to elect their founder
; be was accordingly acknow- ledged as
chief of dieir religion, sovereign
magistrate of Borne, md geoeral of Ae
army. Beside a guard to attend his
person, it was agreed that he should
be preceded wherever be went by tweW
e mCT, armed with axes tied op
in a bnadle of rods, who were
to serve as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots with
an idea of his authority. Yet stUl
tUa aKiboriQr was ondw very great
restriotii»ig, as his whole power CMisisted
in caQing the senate togedier, in
assembling the peo< pie, io condoctmg
the army, when it was decreed by
the other part of the constitation
that they ahonld go to war, and
in k^ pointing the qnestors, w
neainrers of the pnblk: money, <^ficers
which we may soppose at that time
had but very Ktfle eni^oyment, as
neither the soldiers nor magistrates
recrived any pay. The senate, wluch
was to act as cosnsellors to the
king, was composedof an imndred of
the printnpal cttisens of Bune, oODStsting
of men whose age, wisdom, or valoor,
gave them natoral an^toiitf over titeir
feUow-«ab|ect8. The king named the fint
senatw, and appointed him to the
government of &e atj, whenever war
reqoired the geoeial's absence. In dds
neqiect^e assembly was transacted all the
important boainesa of the slate, the
king himself presiding, ^thongh every ques-
tion w'as tO'be determined by a minority
of voices. Ai^ they were supposed to
liave a parental affection for die
people, they were called latbMS, and
their descendants patricians. To the
pafericiaits belonged all ttte dignified
oiBees of tlie state, as well
r,o,i,,-cMh,. as of tiie imesfbood. To
these the; were appofaited by the
senate and the people, vhile the
lower ranks of citizens, wlio were
thns excluded from all views of
promotion for then- seUes, woe to
expect advantages ou^ from their ntloiir
in war, or their assidiiity in
agriculture. The plebwms, who composed
the third part of the legi»- la^oce,
assumed to tbemselTcs the power of
aathorising' those laws iHiicb were passed
b; the kia^ or the setwle. All
tUi^ x^ative to peace or war, to
the electi<Hi of magistiatei, and even
to the choosing a king, were
confirmed by their sufiragea. la their
namMmu aaaomblies. all mterptises against
the enemy were proposed, while the
senate had onij a power of rejeotiog
«r approving their Aemfpit. Thus was
the ststa composed of three orders,
each a check np<»i the other : the
people resolved whedier the proposals of
the king were plea- sing to them, the
senate deliberated upon the expediency of
the measure, and the king gave vigour
and spirit by directing the execBtion.
Bat thov^ the pei^le by these
regulations seemed in possession of great
pow«, yet th«re was one cdr-
onmstaace which c<nitiibuted greatly to
its dimmntion, nara^, the rights of
patronage which wece lodged in the
smate. I^ king, sensible that in
every state there must be a
'dependaoee of the poor upon the
powerful, -gave permission to every |:4e-
beian to choose one among the
senators for a patron. Tke bond
between them was of the strongest kind
; the patron was to give [woteotion
to his client, to assist him with
lus advice and fortune, to plead for him
before the judge, and to rescue him
from every oppression. On the other
hand, the climt attached himself to
the interests of his patron, assisted
han, if poor, to portion his
daughters, to pay his debts,, or his
rmuom - in case of being, taken
prisoner. He was to follow him on
every service of danger; whenever he
stood candidate for an office, he was
obliged to give him his sufi&age,
and was pro- Ubited from giving testimony
in a court of justioe whenever his
evidence affected the int^ests of his
patron. These reci- procal dotias were held
so sacred, that any who violated them
were ever after held infamous, and
excluded 6x»n all the pro- tection of
the taws : so that from hence we
see the senate in effect possessed of
the snffirages of &ea clients, nnce
all that was left the people was
<Hily the poww of choonng what pa-
Doiii--,-,ih,.Googlc IN8T1T6T10NS OP
XOIIirLUS. f tron Ibery should
obey. Amoaf a nRtion m> tMibstont
and fierce as the first Romans, it
was wise to enforce obedience ■t
&6 most reqnidte dnty. lie first
care of the new-created king was to
attend to the interests of religion,
and to endeavour to hnmantse his sub-
jects, by the notion of other rewards
and pnnishnients than diose of hnman
law. The precise form of their
worship is nn- known ; bat die
greatest part of the religion of that
age con- siMed in a firm relianoe
upon Ae credit of their soothsi^ers,
irito fvetended, from observations on the
flight of birds and the entrails of
beasts, to direct the present, and to
dive into fntmrity. This pioos fhrad,
wbich first uvse from igno- rance, soon
became a most usefnl machine in the
hands of government. Romnlns, by an
express law, commanded, that no election
should be made, no enterprise undertaken,
witfa- flat first conaolting die
soothsayers. With equal wisdom he •rdained,
that no new divinities should be
introdoced into pnhlic worship, that the
priesthood should continue for fife, and
that Aone shonM be elected into it
before the age of fifty. ' He
fort>ade them to mix fable witb
the masteries of their reUgion ; And,
timt they mi^t be quaKfied to teach
others, he ordered Aat tiiey should
be tiie iHstoriographns of tiie times;
so tiia^ while instructed by priests
Bk^ these, the people cordd never
degenerate into total barbarity. Of
his other laws we have but few
fragments remmnii^. In these, however, we
learn, that wives were forbid, upon
any pretext whatsoever, to separate from
tbeir husbands; wUle, on the contrary,
the husbaod was empowered to repu- diate
the wife, and even to put her
to death with the consent of hef
retatioQB, in case she was detected
in adultery, in at- tempting to poison,
in making false keys,. or even of
having drank too much vine. His laws
between children and their parents w«'e
yet sdll more severe ; the father had
entire power over his offspring, both
of fortune and fife; he conid ■ell
them or imprison them at any time
of their lives, or in any ttations
to which they were arrived. The
father might expose his clnldren, if
bom witii any deformities, having
previoasly eommunicated bis intentions to
his five next of kindred. Our
lawgiver seemed moze kind even to his
enemies, for his subjectswere prt^hited from
killing them after they bad surren-
dM«d, m even from sdling them: his
ambition only aiaied at .,Coo<^lc r of luB
ateaaeB i^ mak After M> many
endeaToiiTs to inoraase bia BnbjeotBi aad
m mmy Inra to r^nlate them, he
next gave ordeis to ascertna tbeir
numbers. Tbb whole amoanled bat to
three tbooMnd foot, and about as many
bnndred horsemen, capable of beari^ arms.
These, therdbre were
divided equally into three
' tribes, and to each he
asiigaed a different part of the
taty. . Each of these tribes
were sabdivided into ten cmin or com-
pames, consiBting of an hundred men each,
with a oentnrioB to command it, a
priest c^ed curio to perform the
sacrifioes, and two of the principal
inhatntants, called duumviri, to dis- tribute
jnstioe. Aocordijigly to the number of
ooriv he di- videdthe lands into
thirty parts, reserving one portion for
public uses, and another for religiaus
ceremonies. Tbo «m- ■phaty and fingality
of tha times will be best iindeistood
by observing, that dach citizen had
not id>ove two ictea of ground for
his owB subsistence. Of the horsemen
mentioned above, dtere were chosen ten
from eei^ curia; tfaey were particularly
appointed to fi^t round the person of
the king; of them hU gaud was
composed, and from tbeir alacrity in
battle, or fhuB the >ame of their
first commander, ^ey were called ceUrat,
a word equivalent to our light
horsemen. A goremmcot thus wisely
instituted, it may be suppoaed, nduced
numbers to come and live under it:
each day added to its strength,
maltitudes flocked in from all the
adjacent towns, and it only seemed to
waqt women to ascertain its du- ration.
In this exiaeiatx, Romulus, by the
advice of the se- nate, sent deputies
among the Sabines, his neighbours, en-
treatingtheir alliance, and upon these
terms- ofiering to cement the most
strict confederacy with them. The
Sabines, . who were then considered
as the moat warlike people of Italy,
r^ected the proposition with disdain, and
some even added raillery to the
refusal, demanding, that as he had opened
a sanctuary for fugitive slaves, why
he had not also opened another for
prostitute women. Tbis answer quickly
raised the indignation of the Rpmans;
and the king, in order to gratify
their resentaient, while he at the
same time should people hb ci^,
resolved to obtain by force what was
denied to intrea^. For this purpose
he proclaimed a feast, in honour of
N^tane, diron^ut all the nMghboitring
villagea, and made the meet KAPB
OF THK BABINBS. t mmgaiAMat
pnftamtkmi for it Tbets feuta wen
guan^ preceded by sacrifices, and ended
in' shows of wreeden, ^ft- diaton,
and chariot-^onrses. The Salnnes, as he
had ex- pected, were among the foremost
who came to be spectalon^ fannging
their wives and daughters with them
to share t^ pkasore of the sight.
The inhabitants also of maaj of tht
ueig^hoariDg to^os came, who were received
by the RomaM with marks of the most
cordial hospitality. lo the mean time
' the games began, and while the
strangers were most intent upon the
spectacle, a number of the Roman
yonth rushed la mnoag them wiUi drawn
swords seized the yotingedt and meet beaatilid
women, and earned them off by
violence. , In vain the parents
protested against this bre&cfa of
hospitali^; in vain the virgins themselves
at first opposed the attempts of th^
raviBfaers; perseverance and caresses obtained
those &• TOWS which timidi^ at
first denied: so that the betrayera,
frma being objects of aversion, soon
became partners of their dearest
affections. But however the afiront
might have been botne by them, it was
not BO easily pnt up by their
parents; a bloody war ei^ sued. The
cities of Cenioa, Antemna, and Cnutuminm,
wen the &at who resolved to
revenge the common cause, which the
Salnses seemed too dilatory in pursuing. These,
by making aeparate inroads, became a
more easy conquest to Romulus, who
first ovothrew the Ceoinenses, slew dieir
king Acron in sio^ combat, -and made
an offering of the royal spoils to
Ju- piter Feretrius, on the spot where
the capitol was afterwards built The
Antemnates and Crustuminians shared the
same. fate; their armies were overthrowu,
and their cities takes. The conqueror,
however, made the most merciful use
of las victny; for instead (rf
destroying their towns, or lessemi^l tbent
nnmbeis, he only placed colonies of Romana
in them, to. serve as a frontier
to repress more distant invasions.
Tattos, king of Cures, a Sabine
city, was the last, althou^ the most
formidable^ who undertook to cevuige the
disgrace his country had suffered. He
entered the Roman territoriea at the
head of twenty-five thousand men| and
not content with a superiority of
forces, he added stratagem also. Tarpeia,
who was daughter to the commander of.
the Cajutolme hill, hap- pened to &11
into his hands, as she went without
4>e walls of the city to fetch
water. Upon her he prevailed, by meant
of hrga pttuSaet, to bebrajr aae
of the ^^ates to his army. Tlie
i«<irwd she eagdgei for was vfaat
the soldiers wore on their atteB, by
vfaich the meaot their bracelets. They,
however, cotber miataking^ her meaning, or
wiUing to panish her peifidy, ttvew
tlieir bncklera upon her as they
entered, and crushed ber to death
beneath them. The Sabines, being thus
possessed of the Capitoline, had the
advantage of continning the War at
tbeir pleasure; and for some time
only slight enconnters passed between them.
At length, however, the tedionsness of
this contest began to weary out both
parties, so that each wished, but
neither would stoop to sue for peace.
The desire of peace ofteii gives
vigour to measures in war ; wherefore
boUt sides resolving to terminate their
doubts by a detMsive ac- tion, a
general engagement ensued, which was
renewed for several days, with almost
equal success. They both fon^t for
all that was vEduable in life, and
neither could think of sub- mitting: it
was in the valley between the
Capitoline and Qui- rinal hills, that
the last engagement was fought between
the Romans and the Sabines. The
engem«it became general, and the slaughter
prod^ioua, when the attention of both
sides was suddenly turned from the
scene of horror before them, to
(mother infinitely more
striking. The Sabine women, who h^
been carried off by the Romans, were
seen with their hair loose and iheir
ornaments neglected, fiying in between tbe
comba- tants, regardless of their own
danger, and with loud outcries only
solicitous for that of their parents,
their husbands, and their cUIdren. "
If," cped ihey, " you are
resolved upon daughter, turn your atma
upon us, since we only are the
cause <tf your animosity. If any
must die, let it be us; since
if oar parents orour husbands faU, we
must be equally miserable in being
the surviving cause." A spectacle so
moving could not be resisted by the
combatants; both sides for a wtiile,
as if by mutual impulse, let fall
their weapons, and beheld the distress
- in silent wnazement The tears and
entreaties of thdr wives and daughters
at length prevaUed; an accommodation
ensued, by which it was' agreed, that
Romulus and Tatius should t«ign jointly in
Rome, with equal power and prerogative;
diat an bailed Sabines should be
admitted into the senate; that the
city should still retain its farmer
name, but that As citizens should
bctdled Qnirites, after Cures, the principal
town of the Sabines; and that both
nations being thus united. 11
•aoh of the Sabtees u i^ose it
shoiM be sdnAted to Bniad eDJoy
all the privilegea of citizens oi
Rome. llaH erery •torm, vhich seemed to
threateo this growing empire, only served
to increase itvigour. That army, wfaich
in die mondug had resolved upon its
destruction, came in the evetlin^ with
j(^ to be enrolled uiDoag the number
of its ctttzens. RomfoloB saw his
dominions and his sul^ects increased by
more then half in the space of
a few hours; and, as if fortune
meant every way to assist hisgieatness,
Tatins, his partner in the govem-
ment, was killed about five years
after by the Lavinians, for having
protected some servants of his, who
had plundered them and slain their
ambassadors; so that by this accident
Romulus once more saw himself sole
monarch of Borne. Rome being greatly
strengthened by this new acquisition of
power, began to grow formidable to
her neighbours ; and it -aiay be
supposed, that pretexts for war were
not wanting, when prompted by jealousy
on their ride, and by ambition on that
of the Romans. Fidena and Cameria,
two oe^hbonring cities, were stibdoed and
tAken. Veii also, one of the most
powerAil states of Etruria, shared neariy
the same fate; after two
fierce engagements tiiey sued ftM* a peace
and a league, which was granted upon
giving np the seventh part of tbev
dominions, their salt-pits near the river,
and hostages for greater security.
Snccesges like these produced an
equal share of pride in the oonqneror.
From being contented with those limits
which had been wisely fixed to his
power* he began to affect absolute
sway, and to govern those laws, to
which he had himself for- merly professed
implicit obedience. The senate was partioH-
larly displeased at his conduct, finding
themselves only used as instrom^its to ratify
the rigour of his commands. We are
not told the precise manner which
they made use of to get rid of
the tyrant: some say that be was
torn in pieces in the senate botise;
otiters that he disappeared while reviewing
his army: eertain it is, that from
the secrecy of the fact, and the
conceal- ment of the body, tbey took
occasion to persuade the mnlti' tade,
that he was taken np into heaven;
thus him whom they oonld not bear
as a king, tbey were contented
t« worship as a god: Romnlns
reigned tlnrty-seven yean, and after his
death bad a temple built to turn
under the name of Quirinus, one of
the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that
be had appeared to hm, and desired
to be isTtAed by that tide. We
see little more in the obaraeter of
this prince, than vhat mi^t be
expected in andk an a^, great
temperance and great valour, wbich
generally make np the catalt^e of
sar^^e virtues. Howeva, the gnndenr of
an empire, admired by the whole
irorid, creates in u an adnuration of
tiie founder, viftoat mnch raamimng' hia Grice:
“Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check
his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done –
but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more
importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio
Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio,
Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of
Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi –
l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi –
analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e
Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di
Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano,
psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la
ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como
reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico
all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no
caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia
equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine
aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe
geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore
interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come
cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza,
prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della
morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la
tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza,
autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo
dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la
societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come
requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola,
verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine:
primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di
inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo,
il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant,
Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690057259/in/photolist-2mPrdWj-2mKF4aM-2mKGaqS-2mKw3hq-2mKEJsY
Grice e Colizzi
– implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo. Grice:
“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on
the stars, de-fixed from the ground!” --
Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is
‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to
desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio
“De amore fundamenta mundis ac ethicae”. Colizzi si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi
applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il
vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my
principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia,
riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione
“de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo
con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro
scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un
bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente
solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica
copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi,
sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica,
cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni
uomo, scopertala, riprodurre e preservare.
Cf. G. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” G. Bruno, “Praxis
descensus seu applicatio entis,” D.Cantimori, “Storia ereticale” (G. Laterza).
F. Bolgiani, “Ortodossia ed eresia: il problema storiografico nella storia e la
situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A
compimento di questo settimo Libro ed
in osservanza alla regola fin qui
seguita, rimanci di far menzione di
que' nostri Concittadini , che in
questo secolo XVII per meriti di
santità, o per dottrina, ovvero per
singolare valore nelle scien- ze, se ne
resero meritevoli. E primo ci si
presenta il Ven. Fr. Agostino da
Norcia della famiglia Colizzi, emulo delle
virtù del suo zio Fr. Giustino da
noi ricordato al Capi- tolo XXIII. De gl’eroici
furori di Giordano Bruno Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento: Giordano Bruno Nolano, De gli eroici furori.
Parigi, appresso Antonio Baio l’anno 1585, in Dialoghi filosofici italiani, a
cura di Michele Ciliberto, Mondadori, Milano 2000 Letteratura italiana
Einaudi Sommario Argomento del Nolano 2 Avertimento a’ lettori 20
Iscusazion del Nolano 22 Prima parte de gli Eroici Furori Dialogo primo 24
Dialogo secondo 38 Dialogo terzo 48 Dialogo quarto 62 Dialogo quinto 83 Seconda
parte de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo terzo Dialogo
quarto Dialogo quinto 118 152 164 176 193 Letteratura italiana Einaudi
Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo
Letteratura italiana Einaudi 1 Giordano Bruno - De gli eroici furori
ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR
FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto
e sporco ingegno, d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un
curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo
(o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso
sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste,
maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or
pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che
spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita
corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e
sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti,
que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi
destinati sotto la tirannide d’una inde- gna, imbecille, stolta e sozza
sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di com- passione e riso
può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle
nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, con-
templativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, ado- ratori e servi di
cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni
merito, senza ri- conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più
senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta
al muro? e dove è più super- bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno,
falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che
avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana
Einaudi 2 Giordano Bruno - De gli eroici furori dal vascello di
Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale?
Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et
intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne,
d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de
prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite consumate, con strida
ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do-
glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir
gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco,
per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel
crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella
pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova
fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel
se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana,
quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un
fantasma, un so- gno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della
generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e
passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a
l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un na- vilio,
una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni
abbia possuti produre la no- stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso
quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un
pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una
lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti a tutto il mondo; a
fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso?
son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi
forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a
non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura italiana Einaudi
3 Giordano Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro
terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura?
Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al
collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli
nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri
successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi
nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano
possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir
voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi
trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia
degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na
volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio
considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo
d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti
gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e
sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte
istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar
il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or
vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque
voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio
conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato
a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne,
benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli
denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et
amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per
tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non
hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura
italiana Einaudi 4 Giordano Bruno - De gli eroici furori quel
splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente
nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante
oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che
caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo,
perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri,
ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e
raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et
altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non
siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove,
Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii,
sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio
finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto
eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi,
che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li
sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo
pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il
quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini
et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo
(per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de
le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal
ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per
usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come
essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente
che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli
de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio
divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la
nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni.
L’altra Letteratura italiana Einaudi 5 Giordano Bruno - De gli eroici
furori per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e
quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto
l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto
del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro;
perché ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso
metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove
odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte,
quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che
descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da
la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo
ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario
modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che
ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime
gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida,
a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde
facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima
intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali
e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria
a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a sti-
racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto
disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui
Letteratura italiana Einaudi 6 Giordano Bruno - De gli eroici
furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine
e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non
sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che
io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi
eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli,
sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto
vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai
delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una
donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a
pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di
quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla
natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti
in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì
pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie
che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da
quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere
ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più
amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al
presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile
l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga
per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene,
donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver
ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per
cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli
affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli
altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de
Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ no- Letteratura
italiana Einaudi 7 Giordano Bruno - De gli eroici furori stri tempi
delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del
disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non
meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri
suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché
non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che
son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es-
sere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la
fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si
biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da
quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile,
non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate
parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in si-
militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le
quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e
proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di
quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a
nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del
sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo
et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per
particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è
quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de
maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le
potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo
considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e
veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi
amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli
uomini, Letteratura italiana Einaudi 8 Giordano Bruno - De gli
eroici furori che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal
dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto
che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento
in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a
gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati
in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’
cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque
arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi
intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si
dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come
quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato
che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a
le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure
è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem
nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual
spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e
trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti,
affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il
possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in
Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima
ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile
che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde
disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia
fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là
Letteratura italiana Einaudi 9 Giordano Bruno - De gli eroici
furori sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto,
l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante
coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor
ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una
naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a
l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e
contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla
con- cordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa
ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente
de- scritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di
questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre
sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove
son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti
et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando
ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama
et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e
si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi
contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e
subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta
o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son
nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me,
viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba Letteratura italiana Einaudi 10
Giordano Bruno - De gli eroici furori mea, et veni: iam enim hiems
transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit».
Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima
specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol
volere, e gli piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non
vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e
per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia
gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto
si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di
tal efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e
rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza
de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di
questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e
fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che
si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso
de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti.
Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e
forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di
sua fortuna, studio e stato, con la raggione e con- Letteratura italiana
Einaudi 11 Giordano Bruno - De gli eroici furori venienza di
quelli, per le antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di
essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo
dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del
stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di
quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima
d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo.
Nel terzo ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno
sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad
essere offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del
sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con
l’imparità de le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien
rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto,
onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien
espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne
in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate
et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, me-
Letteratura italiana Einaudi 12 Giordano Bruno - De gli eroici
furori diante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo
s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto
si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi
s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido
spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni,
inviliti gli pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto
et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est
maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso
quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo
dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato
il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo-
roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio,
elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte
del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo
delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà
è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla
volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio
se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza
appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto
quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per
il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo
che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in
gioventù, sin a l’appeti- to in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”;
onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in
prima, media, et ultimamente noti se- Letteratura italiana Einaudi 13
Giordano Bruno - De gli eroici furori condo la natura: nella quale fanno
in conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita
la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza
vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è
infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en-
te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima
cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le
nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e
potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è
no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo
cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e
concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari-
mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto
che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del
sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla
moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è
designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne
impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co
visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne
indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è
notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza
discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che
proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual
vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e
cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta
la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che
per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata
Letteratura italiana Einaudi 14 Giordano Bruno - De gli eroici
furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a
gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non
possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza,
e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né
favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la
sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli
ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del
giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti
giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de
l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri.
argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono
introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non
sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser
dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e
dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si
trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici
della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di
chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica)
fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause
esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra
significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la
volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità
de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra
le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa
similitudine analogale dependono dalla Letteratura italiana Einaudi 15
Giordano Bruno - De gli eroici furori prima et unica. Queste da
Cabalisti, da Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son
distinte in no- ve ordini per la perfezzione del numero che domina
nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con
semplice raggione fanno che si signifi- che la divinità, e secondo la
reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose
depen- denti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano
teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume
superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso.
Quindi di- cono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son
sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano
altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagori- co
poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad
fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti.
Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago
starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A
cotal signifi- cazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil-
lenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora
per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario
istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma
secondo le diverse raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son
dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri,
come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della
rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’
nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste
basse et Letteratura italiana Einaudi 16 Giordano Bruno - De gli
eroici furori oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole
la divina providenza che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano
assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire
espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti,
né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi
grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la
revoluzio- ne è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che
ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che
sono nella superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico
e con- fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le
leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et
accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’
pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per
esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può
essere re- frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene
sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione
in premiar gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini?
Ma per veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si
prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti,
or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della
divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen-
te si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza
di Circe, la qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del
sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle
le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per
forza d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo
dovenir ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è
Letteratura italiana Einaudi 17 Giordano Bruno - De gli eroici
furori causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le
anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano
dicendo: «Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion
e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or
che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro
mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo
cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe;
perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia
effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma
commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il
firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano:
quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un
tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è
progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da
una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che
sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là
s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario
delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de
l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di
vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto
divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è
quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro
flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine
intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale
è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è
per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, a Letteratura
italiana Einaudi 18 Giordano Bruno - De gli eroici furori sciòrre
ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa.
Quella con la sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà
e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con
l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove
son nove intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri-
ma si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de
l’altra; perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo
dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de
l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché
medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e
profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e
modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e
consonanza de tutte le sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove
il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti,
la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo
celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle
superio- ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che
la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e
l’infinita bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le
cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli
ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io
non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e
molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un
sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano
raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un
poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro;
le cose eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19
Giordano Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di
qual vi mostrate dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli
osse- quii ad un signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per
sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità
m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no
seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da
obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano
nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili
a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere
a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor,
giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al
sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi,
giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et
èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di
trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un
instante, che lemmi a lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi
20 Giordano Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa
piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A
in sino a Q significano gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera,
significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la
linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da
cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di
morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di
regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2:
sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7,
f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10,
compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li
16: dice quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per
quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f
2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo;
Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’
il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13:
intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso
Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli
quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P
6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam
nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l
1: De le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e
leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’
in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che
femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive
mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in
ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né
vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole,
dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole.
L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte
faranv’ossequios’il studio e l’arte. Letteratura italiana Einaudi 22
Giordano Bruno - De gli eroici furori PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI
Letteratura italiana Einaudi 23 Giordano Bruno - De gli eroici
furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori
dumque, atti più ad esser qua pri- mieramente locati e considerati, son questi
che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada
Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai,
importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai
versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti
si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi
lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi
nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il
spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri
eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le
quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse,
non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte
contra gli ministri e servi de l’invi- dia, ignoranza e malignitade. Secondo,
per non assi- stergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta
quello: Letteratura italiana Einaudi 24 Giordano Bruno - De gli
eroici furori Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de
Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de
filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse
esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica
Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con più vena che
materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in
mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so. Finalmente
per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et alte alle
quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero
sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al
fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non
avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette
inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri:
perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite:
che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e
possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente
si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re, dalla quale
riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano
cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e
morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti
politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo
Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché
quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e
modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25 Giordano
Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de poesia che a gran
pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio, Marziale, Exiodo,
Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori, esaminandoli per le
regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi
son vere bestie: perché non considerano quelle regole princi- palmente servir per
pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar
tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir al- tri che
potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de
diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse
da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad
imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da colui che non era poe- ta
di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè
dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che volesse doventar non un
altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa
altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non
per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le poesie: e però tanti
son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.
cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente poeti? tansillo Dal
cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a delettare, o vegnano a
giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole
d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri
poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse
far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana Einaudi 26
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han torto certi
pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché
non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri
e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la
consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con
l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto e
proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per
censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che
essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri
poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son
altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per
rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi
render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a
dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde
l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no
essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti
et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo
da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie.
Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de
pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e
leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali:
e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di
quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da
scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate.
Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in
diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e
potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con
cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel
tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso
dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi
“nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate
profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo
“inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte
sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte”
in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli:
cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di
morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal
cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le
necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la
gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti
gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: [1] In luogo e forma di Parnaso ho
’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a
tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi
fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui,
com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi, Letteratura
italiana Einaudi 28 Giordano Bruno - De gli eroici furori non
favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai
grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri,
e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser
l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser
le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e
questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle
bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si
dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato
per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”,
imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core
in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno
a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede
l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte
Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il
capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun
in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual
insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non
accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo,
chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, Letteratura italiana Einaudi 29
Giordano Bruno - De gli eroici furori ad una beltà sola io resto affiso,
chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco
più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in
poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti
d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il
“suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli
guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per
esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che
son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte
inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato fine.
Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere
ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o
nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli
loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi
come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri
con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto
riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga
“ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi
“restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di
quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli
constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè
dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il
fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché
cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30
Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra
tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri
semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un
paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il
fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e
l’altro che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può
essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del
secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna,
content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la
mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me
l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha
refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in
pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piace
...........................................................................
farà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la
caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar
il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo-
rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor
de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la
“sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et
indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che
la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31 Giordano Bruno - De gli
eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il
suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la
gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non
biso- gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo
dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e
colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de
referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata
piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso
ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù
d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco
vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e
raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal
diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e
strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna”
per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men
degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di
quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et
impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si
pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce
ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia
dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura
italiana Einaudi 32 Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme,
segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei
si dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per
freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e
niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e
significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello
e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor
figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca
talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia,
che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il
più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol
non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse
a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo
senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal
volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso
amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere
talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio
l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre
particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo
Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amo- re non perché egli per sé sia
tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso
che in Letteratura italiana Einaudi 33 Giordano Bruno - De gli
eroici furori qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno
e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto,
promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza,
per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son
la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii
sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito,
anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che
gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di-
spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che
l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo
inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani;
ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E
con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente,
amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella
matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché
cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la
sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de
l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende
ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria,
perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di
lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate,
che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion
o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34 Giordano Bruno - De gli
eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e
più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più
nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud-
dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non
ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi-
ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui
medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte
per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi
mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non
rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto:
qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del
sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa
penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo
il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver
discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e
per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel,
terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col
trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo
vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se
puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché
ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura
italiana Einaudi 35 Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra
dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose
altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie
via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non
concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è
lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché
questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica,
principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non
farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia
bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire.
“Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo-
re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha
“noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il
spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da
quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”,
cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa
dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del
stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e
metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi
piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del
mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo
pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via,
Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil
faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui
brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36 Giordano Bruno
- De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno,
lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o
forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio
core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro
principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una
contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia
sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo
essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu,
Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle
vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore,
e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui
per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le
mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi
sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio
et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo
ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma
de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella
sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque
dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? fine del primo
dialogo Letteratura italiana Einaudi 37 Giordano Bruno - De gli
eroici furori DIALOGO SECONDO tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli
af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in
sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto d’amor l’alto
vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio,
ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor
scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son
vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al
core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso;
poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir
non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A
proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non
bisogna affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente si vede, cioè
che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta
esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è pu-
ro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde
avviene che gli successi de li no- stri affetti per la composizione ch’è nelle
cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di
più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che
la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura
italiana Einaudi 38 Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è
causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si
trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e
piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo
non, come senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico
poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras
respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la
composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo,
eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel
maggior grado del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla
appren- sion del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro;
gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di
quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è
figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede
che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa
medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi
de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi
aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico
è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro
e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e
timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni: «Giamai
fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre del
Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». Letteratura italiana Einaudi 39
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Volete dumque che colui che
è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non,
anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore.
cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui
ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che
dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel
ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene,
stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e
vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de l’altro, e
l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia
di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle voluptadi:
stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente il suo fine.
Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi- derazione ha
presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le cose mutabili
come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che vanità et un
niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea.
cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti,
senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo;
là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è partecipe,
sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad
inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse veramente dire
talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men alle- gro che
adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non fai due
contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come
due Letteratura italiana Einaudi 40 Giordano Bruno - De gli eroici
furori virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi- nimamente allegro,
e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso
(cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e
gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché
si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men
contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due
virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è
là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là dove è l’estremo;
la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel
mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in- differente: come tra il
freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale
è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza
contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento e minimamente triste,
è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa della temperanza, e là
dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato
da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al proposito) come
questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli
altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un
suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o
ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi
differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da
quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico furore che di-
ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella temperanza della
mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se
triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità
«stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla Letteratura italiana Einaudi
41 Giordano Bruno - De gli eroici furori dal core per cura
d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui
risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama,
odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura
ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guer-
ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni
per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in
Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam
dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis».
tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual
condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi
lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua,
perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote,
qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion
contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e
distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta de
la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o
a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana
Einaudi 42 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con
questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in
stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si
tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli
estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser
virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede
dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove
convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco
dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte
morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è
morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo
di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la
considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della
potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga
gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e
fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal
contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog-
giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e
confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion
l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente
sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in
nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si
travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è
l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno
Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43 fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno
pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché
non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è?
Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con
che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé.
Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal
follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir
tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. Giordano Bruno - De gli
eroici furori Letteratura italiana Einaudi 44 Giordano Bruno - De
gli eroici furori pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice
che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno
veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: men- tre
escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son
protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che
guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza
di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E
quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in
punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto
ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che
dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso,
mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual
suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che
possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dum- que la speranza esser fondata
sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace,
e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e
proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato:
perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso,
che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre
il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale
la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser
vera- mente eroico: perché si propone per più principal fi- ne la grazia del
spirito e la inclinazion de l’affetto, che Letteratura italiana Einaudi
45 Giordano Bruno - De gli eroici furori la bellezza del corpo, in
cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto
platonico è di tre spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o
spe- culativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria:
cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale
s’inalza alla consi- derazione della spirituale e divina; l’altro solamente
persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a
precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti
altri, se- condo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna
col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e
tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che
tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o
equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in
questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del
gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza,
senz’il qual otten- to (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano
ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro
ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a
cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i
quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico
amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno
da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella
leggiadria del cor- po; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai
d’esser uniti a quello, della cui lontananza si la- gnano, e disunion
s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di
quell’affa- bilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più
Letteratura italiana Einaudi 46 Giordano Bruno - De gli eroici
furori principale: essendo e dal tentare non più può aver si- curezza di
successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto
gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna,
o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano
ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve
ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e
basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del
medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi
mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali.
tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro
splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la
razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me)
mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato
da qualche sta- tua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque
un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et
ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) di-
ca: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”. fine del secondo dialogo
Letteratura italiana Einaudi 47 Giordano Bruno - De gli eroici
furori DIALOGO TERZO tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali
tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che cecità,
stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri
consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in
fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per
esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario
sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti,
nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta,
s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in
quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il
mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza
come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e
con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior
admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per
aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e
fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della veritade,
della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi,
e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume razionale con cui
veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al fine a parlar et ope-
rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada
Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità,
potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri
Letteratura italiana Einaudi 48 Giordano Bruno - De gli eroici
furori essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son
degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra.
Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e quella s’admira,
adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della
propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi
raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son
oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del
bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso-
migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con
gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension
intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi
parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad
accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e
degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e
d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et
impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più
vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli
altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che
fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal
caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da
certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le
Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni,
rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze
cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne
l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi-
cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine Letteratura italiana
Einaudi 49 Giordano Bruno - De gli eroici furori de le umane cure,
dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia,
concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte
le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in
questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come
un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai
ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar
l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a
dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come
nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto
l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e
consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e
perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo
sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che
non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta
dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove
non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va
spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido
si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra
contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci
di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la
padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere
qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se
quand’il cervio per sete vien meno, Letteratura italiana Einaudi 50
Giordano Bruno - De gli eroici furori al rio va, non sa della freccia
amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli
prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i
strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì
m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il
mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma
lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfal- la, del cervio e
del lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e
de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da
un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco
che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che
altra libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo
rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per
condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male
absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida
che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose
divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna
luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla
pri- ma verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e
sommo bene. A quel senso io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un
sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù
convien ch’io goda, Letteratura italiana Einaudi 51 Giordano Bruno
- De gli eroici furori fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal
ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi
gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo
tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che
nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e
mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio.
Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e
cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno
per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si
comunica all’anime e risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio)
per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli
corpi o la corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del
spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che
veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle
dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in
certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi-
bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che
tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si
disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione,
che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et
espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da
l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà
dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e Letteratura
italiana Einaudi 52 Giordano Bruno - De gli eroici furori far che
l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non
soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi
bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava.
cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque
discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac-
ciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale
amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual
disposi- zion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto
dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore.
Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero
tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che
di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a
l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade,
quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo
inchiostro, at- teso che dalla conformità si suscita, accende e si con- firma
l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E
non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quan-
tunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire
una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di
ri- cevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto Letteratura italiana
Einaudi 53 Giordano Bruno - De gli eroici furori vili (de quali
vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che
per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta
volta non mancava ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo
senza buona volontà, es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che
allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a
proposito quella di- stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È
vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti:
ma non le amia- mo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son
belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che
stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché
non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo
rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re
d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto
corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:
Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio,
Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio
core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra
adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in
desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto
studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi
tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. Letteratura italiana Einaudi 54
Giordano Bruno - De gli eroici furori L’amor suo qua è a fatto eroico e
divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti
martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla
quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in
cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che
degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di
quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual
tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio
ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap-
parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli
non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli
gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie
intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa
priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste
ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra
specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e
vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia
possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli
adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero:
perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta
dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se
(come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto
finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder
Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in
qualche similitudine; non tale Letteratura italiana Einaudi 55
Giordano Bruno - De gli eroici furori qual possa esser abstratta et
acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può
esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato
ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto
sensibile quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel lume dovien
lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità
in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per
quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a
conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto.
Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo
inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la
bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio
eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,
si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi
che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti,
opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove
sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi
d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e
muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è
luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma
come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri,
e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima,
l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi
56 Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino:
cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione
in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce
alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del eroico
furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in
atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere
l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in
certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la
consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine.
cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non
sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et
in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in
questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar
il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma
a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto
studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in
tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal
stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di
questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi
par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo
quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le
scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo
stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior
perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual-
Letteratura italiana Einaudi 57 Giordano Bruno - De gli eroici
furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come
dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio
per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che
possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar
l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai
perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto
l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia
presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada
Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o
doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo
possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar
degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che
riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una
degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito
feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il
piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo,
e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi,
anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita
pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti,
temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer
(respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì
illustre morte ne destina». Letteratura italiana Einaudi 58
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Io intendo quel che dice:
“basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi
sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico,
rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che
quei che pro- fittano in questa contemplazione non possono esser molti e
numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può
intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi
chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due
sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi-
fico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità
vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo
movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è
il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma
secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel
grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi
ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo;
tal’or come ri- svegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo
principio e geno, si voltano alle cose superiori, si for- zano al mondo
intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione
alle cose infe- riori, si son trabalsate sotto il fato e termini della ge-
nerazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi
espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro,
Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa
caprone; Letteratura italiana Einaudi 59 Giordano Bruno - De gli
eroici furori fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida
dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio.
Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio
dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio
in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui,
per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano
all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori
s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato
a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta
alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna
scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte
giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa
determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto
per cer- to ordine per cui vegnono affette verso la materia: on- de non come
per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere;
e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene.
(Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per
quanto appar- tiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine
che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi
(per la conversio- ne che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a
gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te
dalla necessità del fato, e non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto?
Letteratura italiana Einaudi 60 Giordano Bruno - De gli eroici
furori tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose
giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come
riferisce Ploti- no) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel
proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo
il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi,
come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel
stato et identità come l’imagi- nazione nel moto e diversità; la mente sempre
inten- de uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In
mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui
concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato,
l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata
nella ruota del- le metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte emi- nente,
giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla
sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa con-
versione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di
quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in
forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme bas- se et aliene.
E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria
e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie
della divina beltà e bontade, con l’ali de l’in- telletto e voluntade
intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso.
E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa
inferiore”. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi 61
Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO QUARTO tansillo Cossì si
descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è
il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al pro- prio oggetto
che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta
la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in
cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il
giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di
boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia
che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e
’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi
più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri
ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri.
Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza,
all’apprension della beltà divina. Costui slaccia “i mastini et i veltri”: de
quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de
l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et
efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che compren-
sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e
spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. “Alle selve”, luoghi
inculti e Letteratura italiana Einaudi 62 Giordano Bruno - De gli
eroici furori solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non
son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto e prattico, come
quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel dubio cami- no” de
l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel carattere di
Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro et arduo
camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia di
boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono
occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a
tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le
similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender
divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori
et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e
faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et
atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio
alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno
la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di-
versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in
ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è
vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina
vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade
divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et
altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran
cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per
predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con
cui converte le cose ap- prese in sé. Letteratura italiana Einaudi 63
Giordano Bruno - De gli eroici furori (cicada Intendo, perché forma le
specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son
ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion
della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada
Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai
bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il
suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la
raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani
che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera
boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di
sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e
s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad
essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era
necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il
regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del
riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come
l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri,
corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più
leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi
più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era
un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e
fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua
finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e
comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et
ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra Letteratura italiana
Einaudi 64 Giordano Bruno - De gli eroici furori similitudine
descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio
pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero,
tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e
l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il
fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte.
Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla
vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto,
e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il
cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor
alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi
alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui
cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural
imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione,
appli- candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente
impiumate quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due
ali. E gli com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e
cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di
trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal
quale va pere- grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei
mio”, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Letteratura
italiana Einaudi 65 Giordano Bruno - De gli eroici furori Lasciato
m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la
morte de l’anima, che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella
Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca,
perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata
“sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e
le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì
l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o
furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e
dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel
richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce
quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene
tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue
catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene,
chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera
discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come Letteratura
italiana Einaudi 66 Giordano Bruno - De gli eroici furori drizzando
il suo sermone a gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado
abbia donato con- gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de
dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con
ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi
verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso
s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre
quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in-
telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e
la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non
si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene
in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con
l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade.
Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa:
da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore
e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera.
Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può
essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è
l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad
esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo.
Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse-
guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente
bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa
prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né
Letteratura italiana Einaudi 67 tansillo cicada tansillo cicada
Giordano Bruno - De gli eroici furori conveniente che l’infinito sia compreso,
né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e
naturale che l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato
(in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di
certo moto metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va
circuendo per gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro
infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo
si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso
dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita
l’in- finito, è come colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il
centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi
dechiararti, io non voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per
quel che di- ce il core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo
Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice
crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio
che in possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto
soggiorna, perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri
che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli
affetti sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo.
cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli,
né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68 cicada tansillo cicada
sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser
chiamati insani quei che men tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori
Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o che
tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più
intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono
le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che
stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della
bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e
circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli
oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo
Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa
presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi
son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor
che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra
persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e
che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo
ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per
tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri
scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il
cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore Letteratura italiana
Einaudi 69 Giordano Bruno - De gli eroici furori di domestiche
fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni
del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua
descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per
l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che
solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a
richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché
invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a
rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di
quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della
genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e
milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo
gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è
presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non
vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio delle
raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender
da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: “il vedere
reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore
intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere
sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la
potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o
significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa l’occhio o
l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque si
consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri-
Letteratura italiana Einaudi 70 Giordano Bruno - De gli eroici
furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente
affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello
ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o
bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere?
Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo
Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere;
perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno:
però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo
il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è
parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il
rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto
la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è
bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé,
certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di quell’altro
senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di
sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser
visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il
senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi-
bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o
d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap-
petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender
tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono
intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per
che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi
71 Giordano Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non
meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e
viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e
che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo
che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser
particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la
potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva
tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto,
aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a
cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi
l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale
quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale.
cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è
la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la
quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli
occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in
se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma
individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello,
all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima
vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere
l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto,
sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che
oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in
infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del
bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista
esteriore? Letteratura italiana Einaudi 72 Giordano Bruno - De gli
eroici furori tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che
ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è
stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi.
Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi
nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il
quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare.
Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la
vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in-
telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima
intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or
seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la
querela de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra
l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano
ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli,
per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli,
ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che
queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì
grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco
alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci
artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Letteratura
italiana Einaudi 73 Giordano Bruno - De gli eroici furori Eccomi
misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza,
la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia
po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo?
perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo
le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di
specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo
supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche
e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de
le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af-
fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei
fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e
l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e
suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che
conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del
spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto
che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e
membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de
suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo
gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono
mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e
vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere
vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse;
dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua
legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla
legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano,
non si conturbino. Basta che uno non Letteratura italiana Einaudi 74
Giordano Bruno - De gli eroici furori guaste o pregiudiche alla legge de
l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È
pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove
l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in
propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati
di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove.
Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e
principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de
l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è
nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi
de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non
in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che
non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et
animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la
condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare
avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse
sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu-
ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto
stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l
primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la
causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del
corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella
forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e
forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente:
Letteratura italiana Einaudi 75 Giordano Bruno - De gli eroici
furori Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva,
e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice
fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al
mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve
converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e
ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi
dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre
consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima:
atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì
qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme
col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade.
Come quando il senso monta Letteratura italiana Einaudi 76 Giordano
Bruno - De gli eroici furori all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo
mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima-
le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale
supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle
quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi.
tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non
quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può
deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano.
Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad
una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto
séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile,
secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad
un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno
qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che
sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa
dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla
contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far
differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se
una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle
de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano,
Letteratura italiana Einaudi 77 Giordano Bruno - De gli eroici
furori al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la
morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale
l’intrattiene in quel es- sere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna
dicendo “O cani d’Atteon”, viene introdotta come cosa che consta di potenze
inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core,
cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per
apprension del stato presente et ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non
più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pen-
sieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto
che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune
amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di
sorte che bisogna al fine di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se
per virtù di con- templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli
affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e
l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad
alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de
animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il
cor- po è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e
come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al
terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la
dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava
del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in
alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità
contratta con la materia corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non
m’impacciar “ch’io rimonti” al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami
ormai che più non verse Letteratura italiana Einaudi 78 Giordano
Bruno - De gli eroici furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso
soccor- rerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è
decente né possibile che questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè
senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua
basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con
le sue ninfe, che son gli miei pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel
disamore e rincre- scimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi
dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga?”
e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per
questo volete inferire a proposito della principale in- tenzione: cioè che son
gli gradi de gli amori, affezzio- ni e furori, secondo gli gradi di maggior o
minore lu- me di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi
apprendere quel- la dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici
vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha
di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per
quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi
brevemente quel che in- tendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può
ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar
significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere
infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et
infor- me, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia
spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se
dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in
quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del
sole, luna et altri, dico che Letteratura italiana Einaudi 79
Giordano Bruno - De gli eroici furori tal anima non ascende né descende,
ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de potenze superiori et
inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la
mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della
generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la
propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con
misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario
e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo
Come dumque accade che queste anime par- ticolari diversamente secondo diversi
gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et incli-
nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e
sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse
vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli
Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente Platone et alcuni che più
profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la qua- le è
cossì numerosa de gradi come la scala della natu- ra, atteso che l’uomo in
tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le
affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono
da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini,
secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la
similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede: non dovendo
la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri
Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al
proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico,
se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto Letteratura italiana Einaudi
80 Giordano Bruno - De gli eroici furori mi sulleve, et ivi dimore
in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo medesimo proposito
continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a
l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor
conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze
smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più
l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende,
ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante
emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. “O destino”,
o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io monte a quel monte”,
cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi
quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate
quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che “for- te” et efficacemente
“conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure,
nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano
disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti,
ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste
“potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a
fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico,
mi confortarà a pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui
possa la mia sustanza Letteratura italiana Einaudi 81 Giordano
Bruno - De gli eroici furori tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io
emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il
rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il
vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi
“attende”; et ascende e perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star
montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non
può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro
l’have in misura del- la propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza):
all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che “dice chi tutto predice”,
cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima
cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte
cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e
principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede
l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti
intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono
la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale
circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota. fine del quarto
dialogo Letteratura italiana Einaudi 82 I. DIALOGO QUINTO cicada
Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di
questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia)
qua descritto. Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Vedi come portano
l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor
nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’im- prese et
intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de
la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion
de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo
distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa
di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi
è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo
direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo,
dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele- mento essendo
rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in
vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova
facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare il vase.
Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore
a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore,
soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come
in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della
sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso
pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria.
– E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha Letteratura
italiana Einaudi 83 II. tansillo Appresso è designato un che ha nel
suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che
distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper
ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere differenza,
o diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso
del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti
sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor
porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso
accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza
scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria,
al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia
dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né
la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta
materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa dal “gemino
lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal
petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo
del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de l’aria
s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e
vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge
alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. Letteratura
italiana Einaudi 84 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada
Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più
eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non
stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni
de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte
a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et in cadaun
loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove,
viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo
de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a
una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tro- pico del
Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a
medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a
quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la di- sposizion vernale o
autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli
freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra par- te, e
non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla
da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che
volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a
la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del fu-
rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son
l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori,
che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o par- tono da l’acqui e
vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al
Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa
ritorno, Letteratura italiana Einaudi 85 Giordano Bruno - De gli
eroici furori ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più
prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti,
sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in
pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et
infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo,
equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il
senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la
conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è
latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la secon- da; come
l’uno e l’altro è molto propriamente signifi- cato nel tipo del sole e de la
terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un
fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul
braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi edificii de stanze,
torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la
materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol
dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fan- ciullo ignudo
come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna,
qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre
cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et
il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi
suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la Letteratura
italiana Einaudi 86 Giordano Bruno - De gli eroici furori speranza:
voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il pensiero con cui
vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e
conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e
tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso
cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la
natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici
per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi
con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che
questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando
tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo
a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin
ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o
felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli
uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né
prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio
dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il
spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere
la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il
fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin
rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli
venesse Letteratura italiana Einaudi 87 Giordano Bruno - De gli
eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto
beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo
morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per
cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le
quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso
et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la
compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV.
cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi
quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non
è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza
del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiam- me:
onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto
de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis” attivamente.
“Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore. cicada Or che è
quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi
lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso
stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel,
fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin
o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non
è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più
sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi 88
Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho
per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha
il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra
più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che
se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce
quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio
risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle
fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel
raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di
voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto
e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core,
libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada
Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar
raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il
stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V.
cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il
motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten-
dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia,
essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia
sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel
s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma
disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89 Giordano Bruno -
De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola
presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva
dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio
e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e
nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et
accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la
intelli- genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove
dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi
perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor
de la specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da
gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son
questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la
quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne
gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro
che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e
trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi
dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì
ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima
conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a
quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime
(come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta
dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la
legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90
Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che
quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a
quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale,
viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in
rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal
conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino
nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de conformarsi
d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono infra la
propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; «secondo è
l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo
il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà che
senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta
ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli
espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza
quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né
constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la
bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come
l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto,
il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia
ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a
quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è
l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto
s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la
bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da
per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi 91
Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella
differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e
belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello
intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è
quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de
militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul
dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa
dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza.
cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar
quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte
d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più
stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de
gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza,
dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso
veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un
fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma
perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga
Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu
sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te
ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido,
hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana Einaudi
92 Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et io ho
breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel
che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso
de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte de la
fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar che
gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma
che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli
fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la
medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo
spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il
sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili
differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma
questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi
de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole
cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la
morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e
mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma
costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili caggioni de
circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende con
certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che
possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore,
che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è
incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel
che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che im- Letteratura
italiana Einaudi 93 Giordano Bruno - De gli eroici furori
mediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi
intelletto agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha
in- fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra
specie che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al
sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano
individuale e numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e
diversissimi oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le
forme natu- rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et
incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile
e certo, cossì secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi
(come da per te stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la
natura dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del
senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza;
la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti,
da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da
cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma,
s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol
significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori,
con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai
arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da
sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel
circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel
moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene
sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in
uno Letteratura italiana Einaudi 94 Giordano Bruno - De gli eroici
furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la
circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e
la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e
mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima
(come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et
inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il
proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come
comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e
col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de
l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del
Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una
possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la
primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché
è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che
dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in
tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l
comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui
compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non
è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che
lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di
toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin
che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo
Quel motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può
essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95 Giordano Bruno
- De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il
moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali
malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che
son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto
e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal
Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal
pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier
Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade,
autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio,
che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo
sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar
miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati
non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma
per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario:
per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota
appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete
leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi,
avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che
questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano
tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi
96 Giordano Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo
accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e
bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio,
l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette
sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que-
sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra
mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada
Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel
cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et
astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si
mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che
acciò che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella
tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene
svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli
fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le
spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre
piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre
tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia
nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la
sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”:
cioè Letteratura italiana Einaudi 97 Giordano Bruno - De gli eroici
furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene
oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo
speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et
affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come
questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì
l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in
ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili
Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è
in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto
emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume
d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per
ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”,
or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più
s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non
è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso,
combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze
inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno
e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto
non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre
tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero;
“sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è
“tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”,
perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”,
percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza
al motto. Letteratura italiana Einaudi 98 Giordano Bruno - De gli
eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua
applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio
altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto
posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de
pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è
pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual
m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è invariabile
in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono
constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al
rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa, essen-
do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli
suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque
verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et
illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre
piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come
anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da
l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore
alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra)
come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme
de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza
è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo Tutte
l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto
e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon- do
participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per sua
natura: ma per risguardo Letteratura italiana Einaudi 99 Giordano
Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è
pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le
cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte
come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo
Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la
luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla
luce del mondo intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è
occupata al governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è
detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente
scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un
vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è
affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e
fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro
Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove
stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai
stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e
comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’
ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il
motto è aperto, per cui si vanta il furio- so d’aver forza e robustezza, come
la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi 100 Giordano Bruno -
De gli eroici furori quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica
fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre
tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra
la no- stra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in
quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò
cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la
fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione,
come la detta ra- dicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la
terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che
trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se
sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli
ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né
pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella
per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non sti- ma vera e compita
virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma
quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor di- vino et eroico
quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello
ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un
piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in
punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la
voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo
senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che
senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di color che leggono il
corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò
il Letteratura italiana Einaudi 101 X. tansillo Guarda in quest’altro
ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab
Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di
Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i
folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo
testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita,
abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque
grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto
venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del
fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel
mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica,
né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la
constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma
in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il
spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti.
cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché
è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e
non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro
disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto
è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente
Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno,
Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi
d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili.
cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102 Giordano
Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo
gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi
studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina,
incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la
fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran
martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si
mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il
quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori
de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in
sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di
noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un
proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi
al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante.
Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che
noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano:
come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio.
In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì
facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere
che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la
vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene
o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali
e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi
103 Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno
qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno
sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun
vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo-
re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che
ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in
pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi,
riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la
terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che
s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore
da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo,
summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato
il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì
è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri
distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato
da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad
essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della
potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha
difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno
instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena-
no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e
dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi
discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato
a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104
Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose
imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava-
gliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine
di Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma
signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che
volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E
quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad
essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli,
conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli
mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri
stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di
Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder
che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te,
con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice
Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto-
posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più
specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente.
tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator
d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’
altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è
l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o
Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105
Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per
l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante
appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco
qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le
circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri
che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi
suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le
condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or
qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà
con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde
quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti com-
muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla
et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal differenza è lo aver
queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e
derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le perfezzioni secondo
gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina
essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che
bellezza, e mae- stade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attri- buti
sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella
sfera tutte le dimensio- ni sono non solamente uguali (essendo tanta la lun-
ghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel
che chiami profondo, me- desimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è
Letteratura italiana Einaudi 106 Giordano Bruno - De gli eroici
furori nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la
profondità de la potenza, e latitudine de la bon- tade. Tutte queste
perfezzioni sono uguali perché so- no infinite. Percioché necessariamente l’una
è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite,
avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più
savio e buono che poten- te, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita
sapienza, non può essere se non infinita potenza: per- ché altrimenti non
potrebbe saper infinitamente. Do- ve è infinita bontà, bisogna infinita
sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è
infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben
si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo
fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente
che gli altri diversi da quello. Co- me, voglio dire, la specie intelligibile
della divina es- senza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie
altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di
quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che
vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve
esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella
che da Minerva è supera- ta in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade
di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la
dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle
nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie in-
telligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il
seguente porta una testa, ch’ha quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro
angoli del cie- lo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali sopra-
Letteratura italiana Einaudi 107 Giordano Bruno - De gli eroici
furori stanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae;
vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di
questa divisa è conse- guente di quello de la prossima superiore. Perché co- me
là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta
aspirazione, studio, af- fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son
messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la
stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e
terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba
guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e
serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar
costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è
che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et
ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto
Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca-
verne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non
significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie
apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che
talmente influiscono nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire
ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e
buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito,
appagato, e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108
tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà
circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre
oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada
Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i
venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su-
spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per
quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e
spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo
per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il
vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli
suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie,
ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente
uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo
d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono
tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di
nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma
con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello
stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la
condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar
l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai
sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita
potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita
potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi 109
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto umano è una
natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è
eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità;
e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che
differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo
Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a
noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa
credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno
convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto
che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo
appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad
vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del
vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che
mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen
d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto
da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo
l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno,
sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de
l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai:
bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core. Letteratura italiana
Einaudi 110 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Questa
tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non
ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro
che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le
quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché
non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno
l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli
scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza
illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù
che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti.
L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove
a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de
l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché
tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì
dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che procede
da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti
de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che
come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur
in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe
misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem
in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque
laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus
simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus
quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi 111
Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti corpore
toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit
gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt
avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora,
nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché
dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita
mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde
l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor
volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque
alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim
virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna
gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt
sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”?
tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più
illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto
non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come
al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato
che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il Letteratura italiana
Einaudi 112 Giordano Bruno - De gli eroici furori quale è avolto un
laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo
Mi par che voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente
l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta
scritto: “Amor instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor
come istante o in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che
se uno dicesse: «questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la
porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che
la stima». tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera.
Quello “instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome
sustanti- vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor
insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del
tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è
che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo
che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio,
la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in-
stante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo
dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in
diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le
parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son
qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete
che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non
sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante.
E questo baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113
Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la
Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il
tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada
Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non
vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe-
ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest
d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi
interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi
contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso
che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può
essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra
significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et
un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha
triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side:
un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un
occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega
amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio
triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in
rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho
compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi
par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114
Giordano Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a
la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo
acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto
che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro,
però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar
medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete
la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo,
avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova
loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115
Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte.
Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. fine del
quinto dialogo e prima parte degli eroici furori Letteratura italiana Einaudi
116 SECONDA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi
117 I. DIALOGO PRIMO interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre
teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia
volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le
cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che
in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là
è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir,
nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti,
la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo,
ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun-
Letteratura italiana Einaudi 119 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né
possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che
furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il
possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli
frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il
morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne
ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e
prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo
aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio
Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni,
per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per
conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo
che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose
presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì
gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano
confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria.
Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di-
spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano
suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte
l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a
fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male
vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza
alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi.
Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova
altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non
raggiono con altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120
Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men
convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et
ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto
son Letteratura italiana Einaudi 121 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde,
fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi
piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che
riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira,
ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap-
paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente
è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la
natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi
amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali
per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti-
Letteratura italiana Einaudi 122 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel
quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più
bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma,
o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar
l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o
si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre
verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al
desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura,
imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo
Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra
coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et
appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo
richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da
quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come
per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue
vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo
ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove
disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio,
la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare
errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle:
errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che
vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce
da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di
commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può
presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana
Einaudi 123 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come
importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo
disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a
tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di
controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici
son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la
perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere
dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un
ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse
son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar
più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e
doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a
l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per
conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano
essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come
dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse:
Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis
manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis,
et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura
voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est,
rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter
amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est,
unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
Letteratura italiana Einaudi 124 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa
che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo
del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla
si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III.
cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che
arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal
cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi,
contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende
tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e
quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore
accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero,
manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando,
Letteratura italiana Einaudi 125 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol
di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile.
cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del
sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo
quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato
furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso
il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che
ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si
risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara-
zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che
la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un
oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co-
noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe
notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero
stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta-
re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con
questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il
canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben
dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il
mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono
sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la
previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno
gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che
celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di
paglia, o insculpito un Letteratura italiana Einaudi 126 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori tronco di legno, o messo in getto un pezzo di
calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna
aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante
che dal suo encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che
vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto
alla prudenza di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto
altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse,
sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero
ossequiosi a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato
il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso
chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran
segreta- rio e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to
illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel
poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam
memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet,
imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice
Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico,
che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti
renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle
quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto
dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea
et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è
più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani
satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria
Letteratura italiana Einaudi 127 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive
Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de
Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto
grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una
profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il
capo». Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice
accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per
luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode
dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol
raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli
più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si
possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna
più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore
ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può
aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la
medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non
è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità:
perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che
essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora
gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e
paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio
de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma
di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e
strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi
128 Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma
procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete
prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con
quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto
de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum?
maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et
occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor
santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier
vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi
alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian
chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio
et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in
quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò
appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi
daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi
dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la
turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana
dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e
sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior
periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici
spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più
facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi
quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte
che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti,
perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti
s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui
possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor
che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno
idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando
è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice
Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse
Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis
enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto,
per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce
spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è
ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima,
principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver- bigrazia
con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino? maricondo
Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero
massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tem-
pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma venir al
più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più
ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita
de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso,
o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, Letteratura italiana
Einaudi 130 Giordano Bruno - De gl’eroici furori son fatture simili
a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità
presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare
primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir
a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli
affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di
fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia)
superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la
grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità
e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di
specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene.
Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a Lucilio: «non biso- gna tranar
le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o
lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto
la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di- ce egli «l’oro et argento
che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori simili; non gli vestimenti,
perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e
forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion
de lui»; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente
admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno
tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso
in qual maniera costui “Tranquillarà gli sensi”, “mitigarà gli dolori del
spirito”, “appagarà il core” e “darà gli proprii censi a la mente”, di sorte
che con questo suo aspirare e stu- dii non debba dire «Nitimur in cassum»?
maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé
sia da quello absente, Letteratura italiana Einaudi 131 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori farsi come con indissolubil sacramento congionto et
alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali,
considerando d’esser maggio- re che esser debba servo e schiavo del suo corpo:
al quale non deve altrimente riguardare che come carce- re che tien rinchiusa
la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien
strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien
abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, catti- vo, invecchiato,
incatenato, discioperato, saldo e cie- co: perché il corpo non gli può più
tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito
proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta
alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnani-
mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni.
cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel
che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro
proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo
Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete,
atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro- prio mezzo
si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over quiete del
tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si
apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti
montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegno-
no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E
questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel tanto che
s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso
tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa
per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene,
speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor
ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de
l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate
ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in
altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or
ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come
il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera
che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti
posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente
nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de
l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene-
rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico
pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo
stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della
generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio
una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto:
Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri-
soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col
precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si
considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti
assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte,
del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché
chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza,
gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier,
miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi
concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto,
vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e
accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli
precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il
sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente
ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne
(come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli
atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio
intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro
De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali
alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte,
non Letteratura italiana Einaudi 134 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri:
onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal
sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente;
atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole
concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità
è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina
e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae
se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi
par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te, dove son
due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et
vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor
scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura
italiana Einaudi 135 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu
perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le
palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato
ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua,
per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà (diva)
per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno
fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso
sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il “volto in
cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta alla
recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti-
tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada
divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove:
«Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso,
l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio
tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la
quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi
conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le
palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via
l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto
quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua
bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la
capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è
uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far
comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che
son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che
“non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che
il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con
cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono
uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con
la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con
que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene
luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che
proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima
è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in
effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di
procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti
rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali
s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una
pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E
certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni
(quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre
invitano a l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia; altre
allettano, inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle
voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far
voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che
per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso.
Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché
veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per
amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio;
necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio
mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa
naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è
convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver
appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per
la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica
o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito,
e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo
universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella
essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che
è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio
d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali
potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti
delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del
furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare
più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese
basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale,
dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si
possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e
secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene
a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto
più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e
conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar
alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi
che più facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso
l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista
sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde
ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci
penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni
parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale,
tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non)
bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli
proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro-
prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete
comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per
gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe
soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due
saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans.
maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la
maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140
Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et
inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza
e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de
diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha
fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti
innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita
eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o
dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra
materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o
della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della
Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender ricevuto
dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta visione;
o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato
splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali
e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici della
divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini
dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non
ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal
calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò
che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel
principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di
Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più
cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco
si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto
che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può
introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di
quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel
stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente
furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a
quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie
peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de
l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea
assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a
quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac-
campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie
intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò
l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari
gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare,
rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle
luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli-
genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la
porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza
appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu
“quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più
pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo-
strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato
et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è
detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura,
motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti
da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de
suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in
quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor
mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier
irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi
si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci
penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio
dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e
perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole
tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé
l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più
eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è
il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese
possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte
vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa
più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra
cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è
impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito
cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire
l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser
“fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là “mai cessano
ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”,
che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto
Letteratura italiana Einaudi 143 X. escluso, straniero e peregrino.
È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non
vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde
sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei
dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in
proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come
mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il
motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai
mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida
di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti
tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon
ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i
mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol
l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo
violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a
tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti
troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre
sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua,
l’aria. Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In
tre specie sono gli prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria
l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come
dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di
magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone,
prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la
selva, come de l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e
speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine
summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua
protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila
ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto
dal nido per li- nea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza
volta si balza da alto con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per
linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo,
pren- de anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o
si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual
caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a
lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di-
stingue se si gli possa presentar megliore o più como- da preda. Oltre non
credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o
balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider
l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de
l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il
moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta Letteratura italiana
Einaudi 145 Giordano Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo
acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di
prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non proce- dono
come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha
domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi
forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità quanto ha più forza,
niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito. Labitur totas furor
in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem;
sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come
vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”;
Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li
quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in
terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non
è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è
potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia
più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole,
non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per
finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir
tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor
dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritua- lissimo
de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e
senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad
esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da conside- Letteratura
italiana Einaudi 146 Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel
che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia
mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo.
Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori,
se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e
consiste nella me- desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso
de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono,
e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e
conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile,
come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella
ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?.
Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro
che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta
tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da
sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che
sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni
senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual
studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché
né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre,
volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel
dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura
italiana Einaudi 147 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto
questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il
sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono
il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri-
luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne
scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le
raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con-
solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di
co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la
voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che
la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran-
dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura
e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si
possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando
fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque
pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché,
se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti
ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa
altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene
ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che,
avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto
dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi
148 Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco
appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere
assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi.
Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe
che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il
quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento,
e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e
la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la
pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei
repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua,
ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e
gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la
morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun
soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e
curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore
sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia
traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il
seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente;
però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da
studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i
fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più
sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi
furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più
tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso,
e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo
di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido
fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che
significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo
dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica,
vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de
l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al
negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o
di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto
spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui
che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la
perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si
gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere
facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia
tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione,
timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla
putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far
esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et
è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è
peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore
patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli
nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è
sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa
più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si
sente? Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura.
Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de
l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si
trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et
imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né
tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non
altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito
che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso.
maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine
del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi 151 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori DIALOGO SECONDO mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante
et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar
come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo
al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia
libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine,
proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si
trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi
fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana
unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta,
cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui
dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o dal
tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel
grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti
per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non
invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento sotto tal giogo,
tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la
foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla moltitudine,
dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi 152
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da pochi. Diana
splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bel-
lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo
imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere. Questa dice
“tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e “su
l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace
al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne
lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto fortunato, come quella
che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più
altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì
“desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”, cioè
cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo che
dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar tanto
alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non
intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a
coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono
in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che
siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili,
poveri, pe- danti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere
filosofi, contemplativi, coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili,
illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a
che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto
l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et
oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi,
nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma
inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti,
altre serveno et Letteratura italiana Einaudi 153 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei
che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo
essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e
confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e
bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non
vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che
gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi
a determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade
per averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e
non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad
Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a
la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo
racioci- nio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et
altri parti et aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di
cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più
in- caminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie
delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la
sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma
giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese.
Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di
raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti
che lavorano col medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e
modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse
la filosofia d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli
antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono
invecchiati nelle culine de fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi
154 Giordano Bruno - De gl’eroici furori tomie de frasi e de
vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche,
giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non in- tendono: là
onde cossì questi col favore della ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son
più conformi), po- tranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e
raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine
filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo consiglio, se tutti
aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda
Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat
omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non
es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali.
Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in esaltazione per governare
il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie
intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere
individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben
nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di
prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente
torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per
vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane spendere il tempo, la
cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il
presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro. Quel che abbiamo
vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è
ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana Einaudi
155 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà e sarà
stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello attende
a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da
fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons vite, “nix”
est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu
prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vo-
caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un
scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su
la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre simili
fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua
diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua
allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene. Con
questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo contra
le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon- tar a
gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che promette
la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci
manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato, viene
per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergo-
gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro appresso
alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era
acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le
spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere
l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di
Letteratura italiana Einaudi 156 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la
proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili
matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de-
vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de
l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi
medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte
de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce-
lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come
è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et
altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le
dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi
de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio-
ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti
della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella
lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti
a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho
mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo
de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e
spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o
l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi
esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima
parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto
circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente
desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo
sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il
quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo,
percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e
sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere
con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene
che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale
non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che
corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché
vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in
spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa
quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma
de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte
che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de
l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio
dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che
quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia
vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o
fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o
benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs».
Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser
stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca
de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata,
cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui
s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni
tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi 158
Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove
l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar
ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la
verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o
sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana
non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse
Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però
chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie
incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia
et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo
modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e
corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso
che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne
gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte.
Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. –
Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de
cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha
certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più
necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più
altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca.
Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che
appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla
perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche
specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume,
l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la
contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione
della Letteratura italiana Einaudi 159 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va
lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e
manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli
antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose,
ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti
maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come
noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura,
accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più
ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta.
Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose
naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi
et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure,
e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le
cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et
omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non
volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro-
cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più
magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa-
pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e
sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando,
isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e
secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari:
perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da
le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere
participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura
italiana Einaudi 160 Giordano Bruno - De gl’eroici furori inferiori,
e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne
l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre
l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore.
E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al
bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi.
Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire
alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché
egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a
questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere
de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la
verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside-
rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna
generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e
fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la
luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità,
verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come
oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare
possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie
suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo,
l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della
materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per
dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son
quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia
de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da
comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche.
Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di
posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella
disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi
lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in
cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo
e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e
selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi
caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose
particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo
quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et
universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora
compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare,
doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto
quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi
monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da
ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale
aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste,
dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì
gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al
volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene- stre
la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a
l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più
per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse
rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de
tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura
italiana Einaudi 162 Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade,
vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in
absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua
imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è
la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole
nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero
delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso
ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi-
bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo
che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta.
Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo
più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda
della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice
cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver
ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile
d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente
d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso
quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di
ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana
Einaudi 163 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO
interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il
furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa
mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni
e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro
lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che
consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli.
liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe
in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì
forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal
suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e
di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima
il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una
man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole,
son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a
quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce-
re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana
Einaudi 164 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli
occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno
oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser
deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che
temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia
conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de
l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso
nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e
nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole?
Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per
il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione
per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o
core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e
muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo
fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi
Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a
questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le
convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa,
el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime
da gli occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi
165 Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo,
quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte
exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a
l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi
all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti,
fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava
distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione
e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la
conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla
propo- sta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima
risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro
non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio
per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma
l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se
non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente
incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli
elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista?
Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e
principio procedere forza di con- trario effetto, sin a questo che non vuol
affirmare il Letteratura italiana Einaudi 166 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che si-
gnifica il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad
unirsi, inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua
virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende
efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core.
liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti
confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi,
quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non
altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma
ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per
noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir
a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi
penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la
quale ho studiato nel libro De princi- pio et uno; e voglio supponere quello
che comun- mente si suppone, che gli contraria nel medesimo ge- no son
distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa
risposta, dove gli oc- chi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de
quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe
richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e
materiale. Letteratura italiana Einaudi 167 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser
essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi
tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto
non può essere se non posti in atto tali oltrag- giosi ripari; secondo perché
per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore
come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio
viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia
che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro va- se pieno d’acqua,
passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso
corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero che caggio- ne secche et
aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa
similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può conside- rare come
fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser
scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima rag-
gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo altra raggione
è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel senso commune,
et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere.
laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di
saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa
dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso
fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è
che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco Letteratura italiana
Einaudi 168 Giordano Bruno - De gl’eroici furori che cresca il
regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia
che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi
sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la
rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi
che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si
pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar
su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia
refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli
occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra
dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco
acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien
che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai
gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non
t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria
aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad
alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero.
Letteratura italiana Einaudi 169 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta:
ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene
di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che
sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio
non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi
ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol
ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio,
qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo
suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel
nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è
molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de
quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e
quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non
meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et
in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai
ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto;
né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di
vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per apparenza di
lacrima che stile Letteratura italiana Einaudi 170 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa
esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la
conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi
per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che
contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso.
L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi
gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne,
afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che
porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male
quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male,
come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non
potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà
equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse
finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe
che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste
sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla,
consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que- sto non voglio
lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare
dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente,
et a l’intelletto non essendo definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171
Giordano Bruno - De gl’eroici furori proposto, non può essere la
volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il
bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo della specie
inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi
secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli
modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per essere infinito il sommo
bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose
alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo
la figura e mole), non è spe- cie definita a l’intelletto, non è definita la
specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né
essere possono perfette per l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a
quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per pri- vazion negativa
o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine
infinito et inter- minato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità:
l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come
infinite son le tenebre, il fine del- le quali è posizione di luce; l’altra
perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il
fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che
l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto s’estende
l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la
fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce
è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e più
penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo, onde
possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita
imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la
potenza Letteratura italiana Einaudi 172 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da
quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano
nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non
s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che
si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e
per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la
sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha
gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene
ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il
sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa
quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene:
come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco
come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico
cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e
non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo
fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la
séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima
eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur
Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato
ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e
fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in
esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile,
l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza
receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è
come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e
l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi
173 Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice
intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si
dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere
a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor
divino, è convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli
avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e
conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può
essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi
ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso
hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere
l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re
l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi
apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare
presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il
fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli,
perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et
appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti,
perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son
turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che
con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà
l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e
cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della
cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge
come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la
felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per
il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo
et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli.
Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e
comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in
certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas
esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran
verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti
inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama
tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de
l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino
per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico)
quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che
aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio
appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi
175 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO
interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove
ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità,
benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo
Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie-
co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi
la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque
non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del
senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto
come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde.
minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice
egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina nel conspetto
de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che
lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che
lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spet- tacolo del
sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco Felici che talvolta visto
avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete.
Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana Einaudi 176
Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve mal che non credete
è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a
voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi
darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non
veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo.
Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto
infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per
scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo ma- le,
faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui
occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir
lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma
ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il
spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida
l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per
ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta,
né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio)
piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto
sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere
repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso che
essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avan-
ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è
stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma
(perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader suole a
un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli
occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie
bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché
ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in
tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco
per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo:
perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e
frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha per-
Letteratura italiana Einaudi 178 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza
al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile del senso de
la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han
fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come
è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da
una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti
color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non
sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere
discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a
cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da
mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli
viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro,
mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto principale. minutolo Riferite
le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran
profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo
ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce
ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli
splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le
scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o
sale: Letteratura italiana Einaudi 179 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso,
mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi
180 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco,
perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto
umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale
era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi;
fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il
spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a
l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso
speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi
pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio
pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio
datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso
vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso
a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra
che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi
181 Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la
cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in
polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi
se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan-
to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in
questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183
Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto
de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo corpo
in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og-
getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re-
gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello
che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per
il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito
de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto,
nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura
italiana Einaudi 184 Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo
Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo
medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra
raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità
e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono
adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no
trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle
pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette
volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia
iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia
geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco
in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è
stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti
quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri
uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con
ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e
questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si
trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano
gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione
e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che
le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La
terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo
raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali
si mo- Letteratura italiana Einaudi 185 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade
nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le
quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono
alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia- mato
argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale
efficiente. Onde disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excelsum». Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et
atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor-
zionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se
gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti
a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in
certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua provi- denza
viene a comunicarsi senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si
communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan-
do aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi
ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a
color che la cercano. Onde è detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro
loco: «Qui sitit, veniat, et bibat». minutolo Non si può negare che
l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete
tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non
nie- go che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come
diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come
veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento:
cossì accade proporzionalmente al pro- posito. Letteratura italiana Einaudi
186 Giordano Bruno - De gl’eroici furori La quarta, significata nel
seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudi-
ne di credere a false opinioni del volgo il quale è mol- to rimosso dalle
opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son
dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso
commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti
che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Aver- roe)
similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono
consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in
sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente
buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra
la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetu- dine non può venir in
uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per
quale de- gnamente contentare si possa il presente furioso cie- co, il qual
tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro
vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro che libero passa- gio e
progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole patir insidie, e se gli
sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede
dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile;
essendo che per contemplar le cose di- vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo
de figure, si- militudini et altre raggioni che gli Peripatetici com- prendono
sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion
de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi
tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da
credere che siano impedimenti, Letteratura italiana Einaudi 187
Giordano Bruno - De gl’eroici furori se credere vogliamo che la più alta
e profonda cogni- zion de cose divine sia per negazione e non per affir-
mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e
cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è oltre et oltre
incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de fanta- smi” dal
filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et enigma”; perché
veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le cose, o la
sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color
che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della
luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le
ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. – Però per la
aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o
meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro, onde non
per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua luce.
minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla
vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visi-
va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella
cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella
cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in
ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto.
Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa
che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in
effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il
sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come
proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura
italiana Einaudi 188 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro
(quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in
similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve
sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono
intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de-
nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata
sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è
mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io
dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da
noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile,
né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e
densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a
colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e
nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse
concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come
esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia-
mo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti
caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in
continuo moto, mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna
che seguiti- no la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla
condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la
sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et
al- tro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto
può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in
acqui, l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta
in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione
per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che
si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente
si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e
condizione del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti
mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella
bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità,
identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento
del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno
impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a
l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde
gli avviene che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua
affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne
deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come
è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli
abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri,
altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di
com- posizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri
per via de inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e
definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo-
li e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri
logici, altri grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse
affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen-
Letteratura italiana Einaudi 190 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori tenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di
verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al
proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è
da dire che gli affetti molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero,
quan- tumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un
stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or
tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e
privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso,
potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de
l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì
l’eccellente intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel-
lente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi
vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso.
Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre
quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli
teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada
o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio,
sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de
essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova,
senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di
prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria
improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per
inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata
pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi 191 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere; onde disse la
Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì
supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere;
come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per
téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche
modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de
l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più
profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio,
che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie
representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de
Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici
dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace.
fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 192 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia.
laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il
successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi
giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo
speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal
disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della
Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade
giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per
ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si
potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel
vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che
divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor
sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a
veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo
gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi,
del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e
di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti
co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste
paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come
fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante,
minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla
natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur
sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la-
menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta
contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste
paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have
ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura
d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra
volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che
qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato
de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il
morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però
vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli
domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima
sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato
ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap-
parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli
administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e
vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti
insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero
gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati,
che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari,
passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio
de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de
l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre
Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade, et
accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi
194 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il
principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento
espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase
si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma
d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase.
Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam
discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete
attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il
vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore;
e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far
giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto
attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto;
raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia
e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti
piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili
forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito
furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira
al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto:
«Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti
punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami
tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer
vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga
pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne
appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase
fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che
discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a
bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor
al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per
remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento
cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto
alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde Letteratura
italiana Einaudi 196 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quant’è
sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai
degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete
aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che
sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra
luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre
membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza
fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al
tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente
cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con
tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e
siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché
trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a
l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o
belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel
ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le
Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana Einaudi 197
Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì rapidamente da
basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si
trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo
ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de
commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano e
proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto
per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come
spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto
fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa
esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si
sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli;
e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce,
l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del
sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza
e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non
posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso
di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che
apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del
furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la
citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti,
o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari,
Letteratura italiana Einaudi 198 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente
spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi
passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni,
tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi.
Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal
porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che
ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal
luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce
fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a
la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma
cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a
l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico
sentiero, per cui a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199
Giordano Bruno - De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato
benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a
mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene
sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì
e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la
notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme
diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e
inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza
i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta
vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto
stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o
non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli
campestri e montanari Letteratura italiana Einaudi 200 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine,
sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo
instrumento ebbe cantata la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e
sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una
canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti
priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia
Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il
padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel
proprio impero»; «Che superbia è la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue
che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto
surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante
ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere.
Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende
quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel
mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha
de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle,
Letteratura italiana Einaudi 201 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto
il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: «O dio d’ondosi mari,
ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e
tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de
leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri
miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere,
perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del
proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia
del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia
gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera
principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché
in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano
accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et
innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie
mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per
quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli
amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga
Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de
quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. fine della seconda et ultima
parte de gli eroici furori Letteratura italiana Einaudi 202Grice: “Agostino da
Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the
lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --. Not to be confused with “Benedetto da
Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi.
Giovanni Colizzi. ColizziKeywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac
ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,
dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis,
amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51742827494/in/datetaken/
Grice e Colletti – curiazi, ovvero,
politica romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously
unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman
and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a
Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in
Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società,
Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo.
Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica,
con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il
"crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo
e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a
oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari,
Laterza, 1980. Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il
marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli
editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di
Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi,
Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica,
Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce "contro" di Forza Italia,
su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia,
Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il
marxismo ha fallito Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Milano,
Mondadori, 2001. 88-04-48844-1 Ministero
per i beni e le attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo
contemporaneo, Roma, Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio
Colletti scienza e libertà, Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei
marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri. Collétti, Lucio la voce nella
Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio Colletti, su CameraXIII
legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura,
Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo Preve, nel sito
Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di Colletti
Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati»
nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di luglio-agosto
1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente
Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione reale” (la
Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione dialettica”». Si
tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione
(ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch)»
(1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla formula «A
non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è
niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più
esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità
con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono
ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha la sua essenza
fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione
dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la
koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa dalla formula «A e
B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è
esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Massimiliano Biscuso –
Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4
«nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli
estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il
contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio quando ci
rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria:
il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo
rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è
l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due
termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere»
(74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché
sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come sarà confermato in
seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai
avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e
non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il
suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è
al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è
impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione,
si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il
modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di
fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali» (80), e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito,
in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito.
Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione
logica» (81 – si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo», 112). Avvertiti di
questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e
tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti
dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà,
contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può
benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza,
per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di
(non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali risultati
convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di liquidare
«gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del Diamat,
sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la
fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società» (95). In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, www.filosofia-italiana.net 5 l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […]
nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa»
(97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il
critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della
stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica» (102). Dunque per lo
stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente)
Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti
reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto
dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate» (107). «Teoria
dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e
identica teoria» (109): la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto
individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si
danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di
natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile
borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione
(alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e
separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con
l’uomo» (111), dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è
da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della
filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto
di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico» (112).
Georg Wilhelm Friedrich Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik
(im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die
Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom
Widerspruch außer Geltung setzt.[3] Damit versuchte Hegel, die Kantische
Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus in der Metaphysik' zu umgehen. Der
Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants]
betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren
Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die
Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu
fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt
er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss;
denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus
durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu.
Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom
Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz
akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein.
Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit
ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es
besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst
gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu
fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede
Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche
Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer
Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4] Logisches Quadrat Das
logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren
Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen
verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen
Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig
falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche
Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die
eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die
syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die
Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau
dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können.
In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei
Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide
zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik
steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den
Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein
Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches
Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Wikipedia
Ricerca Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono
figure leggendarie della Roma antica. Il giuramento degli Orazi (1784),
di Jacques-Louis David, Museo del Louvre Leggenda Modifica Secondo la versione
riportata da Tito Livio (Hist. I, 24-25), durante il regno di Tullo Ostilio
(VII secolo a.C.) Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di
rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori
spargimenti di sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli
figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si
sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non
erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana;
propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella
versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono
uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio,
che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà,
pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva
previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra
loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità
differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito
e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da
ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu
facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di
Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella dell'Orazio
superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò
violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla
tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum
Sororium,[1] che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione
dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio
(delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo
la fase regia di Roma[2]), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la
cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge,
Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici
appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla
successiva fase repubblicana[3]). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano
ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo
Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei
Curiazi sia moglie di Marco Orazio. Realtà storica Modifica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad
Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea
attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state
appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della
via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova
un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si
ipotizza che sia tomba di altri personaggi. Nella realtà la guerra fra
Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio,
venne squartato. C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel
territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia. Orazi e
Curiazi nelle arti Modifica
Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per
lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del
Campidoglio. Teatro Modifica
Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche: Gli
Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di
Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice
di Venezia il 26 dicembre 1796. Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in
tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al
teatro San Carlo di Napoli il 10 novembre 1846. The Horatian - Three Songs di
Heiner Goebbels Orazi e Curiazi (1934) è anche uno dei drammi didattici scritti
da Bertold Brecht. Cinema Modifica Orazi e
Curiazi, cortometraggio muto del 1910. Orazi e Curiazi, film del 1961 di
Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi 3-2, film-rivisitazione in
chiave farsesca del mito (1977). Curiosità La vicenda dello scontro tra
gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del
Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola.
Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due
clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali:
i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito
per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la
sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa
al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le
relative conseguenze sono identiche. Note Modifica
^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48. Is quibusdam piacularibus
sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam
tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem. ^ Osservazioni sulla
repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, pag.45, § 5
^ Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo
Santalucia, pag.46, § 6 Altri progetti Modifica
Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Orazi e Curiazi
Collegamenti esterni Modifica
( EN ) Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità LCCN
( EN ) sh90004494 Portale Antica Roma Portale Mitologia
Ultima modifica 6 mesi fa di 87.9.113.140 PAGINE CORRELATE Tullo Ostilio terzo
re di Roma Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen
Horatius Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David
Wikipedia IlGrice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does.
Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real
opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can
combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction
instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some
distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is
combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s
also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere,
tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the
other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’
becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to
do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if
not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the
characterization of something that need not be linguistic or conventional but a
characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others.
The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the
posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes
important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to
see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’
simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’
being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia
romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la
non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation”
“Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum –
the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis –
apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio
and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica
oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773361575/in/dateposted-public/
Grice e Colli – espressione – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Colli –
his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well
meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they
loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually,
‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di
una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu
poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini.
Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”.
Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico
"logos" a cui ritornare. Lo stile di scrittura, profondo e
costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale
alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle
letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è
“Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle
categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della
manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla
presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il
fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi
limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il
suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di
Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di
questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire
l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi,
Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia.
Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo,
Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide,
Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza
greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione
errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi,
Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi,
Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su
Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico”
(Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco”
(Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello
spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi,
Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di
Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e
paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi) Scritti giovanili; La nascita della tragedia;
Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti
postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano,
Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del
male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce
homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume;
Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita
(Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita
della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi,
Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci”
(Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario
biografico degli italiani, Implicazioni estetiche
in Colli; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di Colli, ERGA, Genova);
L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David
Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II,
AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in
"Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca
Sossella Editore, Roma. Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della
mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella
mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna
(in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e
pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in
acqua. Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre
Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a
remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo
servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia,
quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era
nel frattempo morto. Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa;
intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere
ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si
posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo,
si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico
tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri
dionisiaci. Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete
fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa.
Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani;
questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo
era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1]. Riti
notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della
palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però
di descriverceli[2]. Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard
Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca" (1984), ristampato
nella sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei"
(1996). Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza
del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco[3][4][5].
NoteModifica ^ Igino, Astronomy 2.5; Clemente di Alessandria, Protreptikos
2.34.2-5; Arnobio, Against the Gentiles 5.28; Dalby, 2005, pag.108–117. ^
Pausania, Guide to Greece 2.37; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, 2005,
pag.135. ^ Dionisio-Baco, su geocities.com, 19 ottobre 2008 (archiviato dall'
url originale il 19 gennaio 2005). ^ Mitos del cielo: Dioniso, su
mitosdelcielo.iespana.es, 19 ottobre 2008 (archiviato dall' url originale
il 28 settembre 2008). ^ Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron
nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso, Roberto (1999),
"Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF )
[collegamento interrotto], su redalyc.uaemex.mx, 19 ottobre 2008.
BibliografiaModifica Andrew Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum
Press, 2005, ISBN 0-7141-2255-6.(US ISBN 0-89236-742-3) Voci correlateModifica
Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio ,
Contro i pagani (V, 28). Clemente di Alessandria , Esortazione ai Greci
(Protrettico) (II, 34, 2-5). Igino , Astronomia (II, 5). Pausania , Descrizione
della Grecia (II, 37). Plutarco , Iside e Osiride (35). Portale
LGBT Portale Mitologia greca Ultima modifica 2 mesi fa di
87.19.205.60 PAGINE CORRELATE Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei
teatri, della fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia
tebana Wikipedia Il contenuto Che l'esclusione di queste potenze ben
presenti e Bi distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus
É sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É e
profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi mistero del loro
essere, provengano da una particola rissima valutazione e da una volontà
risoluta, si app* lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto
que sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J. Bachhofen
in modo eccellente, trascina irresistibilmente seco. l’eterno femminino
di questa sfera e ne rimane assolutamente presa. Il suo spirito
s’arroventa nell’ine L'ESSENZA DEI NUOVI DÈI
193 briante beveraggio, che venne chiamato il sangue della
terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co- scienza
nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi adoratori e agli
estasiati si schiudon i tesori del regno. terrestre. Anche intorno a
Dioniso accorrono i morti, che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i
fiori. Amore e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si
ten- gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi
tratti essenziali della divinità della Terra son in lui accresciuti a
dismisura," ma pure infinitamente ap- profonditi, Questa figura
divina che tutto trascina con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio «
forsennato >, e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle
sue accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che
similitudine, come quando paragona ad una Menade Andromaca, la quale
presa da oscuro presentimento si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade,
22, 460; cfr. Inno Omer. a Dem. 386), come pure quando occasional-
mente narra memorabili storie (Iliade, 6, 130 ss.; Odis- sea, 11, 325).
Nel vivo mondo di Omero le Menadi non trovan posto e pure invano si cerca
Dioniso, che non vi ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia »
(Esio- do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo
doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è proprio, non
s’accorda con la chiarezza che contraddi- stingue qui tutto ciò ch’è
realmente divino. Da questa chiarezza sono assai lontane anche le
al- tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di
dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più sublime gravità. Il
sapere e la sacra legge stanno loro al fianco. Ma sono.legate alla
materia terrestre e partecipano della sua oscura pesantezza e necessità.
La loro benevolenza è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha
la rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano
15 194 | GLI DÈI BELLA GRECIA nella
notte della morte, o meglio: la morte ed il passato risalgono grazie a
loro nel presente e nell’esistenza dei viventi. Non v'è un ritrarsi dal
teatro del mondo, nè il trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera
inferiore nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò
che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre, ed. eleva la sua
esigenza, sempre con la medesima ron. cretezza, dalla quale non c’è via
di scampo. Ed è solo una conferma di codesto carattere, il predominio
ch’'ha nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.
nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece sì trae in
disparte in modo tale, che non può essere ca. suale. | I .
Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso maschile, sibbene
rappresentano decisamente lo spirito virile. Ed anche quando Atena si
unisce ad Apollo e-a Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare
esplicitamente il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m
JUN 121925 Dirisioti ^LT^b
!-'" 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp.
VOL. I. ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES.
JUN 121925 THE ELEUSINIAN
AND BACCHIC MYSTERIES. A
DISSERTATION. ^ ^y: THOMAS TAYLOR,
TXANSL4TOH OF ■'PLATO." " PLOTINTJS," "
POEPITIllY," " lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,' *■
ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION,
NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY, BY ALEXANDER WILDER,
M. D. Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai
ncpip- pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi;
Spuiixeviav, (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.
Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet.
WITH 85 ILLUSTRATIONS BY A. L, RAWSON. FOURTH
EDITION. f NEW- YORK : J. W.
BOUTON, 8 WEST 28th STREET. 1891. CopyriKlit,
1K91, by J. W. BulITDN. The DeVinne Press.
TO MY OLD FRIEND ^cniarti OSuatitcl) THE
GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT OR MODERN TIMES CbiB Dolttme
is reBpcctfuIl? Jeiiicateli BY THE PUBLISHER
Bacchic Ceremonies. Bacchus ami Nymphs.
Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian
Prieatesses. Bacchante and Faun.
Faun and Bacchus. CONTENTS. Fable
is Love's World, Poem by Schiller . . 9 Introduction 11
Section I., Eleusinian Mysteries 31 Section II., Bacchic
Mysteries 187 Hymn to Minerva 224 Appendix 229
Orphic Hymns . . ^ 238 Hymn of Cleanthes 239
Glossary 241 List of Illustrations 248
Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely
The human breing's pride that peoples space With life and mystical
predominance, Since likewise for the stricken heart of Love This
visible nature, and this common world Is all too narrow ; yea, a deeper
import Lurks in the legend told my infant years That lies upon that
truth, we live to learn, For fable is Love's world, his home, his
birthplace ; Delightedly he dwells 'mong fays and talismans, And spirits,
and delightedly believes Divinities, being himself divine. The
intelligible forms of ancient poets. The fair humanities of Old
Religion, The Power, the Beauty, and the Majesty, That had their
haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly
spring. Or chasms or wat'ry depths ; — all these have vanished.
They live no longer in the faith of Eeason, But still the heart doth need
a language ; still Doth the old instinct bring back the old names."
Schiller : The Piccolomini, Act. ii. Scene 4. 9
Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS.
INTKODrOTlOX TO THE TJIIKM) EDrriON. IN
offering- to the ])ublic a new edition of Mr. Thomas Taylor's admii-able
treatise upon the Elensiidan and Bacchic Mysteries, it is proper to
insert a few words of explanation. These observances once repre-
sented the spiritual life of (Ireeee, and were considered for two
thousand years and more the appointed means for regeneration through an
interior union with the Divine Essence. However absurd, or even
offensive they may seem to us, we should therefore hesitate long-
before we venture to lay desecrating hands on what others have esteemed
holy. We can learn a valuable lesson in this regard from the (xrecian and
Roman writers, who had learned to treat the popular religious rites
with mirth, but always considered the Eleusinian Mysteries with the
deepest reverence. It is ignorance which leads to profanation.
Men ridicule what they do not properly understand. Alci- biades was
drunk when he ventured to touch what his 11 12
Introduction. countrymen deemed sacred. The undercurrent of
this worhl is set toward one goal; and inside of human credulity —
call it human weakness, if you please — is a power almost infinite, a
holy faith capa))le of apprehending the siipremest truths of all
Existence. The veriest dreams of life, pertaining as they do to
" the minor mystery of death," have in them more than external
fact can reach or explain ; and Myth, how- ever much she is proved to be
a child of Earth, is also received among men as the child of Heaven.
The Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella of the
Palace, and be wedded to the King's Son. The instant that we
attempt to analyze, the sensible, palpable facts upon which so many try
to build dis- appear beneath the surface, like a foundation laid
upon quicksand. " In the deepest reflections," says a
dis- tinguished writer, '' all that we call external is only the
material basis upon which our dreams are built ; and the sleep that
surrounds life swallows up life, — all but a dim wreck of matter,
floating this way and that, and forever evanishing from sight. Complete
the anal- ysis, and we lose even the shadow of the external
Present, and only the Past and the Future are left us as our sure
inheritance. This is the first initia- tion, — the vailing [mnesis] of
the eyes to the external. But as epo])fm, by the synthesis of this Past
and Future in a living nature, we obtain a higher, an ideal Present,
comprehending within itself all that can be real for us within us or
without. This is the second Introduction. 13
initiation in which is uuvailed to us the Present as a new birth
from our own life. Thus the great problem of Idealism is symbolically
solved in the Eleusinia." * These were the most celebrated of
all the sacred orgies, and were called, by way of eminence. The
Mysteries. Although exhibiting apparently the fea- tures of an Eastern
origin, they were evidently copied from the rites of Isis in Egypt, an
idea of which, more or less correct, may be found in The Mefamotyhoses
of Apuleius and The Epicurean by Thomas Moore. Every act, rite, and
person engaged in them was symbolical ; and the individual revealing them
was put to death without mercy. So also was any uninitiated person
who happened to be present. Persons of all ages and both sexes were
initiated ; and neglect in this respect, as in the case of Socrates, was
regarded as impious and atheistical. It was required of all candidates
that they should be first admitted at the MiJo'a or Lesser
Mysteries of Agree, by a process of fasting called ^j«f/'/- ficafion,
after which they were styled mysfce, or initi- ates. A year later, they
might enter the higher degree. In this they learned the aporrheta, or
secret meaning of the rites, and were thenceforth denominated ephori,
or epoptm. To some of the interior mysteries, however, only a very
select number obtained admission. From these were taken all the ministers
of holy rites. The Hierophant who presided was bound to celibacy,
and requii'ed to devote his entire life to his sacred office.
* Atlantic Monthly, vol. iv. September, 1859. 14
Introduciion. He had three assistants, — the torch- bearer, the
lierux or crier, and the minister at the altar. There were also a
hasileus or king, who was an archon of Athens, four curators, elected by
suffrage, and ten to offer sacrifices. The sacred Orgies were
celebrated on every fifth year ; and began on the 15th of the month
Boedromiau or September. The first day was styled the agurmos or
assembly, because the worshipers then convened. The second was the day of
purification, called also alacU mystaij from the proclamation : ''To the
sea, initiated ones ! " The third day was the day of sacrifices ;
for which purpose were offered a mullet and barley from a field in
Eleusis. The officiating persons were for- bidden to taste of either ;
the offering was for Achtheia (the sorrowing one, Demeter) alone. On the
fourth day was a solemn procession. The JcalafJios or sacred basket
was borne, followed by women, ciske or chests in which were sesamum,
carded wool, salt, pomegran- ates, poppies, — also thyrsi, a serpent,
boughs of ivy, cakes, etc. The fifth day was denominated the day of
torches. In the evening were torchlight processions and much
tumult. The sixth was a great occasion. The statue of
lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought from Athens, by the
laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was heard only an
uproar of sing- ing and the beating of brazen kettles, as the
votaries danced and ran along. The image was borne " through
the sacred Gate, along the sacred way, halting by the
P^ '^^^' Introduction. 17 sacred
fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian associations), where the
procession rests, and then moves on to the bridge over the Cephissns,
where again it rests, and where the expression of the wildest grief
gives place to the trifling farce, — even as Demeter, in the midst of her
grief, smiled at the levity of lambe in the palace of Celeus. Through the
'mystical en- trance ' we enter Eleusis. On the seventh day games
are celebrated; and to the victor is given a measure of barley, — as it
were a gift direct from the hand of the goddess. The eighth is sacred to
^sculapius, the Divine Physician, who heals all diseases; and in
the evening is performed the initiatory ritual. " Let us
enter the m3\stic temple and be initiated, — though it must be supposed
that, a year ago, we were initiated into the Lesser Mysteries at Agrae.
We must have been mystm (vailed), before we can become epoptce
(seers) ; in plain English, we must have shut our eyes to all else before
we can behold the mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other
initiates into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the
Hierophaut within will soon open our eyes. '■' But first, — for
here we must do nothing rashly,— first we must wash in this holy water;
for it is with pure hands and a pure heart that we are bidden to
enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos].
Then, led into the presence of the Hierophaut,* * In the Oriental
countries the designation nns Peter (an in- terpreter), appears to have
been the title of this personage ; and 18
Introduction. he reads to us, from a book of stone [■jreTpajfjia,
petroma]^ tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let
it suffice that they fit the place and the occasion ; and though you
might laugh at them, if they were spokiMi outside, still you seem very
far from that mood now, as you hear the words of the old man (for old
he he always was), and look upon the revealed symbols. And very
far, indeed, are you from ridicule, when Demeter seals, by her own
peculiar utterance and sig- nals, by vivid coruscations of light, and
cloud piled upon cloud, all that we have seen and heard from her
sacred priest; and then, finally, the light of a serene wonder fills the
temple, and we see the pure fields of Elysium, and hear the chorus of the
Blessed; — then, not merely by external seeming or philosophic
inter- pretation, but in real fact, does the Hierophant become the
Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all things; the Sun is
but his torch-bearer, the Moon his attendant at the altar, and Hermes his
mystic herald * [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been
uttered ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are vpoptit
forever ! " Those who are curious to know the myth on which
the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.
There is in these facts some reminder of the peculiar circum- stances of
the Mosaic Law which was so preserved ; and also of the claim of the Pope
to be the successor of Peter, the hierophant or interpreter of the
Christian religion. * Porphyry. Introduction. 19
the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will
find it in any Classical Dictionary, as well as in these pages. It is
only pertinent here to give some idea of the meaning. That it was
regarded as profound is evident from the peculiar rites, and the
obligations im- posed on every initiated person. It was a reproach
not to observe them. Socrates was accused of atheism, or disrespect
to the gods, for having never been initiated.* Any person accidentally
guilty of homicide, or of any crime, or convicted of witcihcraft, was
excluded. The secret doctrines, it is supposed, were the same as
are expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The philosopher
Isocrates thus bears testimony : " She [Demeter] gave us two gifts
that are the most excel- lent ; fruits, that we may not live like beasts
; and that initiation — those who have part in which have sweeter
hope, both as regards the close of life and for all eternity." In
like manner, Pindar also declares : " Happy is he who has beheld
them, and descends into the Under- world: he knows the end, he knows the
origin of life." The Bacchic Orgies were said to have been instituted,
* Ancient Sijmhol-Worsliip, page 12, note. "Socrates was not
initiated, yet after drinking the hemlock, he addressed Crito : ' We owe
a cock to ^sculapius.' This was the peculiar offering made by initiates
(now called kerJcnophori) on the eve of the last day, and he thus
symbolically asserted that he was about to re- ceive the great
apocalypse." See, also, " Progress of Religious
Ideas," byLYDiA Maria Child, vol. ii. p. 308 ; and " Discourses
on the Worship of Priapus," by EiCHARD Payne Knight.
20 Introduction. or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a
mythical personage, supposed to have flourished in Thrace.* The
Orphic associations dedicated themselves to the worship of Bacchus, in
which they hoped to find the gratification of an ardent longing after the
worthy and elevating influences of a religious life. The worshipers
did not indulge in unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but
rather aimed at an ascetic purity of * Euripides : Ehaesns. "Orpheus
showed forth the rites of the hidden Mysteries." Plato :
ProUifforas. " The art of a sophist or sage is ancient, but tlie men
who proposed it in ancient times, fearing the odium attached to it,
sought to conceal it, and vailed it over, some under the garb of poetry,
as Homer, Hesiod, and Simonides : and others under that of the Mysteries
and prophetic manias, such as Orpheus, Musseus, and their
followers." Herodotus takes a different view — ii. 49.
"Melampus, the son of Amytheon," he says, "introduced into
Greece the name of Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and
the pro- cession of the phallus. He did not, however, so completely
ap- prehend the whole doctrine as to be able to communicate it
entirely : but various sages, since his time, have carried out his
teaching to greater perfection. Still it is certain that Melampus
introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him the
ceremonies which they now practice. I therefore maintain that Melampus,
who was a sage, and had acquired the art of divina- tion, having become
acquainted with the worship of Dionysus tln-ough knowledge derived from
Eg>ijt, introduced it into Greece, with a few slight changes, at the
same time rhat he brought in various other practices. For I can by no
means allow that it is by mere coincidence that the Bacchic ceremonies in
Greece are so nearly the same as the Egyptian."
y r^isi Etruscan Kleusiniau
Ci-renionies. Introdiidion, 23 life and manners.
The worship of Dionysus \yas the center of their ideas, and the
starting-point of all their speculations upon the world and human nature.
They believed that human souls were confined in the body as in a
prison, a condition which was denominated genesis or generation; from
which Dionysus would liberate them. Their sufferings, the stages by which
they passed to a higher form of existence, their lafharsis or
purification, and their enlightenment constituted the themes of the
Orphic writers. All this was represented in the legend which constituted
the groundwork of the mystical rites. Dionysus-Zagreus was
the son of Zeus, whom he had begotten in the form of a dragon or serpent,
upon the person of Kore or Persephoneia, considered by some to have
been identical with Ceres or Demeter, and by others to have been her
daughter. The former idea is more probably the more correct. Ceres or
Demeter was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a
fragment by Psellus, and is also styled a Fury. The divine child, an
avatar or incarnation of Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra
(Sanscrit) as being destined to universal dominion. But at the
instigation of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-
* Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the
definite name of any goddess, but was used by ancient writers as a
designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be of
Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other
divinities. 24 Introduction. cordingly, one day
while he was contemplating a mir- ror,* they set upon him, disguised
under a coating of plaster, and tore him into seven parts. Athena,
how- ever, rescued from them his heart, which was swallowed by
Zeus, and so returned into the paternal substance, to be generated anew.
He was thus destined to be again born, to succeed to universal rule,
establish the reign of happiness, and release all souls from the
dominion of death. The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as
was maintained by the philosopher Porphyry, that the Mysteries
constitute an illustration of the Platonic * The mirror was a part
of the symbolism of the Thesmophoria, and was iised in the search for
Atmu, the Hidden One, evidently the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See
Exodus xxxviii. 8 ; 1 Samuel ii. 22 ; and Esekiel viii. 14. But despite
the assertion of Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in
reality Egyptian, there exists strong probability that they came
originally from India, and were Sivaic or Buddhistical. Core-Persephoneia
was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the patroness of the Thugs,
called also Goree ; and Zagi'eus is from Chakra, a country extending from
ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar Story, we can easily
recognize the "Horns" as the crescent worn by lama-priests :
and translating god-names as merely sacerdotal designations, assume the
whole legend to be based on a tale of Lama Succession and transmigration.
The Titans would then be the Daityas of India, who were opposed to the faith
of the north- ern tribes ; and the title Dionysus but signify the god or
chief- priest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus,
the institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a
Hindu ring all through. Introduction. 25
philosophy. At first sight, this may l)e hard to believe ; but we
must know that no pageant could hold place so long, without an
under-meaning. Indeed, Herodotus asserts that " the rites called
Orphic and Bacchic are in reality Egyptian and Pythagorean."* The
influence of the doctrines of Pythagoras upon the Platonic system
is generally acknowledged. It is only important in that case to
understand the great philosopher correctly ; and we have a key to the
doctrines and symbolism of the Mysteries. The first
initiations of the Eleusinia were called Telefce or terminations, as
denoting that the imperfect and rudimentary period of generated life was
ended and purged off ; and the candidate was denominated a mijsfa,
a vailed or liberated person. The Greater- Mysteries completed the work ;
the candidate was more fully instructed and disciplined, becoming an
epopta or seer. He was now regarded as having received the arcane
principles of life. This was also the end sought by philosophy. The soul
was believed to be of com- posite nature, linked on the one side to the
eternal world, emanating from God, and so partaking of Di- vinity.
On the other hand, it was also allied to the phenomenal or external
world, and so liable to be subjected to passion, lust, and the bondage of
evils. This condition is denominated genemtion ; and is sup- posed
to be a kind of death to the higher form of life. Evil is inherent in
this condition ; and the soul dwells * Herodotus: ii. 81.
26 Introduction. . in the body as in a prison or a grave. In
this state, and previous to the discipline of education and the
mysti- cal initiation, the rational or intellectual element, which
Paul denominates the spiritual, is asleep. The earth- life is a dream
rather than a reality. Yet it has longings for a higher and nobler form
of life, and its affinities are on high. "All men yearn after
God," says Homer. The object of Plato is to present to us the
fact that there are in the soul certain ideas or princi- ples, innate and
connatural, which are not derived from without, but are anterior to all
experience, and are developed and brought to view, but not produced
by experience. These ideas are the most vital of all truths, and the
purpose of instruction and discipline is to make the individual conscious
of them and willing to be led and inspired b}^ them. The soul is
purified or separated from evils by knowledge, truth, expiations,
sufferings, and prayers. Our life is a discipline and preparation for
another state of being; and resemblance to God is the highest
motive of action.* * Many of the early Christian writers were
deeply imbued with the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of
speech were almost identical. One of the four Gospels, bearing the title
" ac- cording to John,'''' was the evident product of a Platonist,
and hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The
epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclec- tic
philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as well as with
the Mithraic notions that had penetrated and permeated the religious
ideas of the western countries. Introduction. 27
Proclus does not hesitate to identify the theological doctrines
with the mystical dogmas of the Orphic system. He says : '' What Orpheus
delivered in hidden allegories, Pythagoras learned when he was
initiated into the Orphic Mysteries.; and Plato next received a
perfect knowledge of them from the Orphean and Pythagorean
writings." Mr. Taylor's peculiar style has been the subject
of repeated criticism ; and his translations are not accepted by
classical scholars. Yet they have met with favor at the hands of men
capable of profound and recondite thinking ; and it must be conceded that
he was endowed with a superior qualification, — that of an intuitive
per- ception of the interior meaning of the subjects which he
considered. Others may have known more Greek, but he knew more Plato. He
devoted his time and means for the elucidation and dissemination of the
doc- trines of the divine philosopher ; and has rendered into
English not only his writings, but also the works of other authors, who
affected the teachings of the great master, that have escaped destruction
at the hand of Moslem and Christian bigots. For this labor we can-
not be too grateful. The present treatise has all the peculiarities
of style which characterize the translations. The principal diffi-
culties of these we have endeavored to obviate — a labor whicli will, we
trust, be not unacceptable to readers. The book has been for some time
out of print ; and no later writer has endeavored to replace it. There
are 28 Introduction.
many who still cherish a regard, almost amounting to veneration,
for the author; and we hope that this repro- duction of his admirable
explanation of the nature and object of the Mysteries will prove to them
a welcome undertaking. There is an increasing interest in philo-
sophical, mystical, and other antique literature, which will, we believe,
render our labor of some value to a class of readers whose sympathy,
good-will, and fellow- ship we would gladly possess and cherish. If we
have added to their enjoyment, we shall be doubly gratified.
A. W. V'euus ami Proserpina iu Hailes.
Rape of Proserplua. ADVERTISEMENT TO THE AUTHOR'S
EDITION. AS there is nothing more celebrated than the Mys-
■^l\^ teries of the ancients, so there is perhaps nothing- which has
hitlierto been less solidly known. Of the trnth of this observation, the
liberal reader will, I per- snade myself, be fully convinced, from au
attentive perusal of the following sheets; in which the secret
meaning of the Eleusinian and Bacchic Mysteries is un- folded, from authority
the most respectable, and from a philosophy of all others the most
venerable and august. The authority, indeed, is principally derived
from manuscript writings, which are, of course, in the possession of but
a few; but its respectability is no more lessened by its concealment,
than the value of a diamond when secluded from the light. And as to
the philosophy, by whose assistance these Mysteries are de-
veloped, it is coeval with the universe itself ; and, how- ever its
continuity maybe broken by opposing systems, it will make its appearance
at different periods of time, as long as the sun himself shall continue
to illuminate the 29 30
Advertisement. world. It has, indeed, and may hereafter,
be violently as- saulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition will
be just as imbecile as that of the waves of the sea against a
temple built on a rock, which majestically pours them back,
Broken and A^anquish'd, foaming to the main. Pallas,
Venus, aud Diaua. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC
Dionysus as God of the Sun. a. SECTION I. SJ
DR. WARBURTON, in Ms Divine Legation of Moses, has
ingeniously proved, that the sixth book of Virgil's ^neid
represents some of the dramatic exhibitions of the Eleusinian Mysteries
; but, at the same time, has utterly failed in attempting to unfold
their latent mean- ing, and obscure though important end. By the
assistance, howevei", of the Pla- tonic philosophy, I have been
enabled to correct his errors, and to vindicate the wisdom * of
antiquity from his aspersions * The profounder esoteric doctrines
of the ancients were denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and
also the [piosis or knowledge. They related to the human soul, its divine
parent- 31 32 Eleiisinian and by a
genuine account of this sublime institution; of which the foUowing
obser- vations are designed as a comprehensive view. In
the fii'st place, then, I shall present the reader with two superior
authorities, who perfectly demonstrate that a part of the shows (or
dramas) consisted in a representation of the infernal regions; au-
thorities which, though of the last conse- quence, were unknown to Dr.
Warbiu'ton himself. The first of these is no less a person than the
immortal Pindar, in a fragment preserved by Clemens Alexan- drinus
: ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa- acvt {Jiua'CTjpuov Xsycov
STrcrpspsL OXpcoc, oart? ^. 6". " But Pindar, speaking of
the Eleusinian Mysteries, says : Blessed is he who, having
age, its supposed degradation from its high estate by becoming
connected with " generation " or the physical world, its onward
progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly sup- posed
to be transmigrations, etc. — A. W. " Stroma la, book iii.
Bacchic Mysteries. 33 seen those common concerns in
the under- world, knows both the end of hfe and its divine origin
from Jupiter." The other of these is from Prochis in his
Commentary on Plato's Politicus, who, speaking concern- ing the
sacerdotal and symbolical mythol- ogy, observes, that from this
mythology Plato himseK establishes many of his own peculiar
doctrines, " since in the Phcedo he venerates, mtli a becoming
silence, the assertion delivered in the arcane discourses, that men
are placed in the body as in a prison, secured by a guard, and
testifies^ accordlny to the mystic cerem^onies, the dif- ferent
allotments of purified and unpuri- fied souls in Hades, their severed
conditions, and the three-forJicd path from the pecidiar places
where they tcere ; and this was shown accordiny to traditionary
institutions ; every part of which is full of a symbolical repre-
sentation, as in a dream, and of a descrip- tion which treated of the
ascending and descending ways, of the tragedies of Dio- nysus
(Bacchus or Zagreus), the crimes of the Titans, , the three ways in
Hades, and 34 Eleusinian and the wandering of
everything of a similar hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt
xov ts sv 6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov,
xai ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp-
-:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^ %£%ai)-ap|i.£VTj; TS
%7.c a^a^aptoy zic, o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ,
V:7.C Xa? xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai %7.x7.
t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a 5'^ z-qc,
ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV 7C7.p7.
TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t
7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov
TiTy-vizfov onxapiYjixa- -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-
ceed to prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f
were designed by the ancient theologists, their founders, to
signify occultly the condition of the unpurified soul *
Commentary on the Statesman of Plato, page 374. t The Lesser
Mysteries were celebrated at Agrse ; and the per- sons there initiated
were denominated Mi/sta: Only such could be received at the sacred rites
at Eleusis. Bacchic Mysteries. 35 invested with
an earthly body, and envel- oped in a material and physical nature ;
or, in other words, to signify that such a soul in the present life
might be said to die, as far as it is possible for a soul to die, and
that on the dissolution of the present body, while in this state of
impuiity, it would experience a death still more permanent and profound.
That the soul, indeed, till purified by phi- losophy,* suffers death
through its union with the body was obvious to the philologist
Macrobius, who, not penetrating the secret meaning of the ancients,
concluded from hence that they signified nothing more than the
present body, by their descriptions of the infernal abodes. But this is
manifestly absurd ; since it is universally agreed, that all the
ancient theological poets and philos- ophers inculcated the doctrine of a
future state of rewards and punishments in the most full and
decisive terms ; at the same time occultly intimating that the death
of the soul was nothing more than a profound union with the ruinous
bonds of the body. * Philosophy here relates to discipline of the
life. 36 Eleusinian and Indeed, if these wise
men believed in a future state of retribution, and at the same time
considered a connection with the body- as death of the soul, it
necessarily follows, that the soul's punishment and existence
hereafter are nothing more than a continu- ation of its state at present,
and a transmi- gration, as it were, from sleep to sleep, and from
dream to dream. But let us attend to the assertions of these divine men
con- cerning the soul's union with a material nature. And to begin
with the obscure and profound Heracleitus, speaking of souls
imembodied: "We live their death, and we die their life."
Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov, TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov.
And Em- pedocles, deprecating the condition termed "
generation," beautifully says of her : The aspect changing
with destruction dread, She makes the Uv'okj pass into the dead.
Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv. And
again, lamenting his connection with this corporeal world, he
pathetically exclaims: Bacchic Mysteries. 37 For
this I weep, for this indulge my woe, That e'er my soul such novel
realms should know. KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry.
ytupov. * Plato, too, it is well known, considered the body
as the sepulchre of the soul, and in the Crcifijlus concurs with the
doctrine of Orpheus, that the soul is x>^niished through its
union with body. This was likewise the opinion of the celebrated
Pythagorean, Phi- lolaus, as is evident from the following re-
markable passage in the Doric dialect, pre- served by Clemens
Alexandrinus in Strom at. book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi
TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac,
xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^'' i. e. " The
ancient theologists and priests * also testify that the soul is
united with the body as if for the sake of punishment ; f and so is
buried in body as in a sepulchre." And, lastly, Py- *
Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets, those filled by the
prophetic mania or eutheasm. t More correctly — '* The soul is
yoked to the body as if by way of punishment," as culprits were
fastened to others or even to corpses. See PauVs Epistle to the liomans,
vii, 25. 38 Eleusinian and thagoras himself
confii'ms the above senti- ments, when he beautifully observes,
accord- ing to Clemens in the same book, " that wild fever tee
see when airali'e is death ; and when asleep,- a dreamt brj^rxio;^
sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly signi- fied
this sublime truth, that the soul by being merged in matter resides among
the dead both here and hereafter, though it fol- lows by a
necessary sequence from the preced- ing observations, yet it is
indisputably con- firmed, by the testimony of the great and truly
divine Plotinus, in Ennead I., book viii. ''When the soul," says he,
'*has descended into generation (from its first divine condition)
she partakes of evil, and is carried a great way into a state the
opposite of her first purity and integrity, to he entirely merged
in ivhich, is nothing more than to fall into dark mire.^^ And again, soon
after : " The soul therefore dies as much as it is pos- sible
for the soul to die : and the death to her is^ while Mptized or immersed
in the present Bacchic Mysteries. 39 hocly^ to
descend into matter * and he wholly subjected hy it ; and after departing
thence to lie there till it shall arise and turn its face away from
the abhorrent filth. This is what is meant hy the falling asleep in
Ifades, of those who have come there.'''' j * Greek ^^>^'<],
matter supposed to contain all the principles the negative of life,
order, and goodness. tThis passage doubtless alludes to the ancient
and beautiful story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall
asleep in Hades ; and this through rashly attempting to behold
corporeal beauty : and the observation of Plotinus will enable the
profoimd and contemplative reader to unfold the greater part of the
mys- teries contained in this elegant fable. But, prior to
Plotinus, Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such
as are unable in the present life to apprehend the idea of the
good, will descend to Hades after death, and fall asleep in its
dark abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv
aXXtov Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v
It-'^'/'fJ 5oa Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax'
ouatav npofl'U^oofjLsvo? eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w
oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov
o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^ ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j
x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai ;
xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao'
E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;
ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e. "He who is not able, by the exercise of
his reason, to define the idea of the good, separating it from all other
objects, and piercing, as in a battle, through every kind of argument ;
endeavoring to confute, not according to opinion, but according to
essence, and proceeding through all these dia- lectical energies with an
unshaken reason; — he who can not 40 Bacchic
Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac
yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,
evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov SGzrji 'jisacov. —
A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^ iJ-avof xctL 6 ^avoLTO?
ao'Tj, xai szl sv ^(o GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc
y-c/.-aoovac, 7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj;
sxst %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v
G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv 4*^00 sXiJ-ovra
sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the aeeomplisli this, would j^ou not
say, that he neither knows the good itself, nor anything which is
pi'operly denominated good? And would you not assert that such a one,
when he apprehends any certain image of reality, apprehends it rather
through the medium of opinion than of science ; that in the present life
he is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams ;
and that before he is roused to a vigilant state he will descend to
Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound." Henry
Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not the ease the
same with i"eference to the good ? Whoever can not logically define
it, abstracting the idea of the good from all others, and taking, as in a
fight, one opposing argument after another, and can not proceed with
unfailing proofs, eager to rest his ease, not on the ground of opinion,
but of true being, — such a one knows nothing of the r/ood itself, nor of
any good whatever ; and should he have attained to any knowledge of the
(jood, we must say that he has attained it by opinion, not by
science {sKizzfiiirj) ; that he is sleeping and dreaming away his
present life ; and before he is roused will descend to Hades, and
there be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14.
Bacchic Mysteries. 43 reader may observe that the
obsciu'e doc- trine of the Mysteries mentioned by Plato in the
Phcedo^ that the nnpurified soul in a future state lies immerged in mire,
is beauti- fully explained; at the same time that our assertion
concerning their secret meaning is not less substantially confirmed.* In
a similar manner the same divine philosopher, in his book on the
Beautiful, Ennead^ I., book vi., explains the fable of Narcissus as an
em- blem of one who rushes to the contempla- tion of sensible
(phenomenal) forms as if they were perfect realities, when at the
same time they are nothing more than Uke beautiful images appearing in
water, falla- cious and vain. " Hence," says he, " as
Nar- cissus, by catching at the shadow, plunged himself in the
stream and disappeared, so he who is captivated by beautiful
bodies, and does not depart fi'om their embrace, is precipitated,
not with his body, but with * Phcedo, 38. " Those who
instituted the Mysteries for us ap- pear to have intimated that whoever
shall arrive in Hades un- ptirified and not initiated shall lie in mud ;
but he who arrives there purified and initiated' shall dwell with the
gods. For there are many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are
inspired." 44 Eleusiniari and his soul,
into a darkness profound and repug- nant to intellect (the higher soul),*
through which, remaining bhnd both here and in Hades, he associates
with shadows." Tov T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o
(j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l
azsrj'K'fj TO) vco [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll
sv- taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still farther
confirms our exposition is that mat- ter was considered by the Egyptians
as a certain mire or mud. " The Egyptians," says
Simplicius, " called matter, which they symbolically denominated
water, the dregs or sediment of the first life ; matter being, as it
were, a certain mire or mud.f Aco xat AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c
C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i- |5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v
'jXtjv sXs- yov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all *
Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind. It is
substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in the New
Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used in Mr.
Taylor's translation of the Platonic writers, may be pretty safely read
as spiritual, by those familiar with the Chris- tian cultus. * A. W.
t Physics of Aristotle. Bacchic Mysteries. 45
tliat has been said we may safely conclude with Ficinus, whose
words are as express to our purpose as possible. " Lastly,"
says he, "that I may comprehend the opinion of the ancient
theologists, on the state of the soul after death, in a few words :
tlieij considered^ as we have elsewhere asserted, things divine as
the only realities^ and that all others were only the images and shadows
of truth. Hence they asserted that prudent men, who earnestly
employed themselves in divine concerns, were above all others in a
vigilant state. But that imprudent [/. e. without foresight] men, who
pursued objects of a different nature, being laid asleep, as it
were, were only engaged in the delusions of dreams ; and that if they
happened to die in this sleep, before they were roused, they would
be afflicted with similar and still more dazzling visions in a future
state. And that as he who in this life pursued realities, would,
after death, enjoy the high- est truth, so he who pursued
deceptions would hereafter be tormented with fallacies and
delusions in the extreme : as the one 46 Eleusinian
and would be delighted with true objects of enjoyment, so
the other would be tor- mented with delusive semblances of reali-
ty." — Denique ut priscormn theologorum sententiam de statu animae
post mortem paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias diximus)
arbitrantur res veras existere, re- hqua esse rerum verarum imagines
atque umbras. Ideo prudentes homines, qui divi- nis incumbunt, prae
ceteris vigilare. Impm- dentes autem, qui sectantur alia, insomniis
omnino quasi dormientes illudi, ac si in hoc somno priusquam expergefacti
fuerint moriantur similibus post (hscessum et acri- oribus visionibus
angi. Et sicut emn qui in vita veris incubuit, post mortem summa
veritate potiri, sic eum qui falsa sectatus est, fallacia extrema
torqueri, ut ille rebus veris oblectetur, hie falsis vexetur simu-
lachris." * But notwithstanding this important truth was
obscurely hinted by the Lesser Myster- ies, we must not suppose that it
was gen- *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.
Bacchic Mysteries. 47 erally known even to the initiated
persons themselves : for as individuals of almost all descriptions
were admitted to these rites, it would have been a ridiculous
prostitution to disclose to the multitude a theory so ab- stracted
and sublime.* It was sufficient to instruct these in the doctrine of a
future state of rewards and punishments, and in themeans of
returning to the principles from which they originally fell : for
this * We observe in the Netv Testament a like disposition on the
part of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and ex-
oteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles, and
"pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom,"
says Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1
Cor- intliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to
know the Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not
given; therefore I speak to them in parables : because they seeing,
see not, and hearing, they hear not, neither do they
understand." — Matthew xiii., 11-13. He also justified the
withholding of the higher and interior knowledge from the untaught and
ill-disposed, in the memorable Sermon on the Mount. — Matthew vii.
: •'Give ye not that which is sacred to the dogs, Neither
cast ye your pearls to the swine ; For the swine will tread them under
their feet And the dogs will turn and rend you." This
same division of the Christians into neophytes and perfect, appears to
have been kept up for centuries ; and Godfrey Higgins asserts that it is
maintained in the Roman Cliurch. — A. W. 48 Eleusinian
and last piece of information was, according to Plato in the
PJuedo, the ultimate design of the Mysteries ; and the former is
necessarily infeiTed from the present discourse. Hence the reason
why it was obvious to none hut the Pythagorean and Platonic philosophers,
who derived their theology from Orpheus himseK,* the original founder of
these sacred institutions; and why we meet with no in- formation in
this particular in any writer prior to Plotinus ; as he was the first
who, having penetrated the profound interior wis- dom of antiquity,
delivered it to posterity without the concealments of mystic
symbols and fabulous narratives. VIBGIL NOT A
PLATONIST. Hence too, I think, we may infer, with the greatest
probabihty, that this recondite meaning of the Mysteries was not
known * Herodotus, ii. 51, 81. "What Orpheus
delivered in hidden allegories Pythagoras learned when he was initiated
into the Orphic Mysteries ; and Plato next received a knowledge of them
from the Orphic and Pythagorean writings."
Bacchic Mysteries. 49 even to Virgil himself, who has so
elegantly described their external form ; for notwith- standing the
traces of Platonism which are to be found in the ^neid, nothing of
any great depth occurs throughout the whole, except what a
superficial reading of Plato and the dramas of the Mysteries might
easily afford. But this is not perceived by modern readers, who,
entirely luiskilled themselves in Platonism, and fascinated by the charms
of his poetry, imagine him to be deeply knowing in a subject with
which he was most hkely but slightly acquainted. This opinion is
still farther strengthened by considering that the doctrine
delivered in his Eclogues is perfectly Epicurean, which was the
fashionable phi- losophy of the Augustan age ; and that there is no
trace of Platonism in any other part of his works but the present book,
which, con- taining a representation of the Mysteries, was
necessarily obliged to display some of the principal tenets of this
philosophy, so far as they illustrated and made a part of these
mystic exhibitions. However, on the supposition that this book presents
us with 50 , Eleusinian and a faithful view of
some part of these sacred rites, and this accompanied with the
utmost elegance, harmony, and purity of versifica- tion, it ought
to be considered as an invalu- able rehc of antiquity, and a precious
mon- ument of venerable mysticism, recondite wisdom, and
theological information.* This will be sufficiently e\ddent from what
has been already delivered, by considering some of the beautiful
descriptions of this book in their natural order; at the same time
that the descriptions themselves will corroborate the present
elucidations. In the first place, then, when he says,
faeilis descensus Averno. Noetes atque dies patet atra
janua ditis : Sed revoeare gradum, superasqiie evadere ad
aiiras, Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus amavit
Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus, Dis geniti
potuere. Tenent media omnia silvae, Cocytusque siuu labens,
circumvenit atro 1 * Ancient Symhol-Worship, page 11, noie.
t Davidson^s Translation. — " Easy is the path that leads down
to hell ; grim Pluto's gate stands open night and day : but to
retrace one's steps, and escape to the upper regions, this is a work,
this is a task. Some few, whom favoring Jove loved, or illustrious
virtue Bacchic Mysteries. 51 is it not obvious,
from tlie preceding expla- nation, that by Avernus, in this place,
and the dark gates of Pluto, we mnst understand a corporeal or
external nature, the descent into which is, indeed, at all times
obvious and easy, but to recall our steps, and ascend' into the
upper regions, or, in other words, to separate the soul from the body by
the purifying discipline, is indeed a mighty work, and a laborious
task ? For a few only, the fa- vorites of heaven, that is, born with the
true philosophic genius,^ and whom ardent virtue has elevated to a
disposition and capacity for divine contemplation, have been enabled
to accomplish the arduous design. But when he says that all the
middle regions are covered with woods, this hkewise plainly in-
timates a material nature ; the word silva^ as is well known, being used
by ancient writers to signify matter, and implies nothing more than
that the passage leading to the barafh- advaneecl to heaven, the
sons of the gods, have effected it. Woods cover all the intervening
space, and Cocytus, gliding with his black, winding flood, surrounds
it." * /. e., a disposition to investigate for the purpose of
eliciting truth, and reducing it to practice. 52
Meusinian and rum [abyss] of body, /. e. into profound
darkness and oblivion, is throngh the me- dium of a material nature ; and
this medium is surrounded by the black bosom of Cocy- tus,* that
is, by bitter weeping and lamenta- tions, the necessary consequence of
the soul's union with a nature entirely foreign to her own. So that
the poet in this particular per- fectly corresponds with Empedocles in
the line we have cited above, where he exclaims, alluding to this
union. For this I weej), for this indulge my icoe, That
e'er my soul such novel realms should know. In the next place, he
thus describes the cave, through which ^neas descended to the
infernal regions : Spelunea alta fuit, vastoque immanis
hiatu, Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris : Quam super
hand ulla? poterant impune volantes Tendere iter pennis : talis sese halitus
atris Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat : Unde locum
Graii dixerimt nomiue Aornum 1 * Coeytus, lamentation, a river in
the Underworld. \ Davidson^ s Trnnslation. — "There was a cave
profound and hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black
lake, Bacchic Mysteries. 53 Does it not afford a
beautiful representation of a corporeal nature, of which a cave,
de- fended with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem
*? For it occultly re- minds us of the ever-flowing and obscin*e
condition of such a nature, which may be said To roll
incessant with impetuous speed, Like some dai'k river, into Matter's
sea. Nor is it with less propriety denominated Aornus, i. e.
destitute of birds, or a winged nature ; for on account of its native sluggish-
ness and inactivity, and its merged condi- and the gloom of woods ;
over which none of the flying kind were able to wing their way unliurt ;
such exhalations issuing from its grim jaws ascended to the vaulted skies
; for w^iich reason the Greeks called the place by the name of
Aornos" (without birds). Jacob Bryant says: " All
fountains were esteemed sacred, but especially those which had any
preternatural quality and abounded with exhalations. It was an universal
notion that a divine energy proceeded from these effluvia ; and that the
persons who resided in their vicinity were gifted with a prophetic
quality. . . . The Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or
fountains of the oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of
God.' These terms the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a
nymph." — Ancient Mythology, vol. i. p. 276. The Delphic
oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca infe- riore, of the earth,
and the pythoness inhaled the vapors. — A. W. 51 Eleiisinian
and tion, being situated in the outmost extremity of tilings,
it is perfectly debile and languid, incapable of ascending into the
regions of reality, and exchanging its obscure and de- graded
station for one every way splendid and divine. The propriety too of
sacrificing, previous to his entrance, to Night and Earth, is
obvious, as both these are emblems of a corporeal nature. In
the verses which immediately follow, — Ecee autem, priini sub
limina solis et ortus, Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta
movere Silvarum, visaque canes ululare per umbram, Adventante dea
* we may perceive an evident allusion to the earthquakes,
etc., attending the descent of the soul into body, mentioned by Plato in
the tenth book of his Republic ;\ since the * " So, now, at
the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth under the feet begins
to rumble, the wooded hills to quake, and dogs were seen howling through
the shade, as the goddess came hither " i Republic, x,
16. "After they were laid asleep, and midnight was approaching,
there was thunder and earthquake ; and they were thence on a sudden
carried upward, some one way, and some another, approaching to the region
of generation like stars." Bacchic Mysteries. 55
lapse of the soul, as we shall see more fully hereafter, was one of
the important truths which these Mysteries were intended to re-
veal. And the howling dogs are symbols of material * demons, who are thus
denomi- nated by the Magian Oracles of Zoroaster, on account of
then" ferocious and malevolent dispositions, ever baneful to the
felicity of the human soul. And hence Matter herseK is represented
by Synesius in his first Hymn, with great propriety and beauty, as
barking at the soul with devoimng rage : for thus he sings,
addressing himself to the Deity : Maxap 6c x:c popov oImc,
npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc, AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po) lyyoc,
£? t^sov v.xo.vjzi. Which may be thus paraphrased : Blessed!
thrice blessed! who, with winged speed, From Hyle's t dread voracious
bai'kiug flies, * Material demons are a lower grade of spiritual
essences that are capable of assuming forms which make them perceptible
by the physical senses. — A. W. t Hijle or Matter. All evil
incident to human life, as is here shown, was supposed to originate from
the connection of the soul to material substance, the latter being
regarded as the receptacle 56 EleMsinian and
And, leaving Earth's obscnrity behind, By a light leap, directs his
steps to thee. And that material demons actually ap- peared
to the initiated previous to the lucid visions of the gods themselves, is
evident from the following passage of Proclus in his manuscript
Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov
tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%- poAat
xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov ayai^cov zic zr^v ohriy
7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. " In the most interior sanctities of the
Mys- teries, before the presence of the god, the rushing forms of
earthly demons appear, and call the attention from the immaculate
good to matter." And Pletho (on the Oracles), expressly
asserts, that these spectres ap- peared in the shape of dogs.
After this, ^neas is described as proceed- ing to the infernal
regions, through profound night and darkness : Ibant obscixri
sola sub nocte per iimbram, Perque domos Ditis vaciias, et inania
regna. of everything evil. But why the soul is thus immerged and
pun- ished is nowhere explained. — A. W. Bacchic
Mysteries. 57 Quale per ineertam lunam sub luce maligna Est
iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra Jupiter, et rebus nox abstulit
atra colorem.* And this with the greatest propriety; for the
Mysteries, as is well known, were cele- brated by night ; and in the
Republic of Plato, as cited above, souls are described as falling
into the estate of generation at mid- night ; this period being
peculiarly accom- modated to the darkness and oblivion of a
corporeal nature ; and to tliis circumstance the nocturnal celebration of
the Mysteries doubtless alluded. In the next place, the
following vivid description presents itself to our view :
Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei Luctus, et
ultrices posuere eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi, tristisque
senectus, Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas;
*" They went along, amid the gloom under the solitary night,
through the shade, and through the desolate halls, and empty realms of
Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods beneath the unsteady
moon with her niggard light, when Jupiter has enveloped the sky in shade,
and the black Night has taken from all objects their color."
58 Eleiisinian and Terribiles visu forraje ; Lethumque
Laborque ; Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia,
mortiferumqiie adverso in limine bellum Ferreique Eumenidum thalami et
Discordia demons, Vipereum crinem vittis inuexa cruentis. In medio
ramos annosaque braehia pandit Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia
vulgo Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent. Multaque
prseterea variarum monstra f erarum : Centauri in foribus stabiilant,
Scyllseque biforines, Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,
Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et
foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^ And surely it is impossible to draw
a more lively picture of the maladies with wliich a *
"Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief
and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases in- habit
there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess of persuasion,
and unsightly Poverty — forms terrible to contem- plate ! and there, too,
are Death and Toil ; then Sleep, akin to Death, and evil Delights of mind
; and upon the opposite threshold are seen death-bringing War, and the
iron marriage-couches of the Furies, and raving Discord, with her
viper-hair bound with gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge
expands its boughs and aged limbs ; making an abode which vain Dreams
are said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides
all these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts.
The Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the
hun- dred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully,
and Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and
the shades of three-bodied form." Bacchic Mysteries.
59 material natui'e is connected ; of the sonl's dormant
condition tlirougli its union with body ; and of the various mental
diseases to which, through such a conjunction, it be- comes
unavoidably subject ; for this descrip- tion contains a threefold
division ; represent- ing, in the first place, the external evil
with which this material region is replete ; in the second place,
intimating that the life of the soul when merged in the body is nothing
but a dream; and, in the third place, under the dis- guise of
multiform and terrific monsters, ex- hibiting the various vices of our
iiTational and sensuous part. Hence Empedocles, in perfect
conformity w^th the first part of this descrip- tion, calls this material
abode, or the realms of generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a
'^joyless region^ "Where slaiighter, rage, ami countless
ills reside; EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa
llYjpWV and into which those who fall, * This and the
other citations from Empedocles are to be found in the book of Hieroeles
on The Golden Verses of Pythagoras. 60 Bacchic
Mysteries. "Through Ate's meads and dreadful darkness
stray." And hence lie justly says to sncli a
soul, that " She flies from deity and heav'nly
light, To serve mad Discord in the realms of night."
iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may
observe that the Discordla demens of Virgil is an exact translation
of the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles. In the
hues, too, which immediately suc- ceed, the sorrows and mournful
miseries attending the soul's union with a material nature, are
beautifully described. Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad
nndas; Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges ^stuat, atque
omuem Coeyto eructat arenam.* And when Charon calls out to ^neas to
* "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell
[Acheron] ; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and vast
whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."
IJiaua auct Calisto. Bacchic Mysteries. 63
desist from entering any farther, and tells him, "
Here to reside delusive shades delight; ''F.or nought dwells here
but sleep and drowsy night." Umbrarum hie locus est, Somni
Noctisque soporse nothing can more aptly express the condi-
tion of the dark regions of body, into which the soul, when descending,
meets with no- thing but shadows and drowsy night : and by
persisting in her course, is at length lulled into profound sleep, and
becomes a true in- habitant of the phantom-abodes of the dead.
^neas having now passed over the Sty- gian lake, meets with the
three-headed mon- ster Cerberus,* the guardian of these infernal
abodes : Tandem trans fluvium incolumis vatemque virumque
Informi limo glaueaque exponit in ulva. * The presence of Cerberus
in Grecian and Roman descriptions of the Underworld shows that the ideas
of the poets and mythol- ogists were derived, not only from Egypt, but
from the Brahmans of the far East. Yama, the lord of the Underworld, is
attended by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the three-
headed. 64 Meusinian and Cerberus haec ingens
latratu regna trifauci Personat, adverse recubaus immanis in
antro.* By Cerberus we must understand the dis- criminative
part of the soul, of which a dog, on account of its sagacity, is an emblem
; and the three heads signify the triple distinction of this part,
into the intellective [or intui- tional], cogitative [or rational], and
opinion- ative powers. — With respect f to the three kinds of
persons described as situated on the borders of the infernal realms, the
poet doubtless intended by this enumeration to represent to us the
three most remarkable * "At length across the river safe, the
prophetess and the man, he lands upon the slimy strand, upon the blue
sedge. Huge Cer- berus makes these realms [of death] resound with barking
from his threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in
the opposite cave." tin the second edition these terms
are changed to dianoietic and doxastic, words which we cannot adopt, as they
are not accepted English terms. The nous, intellect or spirit,
pertains to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia
or understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or
opinion- forming power, to the faculty of investigation. — Plotinus,
accept- ing this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees
— opinion, science, and illumination. The means or instrument of
the first is reception ; of the second, dialectic ; of the third, in-
tuition."— A. W. Bacchic Mysteries. 65
characters, wlio, though not apparently de- serving of punishment,
are yet each of them similarly im merged in matter, and conse-
quently require a similar degree of purifica- tion. The persons described
are, as is well known, first, the souls of infants snatched away by
untimely ends ; secondly, such as are condemned to death unjustly ; and,
third- ly, those who, weary of their lives, become guilty of
suicide. And with respect to the first of these, or infants, their
connection with a material nature is obvious. The sec- ond sort,
too, who are condemned to death unjustly, must be supposed to represent
the souls of men who, though innocent of one crime for which they
were wrongfully pun- ished, have, notwithstanding, been guilty of many
crimes, for which they are receiving proper chastisement in Hades, i. e,
through a profoiuid union with a material nature.* And the third
sort, or suicides, though ap- * Hades, the Underworld, supposed by
classical students to be the region or estate of departed souls, it will
have been noticed, is regarded by Mr. Taylor and other Platonists, as the
human body, which they consider to be the grave and place of punishment
of the soul. — A. W. 66 Eleusinian and
parently separated from the body, have only exchanged one place for
another of similar nature ; since conduct of this kind, according
to the arcana of divine philosophy, instead of separating the soul from
its body, only restores it to a condition perfectly correspon- dent
to its former inchnations and habits, lamentations and woes. But if we
examine this affair more profoundly, we shall find that these three
characters are justly placed in the same situation, because the reason
of punishment is in each equally obscure. For is it not a just
matter of doubt why the souls of infants should be punished? And is
it not equally dubious and wonderful why those who have been unjustly
condemned to death in one period of existence should be punished in
another? And as to suicides, Plato in Ms PJicvdo says that the
prohibition of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) * is a
profound doctrine, and not easy to be * Aporrheta, tbe areaue or
confidential disclosures made to the candidate undergoing initiation. In
the Eleusinia, these were made by the Hierophant, and enforced by him
from the Book of InterpretatInterpretation, said to have consisted of two
tablets of stone. This was the petroma, a name usuallj' derived from
j^e^ra, a rock, Bacchic Mysteries. 67 understood.*
Indeed, the true cause why the two first of these characters are in
Hades, can only be ascertained from the fact of a prior state of
existence, in surveying which, the latent justice of punishment will be
mani- festly revealed ; the apparent inconsistencies in the
administration of Providence fully reconciled; and the doubts concerning
the wisdom of its proceedings entirely dissolved. And as to the
last of these, or suicides, since the reason of their punishment, and why
an action of this kind is in general highly atrocious, is extremely
mystical and obscure, the following solution of this difficulty
will, no doubt, be gratefully received by the Pla- tonic reader, as
the whole of it is no where else to be found but in manuscript.
Olym- or possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //.
Corinthians, xii. 6-8.— A. W. * PJuedo, 16. " The
instruction in the doctrine given in the Mysteries, that we human beings
are in a kind of prison, and that we ought not to free ourselves from it
or seek to- escape, appears to me difficult to be understood, and not
easy to ap- prehend. The gods take care of us, and we are
theirs." Plotinus, it will be remembered, perceived by the
interior faculty that Porphyry contemplated suicide, and admonished
him accordingly. — A. W. 68 Eleusinian and
piodorus, then, a most learned and excellent commentator on Plato,
in his commentary on that part of the PJuedo where Plato speaks of
the prohibition of suicide in the aporrhefa, observes as follows:
"The argu- ment which Plato employs in this place against
suicide is derived fi^om the Orphic mythology, in which foui"
kingdoms are celebrated; the first of Uranus [Ouranos] (Heaven),
whom Ki'onos or Satm^n as- saulted, cutting off the genitals of his
father.* But after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded to the government of
the world, having hurled his father into Tartarus. And after
Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to light, who, according to report,
was, through the insidious treachery of Hera or Juno, torn in
pieces by the Titans, by whom he was sur- rounded, and who afterwards
tasted his flesh : but Jupiter,enraged at the deed, hurled his
thunder at the guilty offenders and consumed them to ashes. Hence a certain
matter be- * In the Hindu mythology, from which this symbolism
is evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or phal-
lus, parted with his diviue authority. Bacchic Mysteries.
69 ing formed from the ashes or sooty vapor of the smoke
ascending from their burning bodies, out of this mankind were
produced. It is unlawful, therefore, to destroy ourselves, not as
the words of Plato seem to unport, because we are in the body, as in
prison, secured by a guard (for this is evident, and Plato would
not have called such an assertion arcane), but because our body is
Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are a part of him,
since we are composed from the ashes, or sooty vapor of the Titans
who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful of
disclosing the arcane part of this narra- tion, relates nothing more of
the fable than that we are placed as in a prison secured by a guard
: but the interpreters re- late the fable openly." Koci z^zi zo
{j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.- zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7.
^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc
:r£pi a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl
0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3
a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO
7.7:0p- P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^
ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U OVrO:;' 'jX£pO^
Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov
a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~ V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0
{JL£V O'JV ]^(07,p7- XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J
{J-'Ji)-0'J 0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi
rppo'jpa £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£- 7a:v
£|(oi)-£v. After this he beautifully ob- serves, " That these four
governments signify the different gradations of virtues, accord-
ing to which oui^ soul contains the symbols of all the qualities, both
contemplative and purifying, social and ethical; for it either
Bacchic Mysteries. 71 operates acoording to the
theoretic or con- templative virtues, the model of which is the
government of Uranus or Heaven^ that we may begin from on high ; and on
this ac- count Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la avco
6pc/.v, from beholding the things above : Or it lives purely, the
exemplar of which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ; and on
this account Kronos is named as Koro-nous, one who perceives through him-
self. Hence he is said to devour his own offspring, signifying the
conversion of him- self into his own substance : — or it operates
according to the social virtues, the sym- bol of which is the government
of Jupiter. Hence, Jupiter is styled the Demiurgus, as operating
about secondary things : — or it operates according to both the
ethical and physical virtues, the symbol of which is the kingdom of
Bacchus ; and on this account is fabled to be torn in pieces by the
Titans, because the virtues are not cut off by each other."
Aiyozzoyzai (lege aLVL-c- tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc,
x(ov aps- xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja
72 Bacchic Mysteries. iraawv tcov apsKov, icov tis
O-scopYj'iL'jctov, otat yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv
Tza^jo.- ^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv
ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j T7. av(o opcjLV. 'H
'/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapa- Sstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at
Kpovoc st- p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov 6pav. Aio
y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/)- {laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov
sTutatps- cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)
XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;, (0?
TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l- %aC %7C CpDa:7,7.?
7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai
a^apa-Tsrai, 5wti O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.
And thus far Olympiodorus ; in which pas- sages it is necessary to observe,
that as the Titans are the artificers of things, and stand next in
order to their creations, men are said to be composed from their
fragments, because the human soul has a partial life capable of
proceeding to the most extreme division united with its proper natiu'e.
And while the soul is in a state of servitude to
Kleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. 75
the body, she hves confined, as it were, in bonds, througli the dominion
of this Titan- ical life. We may observe farther concerning these
dramatic shows of the Lesser Mys- teries, that as they were intended to
rep- resent the condition of the soul while subservient to the
body, we shall find that a liberation from this servitude, through the
purifying disciplines, potencies that separate from evil, was what the
wisdom of the an- cients intended to signify by the descent of
Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and their speedy return from its
dark abodes. ' ' Hence," says Proclus, " Hercules being
purified by sacred initiations^ obtained at length a per- fect
estabhshment among the gods:"* that is, well knowing the dreadful
condition of his soul while in captivity to a corporeal nature, and
purifying himself by practice of the cleansing virtues, of which certain
puri- fications in the mystic ceremonies were sym- bolical, he at
length was freed from the bondage of matter, and ascended beyond
her Commentary on the Statesman of Plato, p. 382.
76 Meusinian and reach. On this account, it is said of
him, that " He dragg'd the three-mouth'd dog to upper
day ; " intimating that by temperance, continence, and
the other virtues, he drew upwards the intuitional, rational, and
opinionative part of the soul. And as to Theseus, who is repre-
sented as . suffering eternal punishment in Hades, we must consider him
too as an allegorical character, of which Proclus, in the
above-cited admirable work, gives the fol- lowing beautiful explanation :
" Theseus and Pirithous," says he, " are fabled to have
ab- ducted Helen, and descended to the infernal regions, i. e. they
were lovers both of mental and visible beauty. Afterward one of
these (Theseus), on account of his magnanimity, was Hberated by
Hercules from Hades ; but the other (Pirithous) remained there, be-
cause he could not attain the difficult height of divine
contemplation." This account, in- deed, of Theseus can by no means
be recon- ciled with Virgil's : sedet, seternumque
sedebit, Infelix Theseus.* * " There sits, and forever
shall sit, the unhappy Theseus." Bacchic Mysteries.
11 Nor do I see how Virgil can be reconciled with himself,
who, a httle before this, rep- resents him as hberated from Hades.
The conjecture, therefore, of Hyginus is most probable, that Virgil
in this particular com- mitted an oversight, which, had he lived,
he would doubtless have detected, and amended. This is at least
much more probable than the opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus
was a living character, who once entered into the Eleusinian Mysteries
by force, for which he was imprisoned upon earth, and afterward
punished in the infernal realms. For if this was the case, why is not
Hercules also represented as in punishment? and this with much
greater reason, since he actually dragged Cerberus from Hades ; whereas
the fabulous descent of Theseus was attended with no real, but only
intentional, mischief. Not to mention that Virgil appears to be the
only writer of antiquity who condemns this hero to an eternity of
pain. Nor is the secret meaning of the fables concernmg the
punishment of impure souls 78 Eleusinian and
less impressive and profound, as the follow- ing extract fi'om the
manuscript commentary of Olympiodorus on the Gorgias of Plato will
abundantly affirm: — "Ulysses," says he, " descending into
Hades, saw, among others, Sisyphus, and Tityus, and Tantalus.
Tityus he saw lying on the earth, and a vulture de- vouring his
liver; the liver signifying that he lived solely according to the
principle of cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was indeed
internally prudent ; but the earth signifies that his disposition was
sordid. But Sisyphus, living under the dominion of ambi- tion and
anger, was employed in continually rolling a stone up an eminence, because
it perpetually descended again ; its descent im- plying the vicious
government of himself ; and his rolling the stone, the hard,
refractory, and, as it were, rebounding condition of his hf e. And,
lastly, he saw Tantalus extended by the side of a lake, and that there
was a tree before him, with abundance of fruit on its branches,
which he desired to gather, but it vanished from his view ; and this
indeed indicates, that he lived under the dominion
Bacchic Mysteries. 79 of phantasy ; but his hanging over the
lake, and in vain attempting to drink, imphes the elusive, humid,
and rapidly-ghding condition of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv
sec cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc xov
TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc
xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt
ya-cct xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO
£C3(0 cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov a'jxoy
'-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo- xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi;
C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/.
xaxap- p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,
hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC- Tov o£
T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj) %7.l OXt £V 5£v5pOtC
'^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£ xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo
ai o^copat. TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V
Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,
%7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord- ing to the wisdom of
the ancients, and the most sublime philosophy, the misery which a
soul endures in the present life, when giv- ing itself up to the dominion
of the irrational 80 Elensinian and part, is
nothing more than the commence- ment, as it were, of that torment which
it win experience hereafter : a torment the same in kind though
different in degree, as it will be much more di'eadful, vehement,
and extended. And by the above specimen, the reader may perceive how
infinitely supe- rior the explanation which the Platonic phi-
losophy affords of these fables is to the frigid and trifling
interpretations of Bacon and other modern mythologists ; who are
able mdeed to point out their correspondence to something in the
natui'al or moral world, be- cause such is the wonderful connection
of things, that all things sympathize with all, but are at the same
time ignorant that these fables were composed by men divinely wise,
who framed them after the model of the highest originals, from the
contemplation of real and permanent heing, and not from re- garding
the delusive and fluctuating objects of sense. This, indeed, mil be
evident to every ingenuous mind, from reflecting that these wise
men universally considered Hell or death as commencing in the present
life Baccldc Mysteries. 81 (as we have already
abundantly proved), and that, consequently, sense is nothing more
than the energy of the dormant soul, and a perception, as it were, of the
delusions of di'eams. In consequence of tliis, it is ab- surd in
the highest degree to imagine that such men would compose fables from
the contemplation of shadows only, without re- garding the splendid
originals from which these dark phantoms were produced : — not to
mention that their harmonizing so much more perfectly with intellectual
explications is an indisputable proof that they were de- rived from
an intellectual [noetic] source. And thus much for the dramatic shows
of the Lesser Mysteries, or the first part of these sacred institutions,
which was properly denominated xsXst-r] [telete^ the closing up]
and [vrrpiz Muesis [the initiation], as con- taining certain perfective
rites, symbolical ex- hibitions and the imparting and reception of
sacred doctrines, previous to the beholding of the most splendid visions,
or ETuoTutsta \epop- teia, seership]. For thus the gradation of
82 Bacchic Mysteries. the Mysteries is disposed by
Proclus in Theology of Plato, book iv. " The perfective rite
[rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in or- der the initiation
[\xorpiQ, muesis], and initia- tion, the final apocalypse, epopteiay
npoY^yst- STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to
observe that the whole business of initiation was distributed into five
parts, as we are informed by Theon of Smyrna, in Matliema- tica,
who thus elegantly compares philosophy to these mystic rites : "
Again," says he, " philosophy may be called the initiation
into true sacred ceremonies, and the instruction in genuine
Mysteries ; for there are five parts of initiation : the first of which
is the previous purification ; for neither are the Mysteries
communicated to all who are wilhng to receive them ; but there are cer-
tain persons who are prevented by the voice of the crier [%Tjpu^, herux^,
such as those who possess impure hands and an inartic- ulate voice
; since it is necessary that such as are not expelled from the
Mysteries * Theology of Plato, book iv. p. 220.
Bacchic Mysteries. 85 should first be refined by certain
purifica- tions : but after purification, the reception of the
sacred rites succeeds. The third part is denominated epopfeia, or
reception.* And the fourth, which is the end and design of the
revelation, is [the investiture] the binding of the head and fixing of
the crowns. The ini- tiated person is, by this means, authorized to
communicate to others the sacred rites in which he has been instructed ;
whether after this he becomes a torch-bearer, or an hierophant of
the Mysteries, or sustains some other part of the sacerdotal office. But
the fifth, which is produced from all these, is friendship and
interior commtmion with God, and the enjoyment of that felicity
which arises from intimate converse with divine beings. Similar to this
is the com- munication of political instruction ; for, in the first
place, a certain purification precedes, * Theon appears to regard
the final apocalypse or epopteia, like E. Poeocke to whose views allusion
is made elsewhere. This writer says : " The initiated were styled
ebaptoi," and adds in a foot-note — " Avaptoi, literaWj
obtaining or getting." According to this the epopteia would imply
the final reception of the interior doctrines. — A. W.
86 Eleusinian and or else an exercise in proper
matliematical discipline from early youth. For thus Em- pedocles
asserts, that it is necessary to be purified from sordid concerns, by
drawing from five fountains, with a vessel of indis- soluble brass
: but Plato, that purification is to be derived fi'om the five
mathematical disciplines, namely from arithmetic, geome- try,
stereometry, music, and astronomy ; but the philosophical instruction in
theorems, logical, pohtical, and physical, is similar to
initiation. But he (that is, Plato) denom- inates zTzoizzzirj, [or the
reveahng], a contem- plation of things which are apprehended in-
tuitively, absolute truths, and ideas. But he considers the binding of
the head, and corona- tion, as analogous to the authority w^hich
any one receives from his instructors, of leading others to the
same contemplation. And the fifth gradation is, the most perfect
fehcity arising from hence, and, according to Plato, an
assimilation to divinity^ as far as is pos- sible to mankind." But
though s'jroTrTS'.a, or the rendition of the arcane ideas, princi-
pally characterized the Greater Mysteries, yet Bacchic
Mysteries. 87 this was likewise accompanied with the [j.uyj-
GLc, or initiation, as will be evident in the conrse of this
inquuy. But let US now proceed to the doctrine of the Greater
Mysteries : and here I shall en- deavor to prove that as the dramatic
shows of the Lesser Mysteries occultly signified the miseries of
the soul while in subjection to body, so those of the Grreater obscurely
inti- mated, by mystic and splendid visions, the felicity of the
soul both here and hereafter, when purified from the defilements of
a material nature, and constantly elevated to the realities of
intellectual [spiritual] vision. Hence, as the ultimate design of the
Mys- teries, according to Plato, was to lead us back to the
principles from which we descended, that is, to a perfect enjoyment of
intellectual [spiritual] good, the imparting of these prin- ciples
was doubtless one part of the doctrine contained in the airoppTjia,
aporrheta, or se- cret discourses ; * and the different purifica-
* The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the
Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle to the
Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, — whether in
88 Eleusinian and tions exhibited in these rites, in
conjunction with initiation and the epopteia were symbols of the
gradation of virtues requisite to this reascent of the soul. And hence,
too, if this be the case, a representation of the descent of the
soul [from its former heavenly estate] must certainly form no
inconsiderable part of these mystic shows ; all which the f ollomng
observations will, I do not doubt, abundantly evince. In the
first place, then, that the shows of the Greater Mysteries occultly
signified the felicity of the soul both here and hereafter, when
separated from the contact and influ- ence of the body, is evident from
what has been demonstrated in the former part of this discourse :
for if he who in the present life is in subjection to Ms irrational part
is truly in ITades, he who is superior to its dominion is liheivise
an inhahitayit of a place totally different from Hades* If Hades
therefore body or outside of body, I know not: God knoweth, — who
was rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings
ineffable, which it is not lawful for a man to repeat." *Paul,
Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is in the
heavens." Bacchic Mysteries. 89 is the
region or condition of punishment and misery, the purified soul must
reside in the regions of bhss ; in a hf e and condition of purity
and contemplation in the present life, and entheastically,* animated by
the divine * Medical and Surgical Bejiorter, vol. xxxii. p. 195.
"Those who have professed to teach their fellow-mortals new truths
eon- cerning immortality, have based their authority on direct
divine inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all
claimed communication with higher spirits ; they were what the Greeks
called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking word which Byron
introduced into our tongue." Carpenter describes the condition as an
automatic action of the brain. The inspired ideas arise in the mind
suddenly, spontaneously, but very vividly, at some time when tliinhing of
some other topic. Francis Galton defines genius as " the automatic
activity of the mind, as distin- guished from the effort of the will, —
the ideas coming by inspira- tion." This action, says the editor of
the Reporter, is largely favored by a condition approaching mental
disorder — at least by one remote from the ordinary working day habits of
thought. Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual
com- motion of mind, will produce it ; and, indeed, these
extraordinary displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha,
Moham- med, all began their careers by fasting, and visions of devils
fol- lowed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries
also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic orgies.
"We do not, however, accept the materialistic view of this subject.
The cases are enftieasHe ; and although hysteria and other disorders of
the sympathetic system sometimes imitate the phenomena, we believe with
Plato and Plotimis, that the higher faculty, intellect or intuition as we
prefer to call it, the noetic part of our nature, is the faculty actually
at work. "By reflection, 90 Eleusinian and
energy, in the next. This being admitted, let us proceed to
consider the description which Virgil gives us of these fortunate
abodes, and the latent signification which it contains, ^neas and his
guide, then, hav- ing passed tlu^ough Hades, and seen at a dis-
tance Tartarus, or the utmost profundity of a material nature, they next
advance to the Elysian fields : Devenere locus Isetos, et
amaena vireta Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me
campos gether et lumine vestit Purpureo ; solemque suum, sua sidera
norunt. * Now the secret meaning of these joyful places is
thus beautifully unfolded by Olym- piodorus in his manuscript Commentary
on the Gorgias of Plato. "It is necessary to know," says he,
" that the fortunate islands are said to be raised above the sea ;
and self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be
raised to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is,
to the vision of God." This is the epopteia. — A. W. *
"They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re-
treats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky
here clothes the fields with a purjile light ; they recog- uize their own
suu, their own stars." Bacchic Mysteries. 91
hence a condition of being, which transcends this corporeal hfe and
generated existence, is denominated the islands of the blessed ;
but these are the same with the Elysian fields. And on this account
Hercules is said to have accomphshed his last labor in the Hes-
perian regions ; signifying bythis, that having vanquished a dark and
earthly life he after- ward hved in day, that is, in truth and
light." Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q
i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav
too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc, {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI.
TaoTC/v $£ saxi ■vcc/.t xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6
'Hpay,- Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv
s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov ■jcai yO-oviov pwv, xai
Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he
who in the present state vanquishes as much as possible a corporeal
life, through the practice of the piu'ifying virtues, passes in
reahty into the Fortunate Islands of the soul, and lives surrounded with
the bright splen- dors of truth and wisdom proceeding from the sun
of good. 92 Bacchic Mysteries. The poet, in
describing the employments of the blessed, says : Pars
in gramineis exereent membra paleestris : Coutendunt ludo, et f ulva
luctantur arena : Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.
Nee non Threicius longa cum veste saeerdos Obloquitur uumeris septem
discrimina vocum: lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.
Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles, Magnanimi heroes, nati
melioribus annis, Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus
auctor. Arma procul, currusque virum miratur inanis. Stant terra
defixse hastse, passimque soluti Per campum pascuntur equi. Quae gratia
curruum Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis Pascere equos,
eadem sequitur tellure repostos. Conspicit, ecee alios, dextra laevaque
per herbam Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis. Inter
odoratum lauri nemus : unde superne Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur
amnis.* * "Some exercise their limbs upon the grassy field,
contend in play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the
ground and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his
long robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven
distinguished notes ; and now strikes them with his fingers, now with the
ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer, a most illustrious
progeny, noble heroes, born in happier j-ears, — II, Assarac, and Dardan,
the founder of Troy, ^neas looking from afar, admires the arms and empty
war-cars of the heroes. There stood spears fixed in the ground, and
scattered over the plain horses are feeding. The same taste which when
alive •'i%^^^^_^ ^^^!^mm^ Eleusiuiau
Mj'steries. Bacchic Mysteries. 95 This must not
be understood as if the soul in the regions of fehcity retained any
affec- tion for material concerns, or was engaged in the trifling
pursuits of the everyday cor- poreal life ; but that when separated
from generation, and the world's life, she is con- stantly engaged
in employments proper to the higher spiritual nature ; either in divine
con- tests of the most exalted wisdom ; in forming the responsive
dance of refined imagina- tions; in tuning the sacred lyi'e of
mystic piety to strains of divine fury and ineffable dehght ; in
giving free scope to the splendid and winged powers of the soul; or
in nourishing the higher intellect with the sub- stantial banquets
of intelligible [spiritual] food. Nor is it without reason that the
river Eridanus is represented as flowing through these delightful abodes;
and is at these men had for chariots and arms, the same passion for
rear- ing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth.
Lo! also he views others, on the right and left, feasting on the
grass, and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove
of laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls
through the woods." A peeon was chanted to Apollo at Delphi every
seventh day. 96 Eleusinian and the same time
denominated plurimus (great- est), because a great part of it was
absorbed in the earth without emerging from thence : for a river is
the symbol of hfe, and conse- quently signifies in this place the
intellectual or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that
is, from divinity itself, and gliding with pro- lific energy through the
hidden and profound recesses of the soul. In the following
lines he says : Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,
Riparumque toros, et prata recentia rivis Incolimus.* By the
blessed not being confined to a par- ticular habitation, is implied that
they are perfectly free in all things ; being entirely free from
all material restraint, and purified from all inclination incident to the
dark and cold tenement of the body. The shady groves are symbols of
the retiring of the » li ' No one of us
has a fixed abode. We inhabit the dark groves, and occupy couches on the
river-banks, and meadows fresh with little rivulets."
Bacchic Mysteries. 97 soul to the depth of her essence, and
there, by energy solely divine, establishing herself in the
ineffable principle of things.* And the meadows are syin])ols of that
prolific power of the gods through which all the variety of
reasons, animals, and forms was produced, and which is here the
refresh- ing pastui'e and retreat of the hberated soul.
But that the communication of the knowl- edge of the principles
from which the soul descended formed a part of the sacred Mys-
teries is evident from Yirgil ; and that this was accompanied with a
vision of these prin- ciples or gods, is no less certain, from the
testimony of Plato, Apuleius, and Proclus. The first part of this
assertion is evinced by the following beautiful lines : *
Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true knowledge
is naturally carried in his aspirations to the real prin- ciple of being
; and his love knows no repose till it shall have been united with the
essence of each object through that jiart of the soul, which is akin to
the Permanent and Essential ; and so, the divine conjunction having
evolved interior knowledge and truth, the knowledge of being is
won." 98 EleiiHinian and Prineipio cfelum
ac tei-ras, eamposque liquentes Lucentemque globum luuas,
Titauiaque astra Spiritus intus alit, totumque infusa per
artus Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e
marmoreo fert monstra sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et
cselestis origo Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,
Terrenique hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt
cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa
tenebris et carcere csecc* For the sources of the soul's existence
are also the principles from which it fell; and these, as we may
learn from the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane
soul, and the junior or mundane gods.f Now, of * "First
of all the interior spirit sustains the heaven and earth and watery
plains, the illuminated orb of the moon, and the Titan- ian stars ; and
the Mind, diffused through all the members, gives energy to the whole
frame, and mingles with the vast body [of the universe]. Thence proceed
the race of men and beasts, the vital souls of birds and the brutes which
the Ocean breeds beneath its smooth surface. In them all is a potency like
fire, and a celestial origin as to the rudimentary principles, so far as
they are not clogged by noxious bodies. They are deadened by
earthly forms and members subject to death ; hence they fear and
desire, grieve and rejoice ; nor do they, thus enclosed in darkness
and the gloomy prison, behold the heavenly air." \
Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the divine; and
then delivered over to his celestial offspring [the Bacchic
Mysteries. 99 these, the mundane intellect, which, accord-
ing to the ancient theology, is represented by Bacchus, is principally
celebrated by the poet, and this because the soul is particu- larly
distributed into generation, after the manner of Dionysus or Bacchus, as
is evident from the preceding extracts from Olympio- dorus : and is
still more abundantly confirmed by the following curious passage from
the same author, in his comment on the Plicedo of Plato. " The
soul," says he, " descends Cori- cally [or after the manner of
Proserpine] into generation,* but is distributed into gen- eration
Dionysiacally,t and she is bound in body PrometheiacallyJ and
Titanically: she fi'ees herself therefore from its bonds by ex-
ercising the strength of Hercules ; but she subordinate or
generated gods], the task of creating the mortal. These subordinate
deities, copying the example of their parent, and receiving from his
hands the immortal principles of the human soul, fashioned after this the
mortal body, which they consigned to the soul as a vehicle, and in which
they placed also another kind of a soul, which is mortal, and is the seat
of violent and fatal passions." * That is to say, as if
dying. Kore was a name of Proserpina. t /. e. as if divided into
pieces. X I. e. Chained fast. 100 We US in km
and is collected into one through the assistance of Apollo
and the savior Minerva, by phi- losophical discipline of mind and heart
purify- ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv
'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza- AttoXXcovoc
%ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L- '^(oc -(0 oyzi
r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes of the
soul's exis- tence, when he says, Igneiis est ollis vigor, et
coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes to the
sowing of souls into generation, t mentioned in the Timmus. And
fi'om hence the reader will * "There is then a certain fiery
potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary principles."
/. e. Restored to wholeness and divine life. tl Corinthians,
xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the dead. It is sown in
corruption [the material body] ; it is raised in incorruption : it is
sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it is sown in weakness ; it
is raised in power : it is sown a psychical body ; it is raised a
spiritual body." Bacchic Mysteries. 101
easily perceive the extreme ridiculousness of Dr. Warburton's
system, that the grand secret of the Mysteries consisted in exposing
the errors of Polytheism, and in teaching the doctrine of the
unity, or the existence of one deity alone. For he might as well have
said, that the great secret consisted in teaching a man how, by
writing notes on the works of a poet, he might become a bishop ! But
it is by no means wonderful that men who have not the smallest
conception of the true nature of the gods ; who have persuaded
themselves that they were only dead men deified ; and who measure the
understand- ings of the ancients by their own, should be led to
fabricate a system so improbable and absurd. But that this
instruction was accompanied with a vision of the source from which
the soul proceeded, is evident from the express testimony, in the
first place, of Apuleius, who thus describes his initiation into the
Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et calcato Proserpinse
limine, per omnia vectus elementa remeavi. Nocte media vidi solem.
102 Meusinicm and candido coniscantem kimine, deos
inferos, et deos superos. Access! coram, et adoravi de proximo."
* That is, "I approached the confines of death : and having trodden
on the threshold of Proserpina returned, having been carried
through all the elements. In the depths of midnight I saw the sun
glitter- ing with a splendid light, together with the infernal and
supernal gods : and to these divinities approaching near, I paid the
tribute of devout adoration." And this is no less evidently
implied by Plato, who thus de- scribes the fehcity of the holy soul prior
to its descent, in a beautiful allusion to the arcane visions of
the Mysteries. Ka/.Ao? 3s TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV
£UOaL|J,OVt )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot
jjis'La [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov t£
7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a- pKOXW.TYjV
YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^ OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC
%7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£
7,7.1 TLTiXa %7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt
T£ 7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl * The
Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn). Bacchic Mysteries. 103
TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s
d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law- ful to survey the
most splendid beauty, when we obtained, together with that blessed
choir, this happy vision and contemplation. And we indeed enjoyed
this blessed spectacle to- gether with Jupiter ; but others in
conjunc- tion with some other god ; at the same time being initiated
in those Mysteries^ which it is lawful to call the most blessed of
all Mysteries. And these divine Orgies* were celebrated by us,
while we possessed the proper integrity of our nature, we were
freed from the molestations of evil which otherwise await us in a future
period of time. Likewise, in consequence of this divine initiation,
we became spectators of entire, simple, immovable, and blessed visions,
res- ident in a pure hght ; and were ourselves pure and immaculate,
being hberated from this surrounding vestment, which we denom-
inate body, and to which we are now bound * The peculiar rites of
the Mysteries were indifferently termed Orgies or Labors, teletai or
finishings, and initiations. 10-i Bacchic Mysteries.
like an oyster to its shell."* Upon this beautiful passage
Proclus observes, "That the initiation and epopfeia [the vailing and
the reveahng] are symbols of ineffable silence, and of union with
mystical natures, through intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic,
v.ai r^ * Phcedriis, 64. t Proclus : Theology of Plato,
book iv. The following reading is suggested : "The initiation and
final disclosing are a symbol of the Ineffable Silence, and of the
enosis, or being at one and en rapport with the mystical verities through
manifestations in- tuitively comprehended." The
ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as
relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal
happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp- tion
from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there was a
certain welcome to the abodes of the blessed. The term cTTOTrcjioi,
epopteia, applied to the last scene of initiation, he de- rives from the
Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being regarded as having
secured for himself or herself divine bliss. It is more usual,
however, to treat these terms as pure Greek; and to render the mnesis as
initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat. According to this
etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who knows the interior
wisdom. The terms in- spector and superintendent do not, tome, at all
express the idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr.
Pocoeke, that the Mysteries came from the East, and from that to deduce
that the technical words and expressions are other than Greek.
Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual
discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your
soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa
"^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia- xtov svcoascoc;. Now, from all tliis,
it may be inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx
\epoptei(i\ or final revealing, con- sisted in beholding the gods
themselves in- vested with a resplendent hght ; * and that this was
symbohcal of those transporting visions, which the virtuous soul will
con- stantly enjoy in a future state ; and of which it is able to
gain some ravishing glimpses, even while connected with the
cumbrous vestment of the body.f the body, deny self, —
affections as well as appetites, — and the inner eye will begin to exercise
its clear and solemn vision." " In the reduction of yonr soul
to its simplest principles, the divine germ, you attain this oneness. We
stand then in the immediate pres- ence of God, who shines out from the
profound depths of the soul."- A. W. * Apuleius: The
Golden Ass. xi. The candidate was instructed by the hierophant, and
permitted to look within the cistn or chest, which contained the mystic
serpent, the phallus, egg, and gi-ains sacred to Demeter. As the epopt
was reverent, or otherwise, he now "knew himself" by the sentiments
aroused. Plato and Al- cibiades gazed with emotions wide apart. — A.
W. t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and then
that . we can enjoy the elevation made possible for us, above the
limits of the body and the world. I myself have realized it but
three times as yet, and Porphyry hitherto not once."
108 Bacchic Mysteries. But that this was actually the case,
is evident fi'om the following unequivocal tes- timony of Proclus :
Ev airaac zaic, zsXszaic TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s
G'/r^iiaza s^- aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizM- zov
a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v- {J-pcoTTStov {j-opY'/jv
£a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /.
^. " In all the initiations and Mysteries, the gods ex- hibit
many forms of themselves, and appear in a variety of shapes : and
sometimes, in- deed, a formless light ^ of themselves is held forth
to the view ; sometimes this hght is according to a human form, and
sometimes it proceeds into a different shape." f This
assertion of divine visions in the Mysteries, Porpbyiy
afterward declared that he witnessed four times, when near him, the soul
or " intellect " of Plotiiius thns raised up to the First and
Sovereign Good ; also that he himself was only once so elevated to the
enosis or union with God, so as to have glimpses of the eternal world.
This did not occur till he was sixty-eight years of age. — A. W.
* I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape of
an object. \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.
Cupids, Satyr, aud statue of Priapua. Bacchic
Mysteries. Ill is clearly confirmed by Plotinus.* And, in
short, that magical evocation formed a part of the sacerdotal office in
the Mysteries, and that this was universally believed by all
antiquity, long before the era of the latter Platonists,t is plain from
the testimony of Hippocrates, or at least Democritus, in his
Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of those who attempt to cure this
disease by magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac-
Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo zpOTzrj, TTOLVca
zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric,
zivoq yvtofj-Tj? {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza
btzizt^^so- oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.
" For if they profess themselves able to draw down the moon, to
obscure the sun, to pro- duce stormy and pleasant weather, as like-
wise showers of rain, and heats, and to render the sea and earth barren,
and to accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book 9. t
Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their
associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian and
every thing else of this kind ; whether they derive this knowledge
from flie Mysteries^ or from some other mental effort or
meditation, they appear to me to be impious, from the study of such
concerns." From all which is easy to see, how egregiously Dr. Warburton
was mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^ he asserts,
" that the light beheld in the Mysteries, was nothing more than
an illuminated image which the priests had thoroughly
purified." But he is likewise no less mistaken, in
transferring the injunction given in one of the Magic Oracles of
Zoroaster, to the busi- ness of the Eleusinian Mysteries, and in
per- verting the meaning of the Oracle's admoni- tion. For thus the
Oracle speaks : Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,
That is, " Invoke not the self -revealing image of Nature, for
you must not behold these things before your body has received the
initiation." Upon which he observes, " that
Bacchic Mysteries. 113 the self-revealing image ivas only a
diffusive shining light, as the name partly declares^ * But this is
a piece of gross ignorance, from which he might have been freed by an
atten- tive perusal of Proehis on the Timceus of Plato : for in
these truly divine Commenta- ries we learn, " that the moonf is the
cause of nature to mortals, and the self -rev eating image of the
fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c,
^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a. o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac,
'f'jasco^. If the reader is desirous of knowing what we are to
under- stand by the fountain of nature of which the moon is the
image, let him attend to the fol- lowing information, derived from a long
and deep study of the ancient theology : for from hence I have
learned, that there are many divine fountains contained in the essence
of the demiurgus of the world ; and that among these there are
three of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, — the fountain of virtues, or Minerva — and * Divine
Legation, p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter,
symbolized as Selene or the Moon, 114 Eleusinian
and the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as neces- sary to the prohfic
reproduction of liimself. And this information will enable us
besides to explain the meaning of the following i3as- sages in
Apuleius, which, from not being- understood, have induced the moderns
to believe that Apuleius acknowledged but one deity alone. The
first of these passages is in the beginning of the eleventh book of
his MetamorpJioses, in which the divinity of the moon is
represented as addressing him in this sublime manner : " En adsum
tuis com- mota, Luci, precibus, rerum Natura parens, elementorum
omnium domina, seculorum progenies initialis, summa numinum, regina
Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearum- que facies uniformis : quae cseh
luminosa culmina, maris salubria flamina, inferorum de plorata
silentia nutibus meis dispenso : cu jus numen unicum, multiformi specie,
ritu vario, nomine multijugo totus veneratur orbis. Me primigenii
Phryges Pessinunticam nominant Bacchic Mysteries. 115
Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici Cecropiam Minervam ; ilhiic
fluctuantes Cy- prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri
Dictjninam Dianam ; Sicuh trihngues Sty- giam Proserpinam ; Eleusinii
vetustam Deam Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii Hecaten,
Rhamnusiam ahi. Et qui nascen- tis dei Sohs inchoantibus radiis
iUustrantur, ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pol- lentes
^gyptii cserimoniis me prorsus propriis percolentes appellant vero nomine
reginam Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved with
thy supphcations, I am present ; I, who am Nature, the parent of things,
mis- tress of all the elements, initial progeny of the ages, the
highest of the divinities, queen of departed spirits, the first of the
celes- tials, of gods and goddesses the sole hkeness of all : who
rule by my nod the luminous heights of the heavens, the salubrious
breezes of the sea, and the woful silences of the in- fernal
regions, and whose divinity, in itself but one, is venerated by all the
earth, in many characters, various rites, and different
appellations. Hence the primitive Phry- 116 Bacchic
Mysteries. gians call me Pessinuntica, the motlier of the
gods ; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the wave-siUTOunded
Cyprians, Paphian Venus ; the arrow-bearing Cretans, Dictynnian
Diana; the three-tongued Sicil- ians, Stygian Proserpina ; and the
inhabit- ants of Eleusis, the ancient goddess Ceres. Some, again,
have invoked me as Juno, others as Bellona, others as Hecate, and others
as Rhamnusia ; and those who are enlightened by the emerging rays
of the rising sun, the Ethiopians, and Aryans, and likewise the
Egyptians powerful in ancient learning, who reverence my divinity with
cerenioaies per- fectly proper, call me by my true appellation
Queen Isis." And, again, in another place of the same book, he says
of the moon : " Te Superi colunt, observant Inferi : tu rotas
orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas Tartarum. Tibi respondent
sidera, gaudent numina, redeunt tempora, serviunt elementa,
etc." That is, " The supernal gods reverence thee, and those in
the realms beneath at- tentively do homage to thy divinity. Thou
dost make the universe revolve, illuminate Bacchic
Mysteries. 119 the sun, govern the world, and tread on Tar-
tarns. The stars answer thee, the gods re- joice, the houi's and seasons
retui*n by thy appointment, and the elements serve thee." For
all tliis easily follows, if we consider it as addressed to the
fountain-deity of nature, subsisting in the Demiurgus, and which is
the exemplar of that nature which flourishes in the lunar orb, and
throughout the mate- rial world, and from which the deity itself of
the moon originally proceeds. Hence, as this fountain innnediately
depends on the life-giving goddess Rhea, the reason is ob- vious,
why it was formerly worshiped as the mother of the gods : and as all the
mundane are contained in the super-mundane gods, the other
appellations are to be considered as names of the several mundane
divinities pro- duced by this fountain, and in whose essence they
are likewise contained. But to proceed with our inquiry, I
shall, in the next place, prove that the different purifications
exhibited in these rites, in con- junction with initiation and the
epopteia were symbols of the gradation of disciplines
120 Eleusinian and requisite to the reascent of the soul.*
And the fii'st part, indeed, of this proposition respecting the
purifications, immediately fol- lows from the testimony of Plato in the
pas- sage already adduced, in which he asserts that the ultimate
design of the Mysteries was to lead us back to the principles from
which we originally fell. For if the Mysteries were symbohcal, as
is universally acknowledged, this must likewise be true of the
purifica- tions as a part of the Mysteries ; and as in- ward
puiity, of which the external is sym- bolical, can only be obtained by
the exercise of the virtues, it evidently follows that the
purifications were symbols of the pimfying moral virtues. And the latter
part of the proposition may be easily inferred, from the passage
ah'eady cited from the Phmdrus of Plato, in which he compares initiation
and the epopteia to the blessed vision of the higher intelligible
natures ; an employment which can alone belong to the exercise of
contemplation. But the whole of this is rendered indisputable by the
following re- */. e. to its former divine condition.
Bacchic Mysteries. 121 markable testimony of Olympiodorus, in
his excellent manuscript Commentary on the PJuedo of Plato.*
"In the sacred rites," says he, "popular pui4fications are
in the first place brought forth, and after these such as are more
arcane. But, in the third place, collections of various things into one
are re- ceived ; after which follows inspection. The ethical and
political virtues therefore are analogous to the apparent purifications ;
the cathartic virtues which banish all external impressions,
correspond to the more arcane purifications. The theoretical energies
about intelligibles, are analogous to the collections ; and the
contraction of these energies into an * We have taken the liberty
to present the following version of this passage, as more correctly
expressing the sense of the orig- inal: "At the holy places are
first the public purifications. With these the more arcane exercises
follow ; and after those the obliga- tions [-jozzaizz'.z) are taken, and
the initiations follow, ending with the epopiic disclosures. So, as will
be seen, the moral and social (political) virtues are analogous to the
public purifications ; the purifying virtues in their turn, which take
the place of all external matters, correspond to the moi'e arcane
disciplines ; the contemplative exei'cises concerning things to be known
intui- tively to the taking of the obligations ; the including of them
as an undivided whole, to the initiations ; and the simple ocular
view of simple objects to the epoptic revelations."
122 Eleusinian and indivisible nature, corresponds to
initiation. And the simple self-inspection of simple forms, is
analogous to epoptic vision." 'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ
aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s za'jzac, QOGzaaeic,
Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s
siroirrscc/i. xVvc/Ao- yooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i
aps- xa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii-
7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ
aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt- %7c TS
svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co
ajispiarov X7cc \vyqGZGiy. Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V
70X0'V.7C t71C s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from
noticing, with indignation mingled with pity, the ignorance and arrogance
of modern crit- ics, who pretend that this distribution of the
virtues is entirely the invention of the latter Platonists, and without
any foundation in the writings of Plato.* And among the sup-
porters of such ignorance, I am sovry to find * The writings of
Augustin handed Neo-Platonism down to pos- terity as the original and
esoteric doctrine of the first followers of Plato. He enumerates the
causes which led, in his opinion, to the negative position assumed by the
Academics, and to the con- Bacchic Mysteries. 123
Fabricius, in his prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing
can be more obvious to every reader of Plato than that in his Laws
he treats of the social and political virtues ; in his Phcedo, and
seventh book of the RepiibUc^ of the purifying; and in his
Thceafetus, of the contemplative and sub- limer virtues. This observation
is, indeed, so obvious, in the Phcedo, with respect to the
purifying virtues, that no one but a verbal critic could read this
dialogue and be insen- sible to its truth : for Socrates in the very
beginning expressly asserts that it is the business of philosophers to
study to die, and to be themselves dead,* and yet at the same time
reprobates suicide. What then can such eealment of their real
opinions. He describes Plotinus as a re- suscitated Plato. — Against the
Academics, iii. 17-20. * Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o-
TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la?
aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt
xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply themselves to
philosophy seem to have left others ignorant, that they themselves aim at
nothing else than to die and to be dead. Elsewhere (31) Socrates
says : " While we live, we shall ap- proach nearest to intuitive
knowledge, if we hold no communion with the body, except, what absolute
necessity requires, nor suffer ourselves to be pervaded by its nature,
but purify ourselves from it until God himself shall release
us." 124 Eleusinian and a death mean but
symbolical or philosophical death ? And what is this but the true
ex- ercise of the virtues which purify '? But these poor men read
only superficially, or for the sake of displaying some critical
acumen in verbal emendations ; and yet with such despicable preparations
for philosoph- ical discussion, they have the impudence to oppose
their puerile conceptions to the de- cisions of men of elevated genius
and pro- found investigation, who, happily freed from the danger
and drudgery of learning any foreign language,* directed all their
attention without restraint to the acquisition of the most exalted
truth. It only now remains that we prove, in the last place,
that a representation of the descent of the soul formed no inconsiderable
part of these mystic shows. This, indeed, is doubt- * It is
to be regretted, nevertheless, that our author had not risked the "
danger and drudgery " of learning Greek, so as to have rendered
fuller justice to his subject, and been of greater service to his
readers. We are conscious that those who are too learned in verbal
criticism are prone to overlook the real purport of the text.— A.
W. Bacchic Mysteries. 125 less occultly
intimated by Yirgil, when speak- ing of the souls of the blessed ui
Elysium, he adds, Has omnes, ubi mille rotam volvere per
annos, Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno : Scilicet
immemores supera ut convexa revisant, Eursus et incipiant iu eorpore
velle reverti.* But openly by Apuleius in the following
prayer which Psyche addresses to Ceres : Per ego te frugiferam tuam
dextram istam deprecor, per Isetificas messium cserimonias, per
tacita sacra cistarum, et per famulorum tuorum draconum pinnata
cuiTicula, et glebae. Siculae fulcamina, et currum rapacem, et ter-
ram tenacem, et illuminarum Proserpinse nuptiarum demeacula, et caetera
quae silentio tegit Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse Psyches
animse, supplicis fuse, subsiste.f That is, "I beseech thee, by thy
fruit-bearing right * " All these, after they have passed away
a thousand years, are summoned by the divine one in great array, to the
Lethfean river. In this way they become forgetful of their former
earth-life, and revisit the vatilted realms of the world, willing again
to return into bodies." t Apuleius : The Golden Ass.
(Story of Cupid and Psyche), book vi. 126 Bacchic
Mysteries. hand, by the joyful ceremonies of harvest, by the
occult sacred rites of thy cistae,* and by the winged car of thy attending
dragons, and the furrows of the Sicilian soil, and the ra- pacious
chariot (or car of the ravisher), and the dark descending ceremonies
attending the marriage of Proserpina^ and the ascending rites which
accompanied the lighted return of thy daughter^ and l)ij other
arcana which Eleusis the Attic sanctuary conceals in profound
silence^ reheve the sorrows of thy wretched suppliant Psyche." For
the abduction of Proserpina signifies the descent of the soul, as
is e^ddent from the passage previously adduced from Olympiodorus,
in which he says the soul descends Corically ; f and this is
confirmed by the authority of the philosopher Sallust, who observes,
" That the abduction of Proserpina is fabled to have taken
place about the opposite equinoctial ; and by this the descent of souls
[into earth- * Chests or baskets, made of osiers, in which were
enclosed the mystical images and utensils which the uninitiated were not
per- mitted to behold. t /• €. as to death ; analogously to
the descent of Kore-Per- sephone to the Underworld.
Ceres lends lier ear to Triptolemus. Proserpina and Pluto.
Jupiter augry. Bacchic Mysteries. 129 life] is
implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q- {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc
soTt tcov '|y/cov.* And as the abduction of Proserpina was exhibited
in the dramatic representations of the Myste- ries, as is clear
from Apuleius, it indisputa- bly follows, that this represented the
descent of the soul, and its union with the dark tene- ment of the
body. Indeed, if the ascent and descent of the soul, and its condition
while connected with a material nature, were rep- resented in the
dramatic shows of the Mys- teries, it is evident that this was implied
by the rape of Proserpina. And the former part of this assertion is
manifest from Apu- leius, when describing his initiation, he says,
in the passage already adduced : "I ap- proached the confines of
death, and having trodden on the threshold of Proserpina, /
returned^ having been carried through all the elements.^'' And as to the
latter part, it has been amply proved, fi'om the highest authority,
in the first division of this dis- course. * De Diis et
Mundo, p. 251. 130 Meusinian and Nor must the
reader be distiu^bed on find- ing that, according to Porphyry, as cited
by Eusebius,* the fable of Proserpina alludes to seed placed in the
ground ; for this is like- wise true of the fable, considered
according- to its material explanation. But it will be proper on
this occasion to rise a httle higher, and consider the various species of
fables, according to their philosophical arrange- ment ; since by
this means the present sub- ject will receive an additional
elucidation, and the wisdom of the ancient authors of fables will
be vindicated from the unjust aspersions of ignorant declaimers. I
shall present the reader, therefore, with the fol- lowing
interesting division of fables, fi'om the elegant book of the Platonic
philoso- pher Sallust, on the gods and the universe. " Of
fables," says he, " some are theological, others physical,
others animastic (or relating to soul), others material, and lastly,
others mixed from these. Fables are theological which relate to
nothing corporeal, but contem- plate the very essences of the gods ; such
as * Evang. Prcepui: book iii. chap. 2. Bacchic
Mysteries. 131 the fable which asserts that Saturn devoured
his children : for it insinuates nothing more than the nature of an
intellectual (or intu- itional) god ; since every such intellect
returns into itself. We regard fables physically when we speak
concerning the operations of the gods about the world ; as when
considering Saturn the same as Time, and calhng the parts of time
the children of the universe, we assert that the children are devoiu'ed
by their parent. But we utter fables in a spiritual mode, when we
contemplate the operations of the soul ; because the intellections of
our souls, though by a discursive energy they go forth into other
things, yet abide in their parents. Lastly, fables are material, such
as the Egyptians ignorantly employ, consider- ing and calling
corporeal natures divinities : such as Isis, earth, Osiris, humidity,
Typhon, heat • or, again, denominating Saturn water, Adonis,
fruits, and Bacchus, wine. And, in- deed, to assert that these are
dedicated to the gods, in the same manner as herbs, stones, and
animals, is the part of wise men ; but to call them gods is alone the
province of fools and 132 Eleusinian and madmen
; unless we speak in the same man- ner as when, from estabhshed custom,
we call the orb of the sun and its rays the sun itself. But we may
perceive the mixed kind of fables, as well in many other particulars,
as when they relate that Discord, at a banquet of the gods, tlu'ew
a golden apple, and that a dispute about it arising among the god-
desses, they were sent by Jupiter to take the judgment of Paris, who,
charmed with the beauty of Venus, gave her the apple in pref-
erence to the rest. For in this fable the banquet denotes the super-mundane
powers of the gods ; and on this account they sub- sist in
conjunction with each other : but the golden apple denotes the world,
which, on account of its composition from contrary natures, is not
improperly said to be thrown by Discord, or strife. But again, since
dif- ferent gifts are imparted to the world by dif- ferent gods,
they appear to contest with each other for the apple. And a soul living
ac- cording to sense (for this is Paris), not per- ceiving other
powers in the universe, asserts that the apple is alone the beauty of
Venus. Bacchic Mysteries. 133 But of these
species of fables, such as are theological belong to philosophers ; the
phys- ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed to the first of
the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ; since the intention of all mystic
ceremonies is to conjoin us with the world and the gods.^''
Thus far the excellent Sallust : from whence it is evident, that
"the fable of Pro- serpina, as belonging to the Mysteries, is
properly of a mixed nature, or composed from all the four species of
fables, the theo- logical [spiritual or psychical], and material.
But in order to understand this divine fable, it is requisite to know,
that according to the arcana of the ancient theology, the Coric *
order (or the order belonging to Proserpina) is twofold, one part of
which is super-mundane, subsisting with Jupiter, or the Demiurgus,
and thus associated with him establishing one artificer of divisible
natures ; but the other is mundane, in which Proser- * Coric
from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is derived by E. Pococke
from the Sanscrit Goure. 134 EJeiisinian and
pina is said to be ravished by Pluto, and to animate the extremities
of the universe. *' Hence," says Prockis, "according to
the statement of theologists, who dehvered to us the most holy
Mysteries, she [Proserpina] abides on high in those dwellings of
her mother which she prepared for her in inac- cessible places,
exempt from the sensible world. But she likewise dwells beneath
with Pluto, administering terrestrial con- cerns, governing the recesses
of the earth, supplying life to the extremities of the uni- verse,
and imparting soul to beings which are rendered by her inanimate and
dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac
aytco- xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G- xtov,
avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj
(J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq.
Katco §£ {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ
ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC
eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y
aj^oyoic, 7.ai V£- xpot?.* Hence we may easily perceive that
* Proclus: TJieology of Plato, p. 371. Bacchic
Mysteries. 135 this fable is of the mixed kind, one part of
which relates to the super-mundane estabhsh- ment of the secondarj^ cause
of life,* and the other to the procession or outgoing of life and
soul to the farthest extremity of things. Let us therefore more
attentively consider the fable, in that part of it which is sym-
bolical of the descent of souls ; in order to which, it will be requisite
to premise an abridgment of the arcane discourse, respecting the
wanderings of Ceres, as preserved by Minutius Felix. "
Proserpina," says he, " the daughter of Ceres by Jupiter, as
she was gathering tender flowers, in the new spring, was ravished
from her dehghtful abodes by Pluto ; and being carried from thence
through thick woods, and over a length of sea, was brought by Pluto into
a cavern, the residence of departed spirits, over whom she
afterward ruled with absolute sway. But * Plotiuus taught the existence
of three hypostases in the Divine Nature. There was the Demiurge, the God
of Creation and Providence ; the Second, the Intelligible, self-contained
and im- mutable Source of life ; and above all, the One, who like
the Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure
will, an Absolute Love — " Intellect." — A. W.
136 Bacchic Mysteries. Ceres, upon discovering the loss of
her daugh- ter, with hghted torches, and begirt with a serpent,
wandered over the whole earth for the purpose of finding her till she
came to Eleusis ; there she found her daughter, and also taught to
the Eleusinians the cultivation of corn." Now in this fable Ceres
represents the evolution of that intuitional part of our nature
which we properly denominate intel- lect'^ (or the unfolding of the
intuitional faculty of the mind from its quiet and col- lected
condition in the world of thought) ; and Proserpina that living, self
-moving, and animating part which we call sonl. But lest this
comparing of unfolded intellect to Ceres should seem ridiculous to the
reader, unac- quainted with the Orphic theology, it is neces- sary
to inform him that this goddess, from her intimate union with Rhea, in
conjunc- tion with whom she produced Jupiter, is * Also
denominated by Kant, Pure reason, and by Prof, Cocker, Intuitive reason.
It was considered by Plato, as " not amenable to the conditions of
time and space, but in a particular sense, as dwelling in eternity : and
therefore capable of beholding eternal realities, and coming into communion
with absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with God, the
Absolute Being." Proserpina.— Greek.
Bacclius.— India. Ceres.— Roman.
Demeter.— Ktruscan. Bacchic Mysteries.
139 evidently of a Saturnian and zoogonic, or in- tellectual
and vivific rank ; and hence, as we are informed by the philosopher
Sallust, among the mundane divinities she is the deity of the
planet Saturn.* So that in con- sequence of this, our intellect (or
intuitive faculty) in a descending state must aptly symbohze with
the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a material
natui'e ; since the empire of this god, accord- ing to Pythagoras,
commences downward from the Gralaxy or milky way. And the cavern
signifies the entrance, as it were, into the profundities of such a
nature, which is accomplished by the soul's union with this
terrestrial body. But in order to under- derstand perfectly the secret
meaning of the other parts of this fable, it will be necessary to
give a more exphcit detail of the particu- lars attending the abduction,
from the beau- tiful poem of Claudian on this subject. From *
Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Sat- urn was
denominated a legislative deity; and why illuminations were used in the
celebration of the Saturnalia, as well as in the Eleusinian
Mysteries. 140 Bacchic Mysteries. this elegant
production we learn that Ceres, who was a&aid lest some violence
should be offered to Proserpina, on account of her in- imitable
beauty, conveyed her privately to Sicily, and concealed her in a house
built on purpose by the Cyclopes, while she herself directs her
course to the temple of Cybele, the mother of the gods. Hej:'e, then, we
see the first cause of the soul's descent, namely, the abandoning
of a life wholly according to the higher intellect, which is occultly
signi- fied by, the separation of Proserpina fi*om Ceres.
Afterward, we are told that Jupiter instructs Venus to go to this abode,
and be- tray Proserpina from her retirement, that Pluto may be
enabled to carry her away; and to prevent any suspicion in the
virgin's mind, he commands Diana and Pallas to go in company. The
three goddesses arriving, find Proserpina at work on a scarf for
her mother ; in which she had embroidered the primitive chaos, and
the formation of the world. Now by Venus in this part of the
narration we must understand desire^ which even in the celestial regions
(for such is the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina*
Bacchic Mysteries. 143 residence of Proserpina till
slie is ravished by Pluto), begins silently and stealthily to creep
into the recesses of the soul. By Minerva we must conceive the rational
power of the soul, and by Diana, nature^ or the merely natural and
vegetable part of our composi- tion ; both which are now ensnared
through the allurements of desire. And lastly, the web in which
Proserpina had displayed all the fair variety of the material world,
beau- tifully represents the commencement of the illusive
operations through which the soul becomes ensnared with the beauty of
imagi- native forms. But let us for a while attend to the poet's
elegant description of her em- ployment and abode : Devenere
locum, Cereris quo tecta nitebant Cyclopum firmata manu. Stant ardua f
erro Msenia ; ferrati postes : immensaqiie nectit Claustra
elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon, Nee Steropes, eonstruxit opus :
nee talibus unquam Spiravere uotis animge : nee flumine tanto
Incoctum maduit lassa fornaee metallum. Atria vestit ebur : trabibus
solidatur aenis Culmen, et in eelsas surgunt eleetra eolumnas. Ipsa
domum tenero mulcens Proserpina eantu Irrita texebat rediturje munera
matri. Hie elementorum seriem sedesque pateruas 144 Eleusinian
and Insignibat aeu : veterem qua lege tutmiltum Diserevit
natiira parens, et semiua jiistis Diseessere locis : quidquid leve
fertiu" iu altum : 111 medium graviora caduut : incaiiduit tether
: Egit flamma polum : fluxit mare •. terra pependit Nee color uuus
inest. Stellas accendit in auro. Ostro fundit aquos, attollit litora
gemmis, Filaque mentitos jam jam cfelantia liuctus Arte tumeiit.
Credas illidi cautibus algam, Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis.
Addit quinqiie plagas : mediam subtemine rubro Obsessam fervore notat :
squalebat adustus Limes, et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales
utrimque duas ; quas mitis oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine
supremo Torpentes traxit geminas, brumaque perenni Fgedat, et a3terno
coiitristat frigore telas. Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,
Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen. Prasscia nam subitis maduerimt
fletibus ora. After this, Proserpina, forgetful of her
par- ent's commands, is represented as venturing from her retreat,
through the treacherous persuasions of Venus : Impulit
Joiiios pra?misso lumine fluetus Nondum pura dies : tremulis vibravit in
iindis Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe. Jamque audax
animi, fidseque oblita parentis, Fraude Dioiifea riguos Proserpina
saltus (Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries.
145 And this with the greatest propriety: for obhvion
necessarily follows a remission of intellectnal action, and is as
necessarily at- tended with the allurements of desire.* Nor is her
dress less symbolical of the acting of * When the person turns the
back upon his higher faculties, and disregards the communications which
he receives through them from the world of unseen realities, an oblivion
ensues of their existence, and the person is next brought within the
province and operation of lower and worldly ambitions, such as a love of
power, passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent,
fall, or apostasy of the soul, — a separation from the sources of
divine life and ravishment into the region of moral death. In
the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged Steeds, Plato
represents the lower or inferior part of man's nature as dragging the
soul down to the earth, and subjecting it to the slavery of corporeal
conditions. Out of these conditions there arise numerous evils, that
disorder the mind and becloud the rea- son, for evil is inherent to the
condition of finite and multiform being into which we have "fallen
by our own fault." The pres- ent earthly life is a fall and a
punishment. The soul is now dwelling in ''the gi-ave which we call the
body." In its incorpo- rate state, and previous to the discipline of
education, the rational- element is " asleep." " Life is more
of a dream than a reality." Men are utterly the slaves of sense, the
sport of phantoms and illusions. We now resemble those " captives
chained in a subter- raneous cave," so poetically described in the
seventh book of The Republic ; their backs are turned to the light, and
consequently they see but the shadows of the objects which pass behind
them, and " they attribute to these shadows a perfect reality."
Their sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a
dreamy exile from their proper home." — CucJcer's Greek Philosophy,
146 Eleiisinian and the soul in such a state,
principally according to the energies and promptings of imagina-
tion and nature. For thus her garments are beautifully described by the
poet : Qiias inter Cereris proles, nunc gloria
luatris, Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu, Nee membris
nee honore minor ; potuitque Pallas, si clipeum, si ferret spieula,
Phoebe. CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes. Peetinis ingenio
nunquam felicior arti Coutigit eventus. Nullse sic consona telae
Fila, nee in tantum veri duxere figuram. Hie Hyperionis Solem de semine
nasei Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam, Aurora}
noetisque duces. Cunabula Tethys Praebet, et infantes gremio solatur anhelos,
Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis. Invalidum dextro portat
Titana laeerto Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte Cristatum
radiis : prime clementior sevo Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit
ignem. Lseva parte soror vitrei libaraina potat Uberis, et parvo
signatur tempora cornu. In which description the sun represents
the phantasy, and the moon, nature, as is well known to every tyro
in the Platonic philos- ophy. They are likewise, with great pro-
priety, described in their infantine state : for Bacchic
Mysteries. 147 these energies do not arrive to perfection
previous to the sinking of the soul into the dark receptacle of matter.
After this we be- hold her issuing on the plain with Minerva and
Diana, and attended by a beauteous train of nymphs, who are evident
symbols of world of generation,* and are, therefore, the proper
companions of the soul about to fall into its fluctuating realms.
But the design of Proserpina, in venturing from her retreat, is
beautifully significant of her approaching descent: for she rambles
from home for the purpose of gathering flowers ; and this in a lawn
replete with the most enchanting variety, and exhahng the most
dehcious odors. This is a manifest image of the soul operatmg principally
ac- cording to the natural and external life, and so becoming
effeminated and ensnared through the delusive attractions of
sensible form. Minerva (the rational faculty in this case),
likewise gives herself wholly to the * Porphyry : Cave of the
Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified a bride.
148 EJeusinian and dangerous employment, and abandons
the proper characteristics of her nature for the destructive revels
of desire. All which is thus described with the ut- most
elegance by the poet : Forma loci siiperat flores : eurvata
tumore Pai'vo planities, et moUibus edita clivis Creverat in eoUem.
Vivo de pumice fontes Roscida mobilibus lambebant gramina rivis.
Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles Temperat, et medio brumam
sibi viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus,
Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex plena favis, venturi
pra?seia lanrus. Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus, Hie
ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand proeul inde laciis
(Pergum dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso margine
cinetus Vicinis pallescit aquis : admittit in altum Cernentes
oculos, et late perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub gurgite
visus, Imaque perspicui prodit secreta profundi. Hue elapsa
eohors gaudent per florea rura Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite,
sorores, Dum matutinis prsesudat solibus aer : Dum meus humectat
flaventes Lucifer agros, Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris
Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus Invasere eohors. Credas
examina fundi Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges
Baccliic Mysteries. 149 Castra movent, fagique cava demissus
ab alvo Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis. Pratorum
spoliatur honos. Hac lilia fuseis Iiitexit violis : banc mollis amaraeus
ornat : Heec graditur stellata rosis ; haec alba ligiistris. Te
quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris, Narcissumque metunt, nunc
inclita germina veris, Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :
Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error : Hune fontis decepit amor.
Te fronte retusa Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.
j3^]staat ante alias avido fervore legeudi Frugiferte spes una Dese. Nunc
vimine texto Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet : Nunc
sociat flores, seseque ignara corouat. Augurium fatale tori. Quin ipsa
tubarum Armorumque potens, dextram qua fortia turbat Agmina ; qua
stabiles portas et msenia vellit, Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit,
Insolitisque docet galeam mitescere sertis. Ferratus lascivit apex,
horrorque recessit Martins, et cristse pacato fulgure vernant. Nee
quae Parthenium canibus scrutatur odorem, Aspernata clioros,
libertatemque comarum Injecta tantum voluit freuare corona.
But there is a circumstance relative to the narcissus which must
not be passed over in silence : I mean its being, according to
Ovid, the metamorphosis of a youth who fell a victim to the love of
his own corporeal form ; the secret meaning of which most
150 Bacchic Mysteries. admirably accords with the rape of
Proser- pina, which, according to Homer, was the immediate
consequence of gathering this wonderful flower.* For by Narcissus falling
in love with his shadow in the limpid stream we may behold an exquisitely
apt represen- tation of a soul vehemently gazing on the flowing
condition of a material body, and in consequence of this, becoming
enamored with a corporeal life, which is nothing more than the
delusive image of the true man, or the rational and immortal soul. Hence,
by an immoderate attachment to this unsubstau- tial mockery and
gliding semblance of the real soul, such an one becomes, at length,
wholly changed, as far as is possible to his nature, into a vegetive
condition of being, into a beautiful but transient flower, that is,
into a corporeal life, or a life totally consist- * Homer: Rymn to
Ceres. "We were plucking the pleasant flowers, the beauteous crocus,
and the Iris, and hyacinth, and the narcissus, which, like the crocus,
the wide earth produced. I was plucking them with joy, when the earth
yawned beneath, and out leaped the Strong King, the Many-Receiver, and
went bearing me, grieving much, beneath the earth in his golden chariot,
and I cried aloud." "v..
Pioseipiua gathering Flowers. Pluto
carrj'iiig off Pioserplna. Bacchic Mysteries, 153
ing in the mere operations of nature. Pro- serpina, therefore, or
the soul, at the very instant of her descent into matter, is, with
the utmost propriety, represented as eagerly engaged in pkicking this
fatal flower ; for her faculties at this period are entirely oc-
cupied with a hf e divided about the fluctuat- ing condition of
body. After this, Pluto, forcing his passage through the
earth, seizes on Proserpina, and carries her away with him,
notwith- standing the resistance of Minerva and Diana. They,
indeed, are forbid by Jupiter, who in this place signifies Fate, to
attempt her deUverance. By this resistance of Mi- nerva and Diana
no more is signified than that the lapse of the soul into a
material nature is contrary to the genuine wish and proper
condition, as well of the corporeal hfe depending on her essence, as of
her true and rational nature. Well, therefore, may the soul, in
such a situation, pathetically exclaim with Proserpina :
154 Bacchic Mysteries. O male dileeti flores, despeetaque
matris Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! * But,
according to Minutius Felix, Proserpina was carried by Pluto tlu-ough
thick woods, and over a length of sea, and brought into a cavern,
the residence of the dead : where by 'woods a material nature is plainly
implied, as we have already observed in the first part of this
discourse ; and where the reader may likewise observe the agreement of
the de- scription in this particular with that of Yvn- gil in the
descent of his hero : Tenent media omnia silvce Coeytusque
sinuque labens, cireumvenit atro.t In these words the woods are
expressly mentioned; and the ocean has an evident agreement with
Cocytus, signifying the out- flowing condition of a material nature,
and the sorrows and sufferings attending its con- nection with the
soul. * Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised
: Oh cruel arts of cunning Venus ! t " Woods cover all
the middle space and Cocytus gliding on, surrounds it with his dusky
bosom." Bacchic Mysteries. 157 Pluto
hurries Proserpina into the infernal regions : in other words, the soul is
sunk into the profound depth and darkness of a material nature. A
description of her mar- riage next succeeds, her union with the
dark tenement of the body : Jam siius iuferno processerat
Hesperus orbi Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta
Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile Omina perpetuo genitalia
federe sancit. Night is with great beauty and propriety in-
troduced as standing by the nuptial couch, and confirming the oblivious
league. For the soul through her union with a material body becomes
an inhabitant of darkness, and subject to the empire of night ; in
conse- quence of which she dwells wholly with de- lusive phantoms,
and till she breaks her fetters is deprived of the intuitive percep-
tion of that which is real and true. In the next place, we are
presented with the following beautiful and pathetic descrip- tion
of Proserpina appearing in a dream to 158 Eleusinian
and Ceres, and bewailing her captive and miser- able
condition : Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus ullis
Nuutia, materna faeies ingesta sopori. Namque videbatur tenebroso obtecta
reeessu Carceris, et ssevis Proserpina vineta catenis, Non qualem
roseis nuper convallibus ^tnae Suspexere Dete. Squalebat pulchrior
auro Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes. Exhaustusque gelu
pallet rubor. Die superbi Flamineus oris honos, et non cessura
pruinis Membra eolorantur pieei caligine regni. Ergo hanc ut dubio
vix tandem agnoseere visu Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ?
inquit. Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas In me
ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri Vix aptanda f eris molles meruere
lacerti ? Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ? Such,
indeed, is the wretched situation of the soul when profoundly merged in a
cor- poreal nature. She not only becomes captive and fettered, but
loses all her original splen- dor ; she is defiled with the impurity of
mat- ter ; and the sharpness of her rational sight is blunted and
dunmed through the thick darkness of a material night. The reader
may observe how Proserpina, being repre- sented as confined in the dark
recess of a Bacchic Mysteries. 159 prison, and
bound with fetters, confirms the explanation of the fable here given as
sym- bolical of the descent of the soul ; for such, as we have
ah*eady largely proved, is the condition of the soul from its union with
the body, according to the uniform testimony of the most ancient
philosophers and priests.* After this, the wanderings of Ceres for
the discovery of Proserpina commence. She is described, by Minutius
Fehx, as begirt ^dth a serpent, and bearing two hghted torches in
her hands ; but by Claudian, instead of being gu^t with a serpent, she
commences her search by night in a car drawn by dragons. But the
meaning of the allegory is the same in each ; for both a serpent and a
di'agon are emblems of a divisible hfe subject to transi- tions and
changes, with which, in this case, our intellectual (and diviner) part
becomes connected : since as these animals put off their skins, and
become young again, so * Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term
is more commonly trans- lated prophets, and actually signifies persons
gifted with divine insight, through being in an entheastic condition,
called also mania or divine fury. 160 Bacchic
Mysteries. tlie divisible life of the soul, falling into
generation, is rejuvenized in its subsequent career. But what emblem can
more beau- tifully represent the evolutions and out- goings of an
intellectual nature into the regions of sense than the wanderings
of Ceres by the hght of torches through the darkness of night, and
continuing the pursuit until she proceeds into the depths of Hades
itself ? For the intellectual part of the soul,* when it verges towards
body, enkindles, in- deed, a light in its dark receptacle, but be-
comes itself situated in obscurity : and, as Proclus somewhere divinely
observes, the mortal nature by this means participates of the divme
intellect, but the intellectual part is drawn down to death. The tears
and lam- entations too, of Ceres, in her coiu'se, are sym- bolical
both of the providential operations of * " The soul is a
composite nature, is on one side linked to the eternal world, its essence
being generated of that ineffable ele- ment which constitutes the real,
the immutable, and the perma- nent. It is a beam of the eternal Sun, a
spark of the Divinity, an emanation from God. On the other hand, it is
linked to the phe- nomenal or sensible world, its emotive part being
formed of that which is relative and phenomenal." — Cocker.
Bacchic Mysteries. 163 intellect about a mortal
nature, and the mis- eries with which such operations are (with respect
to imperfect souls like oui's) attended. Nor is it without reason that
lacchus, or Bacchus, is celebrated by Orpheus as the companion of
her search : for Bacchus is the evident symbol of the imperfect energies
of intellect, and its scattering into the obscure and lamentable
dominions of sense. But our explanation will receive
additional strength from considering that these sacred rites
occupied the space of nine days in their celebration; and this,
doubtless, because, according to Homer,* this goddess did not
discover the residence of her daughter till the expu-ation of that
period. For the soul, in falling from her original and divine abode
in the heavens, passed through eight spheres, * Hymn to Ceres.
"For nine days did holy Demeter perambulate the earth . . and when
the ninth shining morn had come, Hecate met her, bringing
news." Apuleius also explains that at the initiation into the
Mysteries of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious
food for ten days, from the flesh of animals, and from wine. — Golden Ass,
book xi. p. 239 (BoJin). 164 Eleusinian and
namely, the fixed or inerratic sphere, and the seven planets,
assuming a different body, and employing different faculties in
each; and becomes connected with the sublunary world and a terrene
body, as the ninth, and most abject gradation of her descent. Hence
the first day of initiation into these mystic rites was called agurmos^ L
e. according to Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an
assembly^ and all collecting fogefher : and this with the greatest
propriety; for, according to Pythagoras, "the people of dreams
are souls collected together in the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za
noO-ayopav Jcav.f And from this part of the heavens souls
first begin to descend. After this, the soul falls from the tropic of
Cancer into the planet Satm'n; and to this the second day of
initiation was consecrated, which they called AXol5s (j-uarai, [" to
the sea, ye initi- ated ones ! "] because, says Meui'sius, on
that * Only persons taking a view solely external will suppose
the galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky. t
Cave of the Xymphs. Bacchic Mysteries. 165 day
the crier was accustomed to admonisli the mystte to betake themselves to
the sea. Now the meaning of this will be easily understood, by
considering that, according to the arcana of the ancient theology, as may
be learned from Proclus, * the whole planetary system is under the
dominion of Neptune; and this too is confirmed by Martianus Capella,
who describes the several planets as so many streams. Hence when the
soul falls into the planet Saturn, which Capella compares to a
river voluminous, sluggish, and cold, she then first merges herself
into fluctuating matter, though purer than that of a sublunary
natiu'e, and of which water is an ancient and significant symbol.
Besides, the sea is an emblem of purity, as is evident from the
Orphic hymn to Ocean, in which that deity is called {^swv ayvtajxa
{xsy^^'^^v, tlieon agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of
the gods : and Saturn, as we have already observed, is pure [intuitive]
intellect. And what still more confirms this observation is, that
Pythagoras, as we are informed by Por- * Theology of Plato, book
vi. 166 Bacchic Mysteries. pliyry, in his life
of that philosopher, symbol- ically called the sea a tear of Saturn. But
the eighth day of initiation, which is symbohcal of the falhng of
the soul into the lunar orb,* was celebrated by the candidates by a
repeated initiation and second sacred rites ; because the soul in this
situation is about to bid adieu to every thing of a celestial natui'e
; to sink into a perfect obhvion of her divine origin and pristine
felicity ; and to rush pro- foundly into the region of
dissimilitude,! ignorance, and error. And lastly, on the ninth day,
when the soul falls into the sub- lunary world and becomes united with a
ter- restrial body, a hbation was performed, such as is usual in
sacred rites. Here the initiates, filling two earthen vessels of broad
and spa- cious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,
plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the former of these words
denoting vessels of a conical shape, and the latter small bowls or
* The Moon typified the mother of gods and men. The soul descending
into the lunar orb thus came near the scenes of earthly existence, where
the life which is transmitted by generation has opportunity to involve it
about. t The condition most unlike the former divine estate.
Goddess Night. Three Graces.
Bacchic Mysteries. 169 cups sacred to Bacchus, they placed
one towards the east, and the other towards the west. And the first
of these was doubtless, according to the interpretation of Proclus,
sacred to the earth, and symbolical of the soul proceeding from an
orbicular figure, or divine form, into a conical defluxion and ter-
rene situation : * but the other was sacred to the soul, and symbolical
of its celestial origin ; since our intellect is the legitimate
progeny of Bacchus. And this too was occultly sig- nified by the
position of the earthen ves- sels ; for, according to a mundane
distribu- tion of the divinities, the eastern center of the
universe, which is analogous to fire, belongs to Jupiter, who likewise
governs the fixed and inerratic sphere ; and the western to Pluto,
who governs the earth, because the west is allied to earth on account
of its dark and nocturnal nature. f Again, according to Clemens
Alexandri- nus, the following confession was made by * An
orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the masculine divine
Energy. t Proclus: Theology of Plato, book vi. c. 10.
170 Eleusinian and tlie new initiate in these sacred rites,
in an- swer to the interrogations of the Hierophant : "I have
fasted; I have drank the Cyceon;* I have taken out of the Cista, and
placed what I have taken ont into the Calathns; and alternately I
have taken out of the Ca- lathus and put into the Cista." Kcj^a-cc
xo a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa* xtatY^v.
But as this pertains to a circum- stance attending the wanderings of
Ceres, which formed the most mystic and emblem- atical part of the
ceremonies, it is necessary to adduce the following arcane narration,
summarily collected from the writings of Arnobius : " The goddess
Ceres, when search- ing through the earth for her daughter, in the
course of her wanderings arrived at the boundaries of Eleusis, in the
Attic region, a place which was then inhabited by a people called
Autochthones, or descended fi'om the * Homer: Hymn to Ceres.
"To her Metaneira gave a cup of sweet wine, but slie refused it ;
but bade her to mix wheat and water with pounded pennyroyal. Having made
the mixture, she gave it to the goddess." Bacchic
Mysteries. 171 earth, whose names were as follows : Baubo and
Triptolemus ; Dysaules, a goatherd ; Eu- bulus, a keeper of swme ; and
Eumolpus, a shepherd, from whom the race of the Eumol- pidse
descended, and the illustrious name of Cecropidse was derived ; and who
afterward flourished as bearers of the caduceus, hiero- phants, and
criers belonging to the sacred rites. Baubo, therefore, who was of
the female sex, received Ceres, wearied with complicated evils, as
her guest, and endea- vored to soothe her sorrows by obsequious and
flattering attendance. For this purpose she entreated her to pay
attention to the re- freshment of her body, and placed before her a
mixed potion to assuage the vehemence of her thirst. But the sorrowful
goddess was averse from her solicitations, and rejected the
friendly officiousness of the hospitable dame. The matron, however, who
was not easily re- pulsed, still continued her entreaties, which
were as obstinately resisted by Ceres, who persevered in her refusal with
unshaken per- sistency and invincible firmness. But when Baubo had
thus often exerted her endeavors 172 Bacchic
Mysteries. to appease the sorrows of Ceres, but without any
effect, she, at length, changed her arts, and determined to try if she
could not exhil- arate, by prodigies (or out-of-the-way expe-
dients), a mind which she was not able to allure by earnest endeavors.
For this pur- pose she uncovered that part of her body by which the
female sex produces children and derives the appellation of woman.* This
she caused to assume a purer appearance, and a smoothness such as
is found in the private parts of a stripling child. She then
returns to the afflicted goddess, and, in the midst of those attempts
which are usually employed to alleviate distress, she uncovers
herself, and exhibits her secret parts ; upon which the goddess
fixed her eyes, and was diverted with the novel method of mitigating the
an- guish of soiTow; and afterward, becoming more cheerful through
laughter, she assuages her thirst with the mingled potion which she
had before despised." Thus far Arnobius ; and the same narration is
epitomized by Clemens Alexandrinus, who is very indignant *
FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin ciodiks.
Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.
Bacchic Mysteries. 175 at the indecency as he conceives, in
the stoiy, and because it composed the arcana of the Eleusinian
rites. Indeed as the simple father, with the usual ignorance * of a
Christian priest, considered the fable literally, and as designed
to promote indecency and lust, we can not wonder at his ill-timed abuse.
But the fact is, this narration belonged to the aiuoppYjxa,
aporrheta^ or arcane discourses, on account of its mystical meaning, and
to pre- vent it from becoming the object of ignorant declamation,
licentious perversion, and im- pious contempt. For the purity and
excel- lence of these institutions is perpetually acknowledged even
by Dr. Warburton him- seK, who, in this instance, has dispersed, for
a moment, the mists of delusion and intolerant zeaLf Besides, as
lamblichus beautifully ob- serves, t "exhibitions of this kind in
the Mysteries were designed to free us from hcen- *
Uneandidness was more probably the fault of which Clement was
guilty. t Divine Legation of Moses, book ii. I
"The wisest and best men in the Pagan world are unanimous in this,
that the Mysteries were instituted pure, and proposed the noblest ends by
the worthiest means. 176 Bacchic Mysteries.
tioiis passions, by gratifying the sight, and at the same time
vanquisliing desire, through the awful sanctity with which these
rites were accompanied : for," says he, " the proper way
of freeing ourselves from the passions is, first, to indulge them mth
moderation, by which means they become satisfied ; hsten, as it
were, to persuasion, and may thus be en- tirely removed."* This
doctrine is indeed so rational, that it can never be objected to by
any but quacks in philosophy and rehgion. For as he is nothing more than
a quack in medicine who endeavors to remove a latent bodily disease
before he has called it forth externally, and by this means diminished its
fuiy ; so he is nothing more than a pretender in philosophy who attempts
to remove the passions by violent repression, instead of moderate
comphance and gentle persuasion. But to return from this
disgression, the fol- lowing appears to be the secret meaning of
this mystic discourse : The matron Baubo may be considered as a symbol of
that pas- * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and
Assyrians. Bacchic Mysteries. 177 sive,
womanish, and corporeal life tlirongh whicli the soul becomes united with
this earthly body, and through which, being at first ensnared, it
descended, and, as it were, was born into the world of generation,
pass- ing, by this means, from mature perfection, splendor and
reality, into infancy, darkness, and error. Ceres, therefore, or the intel-
lectual soul, in the course of her wanderings, that is, of her evolutions
and goings-f orth into matter, is at length captivated with the
arts of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her sorrows, that
is, imbibes oblivion of her wretched state in the mingled potion
which she prepares : the mingled hquor being an obvious symbol of
such a life, mixed and im- pure, and, on this account, liable to
cor- ruption and death ; since every thing pure and unmixed is incorruptible
and divine. And here it is necessary to caution the reader from
imagining, that because, accord- ing to the fable, the wanderings of
Ceres commence after the rape of Proserpina, hence the intuitive
intellect descends sub- sequently to the soul, and separate from
it. 178 Eleusinimi and Notliing more is meant by
this circumstance than that the diviner intellect, from the su-
perior excellence of its nature, has in cause, though not in time, a
priority to soul, and that on this account a defection and revolt (and
descent earthward from the heavenly condition) commences, from the soul,
and afterward takes place in the intellect, yet so that the former
descends with the latter in inseparable attendance. From this
explanation, then, of the fable, we may easily perceive the meaning of
the mystic confession, / have fasted; I have drank a mingled
potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more is
meant than that the higher intellect, previous to imbibing of oblivion
through the decep- tive arts of a corporeal life, abstains from all
material concerns, and does not mingle itself (as far as its nature is
capable of such abasement) with even the necessary delights of the
body. And as to the latter part, it doubtless alludes to the descent of
Proser- pina to Hades, and her re-ascent to the
Bacchic Mysteries. 179 abodes of her mother Ceres : that is,
to the outgoing and return of the soul, alternately falhng into
generation, and ascending thence into the intelhgible world, and becoming
per- fectly restored to her divine and intellec- tual nature. For
the Cista contained the most arcane symbols of the Mysteries, into
which it was unlawful for the profane to look : and whatever were its
contents,* we learn from the hymn of Callimachus to Ceres, that
they were formed from gold, which, from its incorruptibihty, is an
evi- dent symbol of an immaterial nature. And as to the Calathus,
or basket, this, as we are told by Claudian, was filled with spoliis agres-
tibus^ the spoils or fruits of the field, which are manifest symbols of a
life corporeal and earthly. So that the candidate, by confess- ing
that he had taken from the Cista, and placed what he had taken into the
Calathus, *A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt
look- ing upon these, was rapt with awe as contemplating in
the»sym- bols the deeper mysteries of all life, or being of a grosser
temper, took a lascivious impression. Thus as a seer, he beheld with
the eyes of sense or sentiment ; and the real apocalypse was
therefore that made to himself of his own moral life and character. — A.
W. 180 Eleusinian and and tlie contrary,
occultly acknowledged the descent of his soul from a condition of
being super-material and immortal, into one mate- rial and mortal ;
and that, on the contrary, by hving according to the purity which
the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that perfection of
his nature, from which he had unhappily fallen.* *
"Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the body,
disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has yet longings
after that state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in which it
was first created. Its affinities are still on high. It yearns for a
higher and nobler form of life. It essays to rise, but its eye is
darkened by sense, its wings are besmeared by pas- sion and lust ; it is
' borne downward until it falls upon and attaches itself to that which is
material and sensual,' and it floun- ders and grovels still amid the
objects of sense. And now, Plato asks: How may the soul be delivered from
the illusions of sense, the distempering influence of the body, and the
disturbances of passion, which becloud its vision of the real, the good,
and the true?" " Plato believed and hoped that this
could be accomplished by philosophy. This he regarded as a grand
intellectual discipline for the purification of the soul. By this it was
to be disenthralled from the bondage of sense, and raised into the
empyrean of pure thought, 'where truth and reality shine forth.' All
souls have the faculty of knowing, but it is only by reflection and
self-knowledge, and intellectual discipline, that the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to
the vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy,
x. pp. 351-2. Bacchic Mysteries. 181 It
only now remains that we consider the last part of this fabulous
narration, or arcane discourse. It is said, that after the goddess
Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered her daughter, she
instructed the Eleusinians in the planting of corn : or, according
to Claudian, the search of Ceres for her daugh- ter, through the
goddess, instructing in the art of tillage as she went, proved the
occasion of a universal benefit to mankind. Now the secret meaning
of this will be obvious, by considering that the descent of the
superior intellect into the realms of generated exis- tence
becomes, indeed, the greatest benefit and ornament which a material
nature is capable of receiving : for without this parti- cipation
of intellect in the lowest department of corporeal life, nothing but the
irrational soul* and a brutal life would subsist in its dark and
fluctuating abode, the body. As the art of tillage, therefore, and
particularly the growing of corn, becomes the greatest possi-
* " It is linked to the phenomenal or sensible world, its
emotive part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and
phe- nomenal." 182 Elensinian and ble
benefit to our sensible life, no symbol can more aptly represent the
unparalleled ad- vantages arising from the evolution and pro-
cession of intellect with its divine natui^e into a corporeal life, than
the good resulting from agriculture and corn : for whatever of
horrid and dismal can be conceived in night, sup- posing it to be
perpetually destitute of the friendly illuminations of the moon and
stars, such, and infinitely more dreadful, would be the condition
of an earthly nature, if de- prived of the beneficent irradiations
[irfio- o5o J and supervening benefits of the diviner hfe.
And this much for an explanation of the Eleusinian Mysteries, or
the history of Ceres and Proserpina ; in which it must be remem-
bered that as this fable, according to the excellent observation of
Sallust already ad- duced, is of the mixed kind, though the descent
of the soul was doubtless principally alluded to by these sacred rites,
yet they hkewise occultly signified, agreeable to the nature of the
fable, the descending of divinity Bacchic Mysteries.
183 into the sublunary world. But when we view the fable in
this part of its meaning, we must 'be careful not to confound the nature
of a partial inteUect like ours with the one uni- versal and divine. As
everything subsisting about the gods is divine, therefore intellect
in the highest degree, and next to this soul, and hence wanderings and
abductions, lam- entations and tears, can here only signify the
participations and providential opera- tions of these in inferior natures
; and this in such a manner as not to derogate from the dignity, or
impair the perfection, of the divine principle thus imparted. I only
add, that the preceding exposition will enable us to perceive the
meaning and beauty of the following representation of the rape of
Proserpina, from the Heliacan tables of Hi- eronymus Aleander.* Here,
first of all, we behold Ceres in a car drawn by two drag- ons, and
afterwards, Diana and Minerva, with an inverted calathus at their feet,
and pointing out to Ceres her daughter Proser- pina, who is hurried
away by Pluto in his * KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page
227. 184 Meusinian and car, and is in the
attitude of one struggling to be free. Hercules is likewise
represented with his club, in the attitude of opposing the violence
of Pluto : and last of all, Jupiter is represented extending his hand, as
if wilhng to assist Proserpina in escaping from the embraces of
Pluto. I shall therefore con- clude this section with the following
remark- able passage from Plutarch, which will not only confirm,
but be itself corroborated by the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^
Tza- Xata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa- Tcporpoc,
%r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj- Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov
Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX- Xoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov
AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc Opcpt-
Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ XojoiQ. MaXcara
5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt- aa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7
a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat
$ia- voirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both * Plutarch
: Euseh. i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of
Nature. Bacchic Mysteries. 185 of the Greeks and
the Barbarians^ was noth- ing else than a discoiu'se on natiu^al
subjects, involved or veiled in fables, conceahng many things
through enigmas and under -meanings, and also a theology taught, in
which, after the manner of the Mysteries,* the things spoken were
clearer to the multitude than those dehvered in silence, and the
things delivered in silence were more subject to investigation than
what was spoken. This is manifest from the Orphic verses^ and the
Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of initiations^ and the
sumbolical cere- monies of sacred rites especiallij, exhibit the
understanding had of them by the ancients,'''' * MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like.
A.IB^ Psyche Asleep in Hades.
River Gortrtesses. O. SECTION 11. 4:::?
THE Dionysiacal sacred rites instituted by Orpheus,* depended on
the follow- ing arcane narration, part of which has been already
related in the preceding section, and the rest may be found in a variety
of authors. "Dionysus, or Bacchus [Zagreus], while he was yet
a boy, w^s engaged by the Titans, through the stratagems of Juno, in
a variety of sports, with which that period of * Whethei'
Orpheus was an actual living person has been ques- tioned by Aristotle ;
but Herodotus, Pindar, and other writers, mention him. Although the
Orphic system is asserted to have come from Egypt, the internal evidence
favors the opinion that it was derived from India, and that its basis is
the Buddhistic phi- losophy. The Orphic associations of Greece were
ascetic, con- trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and
license of the popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs.
The name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His
visit to the chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a
dragon or na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are
Tartar or Buddhistic. The 187 188 Eleusinian
and life is so vehemently allured ; and among the rest, he
was particularly captivated with beholding his image in a mirror ; during
his admiration of which, he was miserably torn in pieces by the
Titans; who, not content with this cruelty, first boiled his members
in water, and afterwards roasted them by the fire. But while they
were tasting his flesh thus dressed, Jupiter, roused by the odor,
and perceiving the cruelty of the deed, hurled his thunder at the Titans
; but com- mitted the members of Bacchus to Apollo, his brother,
that they might be properly in- terred. And this being performed,
Diony- sus (whose heart during his laceration was snatched away by
Pallas and preserved), by a new regeneration again emerged, and
being restored to his pristine life and integ- name Zagreus is
evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who compassed his death
is Aira, the wife of Buddha ; and the Titans are the Daityas, or apostate
tribes of India. The doc- trine of metempsychosis is expressed by the
swallowing of the heart of the murdered child, so as to reabsorb his
soul, and bring him anew into existence as the son of Semele. Indeed, all
the stories of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a
part of the serpent worship of the ancients. The evidence appears
to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries. 189
rity, he afterwards filled up the number of the gods. But m the
mean time, from the exhalations arising from the ashes of the
burning bodies of the Titans, mankind were produced." Now, in order
to understand properly the secret of this naiTation, it is
necessary to repeat the observation already made in the preceding
chapter, "that all fables belonging to mystic ceremonies are
of the mixed kind " : and consequently the present fable, as well as
that of Proserpina, must in one part have reference to the gods,
and in the other to the human soul, as the following exposition will
abundantly evince : In the first place, then, by Dionysus, or
Bacchus, according to the highest concep- tion of this deity, we
understand the spiritual part of the mundane soul ; for there are
Various processions or avatars of this god, or Bacchuses, derived from
his essence. But by the Titans we must understand the mun- dane
gods, of whom Bacchus is the highest ; by Jupiter, the Demiurgus,* or
artificer of * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the
god of providence, thought, essence, and power. Above him was the
190 Eleusinian and the universe ; by Apollo, the deity
of the Sun, who has both a mundane and super- mundane
establishment, and by whom the universe is bound in symmetry and
consent, through splendid reasons and harmonizing power ; and,
lastly, by Minerva we must un- derstand that original, intellectual,
ruhng, and providential deity, who guards and pre- serves all
middle lives* in an immutable condition, through intelhgence and a
self- supporting life, and by this means sustains them from the
depredations and inroads of matter. Again, by the infancy of Bac-
chus at the period of his laceration, the condition of the intellectual
natui^e is im- phed; since, according to the Orphic theol- ogy,
souls, under the government of Saturn, or Kronos, who is pure intellect
or spiritual- ity, instead of proceeding, as now, from youth to
age, advance in a retrograde progression from age to youth.t The arts
employed by deity of " pure intellect," aud still higher
The One. These three were the hypostases. * Lives which are
not conjoined with material bodies, nor yet elevated to the lofty state
which is the true divine condition. t Emanuel Swedenborg says:
"They who are in heaven are Bacchic Mysteries.
191 the Titans, in order to ensnare Dionysus, are symbolical
of those apparent and divisible operations of the mundane gods,
through which the participated intellect of Bacchus becomes, as it
were, torn in pieces ; and by the mirror we must understand, in the
lan- guage of Proclus, the inaptitude of the uni- verse to receive
the plenitude of intellectual or spiritual perfection ; but the
symbolical meaning of his laceration, through the strat- agems of
Juno, and the consequent punish- ment of the Titans, is thus
beautifully unfolded by Olympiodorus, in his manuscript Commentary
on the PJi(edo of Plato : " The form," says he, " of that
which is universal is plucked off, torn in pieces, and scattered
into generation ; and Dionysus is the monad of the Titans. But his
laceration is said to take place through the stratagems of Juno,
continually advancing to the spring of life, and the more thou-
sands of years they live, so much the more delightful and happy is the
spring to which they attain, and this to eternity with increments according
to the progresses and degrees of love, of charity, and of faith. Women
who have died old and worn out with age, yet have lived in faith on the
Lord, in charity toward their neighbor, and in happy conjugal love with a
husband, after a succession of years, come more and more into the flower
of youth and adolescence." 192 Eleusinian and
because this goddess is the supervising guardian of motion and
progression ; * and on this account, in the Iliad, she perpetually
rouses and excites Jupiter to providential action about secondary
concerns ; and, in another respect, Dionysus is the epJiof^us or
supervising guardian of generation, because he presides over life and
death ; for he is the guardian or epliorus of life because of
genera- tion, and also of death because wine produces an
enthusiastic condition. We become more enthusiastic at the period of
dying, as Proc- lus indicates in the example of Homer who became
prophetic [[xavxcxoc] at the time of his death.f They likewise assert,
that tragedy and comedy are assigned to Dionysus : com- edy being
the play or ludicrous representation of life ; and tragedy having
relation to the 'By progression [7rpoo5oc] is here signified the
raying-out, or issuing forth of the soul ; having left the divine or pre
-existent life, and come forth toward the human. t See also
Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to cross the river, the
divine and wonted signal was given me — it always deters me from what I
am about to do — and I seemed to hear a voice from this very spot, which
would not suffer me to depart before I had purified myself, as if I had
committed some Bacchic Mysteries. 193 passions
and death. The comic writers, therefore, do not rightly call in question
the tragedians as not rightly representing Bac- chus, saying that
such things did not happen to Bacchus. But Jupiter is said to have
hurled his thunder at the Titans ; the thun- der signifying a conversion
or changing : for fire naturally ascends ; and hence Jupiter, by this
means, converts the Titans to his own essence." ^TzapazzEzai §£ to
xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-
aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i- vrpetoc,
et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi
si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV
SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,
5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?, STTsid'^ .7,at
z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt xyjv
TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi; offense
against the Deity. Now I am a prophet, though not a very good one : for
the soul is in some measure prophetic." See also Shakspere : Henry
IV. part 1. " Oh I could prophesy, But that the earthy
and cold hand of death Lies on my tongue." 194
Eleiisinian and StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc
ys- T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav to'j [3tov TYjv
dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j- I'^v. O'jy, apct %aX(oc
of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv, (o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^,
Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov. Kspau- VOt §£
TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05 X'^v STiiatpo'fSV xupyap
stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But
by the members of Dionysus being first boiled in water by the
Titans, and afterward roasted by the fire, the outgoing or distribution
of intellect into matter, and its subsequent re- turning from
thence, is evidently implied: for water was considered by the
Egyptians, as we have ah*eady observed, as the symbol of matter ;
and fire is the natural symbol of ascending. The heart of Dionysus too,
is, with the greatest propriety, said to be pre- served by Minerva ;
for this goddess is the guardian of hfe, of which the heart is a
sym- bol. So that this part of the fable plainly signifies, that
while intellectual or spiritual Bacchic Mysteries. 195
life is distributed into the universe, its prin- ciple is preserved
entire by the guardian power and providence of the Divine intel-
ligence. And as Apollo is the source of all union and harmony, and as he
is called by Proclus, " the key-keeper of the fountain of
life," * the reason is obvious why the mem- bers of Dionysus, which
were buried by this deity, again emerged by a new generation, and
were restored to their pristine integrity and life. But let it here be
carefidly ob- served, that renovation, when apphed to the gods, is
to be considered as secretly implying the rising of their proper hght,
and its con- sequent appearance to subordinate natures. And that
punishment, when considered as taking place about beings of a nature
superior to mankind, signifies nothing more than a secondary
providence over such beings which is of a punishing character, and which
sub- sists about souls that deteriorate. Hence, then, from what has
been said, we may easily collect the ultimate design of the first
part of this mystic fable ; for it appears to be * Hymn to the
Sun. 196 Bacchic Mysteries. no other than to
represent the manner in which the form of the mundane intellect is
divided through the universe ; — that such an intellect (and every one
which is total) re- mains entire during its division into parts,
and that the divided parts themselves are continually turned again to
their source, with which they become finally united. So that
illumination from the liigher reason, while it proceeds into the dark and
rebound- ing receptacle of matter, and invests its ob- scurity with
the supervening ornaments of divine light, returns at the same time
with- out interruption to the source or principle of its
descent. Let us now consider the latter part of the fable, in
which it is said that our souls were formed from the vapors emanating
from the ashes of the burning bodies of the Titans; at the same
time connecting it with the former part of the fable, which is also
appli- cable in a certain degree to the condition of a partial
intellect * hke ours. In the first * Partial, as being parted from
the Supreme Mind. Etruscan Kleusiuiaus.
Bacchic Mysteries. 199 place, then, we are made up from
frag- ments (says Olympiodorus), because, through faUing into
generation, our hf e has proceeded into the most distant and extreme
division ; and from Titanic fragments^ because the Titans are the
ultimate artificers of things,* and stand immediately next to whatever
is constituted from them. But further, our irrational life is
Titanic, by which the rational and higher life is torn in pieces.
Hence, when we disperse the Dionysus, or intuitive intellect
contained in the secret recesses of our nature, breaking in pieces the
kindred and divine form of our essence, and which communicates, as
it were, both with things subordinate and supreme, then we become
Titans (or apostates) ; but when we establish ourselves in union with
this Dionysiacal or kindred form, then we become Bacchuses, or
perfect guardians and keepers of our irra- tional life : for Dionysus,
whom in this re- spect we resemble, is himself an epJiorus or
* The Demiurge or Creator being superior to matter in which is
concupiscence and all evil, the Titans who are not thus superior are made
the actual artificers. 200 Meusinian and
guardian deity, dissolving at his pleasure the bonds by which the
soul is united to the body, since he is the cause of a parted hfe.
But it is necessary that the passive or femi- nine nature of our
UTational part, through which we are bound in body, and which is
nothing more than the resounding echo, as it were, of soul, should suffer
the punishment incurred by descent ; for when the soul casts aside
the [divine] peculiarity of her nature, she requires her own, but at the
same time a multiform body, that she may again become in need of a
common form, which she has lost through Titanic dispersion into
matter. But in order to see the perfect resem- blance between
the manner in which our souls descend and the dividing of the
intui- tive intellect by mundane natures, let the reader attend to
the following admirable citation from the manuscript Commentary of
Olympiodorus on the Phcedo of Plato : "It is necessary, first of
all, for the soul to place a hkeness of herself in the body. This
is to ensoul the body. Secondly, it is neces- Baccliic
Mysteries. 201 sary for her to sympathize with the image, as
being of hke idea. For every external form or substance is wrought into
an identity with its interior substance, through an ingenerated
tendency thereto. In the third place, being situated in a divided nature,
it is necessary that she should be torn in pieces, and fall into a
last separation, till, through the action of a life of puiification, she
shall raise herself from the dispersion, loose the bond of sym-
pathy, and act as of herself without the external image, having become
established according to the first-created life. The like things
are fabled in the example. For Dio- nysus or Bacchus because his image
was formed in a mirror, pursued it, and thus became distributed
into everything. But Apollo collected him and brought him up ;
being a deity of puiification, and the true savior of Dionysus ; and on
this account he is styled in the sacred hymns, Dionusites."
sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yyco- oai TO awjjict.
Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o- Xcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav
yap stSoc sTust- 202 Eleusinian and xcti £Lc Tov
ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco? av oat TT^i;
7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv eaoTTjv aiTo xou
avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa- jj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac,
xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav
iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp
Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco- Xov svsO-'^xs T(o
saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj.
""0 5s AttoXXwv aov- aystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc
(ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?. Kat 5l7. xodto
AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the same author beautifully observes,
the soul revolves according to a mystic and mundane revolution :
for flying from an in- divisible and Dionysiacal hfe, and operating
according to a Titanic and revolting energy, she becomes bound in the
body as in a prison. Hence, too, she abides in punishment and takes
care of her partial and secondary concerns; and being purified from
Titanic defilements, and collected into one, she be-
Bacchic Mysteries. 203 comes a Bacchus ; that is, she passes
into the proper integrity of her nature according to the divine
principle ruhng on high. From all which it evidently fohows, that he who
hves Dionysiacally rests from labors and is freed from his bonds ;
* that he leaves his prison, or rather his apostatizing life ; and that
he who does this is a philosopher purifying him- seK from the
contaminations of his earthly life. But farther fi'om this account of Dio-
nysus, we may perceive the truth of Plato's observation, " that the
design of the Myste- ries is to lead us back to the perfection from
which, as our beginning, we first made our de- scent." For in this
perfection Dionysus him- self subsists, establishing perfect souls
in the throne of his father ; that is, in the in- tegrity of a life
according to Jupiter. So that he who is perfect necessarily resides
with the gods, according to the design of those deities, who are the
sources of con- summate perfection to the soul. And lastly,
*"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts
which God communicates ; but when God communicates himself, then we can
be only passive — we repose, we enjoy, but all opera- tion ceases."
204 Bacchic Mysteries. the Thyrsus itself, which was
used in the Bacchic procession, as it was a reed full of knots, is
an apt symbol of the diffusion of the higher nature into the sensible
world. And agreeable to this, Olympiodorus on the Pluedo observes, "
that the Thyrsus * is a symbol of a forming anew of the material and
parted substance from its scattered condition ; and that on this
account it is a Titanic plant. This it was customary to extend before
Bac- chus instead of his paternal scepter; and through this they
called him down into our partial nature. Indeed, the Titans are
Thyr- sus-bearers ; and Prometheus concealed fire in a Thyi'sus or
reed ; after which he is con- sidered as bringing celestial light into
genera- tion, or leading the soul into the body, or calling forth
the divine illumination, the whole being ungenerated, into generated
ex- istence. Hence Socrates calls the multitude Thyrsus-bearers
Orphically, as hving accord- ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^
aa[x[5oXov ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta
* The word thyrsus, it will be seen, is here translated from
vapd'Yj^, a rod or ferula. Bacchic Mysteries. 207
TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at Tixavtxov xo
cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo
axY^irxpofj. Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov. Kat
{isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g
ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO
oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1?
xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv
ouaav, see xtjv ysvs- atv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6
-co- y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op-
cpt7,(oc, co^ C^'^vxac Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret
meaning of the fable, which formed a principal part of these mystic
rites. Let us now proceed to consider the signification of the
symbols, which, according to Clemens Alexandrinus, belonged to the
Bacchic ceremonies ; and which are comprehended in the following-
Orphic verses : M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv
Xi-p^oivcov. That is, A wheel, a pine-nut, and the
wanton plays, Which move and bend the limbs in various ways :
208 Eleusinian and With these th' Hesperian
golden-fruit combine, Which beauteous nymphs defend of voice
divine. To all which Clemens adds saoTU'pov, esop- troii, a
mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool, and aa-payaXoc, asfragaios,
the anMe-bone. In the first place, then, wdth respect to the wheel,
since Dionysus, as we have already explained, is the mimdane intellect,
and in- tellect is of an elevating and convertive na- ture, nothing
can be a more apt symbol of intellectual action than a w^heel or sphere
: besides, as the laceration and dismemberment of Dionysus
signifies the going-forth of in- tellectual illumination into matter, and
its returning at the same time to its source, this too will be
aptly symbolized by a wheel. In the second place, a pine-nut, from its
conical shape, is a perspicuous symbol of the manner in which
intellectual or spiritual illmnination proceeds from its source and
beginning into a material nature. " For the soul," says
Ma- crobius,* "proceeding from a round figure, which is the
only divine form, is extended into the form of a cone in going
forth." * In Somnid Scijnonis, xii. Bacchic
Mysteries. 209 And the same is true sjrmbolically of the
higher intellect. And as to the wanton sports which bend the limbs, this
evidently alludes to the Titanic arts, by which Dionysus was
allured, and occultly signifies the facul- ties of the mundane intellect,
considered as subsisting according to an apparent and divisible
condition. But the Hesperian golden-apples signify the pure and
incorrupt- ible nature of that intellect or Dionysus, which is
possessed by the world ; for a golden-apple, according to Sallust, is a
symbol of the world ; and this doubtless, both on account of its
ex- ternal figui'e, and the incorruptible intellect which it
contains, and with the illuminations of which it is externally adorned ;
since gold, on account of never being subject to rust, aptly
denotes an incorruptible and immaterial na- ture. The mirror, which is
the next symbol, we have already explained. And as to the fleece of
wool, this is a symbol of laceration, or distri])ution of intellect, or
Dionysus, into matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy diJanio,
which is used in the relation of the Bacchic discerption, signifies to
tear in pieces 210 Bacchic Mysteries. like wool
: and hence Isidoinis derives the Latin word laua, wool, from Janiando,
as velliis from vellendo. Nor must it pass un- observed, that
Xq^jz^ in Greek, signifies wool, and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed,
the pressing of grapes is as evident a symbol of dispersion as the
tearing of wool; and this circumstance was doubtless one principal
reason why grapes were consecrated to Bac- chus : for a grape, previous
to its pressure, aptly represents that which is collected into one
; and when it is pressed into juice, it no less aptly represents the
diffusion of that which was before collected and entu'e. And
lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe- hone, as it is
principally subser\dent to the progressive motion of animals, so it
belongs, with great propriety, to the mystic symbols of Bacchus;
since it doubtless signifies the going forth of that deity into the
department of physical existence : for nature, or that divisible
life which subsists about the body, * The practice of punning, so
common in all the old rites, is here forcibly exhibited. It aided to
conceal the symbolism and mislead uninitiated persons who might seek to
ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic
Mysteries. 213 and whicli is productive of seeds, imme-
diately depends on Bacchus. And hence we are informed by Proclus, that
the sexual parts of this god are denominated by theologists, Diana,
who, says he, presides over the whole of the generation into natural
existence, leads forth into light all natural reasons, and extends
a prolific power from on high even to the subterranean reahns.* And hence
we may perceive the reason why, in the Orphic Hjjmn to Nature, that
goddess is described as " turning round silent traces with the
ankle- bones of her feet. ^^ And it is highly worthy our
observation that in this verse of the hymn Nature is cele- brated
as Fortune, according to that descrip- tion of the goddess in which she
is repre- sented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round ; as the following verse from the same hymn
abun- dantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa
o'.vsooooa.. * Commentary upon the Timceus. 214
Meusinian and The sense of which is, "moving with rapid
motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem wonderful that
Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in the Orphic
h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon, as we have
observed in the preceding section, is the aoro'iriov ayaXjia
rpyasto?, fJie self-revealing emblem of Nature ; and indeed the apparent
incon- stancy of Fortune has an evident agreement with the
fluctuating condition in which the dominions of nature are perpetually
involved. It only now remains that we explain the secret meaning of
the sacred dress with which the initiated in the Dionysiacal Myste-
ries were invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning)
taking place ; or sitting in a solemn manner on a throne, about
which it was customary for the other initiates to dance. But the
particulars of this habit are thus described in the Orphic verses
preserved by Macrobius : * Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v
s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q. * Satunialia, i. 18. Bacchic
Mysteries. 215 flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov
«xTtvsaa:v IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov
a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu
xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,
Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o. Eka r
6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa
irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv
Tac-r]? (paja-wv avopouaiov Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov
Oxsavow, Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj
a;jLcpt;xtYE:aa Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj.
xoxXov, Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv
a/ji£xp7]xu>v <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq, iityx
Oau^' ecowsa^ac. That is, He who desires in pomp of
sacred dress The sun's resplendent body to express,
Should first a vail assume of purple bright, Like fair white
beams combin'd with fiery light : On his right shoulder, next, a
mule's broad hide Widely diversified with spotted pride
Should hang, an image of the pole divine, And dfBdal stars,
whose orbs eternal shine. A golden splendid zone, then, o'er the
vest He next should throw, and bind it round his breast;
In mighty token, how with golden light. The rising sun, from
earth's last bounds and night Sudden emerges, and, with matchless
force, Darts through old Ocean's billows in his course.
A boundless splendor hence, enshrin'd in dew, Plays on his
whirlpools, glorious to the view ; While his circumfluent waters
spread abroad, Full in the presence of the radiant god :
216 Eleusinian and But Ocean's circle, like a zone of
light, The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring
sight. lu the first place, then, let us consider why this
mystic dress belonging to Bacchus is to represent the sun. Now the reason
of this will be evident from the following ob- servations :
according to the Orphic theol- ogy, the divine intellect of every planet is
denominated a Bacchus, who is characterized in each by a different
appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trie- tericus Bacchus. And in the second place, since the divinity
of the sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establish- ment, and is wholly of an
exalting or intel- lectual nature ; hence considered as super-
mundane he must both produce and contain the mundane intellect, or
Dionysus, in his essence ; for all the mimdane are contained in the
super-mundane deities, by whom also they are produced. Hence Proclus, in
his elegant Hijmn to the Sun, says : Bacchic
Mysteries. 217 That is, " they celebrate thee in hymns as
the illustrious parent of Dionysus." And thirdly, it is through
the subsistence of Dionysus in the sun that that luminary derives its
circular motion, as is evident from the following Or- phic verse,
in which, speaking of the sun, it is said of him, that
" He is called Dionysus, because he is carried with a circular
motion through the immense- ly-extended heavens." And this with
the greatest propriety, since intellect, as we have already
observed, is entirely of a transforming and elevating nature : so that
from all this, it is sufficiently evident why the dress of Diony-
sus is represented as belonging to the sun. In the second place, the
vail, resembling a mixture of fiery light, is an obvious image of
the solar fire. And as to the spotted mule- skin,* which is to represent
the starry heav- ens, this is nothing more than an image of *
Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at the great
festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible. In India
the robe of Indra is spotted. 218 Bacchic Mysteries.
tlie moon ; tMs luminary, according to Proc- lus on Hesiod,
resembling the mixed nature of a mule ; " becoming dark through her
par- ticipation of earth, and deriving her proper light from the
sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o- So that the spotted hide
signifies the moon attended with a multitude of stars : and hence,
in the Oi'phic Hymn to the Moon, that deity is celebrated "as
shining surrounded with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi
ppy- ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as- trarche, or
" queen of the starsy In the next place, the golden zone is
the circle of the Ocean, as the last verses plainly evince. But,
you will ask, what has the rising of the sun through the ocean, from
the boundaries of earth and night, to do with the adventures of
Bacchus ? I answer, that it is inpossible to devise a symbol more
beauti- fully accommodated to the purpose : for, in the first
place, is not the ocean a proper emblem of an earthly nature, whirling
and Bacchic Mysteries. 221 stormy, and perpetually
rolling without ad- mitting any periods of repose ? And is not the
sun emerging from its boisterous deeps a perspicuous symbol of the higher
spiritual nature, apparently rising from the dark and fluctuating
material receptacle, and confer- ring form and beauty on the sensible
uni- verse through its light ? I say apparently rising, for though
the spiritual nature always diffuses its splendor with invariable
energy, yet it is not always perceived by the subjects of its
illuminations : besides, as psychical na- tures can only receive
partially and at inter- vals the benefits of the divine irradiation
; hence fables regarding this temporal partici- pation transfer,
for the purpose of conceal- ment and in conformity to the
phenomena, the imperfection of subordinate natures to such as are
supreme. This description, there- fore, of the rising sun, is a most
beautiful symbol of the new birth of Bacchus, which, as we have
already observed, implies nothing more than the rising of intellectual
light, and its consequent manifestation to subordinate orders of
existence. 222 Eleusinian and And thus much for
the mysteries of Bac- chus, which, as well as those of Ceres,
relate in one part to the descent of a partial in- tellect into matter,
and its condition while united with the dark tenement of the body :
but there appears to be this difference be- tween the two, that in the
fable of Ceres and Proserpine the descent of the whole rational
soul is considered ; and in that of Bacchus the scattering and going
forth of tliat su- preme part alone of our nature which we properly
characterize hy the appellation of. intellect* In the composition of each
we may discern the same traces of exalted wis- dom and recondite
theology; of a theology the most venerable for its antiquity, and
the most admirable for its excellence and reahtyo I shall
conclude this treatise by presenting the reader with a valuable and most
elegant hymn of Proclusf to Minerva, which I have * Greek,
wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the mind that
apprehends the Ineffable Truth. t That the following hymn was
composed by Proclus, can not be doubted by any one who is conversant with
those already ex- tant of this incomparable man, since the spirit and
manner in both is perfectly the same. Bacchic
Mysteries. 223 discovered in the British Museum ; and the
existence of which appears to have been hitherto utterly unknown. This
hymn is to be found among the Harleian Manuscripts, in a volume
containing several of the OrpJiic liymns^ with which, through the
ignorance of transcriber, it is indiscriminately ranked, as well as
the other four hymns of Proclus, already printed in the Bihliotlieca
Grmca of Fabricius. Unfortunately too, it is tran- scribed in a
character so obscure, and with such great inaccuracy, that,
notwithstanding the pains I have taken to restore the text to its
original purity, I have been obUged to omit two hues, and part of a
third, as beyond my abilities to read or amend ; however, the
greatest, and doubtless the most important part, is fortunately
intelhgible, which I now present to the reader's inspection,
accompa- nied with some corrections, and an Enghsh paraphrased
translation. The original is highly elegant and pious, and contains
one mythological particular, which is no where else to be found. It
has likewise an evident connection with the preceding fable of Bac-
224 EJeusinian and chus, as will be obvious from the
perusal; and on tins account principally it was in- serted in the
present discoui'se. Ek aohnan. KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0
OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(; IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'.
wxpoxaxY,? ano asipa? Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5*
o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia
i)'U^uj 'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,]
TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya
(p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^* '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J
rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou
l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi;
^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?, Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov
avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va
%apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H
v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov
v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv ||
'{^'j'/at-t ^aXXouaa* 'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.
So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' *
Lege oPptjULOTraxpT), t Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'.
Xuxoo. § Lege tceXexu?. II Lege Op;jL-r]v.
BaccJiic Mysteries. 225 'H x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa?
p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa
Trpoatouou- Ao? OS ;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav. Ao?
-]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv Ka: ao-^iY]v -/.at
jpcoxoc- ,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi, Toaaattov, xac towv, oaov
/&ov:ojv ajio xoXttojv A'^spv-r] ,rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^
£o:o, Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.
IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f
Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot, KstfAsvov Ev
8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr KsxXofl-: xjxXoO-- xa: ;xol
iitCu^yiv 00a? 6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of
aegis-bearing Jove, divine, Propitious to thy votaries' prayer
incline ; From thy great father's fount supremely bright,
Like fire resounding, leaping into light. Shield-bearing goddess,
hear, to whom belong A manly mind, and power to tame the
strong! Oh, sprung from matchless might, with joyful mind
Accept this hymn ; benevolent and kind ! The holy gates of
wisdom, by thy hand Are wide unfolded ; and the daring band
Of earth-born giants, that in impious fight Strove with thy
fire, were vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred
poets sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king,
* Lege a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^.
226 Eleusinian and Was sav'd in ^ther, when, with fnry
fired, Tlie Titans fell against his life conspired ;
And with relentless rage and thirst for gore, Their hands his
members into fragments tore : But ever watchful of thy father's
will, Thy power preserv'd him from succeeding ill. Till
from the secret counsels of his fire, And born from Semele through
heavenly sire, Great Dionysus to the world at length
Again appeared with renovated strength. Once, too, thy
warlike ax, with matchless sway, Lopped from their savage necks the
heads away Of furious beasts, and thus the pests destroyed
Which long all-seeing Hecate annoyed. By thee benevolent
great Juno's might Was roused, to furnish mortals with delight.
And thro' life's wide and various range, 't is thine Each
part to beautify with art divine : Invigorated hence by thee, we
find A demiurgic impulse in the mind. Towers proudly
raised, and for protection strong. To thee, dread guardian deity,
belong. As proper symbols of th' exalted height Thy
series claims amidst the courts of light. Lands are beloved by
thee, to learning prone. And Athens, Oh Athena, is thy own !
Great goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure
light in measure unconfined ; — That sacred light, Oh
all-protecting queen. Which beams eternal from thy face
serene. My soul, while wand'ring on the earth, inspire
With thy own blessed and impulsive fire : And from thy
fables, mystic and divine. Give all her powers with holy light to
shine. Bacchic Mysteries. 227 Give love, give
wisdom, and a power to love, Incessant tending to the realms above
; Such as unconscious of base earth's control Gently attracts the
vice-subduing soul : From night's dark region aids her to retire,
And once moi'e gain the palace of her sire. O all-propitious to my prayer
incline ! Nor let those horrid punishments be mine Which guilty
souls in Tartarus confine, With fetters fast'ned to its brazen
floors. And lock'd by hell's tremendous iron doors. Hear me, and
save (for power is all thine own) A soul desirous to be thine
alone.* It is very remarkable in this hymn, that the exploits
of Minerva relative to cutting off the heads of wild beasts with an ax,
etc., is mentioned by no writer whatever; nor can I find the least
trace of a circumstance either in the history of Minerva or Hecate
to which it alludes.f And from hence, I * If I should ever be able
to publish a second edition of my translation of the hymns of Orpheus, I
shall add to it a translation of all those hymns of Proclus, which are
fortunately extant ; but which are nothing more than the wreck of a great
multitude which he composed. t If Mr. Taylor had been
conversant with Hindu literature, he would have perceived that these
exploits of Minerva-Athene were taken from the buffalo-sacrifice of Durga
or Bhavani. The whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic
and Buddhistic legends into a Grecian dress. — ^A. W.
228 Bacchic Mysteries. think, we
may reasonably conclude that it belonged to the arcane Orphic
narrations concerning these goddesses, which were con- sequently
but rarely mentioned, and this but by a few, whose works, which might
afford us some clearer information, are unfortu- nately lost.
Musical Couference. Venus Kisiiig troni the
Sea. APPENDIX. SINCE writing the above
Dissertation, I have met with a curious Greek manu- script
entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^* according to the opinion
of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov So^aCooacv
'EXXtjvs? : In the course of which he describes the machinery of the
Eleusinian Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo- T(ov,
oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj
Stjgi, t] "cyj Atjix'/j- x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]?
Ospas^axxTj xt] xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot
sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj
airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs- * Daemons, divinities,
spirits ; a term formerly applied to all rational beings, good or bad,
other than mortals. 229 230 Appendix,
(ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat
s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl- Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov
sttiov, sxtpvo'fo- p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov
siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL
Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt- {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c'
otc xsp TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to) x-oXiro)
xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou. Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD
xqiat, y,at yj xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o
}:^apa- CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at
zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov yaXv.ziov,
-/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£- poc, 5at{JL0V(ov
{xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc
avaaopojj.£V7j, xat 6 yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v
ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv.
/. e. " The Mysteries of these demons, such as the Eleusinia,
con- sisted in representing the mythical narra- tion of Jupiter
mingling mth Ceres and her daughter Proserpina (Phersephatte). But
as Appendix. 231 venereal connections are in the
initiation,* a Venus is represented rising from the sea, from
certain moving sexual parts : afterwards the celebrated marriage of
Proserpina (with Pluto) takes place ; and those who are initiated
sing : " 'Out of the drum I have eaten, Out of the
cymbal I have drank, The mystic vase I have sustained, The bed I
have entered.' The pregnant throes likewise of Ceres [Deo]
are represented : hence the supphcations of Deo are exhibited; the
drinking of bile, and the heart-aches. After this, an effigy with
the thighs of a goat makes its appear- ance, which is represented as
suffering vehe- mently about the testicles : because Jupiter, as if
to expiate the violence which he had offered to Ceres, is represented as
cutting off the testicles of a goat, and placing them on her bosom,
as if they were his own. But after all this, the rites of Bacchus
suc- ceed; the Cista, and the cakes with many bosses, Uke those of
a shield. Likewise the * /. e. a representation of them.
232 Appendix. mysteries of Sabazius, divinations, and
the mimalons or Bacchants ; a certain sound of the Thesprotian
bason ; the Dodonsean brass ; another Corybas, and another Proserpina,
— representations of Demons. After these suc- ceed the uncovering
of the thighs of Baubo, and a woman's comb (lie is), for thus,
through a sense of shame, they denominate the sexual parts of a
woman. And thus, with scanda- lous exhibitions, they finish the
initiation." From this curious passage, it appears that
the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost all the gods ; and
this account will not only throw hght on the relation of the
Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be elucidated by it
in several particulars. I would willingly unfold to the reader the
mystic meaning of the whole of this machinery, but this can not be
accom- phshed by any one, without at least the pos- session of all
the Platonic manuscripts which are extant. This acquisition, which I
would infinitely prize above the wealth of the In- dies, will, I
hope, speedily and fortunately k'^■
Jupiter disguised as Diana, and Calisto. ~-_ ;^ ^ C\r
I ■■■■ mt^
Hercules, Deianeira and Nessus. Appendix. 235
be mine, and then I shall be no less anxious to communicate this
arcane infoiTQation, than the liberal reader will be to receive it.
I shall only therefore observe, that the mu- tual communication of
energies among the gods was called by ancient theologists c'spo^
yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage ; concerning which Proclus, in
the second book of his manuscript Commentary on the Parmenides,
admirably remarks as follows: TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV,
TTOrS {1£V £V ZOIQ GO- Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at
vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpo- voo
v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ xa xpsLtto), %ai
v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj- Tpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov
xpsiTiKovcov xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?
Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af irpoc X7. GDGZoiya
7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi; xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa
|X£X7. xa^)xa. Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C
{j.£- XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V
dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time considered this
communion of the gods in divinities co-ordinate with each other ;
and 236 Appendix. then tliey called it the
mamage of Jupiter and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and Gre],
of Saturn and Rhea : but at another time, they considered it as
svibsisting be- tween subordinate and superior divinities; and then
they called it the marriage of Jupi- ter and Ceres ; but at another time,
on the contrary, they beheld it as subsisting be- tween superior
and subordinate divinities; and then they called it the marriage of
Jupi- ter and Kore. For in the gods there is one kind of communion
between such as are of a co-ordinate nature ; another between the
subordinate and supreme ; and another again between the supreme and
subordinate. And it is necessary to understand the peculiarity of
each, and to transfer a conjunction of this kind froin the gods to the
communion of ideas with each other." And in Tim (mis ^ book
i., he observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple /. e. '' And that
the same goddess is conjoined with other gods, or the same god with many
goddesses, may be collected fi'om the mystic Appendix.
237 discourses, and those marriages which
are called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the
divine Proclus ; from the first of which passages the reader may
perceive how adultery and rapes, as represented in the machinery of
the Mysteries, are to be under- stood when apphed to the gods; and
that they mean nothing more than a communica- tion of divine
energies, either between a su- perior and subordinate, or subordinate and
superior, divinity. I only add that the ap- parent indecency of these
exhibitions was, as I have already observed, exclusive of its
mystic meaning, designed as a remedy for the passions of the soul :
and hence mystic ceremonies were very properly called a%£7., akea,
medicines, by the obscure and noble Heracleitus.'^ *
Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig.
Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS.
I shall utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed,
Nevertheless, against all the profane. But do thou hear, Oh Musseus, for
I will declare what is true. . . . He is the One, self -proceeding
; and from him all things proceed, And in them he himself exerts his
activity ; no mortal Beholds Him, but he beholds all. There
is one royal body in which all things are enwombed, Fire and Water,
Earth, ^ther, Night and Day, And Counsel [Metis'], the first producer,
and delightful Love, — For all these are contained in the great body of
Zeus. Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last
; Zeus is the head, Zeus the middle of all things ; From Zeus were
all things produced. He is male, he is female ; Zeus is the depth of the
earth, the height of the starry heavens ; 238
Appendix. 239 He is the breath of all things, the force of
untamed fire ; The bottom of the sea ; Sun, Moon, and Stars ;
Origin of all ; King of all ; One Power, one God, one Great Ruler.
HYMN OF CLEANTHES. Greatest of the gods, God with many
names, God ever-ruling, and ruling all things ! Zeus, origin
of Nature, governing the universe by law, All hail ! For it is right for
mortals to address thee ; For we are thy offspring, and we alone of all
< That live and creep on earth have the power of imitative
speech. Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.
Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys : Following where
thou wilt, willingly obeying thy law. Thou boldest at thy sei'vice, in
thy mighty hands, The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.
Before whose flash all nature trembles. Thou rulest in the common reason,
which goes through all. And appears mingled in all things, great or
small, Which filling all nature, is king of all existences. Nor
without thee. Oh Deity,* does anything happen in the world. From the
divine ethereal pole to the great ocean, Except only the evil preferred
by the senseless wicked. But thou also art able to bring to order that
which is chaotic. Giving form to what is formless, and making the
discordant friendly ; So reducing all variety to imity, and
even making good out of evil. Thus throughout nature is one great
law Which only the wicked seek to disobey. Poor fools ! who long
for happiness. But will not see nor hear the divine commands.
* Greek, Aaifxov, Demon, 240
Appendix. [In frenzy blind they stray a\v;iy from
good, By thii'st of glory tempted, or sordid avarice,
Or pleasures sensual and joys that fall.] But do thou, Oh
Zeus, all-bestower, cloud-compeller! Ruler of thunder ! guard men
from sad error. Father ! dispel the clouds of the soul, and let us
follow The laws of thy great and just reign ! That we
may be honored, let us honor thee again, Chanting thy great deeds,
as is proper for mortals, For nothing can be better for gods or
men Than to adore with hymns the Universal King.* *
Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders this phrase
"the law common to all." The Greek text reads: " 7] xoivov
a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv," — the term vojj.oc:, nomos, or Law,
being used for King, as Love is for God. — A. W. Proserpina
Enthroned in Hades. Nymphs and Centaurs.
GLOSSARY. AporrJieta, Greek aiioppTjTa — The
instructions given by the hierophant or interpreter in the Eleusinian
Mysteries, not to be disclosed on pain of death. There was said to be a
syn- opsis of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it
is said, were bound together in the form of a book. Apostatise — To
fall or descend, as the spiritual part of the soul is said to descend
from its divine home to the world of nature. Cathartic — Purifying.
The term was used by the Platonists and others in connection with the
ceremonies of purification be- fore initiation, also to the corresponding
performance of rites and duties which renewed the moral life. The
cathartic virtues were the duties and mode of living, which
conduced to that end. The phrase is used but once or twice in this
edition. Cause — The agent by which things are generated or
produced. Circulation — The peculiar spiral motion or progress by
which the spiritual nature or "intellect" descended from the
divine region of the universe into the world of sense.
Cogitative — Relating to the understanding: dianoetic.
Conjecture, or Opinion — A mental conception that can be changed by
argument. Core — A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic
and later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She was
supposed to typify the spiritual nature which was ab- 241 242
Glossary, Core — con tinned. ducted by Hades or Pluto
into the Underworld, the figure signifying the apostasy or descent of the
soul from the higher life to the material body. CoricaUy —
After the manner of Proserpina, i. e., as if descending into death from
the supernal world. D(emoii — A designation of a certain class of
divinities. Different authors employ the term differently. Hesiod regards
them as the souls of the men who lived in the Golden Age, now act-
ing as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus, says
" that daemon is a term denoting wisdom, and that every good man is
dsemonian, both while living and when dead, and is rightly called a
daemon." His own attendant spirit that checked him whenever he
endeavored to do what he might not, was styled his Daemon. lamblichus
places Daemons in the second order of spiritual existence. — Cleanthes,
in his celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).
Demiurgiis — The creator. It was the title of the; chief-magistrate
in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus or
Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla- tdnists, and more
especially the Gnostics, who regarded matter as constituting or
containing the principle of Evil, sometimes applied this term to the Evil
Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew God.
Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered.
The spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded
as a whole, but in descending to worldly conditions became divided into
parts or perhaps characteristics. Divisible — Made into parts or
attributes, as the mind, intellect, or spiritual, first a whole, became
thus distinguished in its de- scent. This division was regarded as a fall
into a lower plane of life. Energise, Greek z^z^^-^zw — Ho
operate or work, especially to undergo discipline of the heart and
character. Glossary. 243 Energy — Operation,
activity. Eternal — Existing through all past time, and still
continuing. Faith — The correct conception of a thing as it seems,
— fidelity. Freedom — The ruling power of one's life ; a power over
what per- tains to one's self in life. Friendship — Union of
sentiment; a communion in doing well. Fury — The peculiar mania,
ardor, or enthusiasm which inspired and actuated prophets, poets,
intei'preters of oracles, and others ; also a title of the goddesses
Demeter and Persephone as the chastisers of the wicked, — also of the
Eumenides. Generation, Greek Y^^'^t? — Generated existence, the
mode of life peculiar to this world, but which is equivalent to
death, so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned
; the process by which the soul is separated from the higher form
of existence, and brought into the conditions of life upon the earth. It
was regarded as a punishment, and ac- cording to Mr. Taylor, was
prefigured by the abduction of Proserpina. The soul is supposed to have
pre-existed with God as a pure intellect like him, but not actually
identical — at one but not absolutely the same. Good — That
which is desired on its own account. Hades — A name of Pluto; the
Underworld, the state or region of departed souls, as understood by
classic writers ; the physical nature, the corporeal existence, the
condition of the soul while in the bodily life. Herald, Greek
y.7]po4 — The crier at the Mysteries. Hierophant — The interpreter
who explained the purport of the mystic doctrines and dramas to the
candidates. Holiness, Greek ooioty]? — Attention to the honor due
to God. Idea — A principle in all minds underlying our cognitions
of the sensible world. Imprudent — Without foresight ;
deprived of sagacity. Infernal regions — Hades, the
Underworld. Instruction — A power to cure the soul. 244
Glossary. Intellect, Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and
by Professor Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the
spiritual nature. " The organ of self-evident, necessary, and
universal truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it takes
hold on truth with absolute certainty. The reason, through the medium of
ideas, holds communion with the world of real Being. These ideas are the
light y^\\\(^\i reveals the world of unseen realities, as the sun reveals
the world of sensible forms. ' The Idea of the good is the Sun of the
Intelligible World ; it sheds on objects the light of truth, and gives to
the soul that knows the power of knowing.' Under this light the eye
of reason apprehends the eternal world of being as truly, yet more truly,
than the eye of sense appi'ehends the world of phenomena. This power the
rational soul possesses by virtue of its having a nature kindred, or even
homogeneous with the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,'
and like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we are
to understand Plato as teaching that the rational soul had an independent
and underived existence ; it was created or 'generated' in eternity, and
even now, in its incorporate state, is not amenable to the condition of
time and space, but, in a peculiar sense, dwells in eternity : and
therefore is capable of beholding eternal realities, and coming into
communion with absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with
God, the Absolute Being." — Christianity and Greek Philosophy, x.
pp. 349, 350, Intellective — Intuitive ; perceivable by spiritual
insight. Ititelligihle — Eelating to the higher reason.
Interpreter — The hierophant or sacerdotal teacher who, on the last
day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book to the
candidates, and unfolded the final meaning of the repre- sentations and
symbols. In the Phoenician language he was called ins, peter. Hence the
petroma, consisting of two tablets of stone, was a pun on the
designation, to imply the Glossary. 245
Interpreter — continued. wisdom to be uiit'olcled. It has
been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim,
as the successor of Peter, from his succession to the rank and function
of the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated
Apostle, who probably was never in Rome. Just — Productive of
Justice. Justice — The harmony or perfect proportional action of
all the powers of the soul, and comprising equity, veracity, fidelity,
usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness. Judgment
— A. peremptory decision covering a disputed matter; also o'.avoLa,
dianoia, or understanding. Knowledge — A comprehension by the mind
of fact not to be over- thrown or modified by argument. o
Legislative — Regulating. Lesser Mysteries — The TsXeia:,
teletai, or ceremonies of purifica- tion, which were celebrated at Agrae,
prior to full initiation at Eleusis. Those initiated on this occasion
were styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ; and their
initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of
being vailed from the former life. Magic — Persian mag,
Sanscrit maha, great. Relating to the order of the Magi of Persia and
Assyria. Material do'mons — Spirits of a nature so gross as to be
able to assume visible bodies like individuals still living on the
Earth. Matter — The elements of the world, and especially of the
human body, in which the idea of evil is contained and the soul
incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle. Muesis, Greek iinrioiq,
from ixotn, to vail — The last act in the Lesser Mysteries, or rsXtza:,
teletai, denoting the separating of the initiate from the former exotic
life. Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods.
The most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and
Eleusis. 246 Glossary. Mystic — Relating to the
Mysteries: a person initiated in the Lesser Mysteries — Greek
jj.u3Totu Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical
sense. Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic
Mysteries. Opinion — A hypothesis or conjecture.
Partial — Divided, in parts, and not a whole. Philologist —
One pursuing literature. Philosopher — One skilled in philosophy;
one disciplined in a right life. Philosophise — To
investigate final causes; to undergo discipline of the life.
Philosophy — The aspiration of the soul after wisdom and truth,
" Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned
being, and asserted that this was known to the soul by its intuitive
reason (intellect or spiritual instinct) which is the organ of all
philosophic insight. The reason perceives sub- stance ; the
understanding, only phenomena. Being (xo ov), which is the reality in all
actuality, is in the ideas or thoughts of God; and nothing exists (or
appears outwardly), except by the force of this indwelling idea. The word
is the true expression of the nature of every object : for each has its
divine and natural name, besides its accidental human appellation.
Philosophy is the recollection of what the soul has seen of things and
their names." (J. Freeman Clarke.) Plotinus — A philosopher
who lived in the Third Century, and re- vived the doctrines of
Plato. Prudent — Having foresight. Purgation, purification
— The introduction into the Teletce or Lesser Mysteries ; a separation of
the external principles from the soul. Punishment — The curing of
the soul of its errors. Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, — One
possessing the prophetic mania, or inspiration. Priest —
Greek \xrjyz'.c, — A prophet or inspired person, ispjuc — a sacerdotal
person. Glossary. 247
Revolt — A rolling away, the career of the soul in its descent from
the pristine divine condition. Science — The knowledge of universal,
necessary, unchangeable, and eternal ideas. Shows — The
peculiar dramatic representations of the Mysteries. Telete, Greek
tjXext] — The finishing or consummation ; the Lesser Mysteries.
Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to the gods.
Theoretical — Perceptive. Torch bearer — A priest who bore a
torch at the Mysteries. Titans — The beings who made war against
Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with the Daittjas of India,
who resisted the Brahmans. In the Orphic legend, they are described
as slaying the child Bacchus-Zagreus. Titanic — Eelating to
the nature of Titans. Transmigration — The passage of the soul from
one condition of being to another. This has not any necessary reference
to any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and
blood. See I Corinthians, XV. Virtue — A good mental condition; a
stable disposition. Virtues — Agencies, rites, inflluences.
Cathartic Virtues — Purify- ing rites or influences. Wisdom —
The knowledge of things as they exist ; " the approach to God as the
substance of goodness in truth." World — The cosmos, the
universe, as distinguished from the earth and human existence upon
it. /■ ('§ Eleusinian Priest and
Assistants. Fortune and the Three Fates.
LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L.
RAWSON. A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume
properly includes the two or three theories of human life held by
the ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Pro-
serpina, the most charming of all mythological fancies, and the Orgies of
Bacchus, which together supplied the motives to the artists of the
originals from which these drawings were made. From them* we
learn that it was believed»that the soul is a part of, or a spark from,
the Great Soul of the Kosmos, the Cen- tral Sun of the intellectual
universe, and therefore immortal ; has lived before, and will continue to
hve after this '' body prison " is dissolved ; that the river Styx
is between us and the unseen world, and hence we have no recollection of
any former state of existence ; and that the body is Hades, in
which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the unseen
world. Poets and philosophers, tragedians and comedians,
embel- lished the myth with a thousand fine fancies which were
248 List of Illustrations. 249 woven into
the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters during the
Bacchic festivals. The pictures include, beside the costumes of priests,
jiriest- esses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs,
many of the sacred vessels and implements used in celebrating the
Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were drawn by
the ancient artists from the objects represented, and their work has been
carefully followed here. Page. 1. Frontispiece.
Sacrifice to Ceres. — Denhndler, sculptur. The goddess stands
near a serpent-guarded altar, on which a sheaf of grain is aflame.
Worshipers attend, and Jupiter approves. (See page 17.) 2.
Decoratinq a Statue of Bacchus 4 — Bom. Campana. The priest
wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural vine with grape
clusters, and there are fruit and wine bearers. 3. Bacchantes with
Thyrsus and Flute 4 Two fragments. —Bom. Camp. 4.
Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4 Torch and thyrsus bearers and
faun. See cut No. 40, and page 208 for reference to pine nut.
5. Bacchus and Nymphs 5 6. Pluto, Proserpina, and Furies
5 — Galerie des Peintres. The Furies were said to be children
of Pluto and Proserpina ; other accounts say of Nox and Acheron, and
Acheron was a son of Ceres Avithout a father. (See page 65.)
7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6 8. Priestess with
Musical Instruments 6 9. Faun Kissing Bacchante. — Bourbon Mus
6 10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus 6 250 List
of Ilhistrations. Page. 11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen
7 See drawings on page lOG. 12. Mercury Presenting a
Soul to Pluto 8 — Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8.
13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav. 17 8 14. Eleusinian
Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8 8 15. Bacchic Festival.—
JSarto?*, Admiranda, 43 9 Probably a stage scene. The cliaracters
are the king, who was an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician,
wine and fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy
re- moves the king's sandal. (See page 35.) 16. Apollo and
the Muses. — Florentine Museum 10 The muses were the daughters of
Jupiter and Mnemosyne ; that is, of the god of the present instant, and
of memory. Their office was, in part, to give information to any
inquiring soul, and to preside over the various arts and sciences.
They were called by various names derived from the places where they
were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides, HeUconiades,
Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was called Musagetes, as their
leader and conductor. The palm tree, laurel, fountains on Helicon,
Parnassus, Pindus, and other sacred mountains, were sacred to the muses.
17. Prometheus Forms a Woman 11 — Visconti, Mus. Fio. Clem.,
IV., 34. Mercury, the messenger of the gods, brings a soul from
Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates attend. The
Athenians built an altar for the worship of Pro- metheus in the grove of
the Academy. 18. Procession of Iacchus and Phallus 16 —
Montfaucon. From Athens to Eleusis, on the sixth day of the
Eleusinia. The statue is made to play its part in a mystic ceremony,
typi- fying the union of the sexes in generation. Attendant priest-
esses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit, vases
of wine, with clematis, and musical and sacrificial instni- ments. None
but women and children were permitted to take part in this ceremony. The wooden
emblem of fecundity was an object of supreme veneration, and the ceremony
of placing and hooding it. was assigned to the most highly
respected woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch
List of Illustrations. 251 Pagk. say the
phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the top of long
poles, and their bodies were stained with wine lees, and partly covered
with a lamb-skin, their heads crowned with a wreath of ivy. (See page
14.) 19, 20, 21. From Etruscan Vases — Florentine Museum. 22
Human sacrifice may be indicated in the lower group. 22.
Venus and Proserpina in Hades 28 — Galerie des Peintres. The
myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate to eat in Hades,
and so made her subject to the law which re- quired her to remain four
months of each year with Pluto in the Underworld, for Venus is the
goddess who presides over birth and growth in all cases. Cerberus (see
page 65) keeps guard, and one of the heads holds her garment, signifying
that his master is entitled to one-third of her time. 23.
Rape of Proserpina. Carried Down to Hades (Invisibility) — Flor.
Mus 29 See note, p. 152. 24. Pallas, Venus, and Diana
Consulting 30 — Gal. des Peint. Jupiter ordered these
divinities to excite desire in the heart of Proserpina as a means of
leading her into the power of the richest of all monarchs, the one who
most abounds in treasures. (See page 140.) 25. Dionysus as
God op the Sun 31 — Pit. Ant. Ercolmio. Dionysus — Bacchus —
symbolizes the sun as god of the sea- sons ; rides on a panther, pours
wine into a drinking-horn held by a satyr, who also carries a wine skin
bottle. The winged genii of the seasons attend. Winter carries two geese
and a cornu- copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in
the other the mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf of
grain ; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of fruits. Fauns,
satyrs, boy-fauns, the usual attendants of Bacchus, play with goats and
panthers between the legs of the larger figures. 26. Herse
and Mercury 42 — Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match
between the god and a daughter of Cecrops, the Egyptian who founded
Athens, supplied the ritual for the festivals Hersephoria, in which young
girls of seven to eleven years, from the most noted families, dressed
in 252 List of Illustrations. Page.
white, carried the sacred vessels and implements used in the
Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made for the
occasion. 27. Narcissus Sees His Image in Water 42 — P.
Ovid. Naso. The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to
be very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of the
fountain where he saw his face reflected, and failing, he drowned himself
in chagrin. The gods, unwilling to lose so much beauty, changed him into
the flower now known by his name. (See page 150.) 28. Jupiter
as Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso . . 62 The supreme deity of
the ancients, beside numerous marriages, was credited with many amours
with both divinities and mor- tals. In some of those adventures he
succeeded by using a disguise, as here in the form of the Queen of the
Starry Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of
Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The com- panions of that
goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in the form of a swan,
surprised Leda, who became mother of the Dioscuri (twins).
29. Diana and Calisto. — Ovid. Naso, Neder 62 The fable says
that when Diana and her nymphs were bathing the swelling form of
Calisto attracted attention. It was re- ported to the goddess, when she
punished the maid by chang- ing her into the form of a bear. She would
have been torn in pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed
and trans- lated her to the heavens, where she forms the
constellation The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and
requested Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at
night beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of
Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip, but revolves
close around the pole star. 30. Bacchantes and Fauns Dancing
74 A stage ballet. — Bom. Campana, 37. 31. Hercules, Bull,
and Priestess. — Bom. Camp 74 Bacchic orgies. 32. Fruit
and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm 84 33. Torch-Bearer as Apollo. —
Bourbon Mits 84 34. Eleusinian Mysteries. — Florence 3Ius 94
List of Illustrations. 253 r>- T-,
Page, 60. Etruscan Mystic Ceremony.— i?oH«. Camp 94 36.
Etruscan Altar Group.— JPtor. Mus 106 The mystic cist with serpent
coiled around, the sacred oaks, baskets, drinking-horns, zones, f estoou
of branches and flowers, make very pretty and impressive accessories to
two handsome priestesses. 37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en
106 These two groups were drawn from a vase (page 7) which is
a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols, accessories,
and all the details of implements used in the cele- bration of the
Mysteries are very carefully drawn on the vase, which is well preserved.
This vase is a strong proof of the antiquity of the orgies, for the
Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the Romans began to
build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m
106 39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre .
110 Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real
animal, but science has dissipated that belief, and the monster has
been classed among the artificial attractions of the theater where it belongs,
and where it did a large share of duty in the Mysteries. They were
invented by the poets as an impersona- tion of the life that animates the
branches of trees when the wind sweeps through them, meaning, whistling,
or shrieking in the gale. They were said to be the chief attendants
on Bacchus, and to delight in revel and wine. 40. Cupids,
Satyr, and Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110 The many suggestive
emblems in this picture form an instruc- tive group, symbolic of Nature's
life-renewing power. The ancients adored this power under the emblems of
the organs of generation. Many passages in the Bible denounce that
wor- ship, which is called " the grove," and usually was an
iipright stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,
where it became a statue to the waist, as seen in the engrav- ing. The
Palladium at Athens was a Greek form. The Druzes of Mount Lebanon in
Syria now dispense with em- blems of wood and stone, and use the natural
objects in their mystic rites and ceremonies. 41. Apollo and
Daphne,— Galerie des Peint 118 The rising sun shines on the
dew-drops, and warming them as they hang on the leaves of the laurel
tree, they disappear, 254 List of lUiisfrations.
Page. leaving the tree ; and it is said by the poet that
Apollo loves and seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies
and is transformed into a laurel tree at the instant she is embraced
by the sun-god. 42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius
118 Diana as the queen of the night loves Endymion, the
setting sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as
ever prevents them from enjoying each other's society. The fair
huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon, or in the
first quarter, to approach near the place where her beloved one lingers
near the Hesperian gardens, and to follow him even to the Pillars of
Hercules, but never to embrace him. The new moon, as soon as visible,
sets near but not with the sun. Endymion reluctantly sinks behind the western
horizon, and would linger until the loved one can be folded in his
arms, but his duty calls and he must turn his steps toward the
Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await his presence,
ever cheerful and benign. Diana follows closely after and is welcomed by
the brave and beautiful inhabitants of the Peaceful Islands, but while
receiving their homage her lover hastens on toward the eastern gates,
where the golden fleece makes the morning sky resplendent.
43. Ceres and the Car op Treptolemus 127 P. Ovid. Naso,
Neder. Triptolemus (the word means three plowings) was the founder
of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with her car
drawn by winged dragons, in which he distributed seed grain all over the
world. 44. Pluto Marries Proserpina 127 — P. Ovid.
Naso, Neder. Jupiter is said to have consented to request of Pluto that
Proser- pina might revisit her mother's dwelling, and the picture
repre- sents him as very earnest in his appeal to his brother. Since
then the seed of grain has remained in the ground no longer than four
months ; the other eight it is above, in the regions of light. In the
engraving a curtain is held up by bronze figures. This seems conclusive
that it was a representation of a dra- matic scene. (See pp. 159,
186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. — Heck... 138
46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138 47. A Roman
Figure of Geres.— Heck 138 List of Illustrations. 255
Page. 48. Demeter, from Etruscan Vase.— IfecZ; 138
49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the Needlework of
Proserpina.— Galerie des Peini . 142 50. Proserpina Exposed to
Pluto 152 — Ovid. Naso, Neder. There may have been a mild
sarcasm in this artist's mind when he drew the maid as dallying with
Cupid, and the richest mon- arch in all the earth in the distance,
hastening toward her. He succeeded, as is shown in the next
engraving. 51. Pluto Carrying Off Proserpina 152 — P.
Ovid. Naso, Neder. Eternal change is the universal law. Proserpina must
go down into the Underworld that she may rise again into light and
life. The seed must be planted under or into the soil that it may
have a new birth and growth. 52. Proserpina in Pluto's Court. —
Montfaucon 156 As a personation she was the "Apparent
Brilliance" of all fruits and flowers. 53. Ceres in
Hades. — Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. —
Montfaucon .... 168 55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168 56.
A Group of Deities. — Heck 168 Pan and Dionysus, Hygeia, Hermes,
Dionysus and Faunus, and Silenus. 57. Night with Her Starry
Canopy. — Heck 168 58. The Three Graces. — Heck 168 59.
Cupid Asleep in the Arms of Venus 174 — Galerie des Peint. 60.
Prize Dance between a Satyr and a Goat 174 — Anticld.
61. Baubo and Ceres at Eleusis. — Galerie des Peint. 174 See page
232. 256 List of Illustrations. Page.
62. Psyche Asleep in Hades 186 — From the ruins of the Bath
of Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of the Four Rivers in
Hades 187 — Tomb of the Nasons. "It was easy for poets
and mythographers, when they had once started the idea of a gloomy land
watered with the rivers of woe, to place Styx, the stream which mates men
shudder, as the boundary which separates it from the world of Uving
men, and to lead through it the channels of Lethe, in which all
things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with shrieks of pain,
and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire." Acheron, in the
early myths, was the only river of Hades. 64. Etruscan Vase Group.
— MilUngen 198 65. Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198
66. Greek Convivial Scene. — Millin, 1 ^9^ 38 198 67. Faun
and Bacchante. — Bour. Mus 206 68. Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum
206 69. Bacchante and Faun.— 5o«r. Mus 206 These three
verj' graceful pictures were drawn from paintings on walls in
Herculaneum. 70. KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer
212 71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212
Here is an actual ceremony in which many actors took parts ; with
an altar, flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bac- chantes,
fauns, and other attendants on the celebration of the Mystei'ies,
including tlie role of an angel with wings. 72. Marriage (or Adultery)
or Mars and Venus 220 — Montfaucon. See pages 231-2.37. If
this is from a scene as played at the Bacchic theaters, those dramas must
have been very popular, and justly so. To those theaters, which were
supported by the government in Athens and in many other cities througliout
Greece, we owe the immortal works of ^schylus and Soph- ocles.
List of Illustrations. 257 Page. 73,
Musical Conference (Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi.
62, Written music was evidently used, for one of the company is
writing as if correcting the score, and writing with the left hand.
74. Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229 This
goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said she rose from the
sea — the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the
island Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored
place for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cy- thera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings 22,
39, and 49, and page 230.) 75, Jupiter Disguised as Diana, and
Calisto 234 — Ovid. Naso, Neder. The gods were said to have
the power, and to practice as- suming the form of any other of their
train, or of any animal. In these disguises they are supposed to play
tricks on each other as here. Diana is the queen of the night sky,
Calisto is one of her attendants, and many white clouds float over
the blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).
76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234 — Ovid. Naso,
Neder. The sun nears the end of the day's journey; he is aged and
weary ; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but stUl
Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the fair daughter of the
king of ^tolia, retires with him into exile. At a ford the hero entrusts
his bride to Nessiis the Centaur, to carry across the river. The ferryman
made love to the lady, and Hercules resented the indiscretion, and
wounded him by an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as
a love charm in case her husband should love another woman.
Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped his shirt in
the blood of Nessus — the crimson' and scarlet clouds of a splendid
sunset are made glorious by the blood of Nessus, and Hercules is burnt on
the funeral pyre of scarlet and crimson sunset clouds.
258 List of Illustrations. Page. 77. The
Sacrifice. — Herculaneum, IV., 13 237 78. Hercules Drunk. — Zoegciy
BassirilievU tav. 67 238 79. Proserpina Enthroned in Hades- —
Archdol. Zeit. 240 The principle of growth rules the
Underworld. 80. Bacchante and Centaur. — Bourbon Mus . . . . ■ .
241 81. Bacchante and Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241
82. Eleusinian Priest and Assistants 247 83. The Fates. —
Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248 84. Supper Scene 258
85. Bacchic Bull. — Antichi Ou cover. Suppei-
Scene. Date Due 5" : -
q . MY is'iS
MM^>«4^9^fiC 1 ... :^^m
NCWMf JliPf'U
"'■ ,11^ !«>
•s--.*^-.^.;;^ '■
JUL 1 ? i^ /
(|) BL795 E5T24
The Eleusinian and Bacchic mysteries. Princeton
Theological Semmary-Speer Library 1 1012 00009
5325 PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP A
DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF THE
ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE CROSS
AN ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,
BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT
FAITHS LONDON PRIVATELY PRINTED 1880
NAWAL S>a:..'.. ■ JCWO UAHAUUH. PREFACE
The present somewhat slight sketch of a most interesting subject ,
whilst not claiming entire originality , yet embraces the cream y so to
speak , of various learned works of great costy some of which being
issued for private circulation onlyy are almost unobtainable.
During the past few years several books have been written upon Phallicism
in conjunction with other kindred matters f but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery y the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of
the ancient world. Many of the topics have received only
slight treatmenty being little more than indicated ; but the work will
enable the reader to understand and possess the truth concerning
the Phallic Worship of the Ancients . Those who desire to
know more, or to authenticate the statements and facts given in this book
, should consult the large and important works of Payne Knight , Higgins
, Dulaure, Rolky Inman , and other writers . It was intended
to give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written
on the subject , but the length of the list prevented its being
added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX
WORSHIP Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient
times, sometimes contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and
Tree Worship. The powers of nature were sexualised and endowed with the
same feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or
the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same — the veneration
of the generative principle. Thus we find a close relationship between
the various mythologies of the ancient nations, and by a comparison
of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring from the same
source, namely, the worship of the forces and operations of nature, the
original of which was doubt- less Sun worship. It is not necessary to
prove that in primitive times the Sun must have been worshipped
under various names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life,
and the Giver of Food. In the earliest times the worship of the
generative power was of the most simple and pure character, rude in
manner, primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme
power, the Author of life. Afterwards the worship became more
depraved, a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a
priest- 8 Phallic Worship hood who
were not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated
with it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prosti- tution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and
became licentious statues and debased objects. Hence we have the
depraved ceremonies at the worship of Bacchus, who became, not only the
representative of the creative power, but the God of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries,
willing to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical
bliss, as was the case in India and Egypt, and among the Phoenicians,
Babylonians, Jews and other nations. Sex worship once
personified became the supreme and governing deity, enthroned as the
ruling God over all ; dissent therefrom was impious and punished. The
priests of the worship compelled obedience ; monarchs complied to
the prevailing faith and became willing devotees to the shrines of Isis
and Venus on the one hand, and of Bacchus and Priapus on the other, by
appealing to the most animating passion of nature.
PHALLICISM This is the worship of the reproductive powers,
the sexual appointments revered as the emblems of the Creator. The
one male, the active creative power ; the other the female or passive
power ; ideas which were represented by various emblems in different
countries. Phallic Worship 9 These
emblems were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people ; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the
priests and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on the
“ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,” the writer
traces the superstition westward, and gives an account of its prevalence
through- out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains ; and many of our
ancient customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to
Britain,” says the writer, “ we find this worship established no less
firmly and extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic
bronzes. io Phallic Worship pottery covered with
obscene pictures, are found wherever there are any extensive remains of
Roman occupation, as our antiquaries know well. The numerous
Phallic figures in bronze found in England are perfectly identical
in character with those that occur in France and Italy.” All
antiquaries of any experience know the great number of obscene subjects
which are met with among the fine red pottery which is termed Samian
ware, found so abundantly in all Roman sites in our island. “ They
represent erotic scenes, in every sense of the word, with figures of
Priapus and Phallic emblems.” PHALLUS The Phallus, or
Lingam, which stood for the image of the male organ, or emblem of
creation, has been worshipped from time immemorial. Payne Knight
describes it as of the greatest antiquity, and as having prevailed in
Egypt and all over Asia. The women of the former country carried in
their re- ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the
Greeks represented the Phallus alone, and changed the personified
attribute into a distinct deity, called Priapus. Phallus, or
privy member ( membrum virile ), signifies, “ he breaks through, or
passes into.” This word survives in German pfabl, and pole in English.
Phallus is supposed Phallic Worship ii
to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or phallo , “
to brandish preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance
and meaning to Phallus, that one is quite likely to be parent of the
other. In Sanskrit it can be traced to phal> “ to burst,” “ to
produce,” “ to be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,”
and is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities.
Phallus, then, was the ancient emblem of creation : a divinity who was
companion to Bacchus. The Indian designation of this idol was
Lingam, and those who dedicated themselves to its service were to
observe inviolable chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “
that they had in any way departed from them, the punishment is death.
They go naked, and being considered as sanctified persons, the
women approach without scruple, nor is it thought that their
modesty should be offended by it.” SYMBOLS OR EMBLEMS
The Phallus and its emblems were representative of the gods
Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and Asher, who were all
Phallic deities. The symbols were used as signs of the great creative
energy or operating power of God from no sense of mere animal
appetite, but in the highest reverence. Payne Knight, describing
the emblems, says : — “ Forms and ceremonials of a religion are not
always to be understood in their direct and obvious sense, but
12 Phallic Worship arc to be considered
as symbolical representations of some hidden meaning extremely wise and
just, though the symbols themselves, to those who know not their
true signification, may appear in the highest degree absurd and
extravagant. It has often happened that avarice and superstition have
continued these symbolical repre- sentations for ages after their
original meaning has been lost and forgotten; they must, of course,
appear nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.
Such is the case with the rite now under consideration, than which
nothing can be more monstrous and indecent, if considered in its plain
and obvious meaning, or as part of the Christian worship ; but which will
be found to be a very natural symbol of a very natural and
philosophical system of religion, if considered according to its
original use and intention.” The natural emblems were those
which from their character were most suitable representatives ; such
as poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu, Egyptian,
and Jewish divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang
Stone, to be found at Narmada and other places, which is sacred to
the Hindu deity Siva ; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
‘ pillars ’ set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.” Phallic Worship
*5 THE POLE The Pole was an emblem of the Phallus, and
with the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom
and symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character,
both are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or Phallus
with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that the
raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious- ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England : “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer-
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in
the 14 Phallic Worship mornyng they returne,
bryngyng with them birch bowes and branches of trees, to deck their
assemblies withall. . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence
is their Maie pole, whiche thei bryng home with great veneration, as thus
: thei have twentie or fortie yoke of oxen, every oxe havyng a sweet
nosegaie of flowers placed on the tippe of his homes, and these oxen
drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which is
covered all over with flowers and hearbes, bound rounde aboute with
strynges from the top to the bottome, and sometyme painted with variable
colours, with two or three hundred men, women, and children, folio
wyng it with great devotion. And thus beyng reared up, with
handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe the grounde
aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer haules, bowers,
and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and feast, to leape
and daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication
of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather the thyng
itself.” The ceremony was almost identical with the Roman
festival, where the Phallus was introduced with garlands. Both were
attended with the same licentiousness, for Stubbes gives a further
account of the depravity attending the festivities.
PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains of
which still exist in the British Isles. These pillars or so called
crosses generally consist of a shaft of granite with Phallic
Worship iJ a carved head. In the West of England
crosses are very common, standing in the market and receiving the
name of “ The Cross.” These stone pillars were first erected
in honour of the Phallic deity, and on the introduction of
Christianity were not destroyed, but consecrated to the new faith,
doubtless to honour the prejudices of the people. These monolisks abound
in the Highlands, they are stones set up on end, some twenty-four or
thirty feet high, others higher or lower and this sometimes where no such
stones are to be quarried. We learn that the Bacchus of the
Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,
consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an account of this
practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as a custom for a
superstitious man, when he passed by these anointed stones in the streets
to take out a phial of oil and pour it upon them and having fallen
on his knees to make his adorations, and so depart. In various
parts of the Bible the Pillar is referred to as of a sacred character, as
in Isaiah xix. 19, 20, “ In that day shall there be an altar to Jehovah
in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border thereof to
Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the Lord.”
The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle of
the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of
Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who describes the
Towers as “ Temples constructed by the early Indian colonists of
the country in honour of the Fructifying principle of nature, emanating
as was supposed from the Sun, or the deity of desire instrumental in that
principle of universal generativeness diffused throughout all
nature.” 16 Phallic Worship According to the
same author these towers were very ancient, and of Phoenician origin, as
similar towers have been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,”
says O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower of
Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the priest who attended
them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superin- tendent of Baal tower.” This Baal was
worshipped wherever the Phoenicians went, and was represented by a
pillar or stone or similar objects. The stone that Jacob set up, and
anointed as a rallying place for worship, became afterwards an object of
worship to the Phoenicians. The earliest navigators of the world
were the Phoenicians, they founded colonies and extended their
commerce first to the isles of the Mediterranean, from thence to
Spain, and then to the British Isles. Historians have accorded to them
the settlements of the most remote localities. They formed settlements in
Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the principal
settle- ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony
is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed themselves of
the best part of Spain. Where the Phoenicians settled, there they
introduced their religion, and it is in these countries we find the
remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES,
ETC. Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic
emblems. “ Their remains,” he says, “ are still extant, and appear to
have been composed of a crone set into the ground, and another placed
upon the point of Phallic Worship *7
it and so nicely balanced that the wind could move it, though so
ponderous that no human force, unaided by machinery, can displace it;
whence they are called * logging rocks * and * pendre stones/ as they
were anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles which
differ very little in meaning from that on the Tyrian coins. Damascius
saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in
Syria, particularly one which was then moved by the wind ; and they
are equally found in the Western extremities of Europe and the Eastern
extremities of Asia, in Britain, and in China.” Bryant
mentions it as very usual among the Egyptians to place with much labour
one vast stone upon another for a religious memorial. Such
immense masses, being moved by causes seeming so inadequate, must
naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant
observers, and persuaded them that they were animated by an emanation of
the vital spirit, whence they were consulted as oracles, the
responses of which could always be easily obtained by interpreting the
different oscillatory movements into nods of approbation or
dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and
many other places, even in modern times. A physician, writing to Dr.
Inman, says : “ I was in Egypt last winter (1865-66), and there certainly
are numerous figures of gods and kings, on the walls of the temple at
Thebes, depicted with the male genital erect. The great temple at
Karnak is, in particular, full of such figures, and the temple of
Danclesa likewise, though that is of much later date, and built merely in
imitation of old Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs arc pointed
out by Ezek. B 1 8 Phallic Worship
xxiii. 14. I remember one scene of a king (Rameses II) returning in
triumph with captives, many of whom were undergoing the process of
castration.” Obelisks were also representative of the same
emblem. Payne Knight mentions several terminating in a cross, which
had exactly the appearance of one of those crosses erected in churchyards
and at cross roads for the adoration of devout persons, when devotions
were more prevalent than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps
of trees, upright stones have all the same signification, and are
means by which the male element was symbolised. TRIADS
The Triune idea is to be found in the system of almost every
nation. All have their Trinity in Unity, three in one, which can be
distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or triple, the
constitution of the three persons of most sacred Trinity forming the
Triune system. In the analysis of the subject by Rawlinson, we find
the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or
Hoa. Asshur, the supreme god of the Assyrians, represents the Phallus or
central organ or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu
was given to the right testis, while that of Hea designated the
left. It was only natural that Asshur being deified, his
appendages should be deified also. “ Beltus,” says Inman, “ was the
goddess associated with them, the four together made up Arba or Arba-il,
the four great gods,” the Trinity in Unity. The idea thus broached
receives Phallic Worship *9 great
confirmation when we examine the particular stress laid in ancient times
respecting the right and left side of the body in connection with the
Triad names given to offspring mentioned in the scriptures with the
titles given to Anu and Hea. The male or active principle was
typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the
females or passive by the principles of “ water,” “ soft- ness,” and
other feminine principles. Thus the goddess Hea was associated with
water, and according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the Abyss, was
sometimes repre- sented to be the great Hea, without whom there was
no creation or life, and whose godhead embraced also the female
element water. Rawlinson also gives a similar conclusion, and
states as far as he could determine the third divinity or left side
was named Hea, and he considered this deity to correspond to Neptune.
Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the abyss, and king
of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach, mankind, in common
with all animal life, originally sprung from the sea ; so
physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring ; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the
supreme god of the Assyrians, 20 Phallic
Worship the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It is
remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which properly
should be called the symbol of symbols. One of the most remarkable of
these is a cross, in the form of the letter (T), which thus served as the
emblem of creation and generation before the Church adopted it as a sign
of salvation.” Another writer says, “ Reverse the position of
the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure of the
ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and ancient Hebrews. It is one
of the oldest conventional forms of Phallic Worship
21 the cross. It is also met with in Gallic, Oscan,
Arcadian, Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and
Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the exact prototype
and image of the cross, or rather, to state the fact in order of merit
and time, the cross is made in the exact image of the Ethiopic * tau.’
The fig-leaf, having three lobes to it, became a symbol of the
triad. As the male genital organs were held in early times to
exemplify the actual male creative power, various natural objects were
seized upon to express the theistic idea, and at the same time point to
those parts of the human form. Hence, a similitude was recognised in a
pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a club between
two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two ribbons with the
two ends pendant, a thumb and two fingers, the caduceus. Again, the
conspicuous part of the sacred triad Asshur is symbolised by a single
stone placed upright — the stump of a tree, a block, a tower, spire,
minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name
which seems designed to perpetuate the triad, since it signifies c
my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ” We must not
omit to mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the
goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier ; and
still further per- sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius,
Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,
Asher, and others. If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as
Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in his
day not symbolically used, but actually employed; 22
Phallic Worship for he bluntly says “ whoredom was
committed with the images of men/’ or, as the marginal note has it,
images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark — a
cross in the form of the letter T — that Ezekiel was directed to stamp
the foreheads of the men of Judaea who feared the Lord (Ezek. ix.
4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin we
determine by a similar rule of research to that by which comparative
anatomists determine the place and habits of an animal by a single tooth.
The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique religious
body physical, and that essentially human. A study of some of the
earliest forms of faith will lift the veil and explain the mystery.
India, China, and Egypt have furnished the world with a genus of
religion. Time and culture have divided and modified it into many species
and countless varieties. However much the imagination was allowed to play
upon it, the animus of that religion was sexuality — worship of the
generative principle of man and nature, male and female. The cross became
the emblem of the male feature, under the term of the triad — three in
one. The female was the unit ; and, joined to the male triad, con-
stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes paid to the
male, sometimes to the female, or to the two in one. So great
was the veneration of the cross among the ancients that it was carried as
a Phallic symbol in the religious processions of the Egyptians and
Persians. Higgins also describes the cross as used from the
earliest times of Paganism by the Egyptians as a banner, above
which was carried the device of the Egyptian cities. The cross was
also used by the ancient Druids, who held Phallic Worship
2 3 it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the
significa- tion of eternal life. Schedeus describes it as customary
for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large and handsome,
growing up with two principal arms in the form of a cross , besides the
main stem upright. If the two horizontal arms are not sufficiently
adapted to the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree
they consecrate in this manner : Upon the right branch they cut in
the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’ ; upon the middle, or
upright stem, the word ‘ Taranius 9 ; upon the left branch * Belenus * ;
over this, above the going off of the arms, they cut the name of the god
Thau ; under all, the same repeated, Thau ” YONI
There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which is known
as the “ Linga-Yoni.” It consists of a simple pillar in the centre of a
figure resembling the outline of a conical ear-ring. It is expressive of
the female genital organ both in shape and idea. The Greek letter “
Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a house.
Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means (i) the vulva,
(2) the womb, (3) the place of birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine,
a hole, or pit. As Asshur and Jupiter were the representatives of the
male potency, so Juno and Venus were representatives of the female
attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers
have generally spelled the word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/
As Lingam 24 Phallic Worship was the vocalised
cognomen of the male organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R.
P. Knight : “ The female organs of generation were revered as
symbols of the generative powers of nature or of matter, as those
of the male were of the generative powers of God. They are usually
represented emblematically by the shell Concha Veneris , which was
therefore worn by devout persons of antiquity, as it still continues to
be by the pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On
the worship of Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature
of the male Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta — a truly immaculate female — if the truth can be strained
to so denominate a mother . The pure virginity of the Celestial
Mother was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted
Virgin Mary now adored was born. We might infer that Solomon was
acquainted with the figure of the sistrum , when he said, “ A garden
enclosed is my spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of
Sol. iv. 12). The sistrum , we are told, was only used in the worship
of Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a contrite form,
or boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in the worship of
Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.
The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian monuments, and yet
more frequently on bas-reliefs. Phallic Worship
*3 Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father,
the Trinity ; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol,
Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma,
Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ;
the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others
; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus,
Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ;
the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark,
the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial
Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian,
and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are
two Phalli standing in the porch with this inscription on them, “ These
Phalli I, Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The
Papal religion is essentially the feminine, and built on the ancient
Chaldean basis. It clings to the female element in the person of the
Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such
worshippers, if there be any meaning in a concrete name. Bear in
mind, names and pictures perpetuate the faith of many peoples.
Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or El being God, one of the
unavoidable renderings of Naphtali is “the Yoni is my God,” or “I worship
the Celestial Virgin.” The Philistine towns generally had names
strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or esby means “ fire,
heat,” and dod means “ love, to love,” “ boiled up,” “ be agitated,” the
whole signifying “ the heat of love,” or “ the fire which impels to
union.” Could not those people exclaim, Our " God is love ” ?
(i John iv. 8). The amatory drift of Solomon’s song is
undisguised. 26 Phallic Worship though the
language is dressed in the habiliments of seem- ing decency. The burden
of thought of most of it bears direct reference to the Linga-Yoni. He
makes a woman say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of
S. i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “ I will go
up the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof ” (vii. 8).
Palm-tree and boughs are euphemisms of the male genitals.
HEBREW PHALLICISM The nations surrounding the Jews practising
the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not to
be supposed that the Jews escaped their influence. It is indeed certain
that the worship of the Phallics was a great and important part of the
Hebrew worship. This will be the more plainly seen when we bear
in mind the importance given to circumcision as a covenant between
God and man. Another equally suggestive custom among the Patriarchs was the
act of taking the oath, or making a sacred promise, which is
commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says :
“ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age was,
that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidendy arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe-
mistic expression thigh , was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue Phallic Worship 27
proceeds and the perpetuity so much coveted by the ancients.
Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ; Judges vii. 30. Hence the creative
organ became the symbol of the Creator , and the object of worship among
all nations of antiquity. It is for this reason that God claimed it
as a sign of the covenant between himself and his chosen people in the
rite of circumcision. Nothing therefore could render the oath more solemn
in those days than touching the symbol of creation, the sign of the
covenant, and the source of that issue who may at any future period
avenge the breaking a compact made with their progenitor.” From this we learn
that Abraham, himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as
an emblem of the Creator. We also learn that the rite of
circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From Herodotus we are
informed that the Syrians learned circumcision from the Egyptians, as did
the Hebrews. Says Dr. Inman : “I do not know anything which
illustrates the difference between ancient and modern times more than the
frequency with which circumcision is spoken of in the sacred books, and
the carefulness with which the subject is avoided now.” The
mutilation of male captives, as practised by Saul and David, was another
custom among the worshippers of Baal, Asshur, and other Phallic deities.
The practice was to debase the victims and render them unfit to
take part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be formed
of the esteem in which people in former times cherished the male or
Phallic emblems of creative power when we note the sway that power
exercised over them. If these organs were lost or disabled, the
unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of the
Lord, and disqualified to minister in the holy temples. Excessive
28 Phallic Worship punishment was
inflicted upon the person who had the temerity to injure the sacred
structure. If a woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut
off without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in
the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and prophetic
books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in
pieces the brazen serpent that Moses had made, for unto those days
the children of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred
groves here alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr.
Smith describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is
the name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great
Monarchies of the Ancient World, describes Ashera to imply something that
stood straight up, and probably its essential element was the stem of a
tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of
Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus,
sometimes erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and
Lingi. We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven
image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in
2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns
of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Greeks and
Romans, Phallic Worship *9 was
extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in his
name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected
an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived the temple
itself, for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he allowed the
Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important
work on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,
undoubtedly proves that during the monarchial period of Israel, the
sanguinary wars and violent conflicts between the two kingdoms of Judah
and Israel were between the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by
the priesthood at the chief places of worship, concerning the true
patriarch, and each party manufacturing and inserting legends to give a
more ancient and important part to its own faith. It is not
at all improbable that the conflict was between the two portions of the
Phallic faith, the Lingam and Yoni parties. The cause of this conflict
was the erection of the consecrated stones or pillars which were put
up by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar erected
by Jacob at Bethel was a pillar, for according to Bernstein the word
altar can only be used for the erection of a pillar. Jacob likewise set
up a Matzebah, or pillar of stone, in Gilead, and finally he set one up
upon the tomb of Rachel. A great portion of the facts have
been suppressed by the translators, who have given to the world
histories which have glossed over the ancient rites and practices
of the Jews. An instance is given by Forlong on the important
word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, “It should 30 Phallic
Worship not be, but I fear it is, necessary to explain to mere
English readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur
was the real old god of all Arabs , Jews, and Phoenicians, that this
would be clear to Christians were the Jewish writings translated
according to the first ideas of the people and Rock used as it ought to
be, instead of ‘ God/ * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur
occurs . Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship
of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations are addressed
to the Rock , instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars were also used
by the Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we find Jacob
setting up a pillar as a witness, that he would not pass over it.
Connected with this pillar worship is the ceremony of anointing by
pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob at Bethel. According
to Sir W. Forbes, in his Oriental Memoirs, the “ pouring of oil upon a
stone is practised at this day upon many a shapeless stone
throughout Hindostan.” Toland gives a similar account of the
Druids as practising the same rite, and describes many of the stones found
in England as having a cavity at the top made to receive the
offering. The worship of Baal like the worship of Priapus was attended
with prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work : “ The women of every rank and condition held it to be an
indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which, whether
little or much, was accepted, and applied to a sacred purpose.
Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of the stranger,
who had the liberty of choosing whom Phallic Worship
51 he liked. A woman once seated must remain until she has
been selected by a piece of silver being cast into her lap, and the rite
performed outside the temple.” Similar customs existed in Armenia,
Phrygia, and even in Palestine, and were a feature of the worship of
Baal Peor. The Hebrew prophets described and denounced these
excesses which had the same characteristics as the rites of the
Babylonian priesthood. The identical custom is referred to in 1 Sam. ii.
22, where “ the sons of Eli lay with the women that assembled at the door
of the tabernacle of the congregation.” Words and history
corroborate each other, or are apt to do so if contemporaneous. Thus
kadesh , or kaesb , designate in Hebrew “ a consecrated one,” and
history tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will
be shown in the sequel. That the religion was dominating and
imperative is determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous
refusal to listen to the priest was death to the offender. To us it is
inconceivable that the indulgence of passion could be associated with
religion, but so it was. Much as it is covered over by altered words and
substituted expressions in the Bible — an example of which see men
for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively bold. The
words expressive of “ sanctuary,” “ conse- crated,” and “ Sodomite,” are
in the Hebrew essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times ; and we find that “ holy women ” is a title given
to those who devote their bodies to be used for hire, the price of which
hire goes to the service of the temple. As a general rule, we
may assume that priests who make Phallic Worship
3 * or expound the laws, which they declare to be from
God, are men, and, consequently, through all time, have thought,
and do think, of the gratification of the masculine half of humanity. The
ancient and modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore ; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their establishments.
They had bands of consecrated dancing-girls called the Women of the Ido/,
selected in their infancy by the priests for the beauty of their persons,
and trained up with every elegant accomplishment that could render
them attractive. We also find David and the daughters of Shiloh
per- forming a wild and enticing dance ; likewise we have the
leaping of the prophets of Baal. It is again significant that a
great proportion of Bible names relate to “ divine,” sexual, generative,
or creative power ; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the
strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher, <c the male ” or “
the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah ” ; Eliab, “ the strong father
” ; Elisha, iC El is upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ;
Aram, " high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my
Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett, M son of firmness
” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan, Phallic Worship
33 “ he stands upright ” ; these are only a few of the
many names of a similar signification. It will be seen, from
what has been given, that the Jews, like the Phoenicians (if they were
not the same), had the same ceremonies, rites, and gods as the
surrounding nations, but enough has been said to show that Phallic
worship was much practised by the Jews. It was very doubtful whether the
Jehovah-worship was not of a monotheistic character, but those who desire
to have a further insight into the mysteries of the wars between
the tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH
MOTHER The following interesting chapter is taken from a
valuable book issued a few years ago anonymously : “ Mother Earth ”
is a legitimate expression, only of the most general type. Religious
genius gave the female quality to the earth with a special meaning. When
once the idea obtained that our world was feminine , it was easy to
induce the faithful to believe that natural chasms were typical of that
part which characterises woman. As at birth the new being emerges from
the mother, so it was supposed that emergence from a terrestrial
cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion to the
resemblance between the sign and the thing signified was the sacredness
of the chink, and the amount of virtue which was imparted by passing
through it. From natural caverns being considered holy, the veneration
for apertures in stones, as being equally symbolical, was a natural
c 34 Phallic Worship transition.
Holes, such as we refer to, are still to be seen in those structures
which are called Druidical, both in the British Isles and in India. It is
impossible to say when these first arose ; it is certain that they
survive in India to this day. We recognise the existence of the
emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to look “ to the
hole of the pit whence ye are digged.” We have also an indication that
chasms were symbolical among the same people in Isaiah lvii. 5 , where
the wicked among the Jews were described as “ inflaming themselves
with idols under every green tree, and slaying the children in the
valleys under the clefts of the rocks.” It is possible that the “ hole in
the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar signification. In modern Rome,
in the vestibule of the church close to the Temple of Vesta, I have seen
a large perforated stone , in the hole of which the ancient Romans
are said to have placed their hands when they swore a solemn oath, in
imitation, or, rather, a counterpart, of Abraham swearing his servant
upon his thigh — that is the male organ. Higgins dwells upon these holes,
and says : “ These stones are so placed as to have a hole under
them, through which devotees passed for religious purposes. There is one
of the same kind in Ireland, called St. Declau’s stone. In the mass of
rocks at Bramham Crags there is a place made for the devotees to
pass through. We read in the accounts of Hindostan that there is a
very celebrated place in Upper India, to which immense numbers of
pilgrims go, to pass through a place in the mountains called “ The Cow’s
Belly.” In the Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock
upon the surface of which there is a natural crevice, which
communicates with a cavity opening below. This place is used by the
Gentoos as a purification of their sins. Phallic Worship
35 which they say is effected by their going in at the
opening below, and emerging at the cavity above — “ born again.”
The ceremony is in such high repute in the neighbouring countries that
the famous Conajee Angria ventured by stealth, one night, upon the
Island, on purpose to perform the ceremony, and got off undiscovered. The
early Christians gave them a bad name, as if from envy ; they
called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p. 346)
BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans called the feasts of
Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus and Liber were the
names for the same god, although the festivals were celebrated at
different times and in a somewhat different manner. The latter, according
to Payne Knight, was celebrated on the 17th of March, with the most
licentious gaiety, when an image of the Phallus was carried openly
in triumph. These festivities were more particularly cele- brated
among the rural or agricultural population, who, when the preparatory
labour of the agriculturist was over, celebrated with joyful activity
Nature’s reproductive powers, which in due time was to bring forth the
fruits. During the festival a car containing a huge Phallus was
drawn along accompanied by its worshippers, who in- dulged in obscene
songs and dances of wild and extrava- gant character. The gravest and
proudest matrons suddenly laid aside their decency and ran
screaming among the woods and hills half-naked, with dishevelled
hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.
}6 Phallic Worship The Bacchanalian feasts were
celebrated in the latter part of October when the harvest was completed.
Wine and figs were carried in the procession of the Bacchants, and
lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called canephora
, who carried baskets of fruit. These were followed by a company of men
who carried poles, at the end of which were figures representing the
organ of generation. The men sung the Phallica and were crowned
with violets and ivy, and had their faces covered with other kinds of
herbs. These were followed by some dressed in women’s apparel, striped
with white, reaching to their ancles, with garlands on their heads, and
wreaths of flowers in their hands, imitating by their gestures the
state of inebriety. The priestesses ran in every direction shouting and
screaming, each with a thyrsus in their hands. Men and women all
intermingled, dancing and frolicking with suggestive gesticulations.
Deodorus says the festivals were carried into the night, and it was
then frenzy reached its height. He says, “ In performing the
solemnity virgins carry the thyrsus, and run about frantic, halloing ‘
Evoe ’ in honour of the god ; then the women in a body offer the
sacrifices, and roar out the praises of Bacchus in song as if he were
present, in imitation of the ancient Maenades, who accompanied him.”
These festivities were carried into the night, and as the
celebrators became heated with wine, they degenerated into extreme
licentiousness. Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the
Luper- calian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the
shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his Worship of
Serpents , on the morning of the Feast ran naked through the streets,
striking the married women they met on the hands and belly, which was
held as an Phallic Worship 37 omen
promising fruitfulness. The nymphs performing the same ostentatious
display as the Bacchants at the festival of Bacchanalia. The
festival of Venus was celebrated towards the begin- ning of April, and
the Phallus was again drawn in a car, followed by a procession of Roman
women to the temple of Venus. Says a writer, “ The loose women of the
town and its neighbourhood, called together by the sounding of
horns, mixed with the multitude in perfect nakedness, and excited their
passions with obscene motions and language until the festival ended in a
scene of mad revelry, in which all restraint was laid aside.”
It is said that these festivals took their rise from Egypt, from
whence they were brought into Greece by Metampus, where the triumph of
Osiris was celebrated with secret rites, and from thence the Bacchanals
drew their original ; and from the feasts instituted by Isis came the
orgies of Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS It
seems not at all improbable that the deities wor- shipped by the ancient
Britons and the Irish, were no other then the Phallic deities of the
ancient Syrians and Greeks, and also the Baal of the Hebrews.
Dionysius Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,
states that the rites of Bacchus were celebrated in the British Isles ;
while Strabo, who lived in the time of Augustus and Tiberius, asserts
that a much earlier writer described the worship of the Cabiri to have
come originally 3 « Phallic Worship
from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids, says, the
supreme god above the rest was called Seodhoc and Baal. The name of Baal
is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew
Baal. The same god, according to O’Brien, was the chief deity
of the Irish, in whose honour the round towers were erected, which
structures the ancient Irish themselves designated Bail-toir, or the
towers of Baal. In Numbers, xxii, will be found a mention of a similar
pillar consecrated to Baal. Many of the same customs and
superstitions that existed among the Druids and ancient Irish, will
likewise be found among the Israelites. On the first day of May, the
Irish made great fires in honour of Baal, likewise offering him
sacrifices. A similar account is given of a custom of the Druids by
Toland, in an account of the festival of the fires ; he says : — “ on
May-day eve the Druids made prodigious fires on these earns, which
being everyone in sight of some other, could not but afford a glorious
show over a whole nation.” These fires are said to be lit even to the
present day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called by
them Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as given
them in the Highlands of Scotland. A similar practice to this will
be noticed as mentioned in the II Book of Kings, where the Canaanites in
their worship of Baal, are said to have passed their children through
the fire of Baal, which seems to have been a common practice, as
Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the same thing. Higgins
in his Anacalypsis y says this super- stitious custom still continues,
and that on “ particular days great fires are lighted, and the fathers
taking the children in their arms, jump or run through them, and
thus pass their children through them ; they also light Phallic
Worship 39 two fires at a little distance from each
other, and drive their cattle between them.” It will be found on
reference to Deuteronomy, that this very practice is specially for-
bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred fire of the Irish ;
of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and of India, accompanied with an
establishment of nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have
been kept burning by the nuns of Kildare, which was established by
St. Bridget. This fire was never blown with the mouth, that it might not
be polluted, but only with bellows ; this fire was similar to that of the
Jews, kept burning only with peeled wood, and never blown with the
mouth. Hyde describes a similar fire which was kept burning in the same
way by the ancient Persians, who kept their sacred fire fed with a
certain tree called Hawm Mogorum ; and Colonel Vallancey says the sacred
fire of the Irish was fed with the wood of the tree called Hawm.
Ware, the Romish priest, relates that at Kildare, the glorious Bridget
was rendered illustrious by many miracles, amongst which was the sacred
fire, which had been kept burning by nuns ever since the time of
the Virgin. The earliest sacred places of the Jews were
evidently sacred stones, or stone circles, succeeded in time by
temples. These early rude stones, emblems of the Creator, were erected by
the Israelites, which in no way differed from the erections of the
Gentiles. It will be found that the Jews to commemorate a great victory,
or to bear witness of the Lord, were all signified by stones : thus,
Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob put up a stone to make a
place sacred ; Abel set up the same for a place of worship ; Samuel
erected a stone as a boundary, which was to be the token of an agreement
40 Phallic Worship made in the name of
God. Even Maundrel in his travels names several that he saw in Palestine.
It is curious that where a pillar was erected there, sometime after, a
temple was put up in the same manner that the Round Towers of
Ireland were, — always near a church, but never formed part of it. We
find many instances in the Scriptures of the erection of a number of
stones among the early Israelites, which would lead us to conclude that
it was not at all unlikely that the early places of worship among them,
were similar to the temples found in various parts of Great Britain
and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in
the morning, and builded an altar under the hill, and twelve pillars,
according to the twelve tribes of Israel, were erected. It is also
given out that when the children of Israel should pass over the Jordan,
unto the land which the Lord giveth them, they should set up great
stones, and plaster them with plaster, and also the words of the law were
to be written thereon. In many other places stones were ordered to
be set up in the name of the Lord, and repeated instances are given that
the stones should be twelve in number and unhewn. Stone
temples seem to have been erected in all countries of the world, and even
in America, where, among the early American races are to be found
customs, superstitions, and religious objects of veneration, similar to
the Phoenicians. An American writer says : — “ There is sufficient
evidence that the religious customs of the Mexicans, Peruvians and other
American races, are nearly identical with those of the ancient
Phoenicians. . . . We moreover discover that many of their religious
terms have, etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his
Worship of Priapus, devotes much of his work to Phallic
Worship 4i show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was simply
a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS
Of all the nations of antiquity the Persians were the most simple
and direct in the worship of the Creator. They were the puritans of the
heathen world, and not only rejected all images of God and his agents,
but also temples and altars, according to Herodotus, whose
authority we prefer to any other, because he had an opportunity of
conversing with them before they had adopted any foreign superstitions.
As they worshipped the ethereal fire without any medium of
personification or allegory, they thought it unworthy of the dignity
of the god to be represented by any definite form, or cir-
cumscribed to any particular place. The universe was his temple, and the
all-pervading element of fire his only symbol. The Greeks appear originally
to have held similar opinions, for they were long without statues
and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by Adrastus — who
lived in an age before the Trojan war — which consisted of columns only,
without wall or roof, like the Celtic temples of our northern ancestors,
or the Phyrcetheia of the Persians, which were circles of stones in
the centre of which was kindled the sacred fire, the symbol of the god.
Homer frequently speaks of places of worship consisting of an area and altar
only, which were probably enclosures like those of the Persians, with
an 42 Phallic Worship altar in the
centre. The temples dedicated to the creator Bacchus, which the Greek
architects called hypathral , seem to have been anciently of this kind,
whence probably came the title (“ surround with columns ”)
attributed to that god in the Orphic litanies. The remains of one
of these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the
inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments of grapes,
vases, etc., found among the ruins, prove it to have been of Bacchus.
Serapis was indeed the same deity worshipped under another form, being
usually a personification of the sun. The architecture is of the
Roman times ; but the ground plan is probably that of a very ancient one,
which this was made to replace — for it exactly resembles that of a
Celtic temple in Zeeland, published in Stukeley’s Itinerary. The ranges
of square buildings which enclose it are not properly parts of the
temple, but apartments of the priests, places for victims and sacred
utensils, and chapels dedicated to the sub- ordinate deities, introduced
by a more complicated and corrupt worship and probably unknown to the
founder of the original edifice. The portico, which runs parallel
with these buildings, encloses the temenss , or area of sacred ground,
which in the pyratheia of the Persians was circular, but is here
quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland, and the Indian pagoda
before described. In the centre was the holy of holies, the seat of the
god, consisting of a circle of columns raised upon a basement,
without roof or walls, in the middle of which was probably the sacred
fire or some other symbol of the deity. The square area in which it stood
was sunk below the natural level of the ground, and, like that of the
Indian pagoda, appears to have been occasionally floated with
water; the drains and conduits being still to be seen, as also
several Phallic Worship 43
fragments of sculpture representing waves, serpents, and various aquatic
animals, which once adorned the basement. The Bacchus here worshipped,
was, as we learn from the Orphic hymn above cited, the sun in his
character of extinguisher of the fires which once pervaded the
earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters of
the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed to
have acquired its proper temperature and fertility. For this reason the
sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the
element which was principally employed in giving effect to the
beneficial exertion* of the great attribute. From a passage
of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that Stonehenge
and all the monu- ments of the same kind found in the north, belong to
the same religion which appears at some remote period to have
prevailed over the whole northern hemisphere. According to that ancient
historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul , as large as
Sicily , in which Apollo was worshipped in a circular temple considerable
for its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of the
Greeks of that age, can mean no other than the sun, which according to
Caesar was worshipped by the Germans, when they knew of no other deities
except fire and the moon. The island can evidently be no other than
Britain, which at that time was only known to the Greeks by the
vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain and obscure
that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians, doubts
of its existence. The circular temple of the sun being noticed in such
slight and imperfect accounts, proves that it must have been some-
thing singular and important ; for if it had been an inconsiderable
structure, it would not have been mentioned 44
Phallic Worship at all ; and if there had been many such in the
country, the historian would not have employed the singular
number. Stonehenge has certainly been a circular temple,
nearly the same as that already described of the Bacchus at
Puzznoli, except that in the latter the nice execution and beautiful
symmetry of the parts are in every respect the reverse of the rude but
majestic simplicity of the former. In the original design they differ but
in the form of the area. It may therefore be reasonably supposed that
we have still the ruins of the identical temple described by
Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have received his information
from Phoenician merchants, who had visited the interior parts of Britain
when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of the same
kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated to the
sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of stone
found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and near
Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name . — Payne Knight* s Worship of
Priapus. BUNS AND RELIGIOUS CAKES Says Hyslop : — “
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter
Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of the
Phallic Worship 45 Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says : — “ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual
organs, but that they were so in ancient times we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein
the female part is commemorated ; the cakes being made of the finest
flour, and kept especially for the palate of the fair one.
Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365) says : — “
When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses, they offered
cakes called mullot , shaped like the female organ, and in some temples
where the priestesses were probably ventriloquists, they so far imposed
on the credulous multitude who came to adore the Vulva as to make
them believe that it spoke and gave oracles.” We can understand how
such things were allowed in licentious Rome, but we can scarcely
comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to all
innocent surprise we find they were, from the second part of the “
Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in the
neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in 46
Phallic Worship the form of the Phallus are made as
offerings at Easter, carried and presented from house to house.
Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in the
town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the privy
members — and that during its continuance the women and children carried
in the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne, at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at B
rives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and
other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of
the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews, and
like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of construction
the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the Egyptians
were Phallic Worship 47 exactly
alike, and were carried in processions in a similar manner
The ark or chest of Osiris was attended by the priests, and was
borne on the shoulders of men by means of staves. The ark when taken from
the temple was placed upon a table, or stand, made expressly for the
purpose, and was attended by a procession similar to that which
followed the Jewish ark. According to Faber, the ark was a symbol of the
earth or female principle, containing the germ of all animated nature,
and regarded as the great mother whence all things sprung. Thus the
ark, earth, and goddess, were represented by common symbols, and
spoken of in the old Testament as the “ ashera.” The sacred emblems
carried in the ark of the Egyptians were the Phallus, the Egg, and the
Serpent ; the first representing the sun, fire, and male or generative
principle — the Creator ; the second, the passive or female, the germ
of all animated things — the Preserver ; and the last the Destroyer : the
Three of the sacred Trinity. The Hindu women, according to Payne Knight,
still carry the lingam, or consecrated symbol of the generative
attribute of the deity, in solemn procession between two serpents ; and
in a sacred casket, which held the Egg and the Phallus in the mystic
processions of the Greeks, was also a Serpent. “ The ark,”
says Faber, “ was reverenced in all the ancient religions.” It was often
represented in the form of a boat, or ship, as well as an oblong chest.
The rites of the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan,
show that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important
place in their mysteries. In the story of Osiris, like that of the Siva,
will be found the reason for the emblem being carried in the sacred
chest, and the explanation of one of 4 «
Phallic Worship the mysteries of the Egyptian priests. It is said
that Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who after
cutting up the body, distributed the parts over the earth. Isis recovered
the scattered limbs, and brought them back to Egypt ; but, being unable
to find the part which distinguished his sex, she had an image made
of wood, which was enshrined in an ark, and ordered to be solemnly
carried about in the festivals she had instituted in his honour, and
celebrated with certain secret rites. The Egg, which accompanied
the Phallus in the ark was a very common symbol of the ancient faiths,
which was considered as containing the generation of life. The
image of that which generated all things in itself. Jacob Bryant says : —
“ The Egg, as it contained the principles of life was thought no improper
emblem of the ark, in which were preserved the future world. Hence in
the Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal
ceremony consisted in the consecration of an egg.” This egg was called
the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of salvation, the
place of safety, the secret receptacle of the divine wisdom. Hence
we find the ark of the Jews containing the tables of the law ; we find
too that the Jews were ordered to place in the ark Aaron’s rod, which
budded, conveying the idea of symbolised fertility : showing that the
ark was considered as the receptacle of the life principle — as an
emblem of the Creator. With the Egyptians Osiris was supposed to be
buried in the ark, which represented the disappearance of the
deity. His loss, or death, constituted the first part of the
mysteries, which consisted of lamentations for his decease. After
the third day from his death, a procession went down to the seaside
in the night, carrying the ark with them. During Phallic
Worship 49 the passage they poured drink offerings
from the river, and when the ceremony had been duly performed, they
raised a shout that Osiris had again risen — that the dead had been
restored to life. After this followed the second or joyful part of the
mysteries. The similarity of this custom with the Good Friday
celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on account of his
resurrection on Easter Sunday, will be at once observed. It is further
said that the missing part of Osiris was eaten by a fish, which made the
fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good Friday
brought together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs is very
ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn, which
signified the liberating of imprisoned life at the opening or spring
of the year, 'which had been destroyed by Typhon. The opening of
the year at that time commenced in the spring, pot according to our
present reckoning ; thus, the Egg was a symbol of the resurrection of
life at the spring, or our Easter time. The author of the “ Worship of
the Generative Powers,” describes the origin of the hot cross- bun
at Easter, which is a further parallelism of the Christian and Pagan
festivals. The author also draws a further conclusion — that the cakes or
buns have in reality a Phallic origin, for in France and other parts, the
Easter cakes were called after the membrun virile. The writer says
: — “ In the primitive Teutonic mythology, there was a female deity named
in old German, Ostara, and in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we
know of her is the simple statement of our father of history, Bede,
that her festival was celebrated by the ancient Saxons in the month of
April, from which circumstance that month was named by the Anglo-Saxons,
Easter-mona or Eoster- mona, and that the name of the goddess had been
frequently 50 Phallic Worship
given to the Paschal time, with which it was identical. The name of this
goddess was given to the same month by the old Germans and by the Franks,
so that she must have been one of the most highly honoured of the
Teutonic deities, and her festival must have been a very important
one and deeply implanted in the popular feelings, or the Church would not
have sought to identify it with one of the greatest Christian festivals
of the year. It is under- stood that the Romans considered this month as
dedicated to Venus, no doubt because it was that in which the
productive powers of nature began to be visibly developed. When the Pagan
festival was adopted by the Church, it became a moveable feast, instead
of being fixed to the month of April. Among other objects offered to
the goddess at this time were cakes, made no doubt of fine flour,
but of their form we are ignorant. The Christians when they seized upon
the Easter festival, gave them the form of a bun, which indeed was at
that time the ordinary form of bread ; and to protect themselves and
those who ate them from any enchantment — or other evil influences
which might arise from their former heathen character — they marked them
with the Christian symbol — the cross. Hence we derived the cakes we
still eat at Easter under the name of hot cross-buns, and the
superstitious feelings attached to them ; for multitudes of people still
believe that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,
they would be unlucky all the rest of the year.” Phallic
Worship 5 * ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM
THE LOTUS The earliest capital seems to have been the bell
or seed vessel, simply copied without alteration, except a little
expansion at the bottom to give it stability. The leaves of some other
plant were then added to it, and varied in different capitals according
to the different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit, being
fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo ; its capital being the same •eed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and Phallic Worship 5
Z dry — the only state probably in which it had been seen in
Europe. The flutes in the shaft were made to hold spears and staves,
whence a spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ” as part of a
column. The triglyphs and blocks of the cornice were also derived from
utility, they having been intended to represent the projecting ends
of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic capital
has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which have
the same symbolical meaning. To them is frequently added the ornament
which architects call a honeysuckle, but which seems to be meant
for the young petals of the same flower viewed horizontally, before they
are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars . — Payne Knight . BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP
Stripped, however, of all this splendour and magnifi- cence it was
probably nothing more than a symbolical instrument, signifying originally
the motion of the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of
Cybele, the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have
overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her
sistrum, and the ringing of the bells and clatter of metals were almost
universally employed as a means of consecration, and a charm against
the Phallic Worship 53 destroying
and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon with such noises,
which the simplicity of the early ages employed almost everywhere to
relieve her during eclipses, supposed then to be morbid affections
brought on by the influence of an adverse power. The title Priapus y by
which the generative attribute is dis- tinguished, seems to be merely a
corruption of Briapuos (clamorous) ; the beta and pi being commutable letters,
and epithets of similar meaning, being continually applied both to
Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too, still
extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are ; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the
phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the high
priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments ; and the Brahmins still continue to ring a small bell at
the interval of their prayers, ablutions, and other acts of
devotion ; which custom is still preserved in the Roman Catholic Church at
the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or
pan, on the death of their kings, and we still retain the custom of
tolling a bell on such occasions, though the reason of it is not
generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing . 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight's "Symbolical Language of ancient
Art and Mythology." Phallic Worship
54 monks for over 2,000 years. Tinkling bells were suspended
before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the gods were
invited to descend upon the altars by the ringing of bells ; they were
likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,
and were worn on the garments of the Bacchantes, much in the same manner
as they are used at our carnivals and masquerades. HINDU
PHALLICISM The following curious fable is given by Sir
William Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin
of Phallic devotion : — “ Certain devotees in a remote time had
acquired great renown and respect, but the purity of the art was wanting,
nor did their motives and secret thoughts correspond with their
professions and exterior conduct. They affected poverty, but were
attached to the things of this world, and the princes and nobles were
constantly sending their offerings. They seemed to sequester them-
selves from this world ; they lived retired from the towns ; but their
dwellings were commodious, and their women numerous and handsome. But
nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to
shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him ; and assumed
the appearance of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a
damsel of matchless worth. She went before the devotees who were
assembled with their disciples, awaiting the rising of the sun, to
perform their ablutions and religious ceremonies. As she advanced
Phallic Worship 55 the refreshing breeze
moved her flowing robe, showed the exquisite shape which it seemed
intended to conceal. With eyes cast down, though sometimes opening with
a timid but tender look, she approached them, and with a low
enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice. The devotees
gazed on her with astonishment. The sun appeared, but the purifications
were forgotten ; the things of the Poo j ah (worship) lay neglected ;
nor was any worship thought of but that of her. Quitting the
gravity of their manners, they gathered round her as flies round the lamp
at night — attracted by its splendour, but consumed by its flame. They
asked from whence she came ; whither she was going. ‘ Be not
offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves ; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight ; the vow was forgotten, and the policy
of years destroyed. “ Whilst the devotees were lost in their
passions, and absent from their homes, Sheevah entered their
village with a musical instrument in his hand, playing and singing
like some of those who solicit charity. At the sound of his voice, the
women immediately quitted their occupation ; they ran to see from whom it
came. He was as beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped
their jewels without turning to look for them ; others let fall
their garments without perceiving that they discovered those abodes of
pleasure which jealousy as well as decency Phallic Worship
56 had ordered to be concealed. All pressed forward
with their offerings, all wished to speak, all wished to be taken
notice of, and bringing flowers and scattering them before him, said — ‘
Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou whose
countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose I Stay with us and we will serve thee ; nor will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee/ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .
“ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep
closed the eyes and lulled the senses. In the morning the Pandaram was
gone. When they awoke they looked round with astonishment, and again
cast their eyes on the ground. Some directed to those who had
formerly been remarked for their scrupulous manners, but their faces were
covered with their veils. After sitting awhile in silence they arose and
went back to their houses, with slow and troubled steps. The
devotees returned about the same time from their wanderings after
Prakeety. The days that followed were days of embarrass- ment and shame.
If the women had failed in their modesty, the devotees had broken their
vows. They were vexed at their weakness, they were sorry for what
they had done ; yet the tender sigh sometimes broke forth, and the eyes
often turned to where the men first saw the maid — the women, the
Pandaram. “But the women began to perceive that what the
devotees foretold came not to pass. Their disciples, in consequence,
neglected to attend them, and the offerings from the princes and nobles
became less frequent than Phallic Worship
57 before. They then performed various penances ; they
sought for secret places among the woods unfrequented by man ; and having
at last shut their eyes from the things of this world, retired within
themselves in deep meditation, that Sheevah was the author of their
misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of bowing the
head with humility, they were inflamed with anger ; instead of contrition
for their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. “ Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing them-
selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another,
and sent serpents against him of the most deadly kind ; but on
approaching him they became harmless, and he twisted them round his neck.
They then sent their curses and imprecations against him, but they
all recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire with indignation against the human race ; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties
JS Phallic Worship Sheevah relented ; but it
was ordained that in his temples those parts should be worshipped \ which
the false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country
implies. Of the same kind, too, appears to have been the cross in the
form of the letter tau> attached to a circle, which many of the
figures of Egyptian deities, both male and female, carry in their left
hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of
Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as the
emblem or image of that goddess. The cross in this form is sometimes
observable on coins, and several of them were found in a temple of
Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by the
Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of
that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. Phallic Worship 59
BEADS Beads were anciently used to reckon time, and a circle,
being a line without termination, was the natural emblem of its perpetual
continuity ; whence we often find circles of beads upon the heads of
deities, and enclosing the sacred symbols upon coins and other
monuments. Perforated beads are also frequently found in tombs, both
in the northern and southern parts of Europe and Asia, whence are
fragments of the chaplets of consecration buried with the deceased. The
simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of sovereignty,
had a similar meaning, and was originally confined to the statues
of deities and deified personages, as we find it upon the most ancient
coins. Chryses, the priest of Apollo, in the “ Iliad,” brings the diadem,
or sacred fillet, of the god upon his sceptre, as the most imposing and
invocable emblem of sanctity ; but no mention is made of its being
worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any other ensign of
temporal power and command, except the royal staff or sceptre.
THE LOTUS The double sex typified by the Argha and its
contents is by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or Lotus,
floating like a boat on the boundless ocean, where the whole plant
signifies both the earth and the two principles of its fecundation. The
germ is both Meru and the Linga ; the petals and filaments are the mountains
6o Phallic Worship which encircle Meru,
and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx are the four
vast regions to the cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant
are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this plant or
lily was probably the most celebrated of all the vegetable creation among
the mystics of the ancient world, and is to be found in thousands of the
most beautiful and sacred paintings of the Christians of this day — I
detain my reader with a few observations respecting it. This is the
more necessary as it appears that the priests have now lost the meaning
of it ; at least this is the case with everyone of whom I have made
enquiry ; but it is like many other very odd things, probably understood
in the Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among
the different plants which ornament our globe, there is not one
which has received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : — “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant
grows in the water, among its broad leaves puts forth a flower, in the
centre of which is formed the seed vessel. Phallic
Worship 6x shaped like a bell or inverted cone, and
perforated on the top with little cavities or cells, in which the seeds
grow. The orifices of these cells being too small to let the seeds
drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the places where
they are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix to nourish
them, until they acquire such a degree of magnitude as to burst it open
and release themselves, after which, like other aquatic weeds, they
take root wherever the current deposits them. This plant, therefore,
being thus productive of itself, and vegetating from its own matrix,
without being fostered in the earth, was naturally adopted as the symbol
of the productive power of the waters, upon which the active spirit
of the Creator operated in giving life and vegetation, to matter. We
accordingly find it employed in every part of the northern hemisphere,
where the symbolical religion, improperly called idolatry , does or ever
did prevail. The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and
Indians are almost placed upon it, of which numerous instances
occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India
is represented as sitting upon his Lotus throne, and the figure upon the
Isaaic table holds the stem of this plant surmounted by the seed vessel
in one hand, and the Cross representing the male organs of
generation in the other ; thus signifying the universal power, both
active and passive, attributed to that goddess.” Nimrod says : — “
The Lotus is a well-known allegory, of which the expansive calyx
represents the ship of the gods floating on the surface of the water ;
and the erect flower arising out of it, the mast thereof. The one
was the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;
but as the ship was Isis or Magna Mater, the female principle, and the
mast in it the male deity, these parts of 62
Phallic Worship the flower came to have certain other
significations, which seem to have been as well known at Samosata as at
Benares. This plant was also used in the sacred offices of the
Jewish religion. In the ornaments of the temple of Solomon, the
Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis is frequently
represented holding the stem of the plant in one hand, and the cross and
circle in the other. Columns and capitals resembling the plant are
still existing among the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of
Philce. The Chinese goddess, Pussa, is represented sitting upon the
Lotus, called in that country Lin, with many arms, having symbols
signifying the various operations of nature, while similar attributes are
expressed in the Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus
is also a prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant
appears to have the same tendency with the Sphinx, of marking the
connection between that which produces and that which is produced.
The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant
is acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients : — “ We find Brahma emerging from
the Lotus. The whole universe was dark and covered with water. On this
primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose for the
space of one Calpho (a thousand years) ; after which period the intention
of creating other beings for his own wise purposes became pre-
dominant in the mind of the Great Creator . In the first
Phallic Worship 65 place, by his sovereign will
was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the same will, was
brought to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,
emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the four sides,
and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable expanse of
water. Observing the whole world thus involved in darkness and submerged
in water, he was stricken with prodigious amazement, and began to
consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? * * whence came I ?
9 ' and where ami?’ “ Brahma, thus kept two hundred years in
contem- plation, prayers, and devotions, and having pondered in his
mind that without connection of male and female an abundant generation
could not be effected — again entered into profound meditation on the
power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest
me from nonentity into existence for a particular purpose,
accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small
white boar appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now
felt God in all, and that all is from Him, and all in Him. At length
the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began
to use the instinct of that animal. Having divided the water, he saw the
earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous
globe (freed from the water) and spread the earth like a carpet on
the face of the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed
due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling 6 4 Phallic Worship the
renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first land said to have
appeared, but with the Brahmins it is a disputed point, for many affirm
that Cast or Benares was the sacred ground. MERU
The learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten
hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and
Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks.
Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which
because mounts of Venus, mons veneris — Meru and Mount Calvary — each a
slightly skull-shaped mount, that might be represented by a bare head.
The Bible translators perpetuate the same idea in the word “ calvaria.”
Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name from its
being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in
earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women, the
Mount of Venus, mons veneris > through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The
priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To
make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet,
it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or
Arba. Phallic Worship 65 LINGAM IN THE TEMPLE OF
ELORA This marvellous work of excavation by the slow process
of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a
volume describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than
Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual invocations
to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented by female
votaries, who take especial care to keep it clean E
66 Phallic Worship washed, and often perfume it
with oderiferous oils and flowers, whilst the attendant Brahmins sweep
the apartment and attend the five oil lights and bell ringing.” This
oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the
light itself was placed. No symbol was more venerated or more frequently
met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “ Barren women
constantly resort to it to supplicate for children,” says Seeley. The
mysteries attended upon them is not described, but doubtless they
were of a very similar character to those described by the author of the
“ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,” showing again
the similarity of the custom with those practised by the Catholics in
France. The writer says : — “ Women sought a remedy for barren-
ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they appear to have
placed a part of their body, naked, against the image of the saint, or to
have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold an adoption of
the indecencies of Pagan worship to last long, or to be practised openly
; but it appears to have been innocently represented by lying upon
the body of the saint, or sitting upon a stone, understood to represent
him without the presence of the energetic member. In a corner in the
church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is
a stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity
upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing should intervene
between their bare skin and the stone. In the church of Orcival in
Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the same
purpose and which had perhaps replaced some less equivocal object.”
The principal object of worship at Elora is the stone, so
frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he apologises for
using the word so often, but asks to be Phallic
Worship 67 excused, “ is an emblem not generally
known, but as frequently met with as the Cross in Catholic
worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative character,
the base of which is usually inserted in the Yoni. The stone is of a
conical shape, often black stone, covered with flowers (the Bella and
Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the Ling stone
to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same as
the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in the worship at
the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is often seen on the
top of the Ling. VENUS-URANIA. — THE MOTHER GODDESS
The characteristic attribute of the passive generative power was
expressed in symbolical writing, by different enigmatical representations
of the most distinguished characteristic of the female sex : such as the
shell or Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter
Delta, all of which occur very frequently upon coins and other ancient
monuments in this sense. The same attribute personified as the goddess of
Love, or desire, is usually represented under the voluptuous form of
a beautiful woman, frequently distinguished by one of these
symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of rather
uncertain mythology. She is said to be the daughter of Jupiter and Dione,
that is of the male and female personifications of the all-pervading
Spirit of the Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and
there- fore associated with him in the most ancient oracular
68 Phallic Worship temple of Greece at Dodona.
No other genealogy appears to have been known in the Homeric times ;
though a different one is employed to account for the name of
Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The
Genelullides or Genoidai were the original and appropriate ministers or
companions of Venus, who was however, afterwards attended by the Graces,
the proper and original attendants of Juno ; but as both these goddesses
were occasionally united and represented in one image, the
personifications of their respective sub- ordinate attributes were on
other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at Paphos
had a beard, and other appearances of virility, which seems to have
been the most ancient mode of representing the celestial as distinguished
from the popular goddess of that name — the one being a personification
of a general procreative power, and the other only of animal desire
or concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when
advanced to maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them
; and, in a celebrated work of Phidias, we find the former represented
with her foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of
Scopas, the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an
androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ;
and the goat was equally appropriate to what was meant to be expressed in
the other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the
Phallic Worship 69 Phallus in the ancient
processions in honour of Bacchus, and still continuing among the common
people of Italy to be an emblem of what it anciently meant : whence
we often see portraits of persons of that country painted with it in one
hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also
arose the Italian expression far la fica , which was done by putting the
thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna- ments extant ; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a representation
in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved among the
Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF THE
WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still prevails
among those nations whose religion is founded on the same
principles. “ The Siamese,” says a traveller of the seventeenth century,
“ shun disputes and believe that almost all religions are good ” (“
Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he
replied, “ that it was strange that the king of France should interest
himself so much in an affair which concerns only God, whilst He, whom it
did concern, seemed to leave it wholly to our discretion. Had it been
agreeable to the Creator that all nations should have had the same
form of worship, would it not have been as easy to His omnipotence to
have created all men with the same send- 7 °
Phallic Worship merits and dispositions, and to have inspired them
with the same notions of the True Religion, as to endow them with
such different tempers and inclinations ? Ought they not rather to
believe that the true God has as much pleasure in being honoured by a
variety of forms and ceremonies, as in being praised and glorified by a
number of different creatures ? Or why should that beauty and
variety, so admirable in the natural order of things, be less
admirable or less worthy of the wisdom of God in the supernatural ?
” The Hindus profess exactly the same opinion. “ They would
readily admit the truth of the Gospel,” says a very learned writer long
resident among them, “ but they contend that it is perfectly consistent
with their Shastras. The Deity, they say, has appeared innumerable times
in many parts of this world and in all worlds, for the salvation of
his creatures ; and we adore, they say, the same God, to whom our several
worships, though different in form, are equally acceptable if they be
sincere in substance.” The Chinese sacrifice to the spirits of the
air the mountains and the rivers ; while the Emperor himself
sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all these spirits are
subordinate, and from whom they are derived. The sectaries of Fohi have,
indeed, surcharged this primitive elementary worship with some of
the allegorical fables of their neighbours ; but still as their
creed — like that of the Greeks and Romans — remains undefined, it admits
of no dogmatical theology, and of course no persecution for opinion.
Obscure and sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed
on many occasions ; but still as actions and not as opinions.
Atheism is said to have been punished with death at Athens ; but
nevertheless it may be reasonably doubted Phallic Worship
7i whether the atheism, against which the citizens of
that republic expressed such fury, consisted in a denial of the
existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly for this
crime, was accused of revealing and calum- niating the doctrines taught
in the Mysteries ; and from the opinions ascribed to Socrates, there is
reason to believe that his offence was of the same kind, though he had
not been initiated. These were the only two martyrs to
religion among the ancient Greeks, such as were punished for actively
violating or insulting the Mysteries, the only part of their
worship which seems to have possessed any vitality ; for as to the
popular deities, they were publicly ridiculed and censured with impunity
by those who dared not utter a word against the populace that worshipped
them ; and as to the forms and ceremonies of devotion, they were
held to be no otherwise important, then as they were constituted a part
of civil government of the state ; the Phythian priestess having
pronounced from the tripod, that whoever performed the rites of his
religion according to the laws of his country , performed them in a
manner pleasing to the Deity . Hence the Romans made no alterations in
the religious institutions of any of the conquered countries ; but
allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased,
and to enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. 7* Phallic
Worship The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist ot
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. <c
Even they who worship other gods , says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they
know it notP — Payne Knight. THE END. Giorgio Colli. Colli.
Keywords: espressione, L’Apollo romano,
L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma
filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia,
l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio
bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice,
self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism,
the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon , the symbolism of the
promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow,
Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably
passed it’ – ‘the lake’ the grave. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686202260/in/photolist-2mSEtHs-2mSMmGg-2mSsmMU-2mRjrN1-2mQPiYS-2mQAguG-2mQxzwE-2mQjVch-2mPTNKh-2mPJYbw-2mPvJmk-2mNzeEc-2mN1wvj-2mMZzKx-2mMRLT9-2mPnLLb-2mLD3NK-2mKTjot-2mLznXk-2mKDUFV-2mKSk8n-2mKM1De-2mPYoE5-2mKG3XG-2mKRy6y-2mKRu2r-2mKbok1-2mJpFSS-CkaHMd-hSTpSd-2mKfEK1-2mKj3f2-2mKkidh-2mKbDfw-2mKgF2t-2cu7Hur-DcDDsS-AJp6ja-jkW6UL-jkLbzM-jkL81T-jkTfPx-jkTLNG-jkMzHr-jkNwNs-jfXqCL-jhL2qR-jhLapC-hJHSQv-hJGf7v
Grice e Collini – naturalismo e naturismo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love
birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice
drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile
famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come
scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus,
un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante
le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the
conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of
the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends
(Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no
choice!”. Altro Italiano non ricordato dal
Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo
Alessandro Collini, nato a Firenze. Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa,
aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della
marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi
fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non
ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della
Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza,
attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta
a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene
e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare
un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte
ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una
celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso
Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il
Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon
secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable,
tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca.
Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe
regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper
una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che
tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle
raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo
fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi
sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di
mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands,
pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla
letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole
residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche
altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun
gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del (2) Il
COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites
que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la
fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile
vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare
tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei
primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il
primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo
Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla
luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della
"Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie"
(l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di
Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato
affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim,
probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare
litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e
l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato
in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato
acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò
potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu
descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto
come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un
fossile di crostaceo.[19] Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno
stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione
del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In
realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma
lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più
avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri
fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui
lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato
"Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini
con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse
fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici
(come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e
mammiferi.[21] Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad
opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che
per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus
venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800,
Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del
fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di
Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra;
in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e
gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a
Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui
non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi
di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita
l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo.
Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine
del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il
fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel
suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella
presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e
su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del
1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in
dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi
all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22]
Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un
rettile. In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi.
Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a
Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto
un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese
a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non
fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in
cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi
di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è
mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che
tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di
gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il
fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per
informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring
diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu
descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da
uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una
lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un
rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus,
ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu
descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per
via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più
giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di
pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno
schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e
impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa
del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore
per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per
sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato
come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche
nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo
dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra,
ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava
alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati
confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in
discussione. Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane di P.
antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus),
l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base
al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le
dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono
stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste
differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie
distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più
dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita
degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di
Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6] Il più giovane e
immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di
una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi
che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari
di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6] Tutti i
campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età.
Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza
complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe,
invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che
va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due
primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e
adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che
anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari
immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe
è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di
grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono
P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe
mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente
maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero
essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]
Crescita e riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito
alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P.
antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus
muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi
crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il
conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e
probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita
i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per
la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni
coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]
Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli
di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile
di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo
vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la
competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli
sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il
Rhamphorhynchus.[28] Paleoecologia Durante la fine del Giurassico,
l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il
calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è
stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie
aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano
lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee
Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono
l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati
pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus,
Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp.,
l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli
stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus
hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci,
crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di
questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von
Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum
praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd
edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a
tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany –
first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und
Paläontologie – Abhandlungen, vol. 245, n. 1, 2007, pp. 117–125,
DOI:10.1127/0077-7749/2007/0245-0117. Bennett, S. Christopher, New
information on body size and cranial display structures of Pterodactylus
antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische Zeitschrift, in
press, 2013, DOI:10.1007/s12542-012-0159-8. Bennett, S.C., Year-classes
of pterosaurs from the Solnhofen Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic
Implications, in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 16, n. 3, 1996, pp.
432–444, DOI:10.1080/02724634.1996.10011332. Bennett, S.C.,
[0043:STPOTC2.0.CO;2 Soft tissue preservation of the cranial crest of the
pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of Vertebrate
Paleontology, vol. 22, n. 1, 2002, pp. 43–48,
DOI:10.1671/0272-4634(2002)022[0043:STPOTC]2.0.CO;2, JSTOR 4524192.
Jouve, S., [0542:DOTSOA2.0.CO;2 Description of the skull of a Ctenochasma
(Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic
revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate
Paleontology, vol. 24, n. 3, 2004, pp. 542–554,
DOI:10.1671/0272-4634(2004)024[0542:DOTSOA]2.0.CO;2. ^ Frey, E., and Martill,
D.M., Soft tissue preservation in a specimen of Pterodactylus kochi (Wagner)
from the Upper Jurassic of Germany, in Neues Jahrbuch für Geologie und
Paläontologie, Abhandlungen, vol. 210, 1998, pp. 421–441. ^ Cuvier, G., Mémoire
sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt, que
quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un genre de
Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national
d'Histoire Naturelle, Paris, vol. 13, 1809, pp. 424–437. Taquet, P., and
Padian, K., The earliest known restoration of a pterosaur and the philosophical
origins of Cuvier's Ossemens Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, vol. 3, n. 2,
2004, pp. 157–175, DOI:10.1016/j.crpv.2004.02.002. ^ Cuvier, G., 1819,
(Pterodactylus longirostris) in Isis von Oken, 1126 und 1788, Jena ^ Kellner,
A.W.A. (2003). "Pterosaur phylogeny and comments on the evolutionary
history of the group", pp. 105–137 in Buffetaut, E. and Mazin, J.-M.,
(eds.) (2003), Evolution and Palaeobiology of Pterosaurs. Geological Society of
London, Special Publications 217, London: 1–347. ^ DOI:
10.1016/j.cub.2014.03.030 Unwin, D. M., (2003). "On the phylogeny
and evolutionary history of pterosaurs", pp. 139–190. in Buffetaut, E.
& Mazin, J.-M., (eds.) (2003). Evolution and Palaeobiology of Pterosaurs.
Geological Society of London, Special Publications 217, London, 1–347. S.
Christopher Bennett, [872:JSOTPG2.0.CO;2 Juvenile specimens of the pterosaur
Germanodactylus cristatus, with a review of the genus], in Journal of
Vertebrate Paleontology, vol. 26, n. 4, 2006, pp. 872–878,
DOI:10.1671/0272-4634(2006)26[872:JSOTPG]2.0.CO;2. S. U. Vidovic e D. M.
Martill, Pterodactylus scolopaciceps Meyer, 1860 (Pterosauria,
Pterodactyloidea) from the Upper Jurassic of Bavaria, Germany: The Problem of
Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, vol. 9, n. 10, 2014, pp.
e110646, DOI:10.1371/journal.pone.0110646. ^ Steven U. Vidovic e David M.
Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner, 1837) and ‘Germanodactylus
rhamphastinus’ (Wagner, 1851), in Geological Society, London, Special
Publications, 2017, pp. SP455.12, DOI:10.1144/SP455.12. ^ David M. Unwin, The
Pterosaurs: From Deep Time, New York, Pi Press, 2006, pp. 246, ISBN
0-13-146308-X. ^ Brougham, H.P. (1844). Dialogues on instinct; with analytical
view of the researches on fossil osteology. Volume 19 of Knight's weekly vol. ^
Ősi, A., Prondvai, E., & Géczy, B. (2010). The history of Late Jurassic
pterosaurs housed in Hungarian collections and the revision of the holotype of
Pterodactylus micronyx Meyer 1856 (a ‘Pester Exemplar’). Geological Society,
London, Special Publications, 343(1), 277-286. ^ Collini, C A. (1784).
"Sur quelques Zoolithes du Cabinet d'Histoire naturelle de S. A. S. E. Palatine
& de Bavière, à Mannheim." Acta Theodoro-Palatinae Mannheim 5 Pars
Physica, pp. 58–103 (1 plate). ^ Wagler, J. (1830). Natürliches System der
Amphibien Munich, 1830: 1–354. ^ Cuvier, G., [Reptile volant]. In: Extrait d'un
ouvrage sur les espèces de quadrupèdes dont on a trouvé les ossemens dans
l'intérieur de la terre, in Journal de Physique, de Chimie et d'Histoire
Naturelle, vol. 52, 1801, pp. 253–267. ^ von Sömmerring, S. T. (1812).
"Über einen Ornithocephalus oder über das unbekannten Thier der Vorwelt,
dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. Bande der Actorum Academiae
Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher Grösse im Jahre 1784
beschrieb, und welches Gerippe sich gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der
königlichen Akademie der Wissenschaften zu München befindet",
Denkschriften der königlichen bayerischen Akademie der Wissenschaften, München:
mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur
les ossemens fossiles. I ed. p. 24, tab. 31 ^ Sömmering, T. v., Über einen
Ornithocephalus brevirostris der Vorwelt, in Denkschr. Kgl. Bayer Akad. Wiss.,
math.phys. Cl., vol. 6, 1817, pp. 89–104. ^ Padian, K. (1987). "The case
of the bat-winged pterosaur. Typological taxonomy and the influence of
pictorial representation on scientific perception", pp. 65–81 in: Czerkas,
S. J. and Olson, E. C., eds. Dinosaurs past and present. An exhibition and
symposium organized by the Natural History Museum of Los Angeles County. Volume
2. Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington
Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970). Die Pterodactyloidea
(Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie
der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, 141:
133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from
Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030, 2011, pp.
705–8, DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson,
P., Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University of California
Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature
preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Pterodactylus Collabora a Wikispecies
Wikispecies contiene informazioni su Pterodactylus Collegamenti esterni (EN)
Pterodactylus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Modifica su Wikidata (EN) Pterodactylus, su Fossilworks.org. Modifica su
Wikidata Controllo di autorità. LCCN (EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia
Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria:
Pterosauri. Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the
Italian Renaissance Garden CMost of the history of Western philosophy and
theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent
contradic- tions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'.
However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this
quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art
and ideas. This study— promenade through the landscapes and gardens, paintings
and poems that have inspired me—proposes a sketch of the implications of such
poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of
landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture
vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the
early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Jakob
Burckhardt describes this paradigm shift in the perception of the external
world, the moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper,
was first valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature
on tbe human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few
\-igorous lines the sense of the morning airs and the trembling light on the
distant ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe
ascent of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the view—the
first man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation
of natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further
instantiated in the work of Francesco Petrarch (1304-74), often cited as the
first humanist, indeed the first "mod- ern" man. His relation to the
landscape was intense and manifold, poetic and practical, as he was a gardener
whose favorite site of med- itation was his own gardens at
Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in one of his letters: I made two
gardens for myself: one in the shade, appropriate for my studies, which I
called my transalpine Parnassus; it slopes down to the river Sorgue, ending on
inaccessible rocks which can only be reached by birds. The other is closer to
the house, less wild, and situated in the middle of a rapid river. I enter it
by a litde bridge leading from a vaulted grotto, where the sun never
penetrates; I believe that it resembles that small room where Cicero some-
times went to recite; it is an invitation to study, to which I go at noon.^ Two
gardens, one for each side of his temperament, inspired either reverie or
melancholy; two gardens, one for each extreme of nature, extensive and
picturesque or protective and chthonic; two gardens, one leading towards the
empirical, the other towards the spiritual. For Petrarch, as for Cicero, his
predecessor in literature and garden- ing, the landscape was a major source of
inspiration, both literary and empirical; for while these gardens evoked the
great sites of clas- sic culture, they also constituted a rudimentary botanical
laboratory and collection, where Petrarch experimented with different varieties
of plants according to meteorological and astrological conditions, geographic
placement, seasonal growTih, and so forth. He also used these gardens to amass
collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins
secrets de la Renaissance, such secret gardens, "appertain to the double
register of the fictive and the real, the physical and the mystic; they echo
with the adam- ic garden, the paradigmatic place and origin from which gardens
draw their spiritual energy."^ It is precisely for this reason that the
study of gardens necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the
symbolic significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal
characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that
both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated
consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont
Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in
1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My
only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4
Though inspired by literary motives—specifically, the tale in Livy's History of
Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with
its attendant views—the experience shifted from the literary to the sensory, where
revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape
architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial
models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already
predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history.
"At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of
the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld
the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less
incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less
fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary
descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent
magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that
mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues
with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the
natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of
intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant
ascent of the soul. Thus, opening a copy of Saint Augustine's Confessions he
had with him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men
go about to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the
sea, and the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the
revolution of the stars, but themselves they consider not."^ This is the
ironic moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility
becomes a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I
should still be admiring earthly things who might long ago have learned from
even the pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which,
when great itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was
satisfied that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon
myself, and from that time not a syllable fell from my lips until we reached
the bottom again. The three major realms that informed early humanist
sensibility were thus interwoven in an allegory of spiritual revelation:
inspira- tion from antiquity, sensitivity to nature, and salvation within
Christianity. Certain technical, mathematical, and financial consider- ations
would be added to these preconditions to localize and system- atize such
apperceptions in the creation of the Italian Renaissance garden. The consequent
transmigration and intercommunication of symbols and allegories would
henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of them towards
their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on the
Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized as
follows. The theological revolution of Saint Francis of Assisi (1181-226)
redeemed nature's state of grace. His "Canticle of Creatures"—indeed,
every act of his life—expressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all
nature was a reflection of God; thus nature itself was the foundation of
spiritual values. As Ernst Cassirer explains in The Individual and the Cosmos
in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a metaphysical guide to the
current study: With his new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke
through and rose above that dogmatic and rigid barrier between
"nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to permeate
the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and
individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and
the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the
relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It
overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon,
to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature
mysticism" we find one of the origins of Western ecological and
environmental thought. (Indeed, in 1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis
the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed
the state of nature in a postlapsarian world, but praised nature—specifically
the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbria—with a glorious
and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature according
to human desire and volition into a new form that would become the
"humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new
ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo-
logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity
and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This
is especially the case insofar as such myths express a profound connection to
the natural world, as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis,
Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of
Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura
poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression
of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would
once again have a voice, as in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron
(describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum,
and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood
does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels
everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch,
landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to formulate
this sensibility in relation to the his- tory of landscape architecture, it
might be said that the new form of garden is no longer delimited by either
cloister walls or restricted cosmological symbolism (the latter allegorically
corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed garden), but rather
by the limits of the imagination responding to the very act of human per-
ception. Rather than serving as a static allegorical form, the garden reveals
the dynamic, creative relation between humanity and nature. The view shifts
from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not
only the ambient scene, but also distant views; space is no longer treated as
metaphoric, but is revealed in its localized and particularized reality. Nature
incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder,
terror and awe—prefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the
picturesque, the beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new
sensibility was the development of a system of pictorial representation—the
quattrocento rediscovery and refinement of linear perspective—that both drew
upon and informed the multifarious Renaissance modes of appreciating the
landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes- thetics
in perspectival representations constitutes a major structure that articulates
the reciprocal influences between landscape, garden, literature, and painting,
one that marlcs the subsequent history of landscape architecture. Here, the
varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature and
painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically,
three works of Leon Battista Alberti (1404-72) codified the intricate
interrelations between perspective and vision, pictorial representation and
landscape architecture: Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on
family life that celebrated the advan- tages of country living, thus instilling
a taste for gardens and the landscape; Delia pittura (1436), which codified the
system of linear perspective; and De re aedificatoria (1452), which, in
establishing "rational" architectural rules based on ancient models
(notably Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites,
with a particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For
Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping
terrain with open perspectives from which the countryside could be seen. Though
the view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain
established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was
conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of
the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the cultivated
garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic continuity
between the natural and the human realms. Such strategies, both structural and
narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the constructed,
geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric, organic realms of
the natural world. Alberti's text proffers many of the characteristics of the
humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use of perspective in the
deployment of objects and space, grottos and the "secret garden,"
symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted plants (topiary and
espalier), architectural details, and statues of mytho- logical figures as
invocations of ancient culture, surprise effects caused by both perspectival
and technical means, and especially the myriad uses of water—fountains, pools,
canals, panerres, troughs, water staircases and theaters, hydraulic organs and
automata, even artificial rain and water jokes {giochi d'acqua). It was through
the use of water that both illusion and motion were introduced into land-
scaf)e architecture, creating the sort of instability, surprise, and
evanescence that would become central to the baroque sensibility, with its
taste for motion, dematerialization, dissimulation, and contradiction.'** This
irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was well expressed in that
epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK) Bonfadio, influenced by
Petrarch: "I have done much that nature, combined with an, has turned into
artifice. From the two has emerged a 'third nature,' to which I can give no
name."'' Such a "third nature" might well be a synonym of the
garden itself, for how- ever "natural" a garden may be (as in the
ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the desire to dissimulate
all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature), its forms always evince
aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the notion of "vir-
gin" nanire in the North American landscape, as will be explored in a
subsequent chapter). Yet this "third nature" is never a purely for-
mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and narra- tive
systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land- scape.
Henceforth, the history of landscape architecture will entail the intertwining
and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy, painting, sculpnire,
architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order to grasp the
conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities, as well as
the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a synopsis of
the philosophical trajectory of the Platonic Academy of Florence (c. 1462-94),
found- ed by Marsiho Ficino under the auspices of the Medici, is in order. The
principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were
expressed by Nicholas Cusanus (1401-64) in De docta ignorantia (1440), the
initial systematic philosophical study that began to modify the relatively
rigid and often dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism.
According to medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that
"great chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with
a moral and religious systemof judgment and salvation in which the role of epis-
temology was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though
Cusanus's writings never called the theological foundation of this system into
question, they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the
relation between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as
dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations.
This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical
implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key
princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no
possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the
bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous
system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative
from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and
metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and
mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal
systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian
mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component
of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that inspired
the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical
theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the-
ological domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the
hidden god—the ftiture development of the worldly sciences would not be
impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet
complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the
docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical
con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable
nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and
antithesis. This results from the unfathomable nature of God, such that the
maximal ontological conditions of existence are constituted by a qualitative,
not a quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result
from all intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human
thought oper- ates according to finite determinations, generating predicable
and measurable differences; yet beyond any given determination, an absolute
term can always be postulated, even if it is not deter- minable. However,
between the finite and the infinite there is no common term, thus no possible
predication. This is a metaphysics of maximal contradiction, of complicatio,
not explicatio. The infini- ty of the godhead is unpredicable and
inexpressible. Whence the necessity of differentiating between the infinite and
the indefinite, wherein the mutually exclusive relation between the ideal,
uncondi- tioned, indeterminable realm of the divine and the empirical, con-
ditioned, determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of
mathematics fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative
theology begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards
its incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental
ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia
oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such
ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing
the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and
transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable
yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno-
rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human
cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the
thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The
fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia
establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological
speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical
infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an
active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble
universal to the sensible particular, with its attendant concrete symbolizations.
Not only did this system offer a foundation for modern science and mathematical
speculation, but it also estab- lished the grounds for a new,
"rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta
ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as
measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the
concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the
possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis
uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a
basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the
technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in
the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one
of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most
apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and
Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus,
utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was
mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers
of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of beauty
as a spiritual value and so extended his studies into other realms. Following
Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure,
proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but
it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before
his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Marsilio Ficino (1433-99),
"Yesterday I arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields,
but my soul. "'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in
reciprocal symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical
temperament, as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino
founded his famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration,
meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of
the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would
suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a
major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his
philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and
develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an
expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino
demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the
soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible
world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the universe
through the process of knowing and self-determination. The soul is the means by
which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as opposed to
the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new status of the
dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite schematization of the
soul) to share attributes with both the lower and the higher beings, midway
between the cosmic mind and the cosmic soul above, and the realms of nature and
of pure, formless matter below. As the terms of this hierarchy are emanations
of God (following Plotinus's mystical read- ing of Plato, and hardly distant,
either intellectually or geographi- cally, from Saint Francis's nature
mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and somehow symbolize, divine
creation. All realms of existence are therefore interconnected, and the
cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm of human intelligence.
As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and the soul: God says:
"I fill and penetrate and contain heaven and earth; I fill and am not
filled because I am fullness itself. I penetrate and am not penetrated, because
I am the power of penetration. I contain and am not contained, because I myself
am the faculty of containing." But all these predicates claimed by the
divinity are now equally attributable to the human soul}° As such, fact becomes
truth, and the world becomes meaningful, through the ^rf of cognition; symbols
can be effectively derived from all facts, objects, and events; thought is
liberated to become a cre- ative, and not merely reflective, activity. Inspired
by the theory of love developed in Plato's Symposium and Phaedrus, Ficino
places mystical love (in a manner very differ- ent from that of Saint Francis's
more immediately sensual and intu- itive mysticism) at the center of his
system, as a cosmological, and not a psychological, principle. Erwin Panofsky
elaborates: Love is the motive power which causes God—or rather by which God
caus- es Himself—to effuse His essence into the world, and which, inversely,
caus- es His creatures to seek reunion with Him. According to Ficino, amor is
only another name for that self-reverting current {circuitus spiritualise from
God to the world and from the world to God. The loving individual inserts
himself into this mystical circuit.^' Whence the much misunderstood notion of
;he highest form of love, "Platonic love," that "divine
madness" which is the source of poetic inspiration and genius as
introduced by Plato, enriched by Plotinus, Augustine, and the twelfth-century
Neoplatonists, and transformed by Ficino. Such love entails a desire guided by
cogni- tion, which seeks as its ultimate goal the beauty diffused throughout
the universe. The contradictory and oppositional totality of love is symbolized
by the two Venuses, celestial and natural, representing sacred and profane
love: beauty as supercelestial, intelligible, and immaterial, and beauty as
particularized and perceptible in the cor- poreal world.^^ Within this context,
three sorts of love are possible: amor divinus (divine love, ruled by the
intellect), amor humanus (human love, ruled by all the other faculties of the
soul), and amor ferinus (bestial love, which is tantamount to insanity). Love
is the factor that mediates the higher and lower worlds, transcendence and
immanence, cognition and perception. Cassirer stresses the import of this
theory for an incipient humanism: This contradictory nature of Eros constitutes
the truly active moment of the Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the
static complex of the uni- verse. The world of appearance and the world of love
no longer stand simply opposed to each other; rather, the appearance itself
"strives" for the idea.^' Love is both psychological and theological,
human and divine, con- templative and active, intellectual and passional; it
achieves a central epistemological status due to its vast, synthesizing
function; it is ontologically all-encompassing precisely because of its
profoundly paradoxical nature—a complex scenario that will be dramatized, in a
manner crucial to the subsequent history of landscape architecture, in
Francesco Colonnas Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter.
In this context, the entirety of creation is an emanation of God, therefore the
realm of nature is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky:
Thus the Realm of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of
the "divine influence," when contrasted with the shapelessness and
lifelessness of sheer matter, is, at the same time, a place of unending
struggle, ugliness and distress, when contrasted with the celestial, let alone
the super-celestial world.^ The human soul is the site of the reflection and
expression, if not quite the resolution or synthesis, of these universal
antinomies and oppositions. The spiritual is present in the natural world, such
that, a fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what
Panofsky terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological
and cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and
perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a
supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of
"perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous
symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and
objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of
vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for
landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now
theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later
be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of
contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance
found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably
that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed
through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the
spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in
all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer
delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the
artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant
reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through
this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the
world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the
true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros,
is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the
"invisible" in the "visible," the "intelligible"
in the "sensible." Although his intuition and his art are determined
by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he
succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar
opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new
metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable
order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the
profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production,
insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable
order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a
priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of
empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists,
regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as
Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with
a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form:
"stylistics becomes the model and guide for the theory of
categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts
(philosophy, rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It
was, indeed, a model for the new nature of thought, where style is not a formal
effect bounded by the limitations of sheer representation, but rather where
representation itself is a creative act. Within this context, the garden would
no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a
theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of
the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation.
Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ-
ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would
attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of
art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the
light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this
reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously
patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the
landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in
Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source
of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^
"Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the
verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was
recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate
extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by
Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the
Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical
aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and
becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of
freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being,
had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and
cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary,
though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety
of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a
metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and
potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic
hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu-
larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of
each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that
man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the
value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined
nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined
as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each
individual existence. In this system, where existence precedes essence,
coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the
origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a
radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a
Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of
thought. This openness towards the world implied that human volition and knowledge
must traverse the entire cosmos in order to achieve individual spiritual
fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his Oration on
the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that creature to
whom He had been able to give nothing proper to himself should have joint
possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds of
being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and,
assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus:
"Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function
peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy
longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode,
what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all
other beings is limited and constrained within the bounds of the laws
prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine
own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the
limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest
from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee
neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with
freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself,
thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt
have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish.
Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the
higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is
ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's
theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic
cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and
symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an
aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is
interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish
humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the
full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman
gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a
quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes
when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of
man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the
plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But
this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a
mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis,
entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of
the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of
observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy
and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will
seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let
him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no
man can possibly make all observations without help in such a multitude and
variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural
sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing
preci- sion following the development of the new sciences of geography,
astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical
sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and
metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the
hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries,
gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more
systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the
fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of
in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was
created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As
explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a
laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of
their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already
gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his
gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later
accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but
intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the
ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs,
spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye
received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave
way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was
replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation
and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery
demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became
more and more numerous, and less and less coherent with the previously
contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient
to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an
entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in
the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean
astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous
empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry,
from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable,
mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects
decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of
curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the
aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of
hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave
rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow
one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the
inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic
representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all
of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of
knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer
restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all
cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and
beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit
partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most
immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian
systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers
as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil,
and Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and
mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural
religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe
implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought.
Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal
truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not
only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of
Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern
hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture
at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according
to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he
argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and
polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan
Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's
conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus
absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be
adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's
discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All
these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as
the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names
derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is
multiple, and always capable of increase, and each single name is related to
the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As
Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical
mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at least poly- morphic,
vision of the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in
the hidden God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of
Ficino and Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could
only have been united within God, could now be provisionally reconciled in
human conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could
only be stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether
conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual
and ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a
new iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the
ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as
with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had
planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned
the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and
magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance.
Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the
initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth
was a protection against profanation; revelation was thus a function of
disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's
analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste
slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae (Attic Nights), is a
concrete case in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic
level of understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the
epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain
eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta-
physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible)
oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a
butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended,
"to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of
strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed.
Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing
philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to
imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is
no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in
a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's
Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous
versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to
the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind
explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of
the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to
"initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of
Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a
poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where
the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which
is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites
is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and
miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human
destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most
complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will
bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These
techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to
as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art
coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and
forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory,
literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry
and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an
alternate entry into the theological system, a means of circumventing the
obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism
was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical
myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^° Thus there
obtained a hybridization of elements within imagery; theological connotations
were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular
and contemporary truths. What Wind termed a "transference of
types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance art;
it estab- lished an epistemological overture that indicated the metaphysical
foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics. This
syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were evident
in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in
the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the end of the
sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in Florence
in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized
all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion between old
and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus on every
page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of writing
and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics, and
chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of
declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of
gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to create a moving
and animated work with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo,
Monteverdi established a musical synthesis of court airs, madrigals,
recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding scenographic
synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the
synthesis of the sciences in a unified theory, so would the opera syncretize
the arts on the spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage
of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might be argued that the
humanist garden of the Italian Renaissance is the major precursor of the
totalizing artwork, insofar as it already served as the ground, synthesis, and
scenarization of all the other arts. Hypnerotomachia Poliphili of Francesco
Colonna (1433-527) was published in Venice in 1499."^^ The tale consists
of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory erotic
drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe-
riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the
anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by
invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute
perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces, containing
enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins representing the arts
of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such as pyra- mids,
obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con- temporary
epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The allegory then
thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards love and truth,
encountering five girls representing the five senses, a queen symbolizing free
will, and final- ly two young women symbolizing reason and volition. After
visiting the palace, guided by the latter two women, he is taken to the three
palace gardens, which are ultimate expressions of human artifice: gardens of
glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at length, as the
descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable
importance in the subsequent history, imaginary and practical, of landscape
architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees, Logistic said
to me: "Poliphilus, you have already seen many singular things, but there
are four more no less singular that you must see." Then she led me to the
left of the palace, to a beautiful orchard as large in circumference as the
entire dwelling where the queen made her residence. Around it, all along the
walls, there were parterres planted in cases, intermixing box-trees and
cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with trunks and
branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated that they could
have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with spheres one foot
high, and the cypress- es with points twice as high. There were also plants and
flowers imitated in glass, in many colors, forms and types, all resembling
natural ones. The planks of the cases were, as an enclosure, surrounded with
slides of glass, gild- ed and painted with beautifiil scenes. The borders were
two inches wide, trimmed with gold molding on top and bottom, and the corners
were cov- ered with small bevels of golden leaves. The garden was enclosed with
pro- truding columns made of glass imitating jasper, encircled by plants called
bindweed or morning glory with white flowers similar to small bells, all in
relief and of the same colored glass modeled after nature. These columns rested
against squared and ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the
vaulting made of the same material. Underneath, it was trimmed with glass
rhombuses or lozenges, placed between two moldings. Upon the capitals of the
protruding columns were placed the architrave, the frieze, and the cornice in
glass, figures in jasper, as well as the moldings around it, golden rhombuses
with polished and hammered foliage, such that the rhombuses were a third as
wide as the thickness of the vaulting. The ground plan and the parterre of the
garden were made of compartments composed of knotwork and other graceftil
figures, mottled with plants and flowers of glass with the luster of precious
stones. For there was nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an
odor that was pleasant, fresh and fit- ting the nature of the plants that were
represented, thanks to some compound with which they were rubbed. I long gazed
upon this new sort of gardening, and found it to be very strange.^^ The
brilliance and genius of this pure artifice invokes Poliphilus's admiration and
wonder; the inherent artificiality of mimesis is revealed. While this garden
was never imitated in its totality, it established a certain sensibility, and
many of its elements have served as models for both details and major elements
throughout the his- tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary
art of pastry making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of
these artificial wonders continued: "Let us go to the other garden, which
is no less delectable than the one which we just showed him." This garden
was on the other side of the palace, of the same style and size as the one made
of glass, and similar in the disposition of its beds, except that the flowers,
trees, and plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature.
The box-trees and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with
trunks and branches of gold, and underneath were several simple plants of all
types, so truly crafted that nature would have taken them for her own. For the
worker had artificially given them their odors, with I know not what suitable
compounds, just as in the glass garden. The walls of this garden were made with
singular skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of
equal size and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk,
branches and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of
its fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared
pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal,
resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of
silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so
surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre
was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of
the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a
golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned
towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures,
square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient
Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion, signifying:
'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The square figure is
dedicated to the divinity, because it is produced from unity, and is unique and
similar in all its parts. The round figure is without end or beginning, as is
God. Around its circumference are contained these three hieroglyphs, whose
property is attributed to the divine nature. The sun which, by its beautifiil
light, creates, conserves, and illuminates all things. The helm or rudder which
signifies the wise government of the universal through infi- nite sapience. The
third, which is a vase full of fire, gives us to understand a "4°
participation of love and charity communicated to us by divine goodness. The
Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his quest, Poliphilus is
confronted with three doors, representing the major paths of life, leading
towards either the glory of God, the plea- sures and wonders of the world, or
love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's extreme
voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera, residence
of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of Aphrodite):
"That region was dedicated to merciful nature, intended for the habitation
and dwelling of beatified gods and spirits."47 The description of the gar-
dens of Cythera is so complex as to escape precise visualization and defy
synopsis, yet it has inspired much of the Western imagination of landscape
architecture. Here, the new Renaissance sense of nature combines with the
contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is reflected in
architectural detail, the fecund sensuality of nature is circumscribed by the
most rigorously geometricized geography, and the beauty of the landscape is
accentuated, or even simulated, by the most refined artifice of the artisan's
craft. Each aspect of this site inaugurates a type of perfection later to
become stereotypical. The island is circular, with crystalline earth, beaches
surrounded with ambergris, and its circumference is defined by ordered plantings
of cypresses and bilberry bushes trimmed to perfection every day. The island's
river has a shore adorned with sand mixed with gold and precious stones, and
banks planted with flowers and citrus trees. The island's major divisions are
mathemat- ically organized and separated by porphyry enclosures of artificial
foliage and knotwork decorations interspersed with marble pilasters; each of
these divisions delimits a different sort of planting: oak, fir, shrubs formed
into figures representing the powers of Hercules, pine, laurel and small
shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry and wild-cherry, plum, peach and
apricot, mulberry, fig, pomegran- ate, chestnut, palm, cypress, walnut,
hazelnut, almond and pista- chio, jujube, sorb, loquat, dogwood, service,
cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what appears as a prototypical
version of Michel Foucault's "Chinese encyclopedia"—where the
introduction of fantastic ele- ments shatters empirical taxonomy—the animals to
be found there are no less diverse, so as to maintain the Utopian aspect of the
site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow leopards, giraffes, elephants,
griffins, unicorns, stags, wolves, does, gazelles, bulls, horses, and an
infinity of other species (excepting only those that are poisonous or ugly).
Furthermore, the decorations within the sundry orchards, prairies, and
parterres offer nearly the entire gamut of what shall become the standard
features of Western landscape architecture: trellises, bowers, altars,
decorative bridges, topiary, sculptural and architectural features, and
fountains. There are herb gardens con- taining a variety of medicinal plants as
vast as that of medieval clois- ter gardens, including absinthe, birthwort,
mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony, calamint, lovage,
St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and edible plants such
as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes, chervil, peas, broad
beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers. chicory,
watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description evokes the
millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn cycles, are
no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely complex,
interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have become
classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable
"source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus
(which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground
plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal
and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an
allegory for the "third nature" that characterizes the art of
gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like
an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and
massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer
than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as
nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however
flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and
mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however
imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As
Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not
always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a
perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of
those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for
this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*?
The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and
preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an
epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation
is like a sparkling dart."^° No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili
can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its
quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and
evocations of each object, and the symbolic interrelations between these
objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing
sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects
of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination.
Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a
conceptual expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and
taxonomic schemes retrospectively to recreate their classic origins;
proleptically, they create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism
rules the combination of botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.),
architectural (ancient Greek, Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and
textual (Pliny, Virgil, Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing
a totality imbued w^ith the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet,
it is perfectly coherent with the Neoplatonic metaphysical speculation of the
epoch; for all classicism is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient
forms according to contemporary motives. It is precisely here that we can
appreciate the allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of
an ideal and ide- alized past now disappeared, symbols of a creative
consciousness that recuperates and transforms, indices of an aestheticization
that combines and refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific
details and general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for
the subsequent history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic
of complexity, contradiction, and paradox that will inspire, both consciously
and unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and
characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and
Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both
sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational-
ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and
geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven.
Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent, revealing
the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space parallel
to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes the
dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such is
the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its
subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the
experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes
it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact
that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in
establishing the structure and significance of gardens in general. For not only
is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is
based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative,
dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and
mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions.
Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions,
the "third nature" realized from combining artifice and nature, are
instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who
created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter
them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real
gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated
plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical
system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic
relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory
manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art
include not only the material and spiritual traditions of the period, but also
all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the
paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are
foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are
fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern
landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too
often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence,
heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The
organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric,
static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the
Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative,
fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change,
growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic,
syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1 Jakob
Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans. S. G.
C. Middlemore (i860; New York: Harper & Row, 1975), 294. 2 Francesco
Petrarch, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in
Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des
simples, et desprodiges (Paris: L'Harmattan, 1997), 48. This book is an
excellent study of the secret garden, from the medieval hortiis conclusus
through the Italian Renaissance giardino segreto to the jardin hermetique. 3
Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco Petrarch, "The Ascent of
Mount Ventoux," n.t., in Introduction to Con- temporary Civilization in
the U^if (New York: Columbia University Press, 1965), 557. 5 Ibid., 560. 6
Cited in ibid., 562. 7 Petrarch, "Ascent," 562. 8
Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis
Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art
gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and
the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson, 1977). 9 Ernst Cassirer,
The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi
(1927; Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1972), 52. 10 Ibid.,
143. 11 Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences
would here be both inadequate and superfluous. As an introductory note,
consider several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial
Space (London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le
lieu: L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y.
Edgerton, The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper
& Row, 1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus:
Flammarion, 1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On
the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert
Tavernow (Cambridge, MA: MIT Press, 1996). 13
Forexample,theVillaLante(Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of the
Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello,
Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most typical and
famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine
introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris:
Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist Garden," in
Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens
(Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt, Garden and Grove
(Princeton: Princeton University Press, 1986), especially 42-58 ("Ovid in
the Garden") and 59-72 ("Garden and Theatre"). Among the many
fine illustrated books and guides, very usefiil is Judith Chatfield, A Tour ofItalian
Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15
CitedinLionelloPuppi,"NatureandArtificeintheSixteenth-CenturyItalian
Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16
This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great
chain of being, see Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New York:
Harper & Row, i960). 17
KarlJaspers,AnselmandNicholasofCusa,trans.RalphMannheim(NewYork: Harcourt,
Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say, the present essay presents only the
broadest schematization of these complex philosophical issues—^just enough, it
is hoped, to situate their interest in relation to the development of the
Italian Renaissance garden, and thus to inspire the reader to further
investigations. 18 Cassirer, Individual and Cosmos, 51. On the extension of
these issues as they relate to aesthetics in the seventeenth-century debates
between the Cartesians and the Pascalians, see Allen S. Weiss, Mirrors
ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century Metaphysics (New York:
Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in Raymond Marcel,
Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20 Cassirer, Individual
and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also Paul Oskar Kristeller,
Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton University Press, 1980),
89-110, 163-227. 21
ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies
in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky,
Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky,
Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky
rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was
effected in both direct and indirect manners, much in the manner that
psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even
when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the
relations between theoretical systems and artistic production, where partial
readings and misreadings in no way obviate the efficacy of
"influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety
ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle
analysis of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the
experience of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242,
n.3), astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia
Lazzaro-Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante:
"Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings
inscribed in artworks, rarely how such meanings were read by later
visitors." The great value of Hunt's book is that it accomplishes both
feats. 26 Cassirer, Individual and Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in Arnold
Hauser, The Social History ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951; New
York: Vintage Books, n.d.), 129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos, 83-7,
115-9 and Paul Oskar Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance
(Stanford, CA: Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni Pico della
Mirandola, Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. 31 32 33 34 35 36 37 38
39 40 41 42 43 Elizabeth Livermore Forbes, in Ernst Cassirer, Paul Oskar
Kristeller, and John Herman Randall, Jr., eds.. The Renaissance Philosophy
ofMan (Chicago: University of Chicago Press, 1948), 224-5. Juan Luis Vives,
Tabula de homine (c. 1518), trans. Nancy Lenkeith, in Cassirer, Kristeller, and
Randall, Renaissance Phibsophy, 389. Juan Luis Vives, cited in John Hale, The
Civilization ofEurope in the Renaissance (New York: Athenaeum, 1994), 510.
Lamarche-Vadel, Jardins secrets, 94. On the transformations of epistemology,
natural classes, and botanic knowledge, see 79—121 of this work. The locus
classicus of the subject remains Michel Foucault, The Order of Things, n.t.
(1966; New York: Vintage, 1973). Cited in Edgar Wind, Pagan Mysteries in the
Renaissance (1958; New York: Norton, 1968), 2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218.
Ibid., 99. Perhaps the most familiar contemporary example of this dictum is
Mohammed Alls "float like a butterfly, sting like a bee." The erotic
poetics of the Hypnerotomachia Poliphili speddcaWy justifies the use of this
adjective. Wind, Pagan Mysteries, 104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos,
158. Wind, Pagan Mysteries, 21. Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice
Roche, Monteverdi (Paris: Le Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity
of the author of Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now
almost always attributed to Francesco Colonna, a Dominican Friar of the
monastery of SS. Giovanni e Paolo in Venice. There is one theory that the book
was written by Alberti, which, whatever its veracity, reveals the profound
affinities perceived between the two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was
pub- lished, with illustrations, in a mixture of Italian, Latin, and Greek, in
Venice by Aldus Manutius in 1499. An abbreviated French translation by Jean
Martin appeared in Paris in 1546, published by Kerver under the title Discours du
songe de Poliphilr, the English translation, entitled The Strife ofLove in a
Dreame, appeared in London in 1592; the contemporary Italian edition of
Hypnerotomachia Polophili was edited by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi
(Padua, 1964). Translations in the current study are by the author, from the
recent French edition (based on the 1546 Jean Martin translation), Le Songe de
PoliphiU (Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and
transliterated into modern French by Gilles Polizzi. On the influence of this
book in France, see Anthony Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in
lyth-Century France," Journal ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37;
this is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary
comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in
the Hypnerotomachia Polophili for considerations of the landscape are briefly
discussed in a book that is, in its breadth and depth, a model of scholarship
on gardens and landscape, Simon Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred
A. Knopf 1995), 268-79. For an idiosyncratic and su^estive allegorical read-
ing, see Alberto Perez-Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited
(Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44 Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45
Ibid., 125. We find here the origins of Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276.
48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel, Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de
Poliphile, 325. 51
Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in
The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989),
77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was
directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian
inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis
Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de
Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and
Language in a More- Than- Human World. New York: Pantheon, 1996. Adams, Henry.
The Education ofHenry Adams (1907). New York: The Modern Library, 1931. Adams,
William Howard. Nature Perfected: Gardens Through History. New York: Abbeville,
1991. Alberti, Leon Battista. On the Art ofBuilding in Ten Books. Trans. Joseph
Rykwert, Neil Leach, and Robert Tavernow. Cambridge, MA: MIT Press, 1996.
Amrhein, Joe and Brian Conley, eds. Robert Smithson. New York: Pierogi 2000
Gallery, 1989. Apostolides,Jean-Marie.Leroi-machine:
SpectacleetpolitiqueautempsdeLouis XTV. Paris: Minuit, 1981. Aragon, Louis. Le
paysan de Paris (1926). Paris: Gallimard/Folio, 1953. Bachelard, Gaston. LAir
et les songes : Essai sur Imagination du mouvement. Paris: Corti, 1943.
Ballard, J. G. A User's Guide to the Millennium. New York: Picador/St. Martin's
Press: 1997. G. The Terminal Beach (1964). New York: Carroll & Graf, 1987.
Ballard, Barthes, Roland. Sade, Loyola, Fourier. Trans. Richard Miller. New
York: Hill and J. Wang, 1976. Barthes, Roland. Sur Racine. Paris: Le Seuil,
1963. Bastide, Jean-Frangois de. The Little House: An Architectural Seduction
(1758). Trans. Rodolphe el-Khoury. New York: Princeton Architectural Press,
1995. Bauduin and Allen S. Weiss, Lieux et liens. Paris: Editions Lahumiere,
1998. Berque,Augustin.LesRaisonsdupaysage: DelaChineantiqueauxenvironnements de
synthhe. Paris: Hazan, 1995. Bonnet, Jean-Claude. "Careme, or the Last
Sparks of Decorative Cuisine." Trans. Sophie Hawkes. In Allen S. Weiss,
ed. Taste, Nostalgia. New York: Lusitania Press, 1997. Bras, Michel. Le livre
de Michel Bras. Rodez: Editions de Rouergue, 1991. Bryson, Norman. Looking at
the Overboked. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1990. Buchler, Justus,
et al., eds. Introduction to Contemporary Civilization in the West. New York:
Columbia University Press, 1965. Buci-Glucksmann, Christine. Lafolie du voir :
De I'esthitique baroque. Paris: Galilee, 1986. Burckhardt, Jakob. The
Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. II (i860). Trans. S. G. C.
Middlemore. New York: Harper & Row, 1975. Camus, Renaud. Le Departement de
la Lozire. Paris: PO.L., 1996. Careme, Antonin. L'Art de la cuisine frangaise
au xixF sikle. Paris: 1833-5. Carvallo, Robert, ed. Joachim Carvallo et
Villandry : Merits et temoignages. Jou^-L^s- Tours: privately published by the
chateau, 1990. Cassirer, Ernst. The Individual and the Cosmos in Renaissance
Philosophy (1927). Trans. Mario Domandi. Philadelphia: University of
Pennsylvania Press, 1972. Cassirer, Ernst, Paul Oskar Kristeller, and John
Herman Randall, Jr., eds. The Renaissance Philosophy ofMan. Chicago: University
of Chicago Press, 1948. Chandes, Herve, ed. Azur. Paris: Fondation Cartier,
1993. Charles, Daniel. "Closes sur le Ryoan-ji." In Closes sur John
Cage. Paris: Union Generale d'fiditions, 1978. Cohen, Michael P The Pathless Way:
John Muir and American Wilderness. Madison, WI: University ofWisconsin Press,
1984. Colonna, Francesco. Le Songe de Poliphile {Wcnice, 1499; Paris, 1546).
Ed. Gilles Polizzi. Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994. Comar,
Philippe. La perspective enjeu : Les dessous de Timage. Paris: Gallimard, 1992.
Comment, Bernard. Le XD^ siecle des panoramas. Paris: Adam Biro, 1993. Dali,
Salvador. Oui, vol. 2. Paris: Denoel/Gonthier, 1971. Damisch, Hubert. Theorie
de nuage. Paris: Le Seuil, 1972. Dams, Bernd H., and Andrew Zega. Pleasure
Pavilions and Follies in the Gardens of theAncien Regime. Paris and New York:
Flammarion, 1995. el-Khoury, Rodolphe. In Visible Environments: Architecture
and the Senses in Eighteenth-Century France. Ph.D. thesis, Princeton
University, 1996. Etlin, Richard A. The Architecture ofDeath: The
Transformation ofthe Cemetery in Eighteenth-Century Paris. Cambridge, MA: MIT
Press, 1987. Felibien, Andre. Les Fetes de Versailles. Paris: Editions Dedale,
Maisonneuve et Laroze, 1994. Fox, Stephen. John Muir and His Legacy: The
American Conservation Movement. Boston: Litde, Brown, 1981. Foucault, Michel.
The Order of Things. New York: Vintage, 1973. Fuchs,Elinor.
TheDeathofCharacter:PerspectivesonTheaterAfterModernism. Bloomington and
Indianapolis: Indiana University Press, 1996. Gillet, Philippe. Le gout et les
mots : Littirature et gastronomic (XIV-X)^ siecles). Paris: Payot, 1987. Hale,
John. The Civilization ofEurope in the Renaissance. New York: Athenaeimi, 1994.
Hauser, Arnold. The Social History ofArt, vol. 2 (1951). Trans. Stanley
Goodman. New York: Vintage Books, n.d. Hunt, John Dixon. The Genius ofPlace:
The English Landscape Garden, 1620-1820. New York: Harper & Row, 1975.
Hunt, John Dixon. Garden and Grove. Princeton, NJ: Princeton University Press,
1986. Hunt, John Dixon. Gardens and the Picturesque: Studies in the History
ofLandscape Architecture. Cambridge, MA: MIT Press, 1992. Jaspers, Karl. Anselm
and Nicholas ofCusa. Trans. Ralph Mannheim. New York: Harcourt, Brace,
Jovanovich, 1966. Jardins contre nature. Traverses 5-6. Paris: Centre Georges
Pompidou, 1983. Jellicoe, Geoffrey, Susan Jellicoe, Patrick Goode, and Michael
Lancaster, eds. The Oxford Companion to Gardens. Oxford: Oxford University
Press, 1991. Keeney, Gavin. Nobk Truths, Beautiful Lies & Landscape
Architecture. Masters the- sis, Cornell University, 1993. Krauss, Rosalind. The
Originality ofthe Avant-Garde and Other Modernist Myths. Cambridge, MA: MIT
Press, 1985. Kristeller, Paul Oskar. Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance.
Stanford: Stanford University Press, 1964. Kristeller, Paul Oskar. Renaissance
Thought and the Arts. Princeton, NJ: Princeton University Press, 1980. La
Fontaine, Jean de. Les Amour de Psyche et de Cupidon (1669). In Oeuvres
Completes. Paris: Gallimard/Pleiade, 1958. Lamarche-Vadel, Gaetane. Jardins
secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et des prodiges. Paris:
L'Harmattan, 1997. Laroze, Catherine. Une histoire sensuelle des jardins.
Paris: Olivier Orban, 1990. Lever, Maurice. Donatien Alphonse Frangois, marquis
de Sade. Paris: Fayard, 1991. Louis XIV. Maniere de montrer les Jardins de
Versailles. Ed. Simone Hoog. Paris: Edi- tions de la Reunion des Musees
Nationaux, 1982. Lyons, John D. "Unseen Space and Theatrical Narrative:
The 'Recit de Cinna'." Yale French Studies 80 (1991). Marx, Leo. The
Machine in the Garden: Technology and the Pastoral Ideal in America. Oxford:
Oxford University Press, 1964. Mosser, Monique, and Georges Teyssot, eds. The
Architecture ofWestern Gardens. Cambridge, MA: MIT Press, 1991. Nerval, Gerard
de. Aurelia (1855). Paris: Flammarion, 1990. Newhali, Beaumont, ed.
Photography: Essays & Images. New York: Museum of Modern Art, 1980.
Oettermann, Stephen. The Panorama: History ofa Mass Medium. Trans. Deborah
Lucas Schneider. New York: Zone Books, 1997. Panofsky, Erwin. La perspective
comme forme symbolique (1924-5). Trans. Guy Ballange. Paris: Minuit, 1975.
Panofsky, Erwin. Studies in Iconology (1939). New York: Harper & Row, 1972.
Pascal, Blaise. Pensees (fidition de Port-Royal, 1670). Paris: Le Seuil, 1962.
Perez-Gomez, Alberto and Louise Pelletier. Architectural Representation and the
Perspective Hinge. Cambridge, MA: MIT Press, 1997. Petrarch, Francesco. Lettres
familieres et secretes. Paris: Bechet, 1816. Petro, Patrice, ed. Fugitive
Images: From Photography to Video. Bloomington, IN: Indiana University Press,
1995. Poe, Edgar Allan. The Complete Tales and Poems ofEdgar Allan Poe. New
York: Modern Library, 1938. Revel, Jean- Francois. La sensihilitd gastronomique
de I'Antiquiti a nos jours. Paris: Editions Suger, 1985. Roger, Alain. Court
traite du paysage. Paris: Gallimard, 1997. Roger, Philippe. Sade : La
philosophie dans le pressoir. Paris: Grasset, 1976. Sade, Donatien Alphonse
Francois de. Juliette (1797)- Trans. Austryn Wainhouse. New York: Grove Press,
1968. Sade, Donatien Alphonse Frani^ois de. Justine (1791). Trans. Richard
Seaver and Austryn Wainhouse. New York: Grove Press, 1965. Sade, Donatien
Alphonse Francois de. The 120 Days ofSodom (1785). Trans. Austryn Wainhouse and
Richard Seaver. New York: Grove Press, 1966. Sade, Donatien Alphonse Francois
de. Voyage d'ltalie (1776-1779). Paris: Fayard, 1995- Saint-Amand, Pierre.
"Morale du jardin." Critique "yj^G (1992). Schivelbusch,
Wolfgang. The Railway Journey: The Industrialization of Time and Space in the
19th Century (1977). Berkeley: University of California Press, 1986. Scully,
Vincent. The Earth, the Temple, and the Gods (1962). New York: Praeger, 1969.
Smithson, Robert. Robert Smithson: The Collected Writings. Ed. Jack Flam. Los
Angeles: University of California Press, 1996. Starobinski, Jean. L'Invention
de la liberti(\^64)- Geneva: Skira, 1987. Stevens, Wallace. The Collected
Poems. New York: Vintage, 1990. Thomas, Chantal. Sade. Paris: Le Seuil, 1994. Thomas,
Chantal. Sade, I'oeil de la kttre. Paris: Payor, 1978. Thoreau, Henry David.
The Maine Woods. Boston and New York: Houghton Mifflin, 1906. Thoreau, Henry
David. Walden and Other Writings. New York: Modern Library, 1950. Tiberghien,
Gilles A. Land Art. New York: Princeton Architectural Press, 1995. Venturi,
Robert. Complexity and Contradiction in Architecture (1966). New York: Museum
of Modern Art, 1977. Verlaine, Paul. La Bonne Chanson (1870). Paris: Gallimard,
1979. Vidler, Anthony. The Architectural Uncanny: Essays in the Modem Unhomely.
Cambridge, MA: MIT Press, 1992. Vidler, Anthony. The Writing ofthe Walls. New
York: Princeton Architectural Press, 1987. Weiss,AllenS.Flammeetfestin:
Unepoetiquedelacuisine.Paris:EditionsJava, 1994. Weiss, Allen S. Mirrors
ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-Century Metaphysics. New York:
Princeton Architectural Press, 1995. Weiss, Allen S., ed. Taste, Nostalgia. New
York: Lusitania Press, 1997. Wrede, Stuart, and William Howard Adams, eds.
Denatured Visions: Landscape and Culture in the Twentieth Century, New York:
Museum of Modern Art, 1988. Wind, Edgar. Pagan Mysteries in the Renaissance
{1958). New York: Norton, 1968. Wittkower, Rudolf Allegory and the Migration
ofSymbols. London: Thames and Hudson, 1977.Grice: “Measles is natural, dying
from it is not! Dahl’s daughter died from complications of measles –
unnaturally so – poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo
Alessandro Collini. Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia,
pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio
Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una
nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s
daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689833619/in/photolist-2mKDUFV
Grice e Colombe – Aristotele, Galilei, e
la stella nuova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! –
you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the
serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno
strenuo avversario di Galilei. Non si sa
quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende
la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove
osservazioni sia verso la coerenza logica.
Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta
di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il
moto della Terra. Per conciliare le
osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la
concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che
le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale
perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da
Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare
dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche
una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per
essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a
galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non
possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle
Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva
soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella
corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli
Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo. • H 105 by Stillman
Drake STILLMAN DRAKE Z' ■%AS»^
*2 é tii
DIALOGO DE CECCO DI RONCHITTI Da B r v z. e n e
. IN P ERPVOSirO De La Stella Nvova. Al
Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego
de Paua , so Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte,
per la medejlma Stella, centra Arjlotel^ . ls3
*9 «3 te
te te In Padova, g£Ì Apprcflb
Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v. H ikSk tk^s skfjh «^EsS* «JbJU (?X:§(s
P AL LOSTRIC.
EREBELENDOPÀUO::. E L S E G N O R Antuogno
fquerergo 'Dennett* fimo Calone*o de Vjua ,
Vedifleo, RebelédoSegnor Paròn , s'a vee&è on voftro
puouero feruiore,que no fé me altro , che la boaria , e'1 mefticro
de pertegar le cam pagne, ade-fio, que el la to- leflfe co* vn
Dottore de quiggi da Paua, per via de desbuta ? no ve pareraela na botta
da ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre fé conto c'hò
fatto con fèquellù, che le mef fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio
dot- tore . L'è vera , que inchinda da tofatto , ci A 2
me nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito, e fi a
g'haea gran piafere desfeguranto la boa ra, le falce, i biron, la
chiocca, e'1 carro,con tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae
iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil- le, emilliantabotteadire
mona confa , mò n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella nuoua,
que dà tanta fmcrauegia a tutto el roeflb mondo ; per conto de dire on la
fea, a ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia j faellanto,
edesbutanto co quanti difea, che la n'iera in Cielo 5 que fé ben a no ve
n'ada- ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi, efia
vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a
tegnia mcn te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef
foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg gi , fé conto cha m'ho mettù el
voftro gab- ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha- nore. ma
fé, pre mala defgratia, el ghe foef- fé qualche fcagarello(cha no'l
crezo) que o- lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche a darme
alturio,fipiato che l'è voftro . Caro Paron habbieme per recomadò,cha
prieghe lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da* ghe vita longa,
e fanitè . Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie
cento, ecinque^. Seruiore della voftra Segnorra
Cecco di Ronchitti, DIALOGO Quiggi , che
Rafona . Matthio. Nale. Ootta de chi me fé 5 mo que
feccura , que brufa- mento e que fio ? a sè> che no vuolpiouere
mi , bon ctt aqua . Mo no difegi , que a le Vegniefìe l'è a man a
manfute le lagune ? Penfeue^elfe ven ape inchin da a slarilafofina
. <td pojfon ajpiettar de belo, que i fromintinafcira. i nafcìra
condife zJldafchio . N A. a dio, a dio, Adatthio. quefaellamento el to ?
iejliefl sì fora de ti an\ MA. ben ve gnu Na- ie 5 mo caro fretto
> a no se mi. a m'anda- fé a lambì canto el celtbrio, per que no
pio uè mi , que fin parfefire de Ht timpt ? gtiè pligoloy che gi
ardere del Gordon fé rompa % rompa , per le pine
? NA. Ver canto de quello , l'è ongrétn dire y que tant ciòtte
el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò ba da,e fi gi è torne indrio
fenz^a bagnare el fabbton gnan tanto co harae fatto on pijfar de
rana . <*// evèrtè < que fé l <và drto così a feron al finimondo
mi I p> è e tutti brusè y le campagne fecebe a muo noffo \ tanto
que a longo andare, nu elbe Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne
tre. MA. Tirate on può fottofla voga- ra 3 in t* agno muo el gtie pi
dvnhora a fera, da quecrito mo cheU fprociedafo fccume an ? NA. mo
nheto vezju quel la Stella, chesberlufea la fera \k tn mi- fi, que
laparea nogio de z^ostta) e fi a- dello la fé <vè la mattina con fé
<và a bri*. fare, que la fa on [pianare belettfèmcì no
t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre- (co ? e que no la s*ha velati a me
pi inan%o d adejfo ? mo tè ella cafon de Hefmera uegie, e de Hi
ficchi ^fegondo.che dtfe ori \ dottore da Paua. AIA. Cu in feto ti,
que la no shablne me pi ve&ua ? NA, <*si fen-
% ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on certo slibraT^uolo.efiel
dì fé a , que la fé fornente a desfegurare lomè a gì otto del me fé
d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^ zjtolo el l' haea fatto on lettran da
Pa- nai chel contatta , pò afe con fé . MA. *Doh cancaro a i
fcagarieggi da Patta , faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello
> il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi la noghefuppifta
? -Guari mi a n ho mi *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe . NA.
Jidopre conto de quello , el me par pure aria mi , che la fé a nuoua .
AIA. qlA no dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò de fae Ilare
ne ben \fe miga elfoejfeper gramego , NA. ^4 fé confagòn tonca, que
te nuoua. AIA. Sì, mofeando tan- to lunz^i el no pò faere &g que
lafippia , per dire, che la xe ella, que no laga pione re . NA.
^liedio, lim^i , la n'è gnan fora a la Luna, per quanto dfea quelli-
_ braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù , e' ha O] fatto l
ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? * NA. Nò, che te Filuonco .
<&1A. Lì Filuo- Fituorico ? e ha da far e
lasoflluorìa col mefurarc ? No feto , que on z>auattin no
pòfaellar de fibbie ? El he fogna crerc a gi fmet amatichi^que gi è
pertegaore de t aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a pagne,
e fi a pofjò dire, a rafion 3 quanta le xe longhe 9 e larghete così an
iggi. NA. El dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9 che ì Smetamaticht
ere, que lafippia elta de bebi ma che i no l'intende . A4 A. mo per
que no l'intendegi? me truognelo, o me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i
Si- *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele , e
z^enderabele in quato a onpuoco a la hot taf e mtga elno poeffe gender ar
fi, e fior romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ? MA. On
faellegt de fiere fon tfmet ama fichi an ? S'i Ftà
lomefulmefurare>quc ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi
le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo- m raegi ne pi , ne manco
tuorlo definirà ? mo el tne fa ben da rire , con Hefuò sba-
*~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi- fi confi de Ha fatta in
pur afise luoghi de quel quel libra^ZjUolo.sZMÀ.
Que vnctu mì> ^*jj cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p
" u s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que fé lafoejfe sbenderà
da nuouo in lo C/c lo, el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o
qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in so fc ambio liueluondena, h
vefinaqueL la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco . Ai A. TV
parfeche'l faelle con gifmeta rnatichi ? tamentre l'è tanto
fcapu^ZjUa, cha no poffot afere, mettamofegura>que onpuoco de
Cielo chiue, e n altro puoco li uè, s'habbi combino a vno^ el
s'acuorz^e- ra elio on el manche ? quando fé fa le nu noie, e le piozje,
onfevèelfegnale , que le fé a He tolte per mettrele wfembrefmo
digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie re, perche el "vuole,
che lafappi incende ra line elltk? Epos'imaghinelo (la ferae ben da
dire al preue ) que tutte le felle che xè in Cielo fé pofia vere r el ne
pos fi- bule . Eperz^uontena>> chi me tèn, cha no pvjfa dire*
que trè>o quattro, e ari pi [iel- le de quelle menore , che no fé
<vea,fe xe B amuc- cap. 4 .
cap. 4. amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a
<iran~ de? No porae an efifere ,que la fé foejfe penderà in
Papere, e pò , chefempre pi lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^
refie con/e, per que la ne me firefesfion, no me ri mudatomi-, bafia >
que gnan elo noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche quefiofea el
neruo de la rafon de Stote- ne . ^MA. Toncafipiando così me fero el
neruojutto el so Zjenderamento.e fcor rompimento ander a in broetto. NA.
S'i nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL la . Eldife,
quefe'lfepoeffe Xepderare in Cielo de le ftekenuoue, el befognerae
y que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor rotta qualcuna de
quelle >che fempre me xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuor-
do quante : bafagt eparegie\£ fmoghin manca gnegima, que el lo difettatene
. MA. Pìivh , mo queHa firen%s benfen l^a penale, chi diambarne
ghkndttto* che Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce ben on
fpianXare , mo no na [iella. E fi mt a thè wchtndamo chiama [itila >
per que que la in par e, fé ben la rì e, corri e
le altre. NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì mi ? bafa.che la
riè na [iella purpiamen. e file altre fi elle no fé xè me
ftorrotte,per que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe- fogne dt
f Atti fuo : mo no de quefìa , che fipìanto vegnua, l'è anche ti
deuere,quc la vaghe via . E per conio de dire , que no s'ha me
ve&uHelle afeorromperfe^ re [pundime on può. La terra ( che xè
me- noredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta in fona botta ? NA.
Mo, copeforinfe la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf fangi tutti a
fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a
può coel fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe anche de le [ielle,
que xè [ielle. Pure > a domanderae enti era a queliti dal librai
z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella no fé fa mèfeorrotta de fatto,
che per di re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab- li ado, e
(jue el Cha ditto Stoterte $ le me par noellemi . NA. el
dife>cjuefefia [lei T „ rf t x làfoefje m Cielo>tutta la fluori**
fnatu- cap ' r * C 2 tale cap. 4-
raleferae na bagia $ E que Statene ten \ que arZjOnz^antofe na
Bella in Cielo.no l porae muouerfe . AIzA* Cancaro, l'ha bìo torto
Bd Bella, a deroinare così la fi- luorìa de que fioro . s'afoefiè in iggi
a fa- rae e et aria denanz^o al Poe fio mi , e fi a ghe darae na quarela
depujfefsion tmba t a, e fi a torrae na cedola reale >e per fona
le incontra de ella, per que te casòn, que f ?&c ni " e ^
Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te manco male^ che el ghe nepancchiie
an di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA. ^j; Mo rì altra,
con que re fon (difelo) quei Cielo de fora xelo da manco de gì altri
? que elvegniraea ejfer da manco fipian- dofcorrottibele,e naffan
doghe de le (leU lenuoue , e no in gi altri , eh* è pi baffi . IAA.
Cancabaro, da quello a zi altri, el gtie defenientia, per conto de macre
, pt % che né dal monte deB.ua a on gran de me gio ;
ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^ el pò haere de le altre Belle
da nuouo^mo nò fi altri , que gì ha afse dcvnaperv- no>e
phfclghe nafajje anche in iggi quàl che che
flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti la verde defatto f 'o te cottora.
NA. Eldi fé, que per fare el mondo Fptefetto , bo- gna> che
ghefuppì qualconfa incenderà- bete , e incorrottibele , e fi la no pò e
[fere altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per que mò cosi
el Cielo ? E mi a divenne el Parafo, che xe defora dal Cielo , xe
elio così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La ghepar na confa
imposfibole^que na biel- la così gran de tifj^e ma poffa de fatto
borir fuor a in tvna preuifta . MA. E a mi nò. Quando na Vacca fa
on Veello, alt» hora % che te lomenafìi, te maored'vn ^Agnello que
fé a crefsu inchinda in cao . per que mo? per que la mare
delVeello, don belpeXzjatto, tè maore, que riè na Piegora . Fa mo
tò conto , che Uà Stella despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere
gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan te defletto ala terra, te parfe
mò , que tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe tè così, a comuò
calelajn pè de crefcere, la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela
e p. 4. qjavhe cap.
cap. 4 maghe dagnora pi in su mix, e que % l
para] che la cale, per que la ne <va lun&i.NA. Pian, che el
libraÌQUolo df>que i primi di, che la fé vele la crejcè on
btlpuocofe l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare $ per que
fempre la ferae cala. MA. &4l l'hora quella dal libraz^z^uolo difea
ef fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que la prima botta eh a
la <vitila me par [egra denijjema , e que fempre la xè cala , per
muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie refon no me per du fé ami >e
fi afaello,per che quellu dal libral^uolo va majfafuo ra del
fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin carezza . NA. Orbentena>fìnti an
que- lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente in lo Cielo, per que
{di feto) el befognerae, che'l ghe foeffe di contragi, e che ino
ghe pò e fere, f piando que tè ria quinta /una ^t, òfoHantta\
quefegi mi? A1 A Mo sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere
quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i feaviui,e fi 1 1 noi fat
Ilare de Culo. §A cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai
do > •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an
chi- ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f fo,e del
chiarore dei Inferitele dei feuro? che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a
l'inco tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha [iella ghe poca
cffere,e fi no glfiera , e fi adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo
? moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora quel , che 7 vuole . E
pò elio el fa conto de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar lega
de He re fon ? on fita halo catto , que onmefuraore vaghe Jfelucato
sufìenoel le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo cane aro , el gti
arz^onz^e , que fé in Cielo ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo
elno fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el doenterae tyejfo, e
f curo. AIA. Si fé qui leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo
gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na botta adire al mèparon.que el
difea.che Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que a fio muo,el
Cielo noporae anar a cerca <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti
in sii, in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi a
diejfe cap. 4, cap. 4 >
Io di C nico eap. 7- a
àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe attorno ? El gh' amanca i sletranique
di pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa na ^! pe
" muoia da molin . penfate mo ti de gi al* tri con la va a faellare
, tutti sa fretta- re > NA Eldife pò, que la fi ella xe ape la
Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no che pò efserfuovo. ^1 A. .L'ha
fatto ben adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon. NA. E così el
tèn, qùe'l fipìa air e, quel- lo, che lecca ci culo (a vuos/idire, el
Cie- lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea ben dire an
quejìasì. NA. E (diftlo) el u Cielo no pò e fi ere de fuogo,per que fan
to così grande el bruferae tutti gì altri le- minti . MA.
<z5fy'lo me vegna e l morbo , che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe
la yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na fa! tua fola no
bajìeraela a tmpigiare on paviaro, e pò anche a brufare quanto le-
vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì mi. MA. E fi quante fornafexe
atmen do, le no porae brufare on Cecchin , che foefje d'oro, per
que mò ? feto per quei mo per per que loro no fé
pò brufarc . e così an* che fé gì altri lemintipoejfe brufarfe, ba-
Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet- to-, fenXa tanto co Idi fé
elo. NA. Lavhe va la , quanto de quello 5 mo crito pò ù fremamèn,
chel Cielo fea fuogo? AIA. oA no dt eh e così mi .Uè che'l dottore
ci- ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife fenz^a metreghe
su volto, gnefale. NA. aPklo finti ti altra , que la ne miga da
manco no. El difè ì que i fmetamatichi ha de boni ordigni , e de le re
fon freme y ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co- mito fé ri
elo adb elio ? feraelo me fr elo de la t or dal Bo? aldime mi. fé on
fmetama fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà : Naie, mi a
<vub faerte dire quanto gh 'è per aire da lì a nogara a l'arare; e fi
el lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo- uerfe 5 e col l* babbi
me furo , e quelite /'- babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì
co'vnfi lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi que tè così 5
no che r de reto , che Vvouere ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi ,
que C cade ? cip. r .
p.l C^>. tap.f.
cade ? MA. Perche toncaquandoel me fura na Bella (per muo de dire )
ogiongi dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla , chel falle de
millanta, e de milion de me giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a
dire, quattro dea, b na fpana,a taferae. mo de tanto ? l'è maffagnoca. N
A. Se- topo, querefon de i fmetamatichi^el ven a contare? MA.
T>ì mo. NA. Vnaxè de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer
cene, e que la Stella, così a no la pofsan vere, per pi de mezjhora. E n
altra de anarghe fottoapiombm , caminantoghe al ver fa vinti dìt me
gì ari. e fi ti dife.que le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è
amo frare , que la fella fea pi in su de diefe amegia-y e fan elio
di fé, che l'è on belpez* ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è aguti*-
Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChri- Bian, que la Bella vaghe pi in
su de die- fe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè fegnale que
le riha da far con elio 5 per- che tonca mettrele fui so slibr aiuolo,
e pò dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re* fori
jfo# Ufo fatte (per quanto ì dìfea a Vaua 7^k buoni di) con
tra on inasprente di fi- luorichi de S tot e ne , que althora
tegnta duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die fé amzgta 5 e
perz^uontena queliti dalli- braZj^uolo die a lagarle Ilare > que le
no ghe daea fall ilio . NA. orbentena, ghe ne pi? diJJ'e que lù, eh
e e attratta iporcieg gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on
brut to intrigo de Prealajfe , e de <vere , e de Luna . que fegimt
? p rifate, che quellù, che le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\
de tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A. £1 die haerla intriga
a polla elio, perpa vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la fera pò
a n altro muo, perche a se ben mt,que de la Prealajfe el no pò haèr
rafon. che l'è on muo de me furar e per agiere,maffa feguro. NA.
Lagame mo vere sa me rì- arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9 che
no fé pò guardare de meXpfuora a na lì e Ha 5 e que fiaganto così da
/unzji , el nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfima- mentre ,per que
t 'è na confa, (ondale que. e 2 ma. cap,
*7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe ne ditto pareggie in
fon groppo . chi è quel lu, che cherZja de poerfmirare de me%o via
a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof fa? che cane ab aro de filatuoriefe
vaio a imaghinare ? gh' in falò de pi belle ? que Ha fera lacrima.
V altra, a comuo e at- tenevo miegio el mez^o d*vn criuello j
mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^ iTb" d & te on
belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe E b uctc & t' ^ a lttnz>i>per
que s'aghe foejje a ve sin, a no porae gna desfegurarlo que flejfe
ben. MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9 que no fé pofa cattar el
melo^ de le Ftel* le \ per che gièlun^i ? %A l'altra . in che
dariflo pifremamen in lo mez^o % con na occhia Jn quel d*ona ballalo d'on
gamie* ro? NA. CancabxrOi aona balla iper que co a l'effe giti fi a
infdhverfò , la fé- rae giù fra in tutti . M A>E pure elio el dt
fé a l tn con tr agio . NA. Mo elgh'ar- ZjOn&e que gi è {al noffro
parere) majfa pècchemneyper cattargheel meZj0.MA. sì> el dtfe an
§uefta ? e quattro tonca, in ) t on
t'onboccon. dime onpuotì. a comuòpo* rtfto fallar pi > a
dar in mez^o Confondo da ttnaz^ZjO , o d*on taglerò ? a dighe de
mofìrarlo. NA. Fotta , a por ae fallar don belpuocopì in f ti fondo da
tinaXr z^o , che in t el tagiero . A4 A . Efielbon dottore dal
libraz^z^uolo dife a l'incontra, gio . Va modriOy de fa Trealaffe.
NA. Aio no fé podanto fmirare de mtXof r uo* ra a le. fi elle , no
fé pò [aere on le fìppia ( dif lo) perche no fé ve elluogade drio*
ghe . esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban fu ngraile de la me fiala da
manie chel lo f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su quale
elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn granfa re . a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du,
e tr)> inchinda > chafoeffe Ime , e quando heffè ditto , con
far a e a dire 9 nuoue> e e ha veeffe 9 che in su quell'altro ghe
foffè el gabban , a dirae , que l'è fui die fé mi . no vaia così ?
AdoA Mo la no pò efsere altramen ella , e così anche fi vena far e
in lo CielOifeben quel letr anello non s'in sa adare . Uè benpìgrofso,
che né elto- raT^Q cap. tf.
«ap Cip. 6 razzo de Cremona vè$ che
ì dtfie> que l'è ****• s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar
don in la Luna, el noflro vere fé ghe fic- ca entro (dtfielo) e
perz^uontena ho fé pò fare la prealafiftLJ . <&dA. Chel me
fio che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn te Belle de fora
, chelfiarae on pia/ere , fé lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo*
rae fallare, el me par pure , che'l diga , que no fé pò vere mela la
Luna, negna mele le He Ile , filanto , che le xe grande % e'I
noflro desfegurameto tira mafifaftret to , fie ben elfie va pò slargamo .
<&14A. ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela da che cao te
vuofi , l'impegola . che me fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere
tut ta la Luna , ne gnan tutta na Bella? no bafla eh a la vegga on
puoco , e cha la me fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò> te na
bagia la que fi a . doh mal drean$ el fie fafiea pò bello , d'haer catto
na fpe- lucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta mattchi . IMA.
Seto que le na confia > che no gtìì me fio penso ? mo per la ma-
re cap. 6 re ib. T- '
re di can, que inchinda on Veelo thàfk pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò
fentu a [X. dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££
riha te gnu tanto in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i ctì andagamo inanXp ?
<^/aA. Sì y di \ 28 ° Fr ' NA. F rello te te fari s fi fcompifso da
ri- fo y Whaisfi fentio vn batibugio , que ghe *•«*• Xèy de
<lA> By Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^ , 1? »» talea
offerire , che la Prealaffe e bona , mo i fwetamatichi no la sa vouerare
; que flaghe ben . <&14A. Elnodie inten- dere gnan elio
zj> y cheldifi^ . Tirate on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y che
apèfiofofsà ? NA. Sì mi . MA. *Uito mo quell'albaray che xe lialuon
de- tta vefin a tar&erz_j ? N<tA. Quale? la grande , la
pigola ? MA. Lapec chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo . MqA.
Orbentena , guarda mo bender- to $ qual te pare , che fea a bo da man
* de Ho falgaretto , e de queltalbara ì NA. Staganto così , el me
pare mu que talbara egnirae a ejfere a bb da man . M$A» Tirate mo
da ft altro lo . NA. ave- a njegno . M<tA* F
remate chine, e ade/ fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el
fato aretto farae elio a bo da man , e l' ai- bara a bo da fuor a .
zsllzA. ^rue te fa mo a ti 3 fé miga te no <vi de meZjOfuora el
falgaro, ne l'albaraf e que danno te da, -per che te nopuofivere anche
elio de drìo , de tutti du ? N$A. ^Mo gnente , per que
afmirofegondogi *vri de le fior- z^e mi, e no figondo a quello, cha no
veg* go . <&dA. Elfi fa così anche in agiere <ve , e que
Ha xè na forte de Prealajfe . ^Torna mo chiue on a fon mi . NA <±A
ghe fon <vegnu mi . a^kttA. Cjuardanto de cima via aflo
falgaretto.puotuvere queltalbara , cha te difia , fi ben la ghe xè
per mie ? N<tA. Lagame mo guarda* re.pùuh$ mono mi. AlzA.
Stefuùfl mo tanto lunl^, che guardanto de cima fuor a alfalgaretto,
te credlsfi definirà- re derto a mez^alama.e te t o facuorz^tf fi
d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot fi fi pi elto de /li du .
N<t/1. $A fi ietta cha ghepenfe on puOco : %A dirae defatto,
que que t albata foejfe pi baffa> t*l falgaret
io pi etto mi 5 per que el me parerae co- sì* anche no /tanto elvera. Ad
A. Fa ori può ri altra con fa. va su fi a nogara,cha fagiere mi .
NA. One vuotufare ? zZl'IA. vaghe , e Po te fenttnefi . NA. <td
gtiandere , fda che te vttò così . Qt&fA. Pian, chete no te f aghi
male . NA. Ta de mi ; mo a mefongifquafo fcapogio riongia> e
mondò vn z^enuogio. Ai A. G hefìto ancora ben fremo? N A. Sì mi.
que gtie mo ? ^PIA. Torna a fmtrare quell'albara , che te guardaci
an chi de [otto . NA* E pò ? <&dA. S mirato a quella
dertamen,puotu vere ftofalgaretto > co te fafìui flpiato de fot
to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu Xi. così a telta> a dirae,
queelfalgaret tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca lo* cha te
contere de belo . NA. E l gif è puocafatga a f aitar z^ofo . Al A. S
in- time mò.per que quando te gì eri ab affo, elfalgaretto
tepareapì elto delialbara\ e ftpianto su la nogara , el te parea a
T> l'in- 'tincontragìo j perXuontena àn queHo
xe ri altro muo de Prealaffe^j . que Prealaffe ven a dire, con far ae a
dire , defenientiadeguardamento . Fa moto conto, che fé
t'andiesfìsìt quel moravo, che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì
baf fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor- niesfipo da IV altro
lo,elfalgaretto te ve gnirae a parere pi elto de l* albata. , e &
bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo de Prealaffe ^fegondo, che me
defchia- rlna botta el meparon. ttntindito mo? NA. Pootta, mo Te pi
chtar-a % que riè on gratto da vacche, a me fmerave- gìo a comuo
quelli dal IibraXZjUolo,ri ha fapio faellay e lome d'ona forte de Prea
laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa •rae Ho anmafa , fel , ri
keffe fatilo con fé die . Orbentena ?fa mo to conto, que fé la He
Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe ve sin co èflofalgaretto,a por non, le
fisi le de fora nefarae don bel peXzjOpilim ZJ>
cheriequell'albara. e fi farae popi- bolo >que no ghe foeffe da ì
Spagnaruolt h ci cap. y. e i
Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de guardamento ? e pure tutti la *ve in
lo rftèdìerno luògo, api k quelle [ielle, che i ghe di fé. quel da
la baie [Ira > o che ghe fita del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA.
A/lo el tòfaellamento rièbon,perque nepof Jìbolofaerc quanto la
Luna fé a lun\i $ che elio di fé anquellu dal libralz^uolo a AIA.
Nò al so muò de elio , el no fé pò faere . mo i fmetamatichi chela
catta, beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi ,fe lome, che the refon
da vendere . MA. Crito mò,chequellu d al libr aiuolo di rae cosìan
e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa raeben 5 tamentre elporae efjere
tanto depinion , queeltegniffe duro . cinque in vin. Ad A. Che'l
tegna pur fremo , e chel metta a me conto . NsA. ^A no se miga,a
comuòfea Ho posfibole, che'l di- ga (l'altra, que te fentirè adeffo. ino
no Ic,m dtfelo, che in gnegìm luogo ,fe tome , on el ghe xè fora dertamhì
> e apiombw ,na fepòfare lafcoridaruola del Sole? a thò
purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu 2) 2 brio,
cap . 6. IfrOTCII, «ap. 7-
èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna gi vogi) el fé por a
chiarir e,che, per yuan to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio con
que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La Luna fé va volz^anto (difelo) e
filano fé pò vere dert amen dome quando la xe in Z aneto .
<&14A. Tornami) adire . NA. El dife elo , che nofipianto la
Ltt na in Z aneto, no la pò fondere tutto et Sole . ^MA. c Doh
giandujfa , fio può- uerhomocrhque la Lunafea nafritag già elio .
Con cane arOychefìanto ella reo da 5 quiggi , che Ha in Zaneto ,
gtitnpò "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl Sì. que vuol
dire Grafalta? &WA. eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé elio,
que l'ina nuuola a muo latte , ve- sin a la Luna , e que la ne altramen
in Cielo . <£WA. Oò , a tendendo adejjò. l'è laflrà de %flwa .
NA. <*An sì sì, la fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue la ni in
Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo. MA. Con cane abaro ghe dijjangi
tonca nù P Hra de Roma, che vuol dire , Hrk del Par
affo, fé la no foefse ti fufof ] NA '. Cjuarda ti . e sì elfapo delle
sbraofarì contra onFUuorico(eben an divieggi) che no crea,quelafoeJfe
in Cielo , per che ellodifea Stotene > che la gh'iera . Ad A.
Ofsu andagamo inuerfo e a, que te fera, in f agno muo a pò fon
benfael larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha ve gnomi, pooh, el ghe ne
que Ut puoche ancora . el di fé , che la ftella nuoua la
trema>per que la fé va suentolato,quan do la va a cerca . ^lA.
Ghe'lcritotì? JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef fé paregte
delle flette, que va a cerca , e fi no trema mi. e fi el trema tome
quelle* chexe elle, elte>perque a nopofsonfre- marle de vifta,
che paghe ben. e anque fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd:
Àdò va , che te sì on Rolando . NaA. Tamentre que, nofapianto queHù,
on la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere co- muo la flpia
incenderà 5 e sì le venaej fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé
a \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala el
ni cap. U cap. 19. elle fogna
ben > que la fea così. NA. Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo dt
Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ?
NzA* El dìft , que la Beila durerà afte s afte, /e s'im-
batte j, che L Sole no la desfaghe , elio . At^sL El poca an dire, que la
durerà inchinda , que elio va a romprela 5 in t* avno rnub , con la
(e a anda via, el pa- ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà
rotta . N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal drean $ quejìa farae ben de
porca ! El *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno
confa, e que l'è na Bella de quelle bone. J\d<zÀ. Inchindamb la va ben
, quanto de quello, mofe la tegmffe mo fremo con Bi ficchi 9 a que
ftjfangi ? crila purea tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel le
puoche con fé . M<t4. Con farae a di ^; re ? NtA. Con far a a
dire^ quei doen* tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te- stura a
la verite . AisA. Vete> che'l se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no
vito a comno te agnino \ el ne amposfibolo % chel
cup. li. chel viua , habbìanto tanto e dibrio
da Xoene^j . N^4. T^e me sbertez^à nero ? dì pìprefto , que el
fprenuoUuo è Ho ve ro in nìi, que a s'haon tegnu a la veri- te, fé
ben elio voi e a archiaparneght^j . zTkfo/l. T'irà , che f he vento.
iVW. El dife pò anche * que Ha Bella ca7z, \ - ra via le giottonarì
, le rabbie 5 quf /i- gi mi ? oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle
in perorare , le nuollre carte > mo ano me fmerauegio
difuofprenuoHichi,que tutto el so libr alinolo me pare onfpre
nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a indiuinare^ . N^4. El dife ben ,
che el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F ' [lampare^ .
zsì4<iA. Che l foghe pre- flo,per que feanto vesjn Li
^Marefèma-, e l farà bon da qual confa an etto.ftgon do, che que
fio n ha fatto rire adejjò y que l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt
, che le&ea diffe , che'l creapurpiamen , que el l'haefje fatto
flambare per ven- derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo
. M$A> Che'l U&re tene* a tfazy Zjargi,
Lorerc* cap. f. 6. sgargi, e fé ghe
nauanZjeffe qualchuno, chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel
caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3 che l farà ben meffo in conerà
. N<tA. Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare a cena con mi
? a fin dare ontiera ve . Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe
nega rri afptetta 5 tamentre a fin def grati . AV/. $A T>io tonca
. MzA. sA 'Dio . IL FINE
IIMII asS a£$5 * 1^/7 >" r»
* 1 "- ; <r* li u
TU ■ 1 JL ■ ■a
■ Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to
Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe.
Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible
substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has
always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s
reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colombe” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691918564/in/photolist-2mMLXtT-2mKQAtf
No comments:
Post a Comment