Pl€°Ifl ffRMBIKOjI. KflLYPSO % H. ^' l'.^^>^>M- Z%!^-'^^J1 'V, j^i;»-' AL bO FLRRABI MO Kf\\ypso PIC^ BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB EDIT. Digitized by the Internet Archive in 2011 with funding from University of Toronto http://www.archive.org/details/kalypsosaggiodunOOferr KALYPSO ALDO FERRABINO KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito TORINO FRATELLI BOCCA, EDITORI MILANO - BOMA 1914 PROPRIETÀ LETTERARIA yti 779987 Torino — Tipografia Vincenzo Bona (12496). A MERCEDE PALLI KALYPSO LIBRO I. — STORIA. Capitolo I. La storia del mito . . . pag. 3-37 È necessaria e legittima, 3 — Il suo triplice valore, 8 — Caratteri, 18 — Il genio mitopeico, 23 — Ka- lypso, 36. Capitolo II. Andromeda pag. 39-107 Prima di Euripide, 39 — Euripide, 58 — Dopo Eu- ripide, 89. Capitolo III. La Demetra d'Enna . . pag. 109-157 Il mito siculo, 109 — Il mito greco, 118 — Il mito siracusano, 127 — Il mito contaminato, 135. Capitolo IV. L'abigeato di Caco . . pag. 159-206 Presso gli Indiani e i Greci, 159 — Presso i Latini, 170. — I poeti, 183 — Gli storici, 197 — I razio- nalisti, 201. Capitolo V. Cirene mitica pag. 207-255 11 sostrato storico, 207 — L' " Eea , di Cirene e d'Ari- steo, 210 — Cirene in Tessaglia, 218 — Cirene in Libia, 228 — Euripilo ed Eufemo, 233 — Gli Eufe- midi e Batto, 248 — Conchiusione, 254. Capitolo VI. Kalypso pag. 257-318 L'intuizione mitica, 257 — Le manifestazioni mitiche, 267 — L'evoluzione della mitopeja letteraria, 284 — Il flusso e riflusso delle saghe, 301 — La fine, 308. vili INDICE LIBRO IL - INDAGINE. Avvertenza pag. 321 Capitolo I. Andromeda „ 323-369 Il racconto di Ferecide, 323 — Perseo, 326 — Acrisie, Preto, Polidette, Ditti, 328 — Atena e la Gorgone Medusa, 338 — Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co (frr. 159. 160), 356 — I frammenti dell'* Andromeda „ di Euripide, 358 — Euripide nel 412, 368. Capitolo II. Il culto di Demetra inEnnajart*;. 371-395 La questione , 371 — I caratteri del culto ennense nell'età storica, 372 — Il primitivo probabile nucleo siculo, 378 — Le versioni greche del nitto di Kora, 386. Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399 — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio- nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407 Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420. Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448 Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 — Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru- zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu- femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli- maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis- sima, 448. LIBRO I STORIA A. Ferrabino, Kalypso. CAPITOLO I. La Storia del Mito. I, — nitto di Kora, 386. Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399 — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio- nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407 Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420. Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448 Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 — Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru- zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu- femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli- maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis- sima, 448. LIBRO I STORIA A. Ferrabino, Kalypso. CAPITOLO I. La Storia del Mito. I, — È necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta su lo scoglio al mostro marino ; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza di Ercole piegò annientandolo (1) : tali persone e vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di Mitologia greca e latina, inducono, ciascuna, al pensiero un racconto, non pur defi- nito ne' termini e preciso ne' particolari , ma costante nel contenuto, si da valere (usando espressioni proprie a fenomeni differenti) per (1) Cfr. in questo voi. i cap. II, III, IV, V. E cosi ri- spettivamente ogni volta chC;, nel testo, si allude a uno fra questi quattro miti. I. - LA STORIA DEL MITO classico o canonico, da apparire quel mito. Né il prevalente costume , a pari di molti, è senza motivi : già che si ricollega per un lato ai modi che, nel concepire ed esporre miti , tennero i compilatori alessandrini, quando miti non più s'inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e a scopo di conservazione erudita cia- scuno si ordinava secondo uno schema princi- pale, ne' margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a obliterarsi; si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, — malo quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, — pel quale la saga chiude in sé una sostanza di verità, in ispecie storica; si che, la verità non potendo esser che singola, unico similmente sarebbe l'in- treccio della fiaba onde è compresa. Ora, poiché i criterii de' gramatici alessandrini, vissuti negli ultimi tre secoli avanti Cristo, in nessun modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede nella veridicità del racconto mitologico ; bisogna riso- lutamente farsi a considerare qual via possa divenire la buona non che la nuova. Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e di troppe astrazioni il porre, con precisione sto- rica, i materiali grezzi della mitologia. // mito di Cirene, — dimostrano questi, — non esiste : meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscri- zione di Rodi; dopo ciò, e dopo tutto che è an- dato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di conseguenza ignoriamo. In altre parole, E NECESSARIA E LEGITTIMA l'indagine concreta non conosce se non un com- plesso di componimenti letterarii, manufatti ar- tistici, riti cultuali ; e sente entro ciascun compo- nimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé e per sé, il mito. All'infuori, questo può tuttavia sussistere; e per vero in due modi. risulta da quelli, sia per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica ; ma è allora diverso e nuovo, un altro mito a pena affine a qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli trapassi; ma in tal caso è di- venuto, non la forma canonica o classica, bensì la storia di quel mito. Conchiudendo : l'artista moderno clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie .di vicende, cui sottostò quella fiaba già nel pas- sato; egli, insomma, elabora una fiaba nuova, la quale può essere per certe analogie di casi e identità di nomi avvicinata a talune antiche meglio che ad altre, ma non diviene per questo la fiaba di quei nomi e di quei casi: questa in qualclie modo ci dà, solo, lo storico , compren- dendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze della favola e organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole il mito di Andromeda, ne legga la storia. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: un fatto, e una tendenza. — Riandando storie di miti accade di avvertire, chi anche sia grosso- lano osservatore, quale e quanta rete di interessi politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra, I. - LA STORIA DEL MITO musco boschivo, il crescente tronco della leg- genda. Indi, la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo e in certo momento, a quella tra le forme esprimenti la saga, la qual contenga il particolare simpatico, 1' aneddoto favorevole, o (che basta) si atteggi nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può canoniz- zare i miti. altre volte, V ala d' un poeta, la vigoria d'uno storico. 0, infine, il piti fortuito caso. — Sempre, tuttavia, a canto di questa pre- minenza d'una fra le forme mitiche, valse a traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché, comparati tra loro diversi racconti d'una saga, parte coincidevano, e pareva il più, parte dif- ferivano, e sembrava il meno ; si ritenne lecito prescinder dalle differenze per insistere su le coincidenze ; e di queste costituire la saga, e quelle giustaporre in guisa di " varianti „ se- condarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque autori intorno alle vicende, po- niamo, di Cora, legittimavano la creazione ar- bitraria d'un fittizio mito di Cora. G-rossolano errore contrassegnato di superficialità. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure sotto le uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunché, men ponderabile forse, ma al- trettanto reale: la complessiva intonazione del racconto. Il paesaggio medesimo, certo; ma in- combente la luce di tramutati Soli. L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e diffondersi. E pure condusse più oltre : a fìngere, dopo il mito di ciascun personaggio, il mito in sé, quasi ente separato, capace di influssi attivi E NECESSARIA E LEGITTIMA e passivi ; senza che divenisse tosto palese, come cotesto ente non sussista se non col suo predeces- sore logico; come quest'ultimo sorga da una contaminazione di varie forme letterarie arti- stiche cultuali; come quindi uniche esse forme costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per asserire (e lo asserimmo dianzi) che conoscerle significa giustificarne le vicende. Ossia : per affermare che solo storicamente si può conoscere il mito. Ma dopo tale asserto, e dopo scoperti i motivi reconditi dell' equivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no sia legit- tima la storia del mito. Difatti chi sa di aver innanzi espressioni multiformi, cui f uron mezzo le più disparate materie, dalla parola al colore, dal bronzo al gesto sacerdotale, può sospettare a ragione che trasceglier quelle espressioni, con- netterle in serie, narrarle in istoria debba ac- cadere per nessi, non intimi, ma estrinseci : per identità di nomi di figure d' imprese ; mentre tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, carat- teri cosi mutati di ambiente, sembrerebbero per- mettere, o comandare, la distinzion pili recisa. Sospetto lecito, questo ; ma specioso. — Non im- porta che certa temperie (dico, ad esempio, l'e- poca di Augusto, o il magistero di Ovidio) ac- costi molto fra loro due saghe di soggetto diverso; là dove lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di Ovidio, e del posto che la mitologia prende in quella o presso questo. Ma è d'altra parte irre- cusabile che ciascuna espressione di un mito, I. - LA STORIA DEL MITO in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle precedenti da un vincolo più profondo e più in- timo che r argomento : le conosce, ciò è, e le rielabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste espressioni, ciascuna è materia greggia rispetto alle successive, ed è sintesi originale (anche negativamente originale, si capisce) a confronto con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra : essa, co' suoi criterii di tempi e di luoghi, con tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a co- struirne quasi una genealogia ; della quale i rami e i gradi son segnati da reciproci influssi più o meno profondi, da modelli più o meno diversi, sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. — Del resto, il resultato medesimo o, se piace di più, il medesimo soggetto di questa, che diciamo, storia del mito ne legittima, dopo gli argomenti or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a co- struire sopra varianti forme favolose un indi- viduo organico e definito : individuo ch'è, come mostrammo, la leggenda. II. — Il suo triplice valore. Ma quali saran per essere i modi di tale istoria? Il suo procedimento è chiaro. Raccolte (suppo- niamo) le espressioni del racconto su Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l'ordine cronologico, se non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. IL SUO TRIPLICE VALORE Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pen- siero, insomma, prende a conoscere quelle espres- sioni: di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi ; ciò sono i particolari della saga, e quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il punto di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò, fuse. Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e, checché sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire lo schema delle lor geniture. — Allora lo scopo è conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di con- troversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto è delimitato ; quel che può essere certo, è posseduto ; si che le lacune e il ricolmo si di- stinguono nette. Altrui giudizii su la materia son superati con l'approvarli o respingerli o mo- dificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene poi quasi base ; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi di commessione co' suoi travi intelajati, 1' edificio definitivo. Il mito ha la propria storia. Il mito è, da questo momento, vera ricchezza nello spirito nostro. — Si obietta che è acquisto mal certo, però che sieno per pensarsi o seri- 10 I. - LA STORIA DEL MITO versi ancora, nell'avvenire come nel passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal perve- nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia dei pensieri individuali. — Ma né l'una né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra- mandate o è cosi fatta che impedisca la storia o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno è davvero grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che non perseguiamo qui), la jattura può variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria e, traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme che ciascuna è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè dinamica. — Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra- mutando in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto armonia del discorde, e reso personale l'alieno. IL SUO TRIPLICE VALORE 11 Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche materiato della più alta virtù di pensiero. Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma più tosto se ne innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi- nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo personale, in tutta la serie co- nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon- tane e disperse. Il mito è, dunque, da quel punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare tal verità, sottile è però discernere i valori di- versi della conoscenza in quella guisa procurata. Ma è necessario, per farla più conscia. Lo storico si è, durante i successivi momenti della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno? Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre- tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi in arte. — Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in- dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno- rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che 12 I. - LA STORIA DEL MITO là dove l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l' impreveggibile è determi- nato dalla potenza della sua energia creativa ; per contro lo storico si trova sùbito a conoscere, traverso l'opera compiuta, appunto quella po- tenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla. L'effetto è che non solo egli si è identificato con una delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di pos- sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico non si considera pago né pur di questo giudizio che già di per sé lo eleva sopra l'artista in- tuente : vi avverte un valor m omentaneo e, te- nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può assurgere a quell'intuizione sintetica della saga, da cui appajono giustificate le intuizioni singole degli stadii e delle forme come dallo scopo il mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito, può quindi esser detto pregio intuitivo. Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche di- scipline difatti van di continuo preparando al pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui sono attendibili, ai culti con le fogge che di- vennero consuetudinarie, ai popoli con le cre- denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse, quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono, più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica in- dividuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti IL SUO TBIPLICE VALORE 18 riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu- late lungo gli anni da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della leggenda; e quanto più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole l'ossatura, e permettendole o promettendole con- senso più vasto e interesse più vario. — Fra tutte, precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg- giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto. Cento numi agresti si rinvengono fra cento po- poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E- quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti, le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che ogni gente reca il suo contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine lacustri, paschi pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la zolla e il Sole indorano, notti il- luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen- diture del suolo : l'immenso respiro pànico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo. Ond'è che son opere in cui questa varietà spe- ciosa è ricercata con amore intento, disposta con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi (1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For- schungen (Strasburg 1884); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn 1888); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau- 14 I. - LA STOBIA DEL MITO molte leggende sono narrate, molte cerimonie descritte, quelle che gli uomini dicono e com- piono da quando sorge il lor Sole a quando tra- monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una, tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua- zione, perché si vuole, badando al generale ed al comune, conseguire identità spirituali contro distanze di tempi di luoghi e differenze di forme. Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti obliqui di interessate invenzioni che non è lieve scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli- genza che tenta le cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste, come un nome frainteso generasse talvolta un popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola connesso con l'aggettivo che significa " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido Muzio e della destra bruciata. Insegnano che per dar ragione al nome di una città (Roma?) s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?). Spiegano che un culto greco fra culti romani parve agli antichi giustificato col narrare qual- mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare in classi i fatti; e creano alle classi fin la de- nominazione discorrendo di " miti etimologici „ per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul- DissiN Adonis und Esmun (Leipzig 1911); E. S. Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). IL SUO TRIPLICE VALORE 15 timo (1). Tutti bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua saga, senza equi- voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti, quindi, è conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce de- finita, si da impedir confusioni con altre pur si- miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule della propedeutica confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in tal modo scemi la singolarità sua propria; e allora perché farne storia? Né manco che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica medesima; già che questa non è mai conchiusa, e di con- tinuo si accresce, per l'appunto come la espe- rienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi la storia di un mito ha questo pregio scientifico: mentre è impregnata, come più latamente può, del sapere collettivo intorno alla propria ma- teria; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; è pronta a contri- buirvi con tutta sé medesima, per quanto con- tiene di insolito, e per quanto riafferma del con- sueto. Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore. (1) Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (To- rino 1909) pagg. 319 sgg., ove in polemica è chiarito assai bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno- minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras- segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband CXXXVII (1908). 16 I. - LA STOEIA DEL MITO Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jias- sato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce di lui, or come nebbia da piani pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano durante un giorno, e le compongono varia bel- lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo delle trasfigurazioni luminose come del soprav- venir tenebroso, è secreto dello spirito umano. Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli astri, purezze nivee e dentate di vette inviola- bili, scompigli di chiome arboree nello squassar dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta su la fronte le tempie, illu- dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa- venta ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli, la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto i muscoli e gli artigli della belva silvana, per farla sua preda o imitarne il destro miracolo ; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv- vise forme che la natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la violenza della fiera. Appresso, su la prima trama esigua, quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'in- venzione originaria non si perde, ma, serbata tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte IL SUO TRIPLICE VALOEE 17 per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer lento e difficile dei travagli clie martellano Fu- manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile. Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri, forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende, s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta, rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia onde si crea il diafano contesto verbale o si plasma nella dura materia il moto o si finge l'an- sito nel colore; e con lei genera creature d'ale e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del mito significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia col nostro più profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul bello sul buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e la forza della sua espressione, e il suo lungo cammino. — Idee che costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso della storia d' un mito. Del quale il trapasso di forme può venir conce- pito geneticamente, l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi essendo privi di forza generatrice; o in rapporto all'evolversi comples- sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia- scuna dipende da una teoria filosofica. Persino chi per orror metafisico mai abbia voluto im- pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av- versione nella storia e ve ne lascerà i segni, non giova dire di quale specie. Onde la cono- scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur contenendosi nei termini di un limitatissimo fe- nomeno, pur fermando nel pensiero una por- A. Ferrabino, Kalypso. 2 18 I. - LA STORIA DEL MITO zioncella minima del grande moto di cui tutto il passato è pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta. Filosofìa : senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ; con cui, diviene moltissimo. in. — Caratteri. Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen- siamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare sùbito qual sia la lega comune onde tanto com- patto è il resultato. Ma lega si rivela l'intel- letto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova nella vita dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito della realtà testimoniata. — Di più non può dirsi: che ha da restare intatto il mi- stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva. Né forse è detto ciò senza stupore di molti ; perché prevale oggi il principio della oggetti- vità storica, tanto che il riconoscimento del con- trario nell'opera di chi che sia suona quasi a rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole della certezza assoluta, allet- tandoli con un equivoco ch'è quasi una mistifi- cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel CARATTEBI 19 racconto delle vicende storielle per cui un mito si svolse sono le stimmate d'una personalità; né solo, ma il valore di quel racconto è in queste stimmate ; in quanto la personalità, non pure as- somma, si anche fonde e ritempra, com'è neces- sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che si riconoscono indispensabili alla costruzione d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre, dalla misura di esse cognizioni teoria potenza e del loro commettersi, dalla misura, in breve, della personalità medesima, è segnato il pregio del contesto narrativo. Dal qual evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re- verenza ad autorità indiscussa : invece, ragione- vole assenso, ora parziale ora totale, ora nei par- ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è solo responsabile e che, scoprendosi con ardi- tezza, accetta onestamente d'essere imputato. Compito arduo, adunque, è il leggere non meno che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più, solo per il lato si adempie che costituisce l'in- teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato soltanto sogliono originarsi le censure, le più modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la storia della saga di Cirene deve soddisfare le pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato, il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più lieve a tutti costoro l'opera di critica rielabo- ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, al- 20 I. - LA STORIA DEL MITO meno; non costumava cosi Tucidide, né Ma- chiavelli ; con pena della moderna indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite; onde ne è pronto il riscontro (1). Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto della soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar- tefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le for- mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su la materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perciò, da tal momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia piena di realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di- venuti esteriori e concreti, di cui nella intimità e fluidezza dello spirito creativo essa si era nu- trita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto, vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di individuatore, tutti questi elementi, scissi prima, organati poi; e valuta il pregio dei singoli e della mischianza loro. Cosi, quel che fu già ema- nazione viva d'una vivente persona; imponde- rabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa pas- sibile di metro, di scandaglio e di analisi; defi- nito, per tanto, " oggettivo „. Sempre, per opera dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e i caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella. (1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine. CARATTERI 21 una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è quindi un nascimento e un corrompimento, fra cui si tocca la maturità. La storia d'una saga sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di balsa- marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già che si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio si compone : non è elegiaca ; però che, pur la- mentando , se crede , la morte avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen- siero senza stingerli col sentimento. Ma en- trambe queste risposte esigono d'esser più am- piamente delucidate. Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto io credo) che non solo è necessaria la storia del mito per conoscer il mito, ma è in tutto legittima, perché opera sopra un individuo pre- ciso il quale ha una reale e non disconoscibile esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in- dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun d'essi non può star solo, ma è in intima atti- nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora pos- siamo specificare meglio : che ciascuno stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o di molto momento, vi è immancabile l'attività (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pro- nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana , XLIII (1913), a pag. 6 sgg. del- l'estratto]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica- zione della storia con la filosofia. 22 I. - LA STORIA DEL MITO d'un artefice che ha segnato di sé medesimo, con grande o con piccola impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo si possono conside- rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele- menti : la manifestazione, senza cui non sa- rebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di qui, son possibili varie evenienze: o che a un certo momento ogni manifestazione cessi, per qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la mani- festazione appaja inadeguata alle precedenti e per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine, l'energie dell'artefice apportino alla sostanza della saga violenze che la rinneghino. Nel primo caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio; nel secondo è preceduta da uno scadimento, che la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è sempre. E la storia, in quanto storia, deve nar- rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine- vitabilmente, catastrofica. Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi- casse, fra gli uomini che hanno assiduo il fer- mentar delle forze nello spirito, l'accensione di un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come IL GENIO MITOPEICO 23 meglio, la distruzion del tutto. — Rimane, per altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave- vano formato, ninna potenza terrena può ri- crearlo indipendentemente: un individuo inso- stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo perdiamo. Molte saghe venner create con bel- l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte, non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer- dotali; non molte, poche divennero nell'epoca del pili adulto pensiero classico, quando per con- taminazioni la ricchezza del numero si fu as- sottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova morte sminuisce quella dovizia di una unità, scema questa bellezza di grande efficacia : quel che sottentra è copia e grazia dello spirito umano, della mitopeja classica non più... Una maggior individualità, dunque, è minacciata dalle morti di questi minori individui mitici. Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si squassa. IV. — Il genio mitopeico. Quella individualità maggiore è oramai em- brionalmente posseduta dal nostro pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda, e poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora; appresso, non si conoscono pure quattro vite di saghe, come fossero di eroi o di santi o di sta- 24 I. - LA STORIA DEL MITO tisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nel- l'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente esperienza, rotti i termini entro cui si è for- mata, tenta di organarsi in altro stampo, in- frange l'intuizione del singolo per disporsi, in che ? come ? Per la risposta, da principio ingan- nano due parvenze, contradittorie nella forma, entrambe erronee. La prima parvenza è brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio di quattro miti si possono perseguire due com- piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel raccogliere tutti i fatti constatati durante lo studio e nel disporli con altro criterio che il cro- nologico e genetico : nel guardare, in breve, il medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da altro pimto di veduta. H secondo compito, in vece, costringe a trascendere i limiti segnati dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo pratico ; come quelli che servono a concludere ordinatamente sotto la specie di leggi (nel se- condo caso) o di formule (nel primo) esperienze compiute storicamente sotto la specie delFindi- viduo. E sono , perché pratici , utilissimi ; né giova, secondo piace a taluno, predicarli ride- voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il nostro pensiero, elaborato che abbia un certo numero di storie su fiabe. Non può esistere un soggetto vivo cui attribuire quelle formule e IL GENIO MITOPEICO 25 quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat- teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbi- trarie le formule, perché incardinate su criterii che non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè teme- rariamente affermano più del conosciuto, impe- gnando in sé, insieme con il già intuito, il non mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà viva onde germinano, incadaveriscono in freddo schema e, come schema, lasciano straripare oltre di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora insufficienti. Fallita la prova di questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca nella nuova opera i miti, soggetti delle singole storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea uno difatti, f)ur che si astragga un poco come suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi- rito, cui competano tutti i caratteri dei varii in- telletti che influirono, di stadio in stadio, su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno e dubbio religioso, pre- occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re- giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virtù in una sintesi superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse. 26 I. - LA STORIA DEL MITO esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i quali si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un mito opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé congiunti, e che senza nesso non sono né pure compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece e le energie di quel pseudo spirito vengono solo per caso delimitati, avvicinati e graduati : già che unico motivo per cui quel falso ente si af- ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune vicende, e non altre, è la scelta, precedente- mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti, e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli attributi muterebbero numero, specie e succes- sione. Segue, che è necessario guardarsi dall'in- sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi. Vinto l'errore, la salute appare spontanea. Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero e non artificiato, intuibile dallo storico e sog- getto vivo delle nostre esperienze anteriori, li- mitate per qualità e per quantità. Ora, se è (come dicemmo) arbitrario determinare un in- dividuo mitopeico valevole per quattro miti, perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra anterior ricerca, il numero di quattro : soppri- mendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un reale individuo, allo spirito greco-romano in quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef- fettivamente, di certamente vivifìcabile, di indù- IL GENIO MITOPBICO 27 bitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea , rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan- descente. — E conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe conosciute vale ed è esatto per il genio mito- peico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di questo tutto, ha importanza, dev'essere affer- mato, e può assumere, esprimendosi, un tono generale. La medesima sua incompiutezza poi è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a disposizione del pensiero che volesse conoscerle in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de- corso del tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie, per guisa che dovrà in ogni maniera venir intuito traverso molte si ma non tutte le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli uomini che la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli istituti che remoti echi ci tramandano irrego- lari. — Quattro miti son dunque poco i3er pos- sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse- gnamento è certo, se bene incompiuto; insuffi- ciente, non arbitrario. 28 I. - LA STORIA DETi MITO Cosi le storie di quattro miti conducono alla storia della mitopeja. — La quale pertanto non può consistere nell'insieme inorganico di quelle quattro singole storie, se si mantenga incom- piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inor- ganico delle storie su le varie saghe conosciute. Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la esigenza di quella più larga istoria emergere a punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non sodisf acimento) di taluni racconti men larghi. Come, per analogia, le biografie di cento indi- vidui non souD la storia della nazione cui ap- partengono, e che li comprende in sé e in sé li distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta per volta il total genio mitopeico in mar- gini che non sono i suoi proprii. E a quel modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in un testo più ampio i termini in cui si conchiusero le cono- scenze dei singoli. — Evidenza pari ha, o do- vrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia di un mito, nell'atto di mostrare come le mol- teplici manifestazioni leggendarie potessero ag- grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e le fondamentali vicende che accomunano ta- lune fra esse ; disegnavasi pure , come possi- bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni molteplici più tosto sotto le rubriche delle di- verse epoche e dei differenti luoghi, per com- IL GENIO MITOPEICO 29 porre, con criterio cronologico e geografico, la storia della mitopeja pagana lungo i secoli e traverso le regioni del mondo classico. Età per età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire su tutto il pa- trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem- porale e regionale dei Gentili, come se sia stata ristretta in taluni confini di paese o di momento, è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza? o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi- sogno più alto? Senza dubbio, un paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la precedente su essa aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste tuttavia. Sopra le differenze più o men no- tevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due i casi la costanza con cui talune energie del- l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle, influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor patrio, il senso naturalistico e l'acume psicolo- gico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale. Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno fra esse intervengono nella mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che, come più si discenda nei secoli, non solo si ac- crescono per numero ma quasi si succedono per 30 I. - LA STORIA DEL MITO dignità, tramandandosi tal volta nel corso la fiaccola, umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in officio di mitopeja ; s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni, cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no- minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma merita indagine; e si desidera cercare questa armonia e quelle potenze. Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar- bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi. Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi- care qualcosa di assai individuo e concreto : al- tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti della storia, e in determinati punti della terra, hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel- l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e solo per storia conoscibili. Le carità patrie di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dio- nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto- ricamente son racchiusi entro un'opera e un temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le differenze, quelli e queste ordinano in sintesi: fino a divenire, in diverso contesto storico, la carità patria, il razionalismo, la religione del genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e in- dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin- gole saghe: individuato, rispetto al genio mito- peico. ,— Di che può aversi riprova. A quel modo che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, Tinte- IL GENIO MITOPEICO 31 resse più attento soverchia il cerchio breve del palco ove poche persone son mosse in non molte vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di quel moto ; del pari, per l'interesse più attento, anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, com- petono fin da principio , dopo che a Vergilio a Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità pagana di cui son pregni, alla vita de' Grreco- romani nella quale immersi son trascinati su- bendo e reagendo, come massi che il fiume ha composti e disgretola poi con la medesima forza. Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii d'un mito superano il mito, e si proiettano, in altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze spmtuali. Però a questa disposizione nuova manca tut- tora l'ordine della successione : che è, anche, l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non può valerci più, adesso, il criterio cronologico : atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto del tutto a decider, con certezza che non sia di pallida congettura o non nasca da arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza delle sue acque nel mito prima che l' analisi psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga darebbe una propria ri- sposta, diversa secondo vicende casuali o neces- sarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe con- temporanee le manifestazioni in apparenza più (1) Sul valore di queste es^pressioni cfr. cap. VI Ka- lypso § IV. 32 I. - LA STORIA DEL MITO disparate o in sostanza più contradittorie. E, per tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni individuo definito, evolvendo le sue speciali energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres- sioni che ci richiamano senza dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano quasi con cer- tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com- pararle o alle qualità originarie o agl i ultimi corrompimenti. Ma perché più certe appajono le prime, a esse la com[)arazione va riferita. E tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo spirito mito- peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ; si che il momento della conquista è ben paragonabile all'oscilla- zione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora. Una storia compiuta dovrebbe però seguire il mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il punto in cui dopo la precedente essa confluisce nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando il modo del deformare. Una storia, per contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della sua incompiutezza, col tratteggiare senza dise- gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara armonia del complessivo progresso geniale, le cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del- l'animo e dalle forze del pensiero. IL GENIO MITOPEICO 33 Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia, apparirebbe la constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia può scegliere a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di fronte a noi, in lavori di arte letteraria e ma- nuale o in riti di culto, quando oramai o per intiero o in buona parte lo spirito onde sono elaborate ha acquisito le sue virtù : pel che quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un di- verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che non è senza evoluzione ma con evoluzione di- versa dall'originaria. Condizioni di ambiente fanno si che in una sola età, l'augustea, la leg- genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità cronologica, non esitiamo a proclamare più ve- tusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal certezza si con- forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde appare VergiKo attingere a più antica sorgente che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse possibile per qual siasi motivo. Com'è del mito di An- dromeda, il quale è già scaduto in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide lo solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione patria e di pensiero religioso. Crii è che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro A. Feeeabino, Kalypao. 3 34 I. - LA STORIA DEL MITO di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta ne fa uso secondo richieggano sorti di- verse. Spetta all'occliio dello storico separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo nel progresso del genio mitopeico. Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non iden- tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in- trecciano simiglianti e differenti ; e si dispon- gono in racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi nome personale, una peculiare orma, né confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal- l'arte, ha destino qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per contro diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza creativa, la limitatezza fondamentale della ma- nifestazione : il sottostrato di potenza definita, di là dalla superficie delle creazioni che si tra- mutano lungo serie senza termine e fogge senza numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio, essa si converte in scienza astraente e classifi- cante. Quando vengono disegnate le vie che la mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano certo concetti empirici e partizioni; quali fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto, per cui il filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con altri, e non impe- discono che quelle storie concretino individui ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro IL GENIO MITOPBICO 35 presenza non può decidere senz'altro contro la natura storica di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata storia mitopeica fonde leggi categorie e formule nello scoprire: in primo luogo, i confini entro cui tutte le ma- nifestazioni favolose son racchiuse; in secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo problema, ch'è denso di realtà storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? — Il badile ed il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento travaglio campestre e la sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci e selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria del genio mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando, senza sconforto, la fine della mitopeja pagana. — Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender galoppando dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza di violenti. Quella cecità e questa negazione sono stati il prezzo con cui pagammo altri spettacoli ed altre cer- tezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi- digia di opulenza spirituale. 36 I. - LA STORIA DEL MITO V. — Kalypso. Sin qui tentammo della mitopeja e della sua storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella pratica degli studii e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un motivo interviene spesso a ridurre le indagini e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei confini della letteratura. Certo, il genio lette- rario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe (1). Non cessa però che di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è compiere una arbitraria amputazione. Lealmente riconoscendola, questa colpa è grave. Né medicabile. Si può palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci- proca guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade nel pur ricco pa- trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o di- (1) Su ciò V. cap. VI Kalypso § II. KALTPSO 37 pinti o in altro modo artisticamente lavorati dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca deve a forza integrarsi di quella sua parte che un caso rende ben necessaria e come vitale. Con simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul- tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe- deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife- rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto. Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con la incompiutezza cui limitate esperienze entro esiguo numero di miti costringono il ritratto del genio pagano facitore di saghe. Permane : la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf- ficiente cosi della singola favola come della total mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom- bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di amarlo, con promessa di rendergli " senza vec- chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo, da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa- tria lontana. CAPITOLO II. Andromeda d). I. — Prima di Euripide. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu- ripide fece rappresentare in Atene una sua tra- gedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva materia un episodio del mito di Perseo. Ma se l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so- stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore: però che lunga già e complessa ne fosse stata, innanzi, l'evoluzione. Antichissimamente, negli anni cui corrispon- dono, eco affievolita, i più vetusti canti della epopea e poche mal certe tracce, una assai uber- ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive. 40 II. - ANDBOMEDA tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un semplice racconto (1). Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi, di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico), molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non lontano da morte, egli era tuttora senza prole maschile, unica essendogli nata una figlia a nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta, non essergli per nascer maschi se non da Danae, ma dovergli il nipote togliere e trono e vita. Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu posta a che la vergine restasse dal generare, contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio, riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa vendetta del re impaurito, il quale decretava che la giovine e il neonato fossero, — come Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti in balìa della violenta natura e delle intemperie. Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per- vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di braccia si rivelassero. Allora piacque al caso (1) Cfr. § II e III. PRIMA DI EURIPIDE 41 che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a- dolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo lanciato, — opera d'un nume! — contro le de- boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o- racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri- conosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo. Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria, frutto non insolito d'un seme a più altri simi- gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve racconto, lo spunto originario della morte inflitta dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio progenitore, che il passato ha curvo e fiacco : dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato da una Danae (donna di quei Danai che nella leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „ sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo, cui è il mal grato biancore di ossa a pena commesse, diedero nel principio veste di muscoli e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiama- vano a tanti concreti particolari della realtà : le 42 li. - ANDROMEDA pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili, disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di paura e di pietà. Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù venne foggiandosi in forme di plastica umana, s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle quali il popolo par condensare, con la propria esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri- stiche delle figure che sospinge la sorte comune. Traverso la fantasia delle masse, come traverso un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle virtù che in genere presso quelli si riscontrano, si affina in una selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili virgulti quello e questo ; cosi fatti però che im- provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet- tano sopra una determinata leggenda : cui recano, per altro, non esiguo contributo in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impres- sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman- zesca e forza dramatica. Non fu tuttavia so- PRIMA DI EURIPIDE 43 vrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il più recente prevalesse sul più antico fino a ri- durlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto; onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale del bujo Polidette, permasero a costituire il volto significativo del mito durante tutto questo primo stadio, tessalico, della sua formazione. Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi, venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e potenza il più antico, ed era situato in un con- chiuso piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente della penisola. I due Argo furon quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi il peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via le leggende che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola- zione argolica assimilò ben presto la saga tes- sala con i suoi particolari e le sue figure: persino l'accenno a la Magnesia, che quanto mai discon- veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro- fondo ; persino, e specialmente, la morte di Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e di mare separava dal Peloponneso, si mantenne non alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per (1) Cfr. § III. 44 II. - ANDROMEDA mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome della persona ogni valore di riferimento al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni atti- nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col proceder degli anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro con la mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo vennero corretti e adattati: né è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ; ma si vede bene quale è per essere il più impor- tante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sosti- tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo : già che forse piacque cosi adombrare quel Preto che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sosti- tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo è che per essa un lembo di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra tanto il mito si diffonde: attinge Micene, pe- netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica, che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di rientrare in Argo e preferisse PRIMA DI EURIPIDE 45 ceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino Megapènte figlio di Preto. Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura una base duplice in cui son contenuti potenzial- mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol- vono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro. Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena, cui molto culto si tributava e particolar reve- renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo del- l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo significava trofeo d'una vittoria conseguita dal- l'iddia avverso la protervia nefasta di quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica, traccia della natura xDrima ond'era informata Atena, divinità della luce solare, nume del tem- porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero un altro attributo si riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa, lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce agli occhi umani per molte ore vestendosi di (1) Cfr. § IV. 46 II. - ANDROMEDA oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le quali, se si accoglievano bene nella figura di Atena, non formavano ancora intorno alla sua persona una veste cosi aderente, che non fosse possibile separamela in parte con lievi altera- zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si riportavano assai meglio al sostrato naturalistico della Dea che non al suo individuo, alla folgo- rante luce che non alla sostanza corporea della effigie umanata. E perché Perseo quando per- venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo essere dall'energia naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero e l'impresa contro Medusa e il cappuccio ca- nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una contaminazione delle due leggende in una; ma di due leggende non indipendenti né ciascuna distinta per sé, si di due che si ori- ginavano da una medesima intuizione delle forze naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in luoghi distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto che ne nacque, come prese a vi- vere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni materia vivente in organismo : si accrebbe. La fantasia che plasma le leggende ha certi suoi modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va PBIMA DI EUEIPIDB 47 foggiando analoghe le sue opere : essa imprime del suo segno terreno il racconto di quegli spet- tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti e gesti umani : prende una seconda volta pos- sesso della sua materia. Cosi non concede essa all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa- rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis- mani senza cui l'opera non può compiersi e per i quali trovare si richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per- sonaggi. — Qui, furono le figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, — si narrò, — sapevano la sede di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non era concesso ad uomo trasvolar fino al limite dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò dunque ma non ottenne né quelli né questa se prima non ebbe con violenza privato le tre vec- chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a compenso della restituzione i due oggetti cui mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi; il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio 48 II. - ANDROMEDA luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc- corritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A concliiuder la quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana del fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo. Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente la causa dell'avventura e del pericolo aveva a connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po- lidette. E poiché non certo l'originalità è più ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti episodici onde abbisognava. Come contro la Chi- mera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò la morte; come Q-iàsone in Colchide venne in- viato perché perdesse nell'arduo cimento la vita; cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo per stimolo di Polidette, che innamorato di Danae bramava toglier di mezzo il giovine di- fensor della donna. Oramai il racconto era compiuto : armonico, organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetra- zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a tra- verso strati naturalistici e nove] listici aveva dato alla fine il suo bel frutto maturo. Analogo al processo d'evoluzione mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era PBIMA DI EURIPIDE 49 accresciuto d'un episodio e di due campeggianti figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a un tempo, incomparabilmente più complesso ed inviluppato: tanto che l'indagine riesce a rico- struirlo non con la fondata probabilità ch'è con- cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in- certezze non jDOclie, e con grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o, — come il suo nome significa senza dubbio, — la " millantatrice „; tipo popolaresco della donna orgogliosa troppo di sua bellezza che osa com- petere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque di essenza diversa, che l'uno è naturalistico, novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un co- mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a commettersi con più altri elementi, a raccoglierli intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi da allacciare in maglia e in rete più trame mi- tiche distinte. Per essi si formarono due compa- gini leggendarie che insieme li contenevano e n'erano quindi accostate fra loro. — L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma, Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo del- l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di po- (1) Cfr. § V. A. Ferrabino, Kalypao. 50 n. - ANDROMEDA poli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra. Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra- montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui come a simili mete muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a pena bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu scelto non an mostro specifico, quale Medusa, ma una vagamente indicata belva che sorgesse da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc- correvole, nell'officio di Atena contro la preda gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine, strenua in combattere, ignara di mollezze fe- minee, il cui maschio nome istesso rendeva ima- gine di possanza non muliebre si virile: l'An- dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla impresa ignoriamo; ma possiam senza errore fìngercene uno non dissimile da quel che ap- prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde con questo per contenuto forma e valore. Si ottiene un mito modellato sopra i medesimi schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ; nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte sarebber identiche se non fosser d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in- variati se non apparissero scemi al paragone. Un arricchimento però venne ad esso mito quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. PEIMA DI EURIPIDE 51 si più tosto nel trasformarsi profondo del signi- ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre- parare. Due avventure di Perseo contro mostri delle tenebre non potevano non venir avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si andò raggenti- lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo novellistico della fanciulla che l'eroe libera di prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del lancio, — constringendole e movendole le membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, di- venne indispensabile giustificar la cattività della fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese punito nella vita giovine e florida della figlia, — Andromeda fu tramutata in sua figlia, — sarebbe appunto stato la causa prima del peri- colo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato, nel profondo. La seconda forma possiede la vita che non la prima. E individuata come non la prima. Da l'una a l'altra segna il passaggio Andro- meda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal mito i personaggi caratteristici, i fondamentali sono Perseo e Cassiepea. — 52 II. - ANDROMEDA Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra, in un'altra leggenda differente di origine. Pro- tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten- trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti : secondo che dietro lui muova il rigente turbine del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri- cacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse- guitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for- marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'au- tunno sopravviene, nella nostra leggenda, a miti- gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima- vera a dissipar le brume e i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico fu, — sembra, — appunto Perseo, in singoiar duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio : figlio per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che PKIMA DI EURIPIDE 53 si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche di fornire compiutezza romanzesca alla favola, quando il significato naturalistico ne andasse smarrito. C era dunque la materia , idonea a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé il levame opportuno, un mito pur esso drama- tico né meno denso di bellezza poetica. In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso complesso. — Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari- vano non pure nell'identità de' nomi ma e nella analogia degli uffici, non potevano rimanere distinti: e tanto meno potevano se, — come non è provato ma è forse da ritenere, — un mede- simo suolo li generava. Si com penetrarono di- fatti fin che divennero una narrazione sola in cui gli elementi delle due generatrici sussiste- vano tuttavia presso che integri, là sol tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla logica della commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda da Cassiepea: ma, — e fu il segno della con- nessione fra le 'due saghe indipendenti, — la causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata non più nel supposto vanto d'una madre, ma nella stessa precedente vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse, sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda avanti la venuta del giovine liberatore: cosi ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascol- tato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato 54 II. - ANDROMEDA con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An- dromeda, su rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e Fineo. Chi confronti ora da un lato l'avventura me- dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos con il premio della vergine e il contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei due episodii, senza indagarne il significato re- condito ; non vi trova pili tracce di quella simi- gliali za che le saghe della "Maschia,, e della Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av- verte dramaticamente diversi, materiati entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe- rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato. La cosi ottenuta diversità formale, permise a chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende di lui, di comporre queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico, e di- venne per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice (1). Ne possediamo un sunto per (1) Cfr. § I. PRIMA DI EURIPIDE 55 opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è necessario integrarlo col testo del ben più tardo Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa- dorna. Essa non è più per noi, nella forma con cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione per effetto della sintesi nar- rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa vediamo Perseo compiere , dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av- venture, la medusèa e l'etiopica, per ritornar- sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in Tirinto il suo regno, che Argo gli era di- venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata rac- colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di Perseo non fu solo di fargli attribuire per arma contro Fineo il capo della Gorgone o di condurre sul trono di Argo Andromeda re- gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe all' episodio del ketos ogni vita autonoma : valse esso qual momento d'una complessiva azione ed ebbe valore di conseguenza da un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto, doveva dal tutto ricever sua norma e sua im- portanza: fin che al meno non ne fosse mu- tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di particolari le vicende, di gesti le figure, — non si trasformasse in essenza diversa. Nel molto che andò perduto eran certo forme varie di cotesta indispensabile trasformazione. Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli sto- 56 li. - ANDROMEDA rici del secolo quinto (1). Per essi la favola di Perseo e Andromeda acquista una impor- tanza nuova di reliquia fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione è un avvicina- mento verbale : uno de' consueti di cui si com- piacque la fantasia degli anticM nel conato e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo- gica ma fonica indusse a ritener quello capo- stipite di questi: non direttamente però, si bene per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato il nome " Perse „ per più di verisimiglianza. A dar poi un aspetto anche meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani, " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine, sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga: però che essi si riconoscessero, in quell'epoca, or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Ce- fèni „ desumendoli, come traspare, dall'ap- pellativo medesimo del re. E si pensò che a Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ; e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si denominasse Persiano. La garbata ricostru- zione critica non fini in questo : perché, difatti, (1) Cfr. § VI. PRIMA DI EURIPIDE 57 i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli Artei? La risposta si trovò combinando questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi semiti che avevan sede intorno a Babilonia, eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto, presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di- parte una schiera di Caldei ad occupare la terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ; che si spingono verso gli Allei, li sottomet- tono e insieme divengono il popolo de' Persiani. Se non che questa mitopeja di eruditi pur riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon- dendogli una essenza nuova dissonante dal resto della fiaba , finiva però in una soppressione dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce- feni, la lotta col ketos, le nozze con Andro- meda, il duello con Fineo, sono un niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno più vita artistica; le con- seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realtà nasce; ma la bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa- trimonio letterario troppo non ci traggono in 58 II. - ANDROMEDA inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii» emergenti a lor volta su da rigide abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti della fantasia mitopeica, non solo perde presto la sua autonomia col commettersi ad altre vicende, ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a cir- coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché il senso critico lo adulterasse e , un poco , lo vituperasse. n. — Euripide. Fu sorte della tragedia dare a esso episodio di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri- pide possediamo i frammenti bastevoli a rico- struire il drama, se non ne' suoi particolari di arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo nelle sue linee maestre (1). Era consuetudine ferrea che la tragedia nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale modo i tragedi pervenissero all' elezione del tema e alla scelta dell'argomento non è possi- bile dire, per la oscurità imperscrutabile de' pro- cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia (1) Cfr. § VII. I frammenti, naturalmente, son citati e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^ (Lipsia 1889). EURIPIDE 59 delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con qualche chiarezza intendere come il problema di arte si presentasse al poeta allor quando si ac- cinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andro- meda ; come, in somma, lo spirito di lui pren- desse possesso, nell'impeto creatore, della materia leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra- verso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu- ziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano la loro unità in un terzo, che è, in somma, del mito il carattere eroico e la forma romanzesca. Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen- siero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo più vivo inte- resse. Non solo difatti egli staccava nella tra- gedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta la dramatica greca, di appassionare non la fan- tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio e forza intrinseci non per smaglianza esteriore di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie, come sono ben lontane da quelle che l'hanno creato dinanzi la natura e complicato in novella, cosi son anche più mature dell'altre che ne han goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario e l'impossibile. Per certo le più antiche e le moderne cerca van tutte nella saga una verità ; 60 II. - ANDROMEDA ma la verità naturalistica e la verità eroica non appagavano ora quei cittadini di Atene che vi desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito ro- manzesco che un tempo riusciva opportuna o indispensabile commessione fra i due diversi elementi della fiaba, sopravviveva adesso, in- sieme col divino, quale materia in apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di Dei? E ovvio però che il poeta non vide, come qui cri- ticamente si espone, il suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo egli non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi in guise diverse. Poiché ci sono rimaste nella loro integrità V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in- trawediamo a bastanza la vita dello spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte tentava il nodo mitico di Perseo (1). Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per (1) L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so- ciale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edi- zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed emana da quello. Di più cfr. § Vili. EURIPIDE 61 vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano fino a darle la morte la donna da cui nacquero, ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi che col sangue di lei scorre nelle lor vene una indicibile virtù di amore e rispetto : proten- dono da la scena una dolorante maschera umana ; fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni del teatro. — E quando Menelao re- duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im- batte nell'Elena vera, quella che gli Dei re- carono celatamente in Egitto, mentre un vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla decennale guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe con lo sconforto per i travagli sopportati in vano e la vita gittata in vano da centina] a di prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e sofferenza giun- gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immer- gersi dell'artista nella sostanza dei personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio com- pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si- stema filosofico applicato, co' suoi postulati ge- nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso, dal profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è pos- sibile indurre riferimenti con l'ambiente storico del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo stato psichico di lui in quegli anni; ma solo intorno al consueto modo della sua forza d'arte. L'animo di Euripide si rivela più in là. In quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò. 62 II. - ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non poteva respingerené poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or- dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di energie e va- lore. Cotali interventi divini eran la premessa indispensabile dell'azione ; divennero per Euri- pide radice di nuova tragicità : però che, tanto più gli parve orribile il delitto di Elettra, in quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque le parti divine della tragedia si con- nettono per lui strettamente con il travaglio umano ; ma costituiscono una forza cieca e buja contro cui bisogna urtare : simile al peso corporeo che non s'evita con gli slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri- spose. E anche si domandava, e fece suo inter- prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi (1) Elett. vv. 1245-6. EURIPIDE 63 rispondere con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per- plesso ; non decide, ma porge intatta la que- stione al pubblico , dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in- telligenza. Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una par- venza di quel corpo che nella realtà si cela ap- presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri- spose. E anche si domandava, e fece suo inter- prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi (1) Elett. vv. 1245-6. EURIPIDE 63 rispondere con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto della divinità : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per- plesso ; non decide, ma porge intatta la que- stione al pubblico , dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in- telligenza. Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una par- venza di quel corpo che nella realtà si cela ap- presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp orta paziente l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con- fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo- climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello (1) Elett. vv. 1298-1301. 64 II. - ANDROMEDA ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto, cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui il problema si formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere divine or qua or là balzare con contradittorie e inaspettate vicende? ,,. Nessuno risponde. Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si svolge materialmente su la scena, accanto i per- sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta, ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se- conda tragedia, più che la prima. Non di com- passione, di simpatia geniale verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la concezione omerica e infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita con una più matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tor- menta : ripete a chi l'ode la favola bella degli antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo- (1) Elena tv. 1136 sgg. EURIPIDE 65 sofia ; questa e quella compone, senz'accordo logico, entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta trava- gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ; intrusioni sgorgate da un animo che, non pure assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si abbandona, anche con quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee. Tale s'originò nel drama di Clitemestra la figura del contadino, povero e rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto di azioni : VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore. Egli, come apprese la condizione della fanciulla che gli veniva de- stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospi- tare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo, per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e so- brio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela semplice perché diritto : e mentre Elettra ed Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore fino a superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. Né basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5 66 II. - ANDROMEDA esclamare con maraviglia un poco attonita (1) : "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre generoso; e rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la magnanimità in un corpo povero. C'ome orien- tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi- seria è una malattia, cattivo maestro è il bi- sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe qual sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde- cisi codesti problemi. Costui per esempio grande non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta figura divien quasi di maniera e par disegnata per dimostrar una tesi o attingere uno scopo. Quale tesi o quale scopo si propose Euripide nel concepirla e nello stagliarla? Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena la novità introdotta. E anzitutto nella scelta medesima della favola : un mito secondario che risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem- brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare; che forse si assommano nel desiderio di met- (1) Elett. vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo- pàdie , VII (1912) pag. 2833. 67 terne in risalto il singoiar contenuto. La donna bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa- rebbe stata causa unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed errori per altri dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha giurato a Menelao di " morire ma non mai vio- lare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che di morire è sul punto, e attiene la parola, ed è beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo) il coniugale amore di Menelao ; che le afferma " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af- fetti traverso anni e vicende acquista il suo più vero significato quando venga contrapposta al- l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone, di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa di- fatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe più, spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze diven- gono palesi quando le due cognate si parago- nino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è presso Euripide se non la malvagia donna : tale la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i (1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg. 68 II. - ANDROMEDA vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è savia, tutto consenta al marito „ (1); non è giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra, — tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la donna che, assente il marito, adorna la sua bel- lezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato amico di cotesta non buona, figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro fra due coppie : riscontro a base morale, ma in- trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché intro- dotto? perché l'arbitrio? Alla domanda che per la seconda volta in breve esame ci si presenta non si deve rispon- dere se non dopo aver rilevato un altro parti- colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi du- rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno contro gl'indovini che, prendendo parte all'im- presa, non scorsero la verità, non svelarono il comune abbaglio, né evitarono vittime inutili. Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere (1) Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061. (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. BUBIPIDE 69 degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal- cante non disse né rivelò all'esercito vedendo gli amici morire per una nuvola ; e né pure Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse, che un Dio non volle. E perché allora ci rivol- giamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii : furono inventati ad allettaménto della vita, ma nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il senno e il buon consiglio sono l'augure mi- gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso- naggio, non pur dramaticamente notevole, ma anche moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra, tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af- finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me- nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi per bocca del Nunzio come per bocca de' Dio- scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi il suo più soggettivo pensiero. In questo suo pensiero sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia, di cui quelle son le forme momentanee ; è morso (1) Elena vv. 744 70 II. - ANDROMEDA da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la figura che crea con compiacenza paterna : un lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av- versa acre e violento : un bellimbusto galante, una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un lato coloro che rientrano nel suo concetto del bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar- tengono al suo concetto del male e dell'iniquo. Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul principio che regola la sua morale ; solo la espressione può venirne discussa. Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli re- puta degno e capace di governare la pubblica cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna e Menelao gli piace constituita la polis a scopo di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che il suo occhio mira più in là d'una teoria morale: mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret- tano a conchiuder V Elettra perché debbon " sal- vare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La democrazia non dà buoni frutti dopo la morte di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel potere con quello degli estremi : ed è tale la EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli uni non attingono il governo se non quando le disfatte han dimo- strato rinettitudine degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza; ed ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra tutti, male comune nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la sete del gua- dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui ciascuno informa l'opere se non le parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è po- tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno in una lotta, ove il pregio morale non conta, la forza intellettiva non importa più che il tesoro cumulato ; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif- ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava superarla ; piegar la realtà possedendola sino al fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza. E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri- volgimento costituzionale serpeggiavano e fer- mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu- zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la materia sociale toccò Euripide ; il suo spi- rito ne fu macerato e sconvolto : però che contro l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine- riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non (1) Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig 1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui è veduto con gli occhi di Euripide. 72 II. - ANDBOMEDA segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me- nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica, che il suo genio d'artista non poteva né doveva sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro- blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di- venne malinconico di speranze deluse e rina- scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta- tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro- blemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, — opportuna- mente, — tutte quante le quistioni minori della vita sociale e familiare ; le contese minute su questa legge o quel decreto : le spine sparse lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet- tiva contro gli auguri, secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero dono divino si rivela appunto pel modo del suo uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „ corruccio ancor questo: che favore di auguri aveva secondato l'infausta spedizione siciliana (1). Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel- l'animo del poeta per tal via: melanconico spi- raglio alla più intensa vita. Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della (1) Tucidide VII 50; Vili 1. EUKIPIDE 73 religione e della filosofia ; preoccupato dalle sorti politiclie e dalle condizioni sociali della sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e con VElena^ V Andromeda. Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i par- ticolari minori e grinciampanti aneddoti della saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento delle due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mito- grafo, la bellezza era constituita dal numero e dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo : dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi; non lontano è il mare onde la belva vorace verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda scia- gm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravve- nire. E nell'animo degli astanti la deprecazione 74 II. - ANDROMEDA del male imminente lotta con la tormentosa ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i capi come un mostro informe. " sacra notte, qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg- gendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ (1): tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore si ribella contro l'asprezza del fato e la trista disparità del dolore : " loerché più larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre sente alleviato il suo male, se del pianto fa parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel petto, senza sollievo, con la durezza della ma- teria minerale, e non prorompe se non per voci d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il moto compassionevole delle compagne, si di- scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as- sommano nel presente pianto della figlia pu- nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza, — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata; non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. EUBIPIDE 75 e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere Tuniformità di questo tormento, giunge a tra- verso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne reca in Argo (2). E radioso della sua recente gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine d'una vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sol- lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade- guato interprete del pensiero „ (5). Non senza ran- cuna son le prime parole di quella : " ma tu chi sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof- frire, non definisce audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine, ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era an- cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta. (1) Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però, ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura a sinistra di Ermes. (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. (4) Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente dato dal Nauck. 7G II. - ANDROMEDA La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un concento unico di vivace simpatia vicendevole. E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si forma adesso assai più nell'inconscio secreto del cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli forti e pronti, erompe in promessa : " vergine! s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite- la sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora chiede è più che una gloria : è il possesso ma- gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'il- ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer dura al generoso offertore; l'istinto femineo se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per colpa di te " ma molto può avvenire contro l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la vita non è nata o almeno non è del tutto salda; è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo passato di vittoria, della sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci- narla con sé nel sogno, a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul (1) Fr. 129. (2) Fr. 131. EURIPIDE 77 mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! „ (1). Perseo com- batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando una tazza d'edera colma di latte, chi succo di grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa del salvatore (2). Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è la fondamental intuizione psicologica della tra- gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan- ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta: meglio, l'anima non le è data. Euripide per contro ne fa il centro della scena : plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce di sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non comparabile con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de- siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge, (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148. II. - ANDROMEDA la divinità di lui si menoma e si abbassa di- nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia An- dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve- nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce. Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al fervido desiderio del prode il grido della sua dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua libertà che dalla passione forma il volere, del volere compone il proprio decreto. La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro la belva, era più vigorosa corporalmente; non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella tragedia euripidea, una tanto geniale innova- zione doveva sembrare anche anarchica urtando contro le consuetudini legali e morali della vita ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve- lare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo, o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna, e a ricomporre nello schema giuridico la mossa ardita della figlia. E fine si manifestava forse, in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora. L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza effetti. L'amore della vergine che prima della lotta trionfale era come offuscato di paura e di speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò di malinconia contrastando con gli affetti filiali. " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al EURIPIDE 79 vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec- chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col- pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel doloroso contrasto levasi l'appello al dio che travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle o ajuta benigno gli amanti che penano pene di cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo, onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto piacque al pubblico perché nella veemenza del- l'amante incontro al Dio della sua passione tras- pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore vince. Era ancor questa una giunta di Euripide al mito. Ma secondaria: un che di convenzionale la gravava ; non improntandola il segno del pen- siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del- l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psi- cologica queir ansia pregna di preoccupazione (1) Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII. 80 II. - ANDKOMEDA politica, quel travaglio complesso di meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma- gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui crede di aver esaurito per una via la materia psichica del dramma, una nuova senza indugio gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma generica umanità del suo pubblico, per eccitarne peculiari moti e destarne i singolari interessi. Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito, l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro alla difesa della giovinezza e della passione, da lui concette e atteggiate sotto la piti seducente specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cas- siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la quistione giuridica o sociale o politica di cui è per far cenno, dalla sola impostatura dei ter- mini si comprende che Euripide, — anche una volta, — aspira a risolvere una difficoltà em- pirica col criterio non dell' utile e del pratico ma del buono e del bello. La quistione poi non è sola, si consta più ve- ramente di due. I genitori della vergine s'ar- mano oltre che dei proprii diritti sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento degli esseri si trasforma in un contratto econo- mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bi- sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della EURIPIDE 81 felicità! „ (1). Che importa forza di gioventù, ardimento di cuore ? clie importa la gloria im- mortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli, con l'esempio recente, che si può per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3). Risponde, al ricco anche la sventura esser più lieve che al povero: già che quello non soffre se non del presente ; questo " ogni giorno spa- venta il futuro, che non sia dell' attuale il do- lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica e il materialismo gretto si as- somma in una sentenza : " questa delle ricchezze è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu- ripide ha torto ; la ragion pratica lo deve con- dannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal tragico non vien conseguito, un altro lo è, più dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono an- cora in Atene ; ognuno interroga l' imminente destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor- bida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando (1) Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A. Ferbabiko, Kalypso. 82 li. - ANDROMEDA cader la sua massima morale il suo rigido e teorico principio, se non insegna una via, dis- gusta del presente cammino. Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, — quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ — Pe- ricle aveva proposto e fatto votare un psèfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Ari- stofane. In verità se si pensa agli scambii con- tinui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero gli Ate- niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e decaduti a un grado inferiore, solo per aver con- tratto unioni con donne straniere. Pericle stesso fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate- niese, per esempio, una donna nata in città della Lega marittima, dura e perigliosa barriera si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la loro fedele assistenza doveva contare specie du- rante le guerre infelici. Onde il largo spirito euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo etnico che la saga conferiva ad Andromeda per riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre : " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! EURIPIDE 83 che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, sof- frono per legge: da questo è necessario che ti guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto mònito è pari alla profondità del problema toc- cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge- nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia la eventual vittima della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il cattivo genio della tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio intiero contro il decreto e gli strappa, non per raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo. Aristofane muove a riso se un suo cotale perde l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere ma, dopo un estremo rischio, nel giusto com- penso d' amore. All' architettura passionale la scenica doveva corrispondere per modo che non s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né del- l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito potrebbe menare grande scalpore. Anacronismo e irrazionalità era difatti mo- strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto — che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano essi indizio d'un' alterazione del mito ben più profonda ed esiziale di quella operata dalla ge- nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di (1) Fr. 141. Cfr. § VII. (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To- rino 1903). 84 II. - ANDBOMEDA rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti fra la nostra essenza umana e le favolose vi- cende. Invece, una volta intrusi fini di ripren- sione politica e di biasimo sociale sopra la trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita. Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del ketos, affronta problemi proprii dello statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che, al me- desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si assiste cosi a una penetrazione suc- cessiva e graduale del fenomeno solare nella sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento procede, tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la fede non ra- zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in paradigma d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è di- venuto pretesto a un problema giuridico, egli è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono però le sue prime rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen- sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede. Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar- lumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri- EUKIPIDE 85 volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ; lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega la vita, piega la fortuna con lo spirar dei vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice, senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2). E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3). Né manca un moto d'ira contro la divinità che ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è espresso in forma accorta e velata : non avverso a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ub- bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An- dromeda il Coro — " che dopo averti generata, o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri, è intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe bal- zino su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavo- lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste- rebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esa- minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un concetto di giustizia (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel se- condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr. 506. 86 II. - ANDROMEDA a cui non vede rispondere né l'opere né i de- creti divini, a cui gli pare meglio s' addica la condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo fra Zeus eDike: questa non può seder presso quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene: queste mal rispondono a quelle né sempre presso al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità: un re felice è tramutato in infelicissimo per l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso non ha la gioja del premio e deve superare nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre. E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio? La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio tragico, - — ritorna, e accompagna, in tono mi- nore, il concerto delle passioni eroiche e dei pro- blemi sociali. Ma cotesto non è più mito. E critica del mito : in quanto esso contiene un ricco elemento reli- gioso. Critica singolare però : che è insieme atto di negazione e atto di fede. Euripide accetta la leggenda, la narra senza alterarne il lineamento essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un legittimo procedere della divinità. E la sua risposta ha un sottinteso profondo. Egli po- trebbe difatti negar di credere al racconto per le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con- trario, perché le sente, dopo averle psicologica- mente vivificate, umane e, come umane, verisi- mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo. E una maniera di sceverar, nella fiaba, la in- corruttibile verità, — il dolore l'amore la morte, — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti e le forme divine. Se non che essa verità ca- EURIPIDE 87 duca non è morta, ha vita in assai spiriti an- cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E il tentativo di ripossedere totalmente il mito fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri- pide investito il problema che la leggenda eroica di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero. Della leggenda la sostanza umana fu la più riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito creatore si profondò con la sua potenza d'in- tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di politica da l'altro; quella per cui l'animo si com- piacque della finzione antica, e la godette ri- creandola. L'elemento divino fu contemplato con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata- mente. Al di sopra si conservava intanto la patina eroica, lo splendore delle avventure, la maestà delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.; reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im- mensamente lontano. Non si sa se nella tra- gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere- cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali: certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza umana, elemento divino, vernice romanzesca non trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello spirito euripideo : sintesi che non è concordia logica, né armonia estetica ; si bene vita in an- goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo- gico e l'affanno politico e il dubbio religioso 88 li. - ANDKOMEDA si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo, la sorte di Perseo assommano in un solo vivo vertice le divergenti passioni dell' intera tra- gedia. Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu- pato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet- tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli spettatori come al poeta il fato travaglioso dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate vicende della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da quando il suo impulso ideale vien premuto dalla material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire che at- tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra- mutati in constellazioni. I problemi umani della sua vita sono tronchi da un intervento divino : non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol- tanti il timore per le imminenti sorti della I DOPO EURIPIDE 89 patria; s'accresce il senso vivace del mistero che regola le fortune terrene. Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico del mito compaginati negli spiriti di Euripide e del primo suo pubblico, non significa che si fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione può, nello spirito, comporsi per il dolore me- desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio, disarmonica la forma estetica che la esi^rime- Quindi l'unità è momentanea, non stabile. Le diverse materie della leggenda si serbano dis- gregate e inorganiche. E, non potendosi nel tempo, se non per via di critica, riprodurre iden- tico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano derivate non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond' è che il drama nella storia della fiaba rappresentò una pausa senza echi. III. — Dopo Euripide. Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza verso una polie- drica complessità: onde naturalismo e novel- Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan avuto giunta dal romanzesco, per attingere il sommo della pienezza nel dramatico travaglio del pensiero religioso e politico, il vertice del- l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo 90 II. - ANDROMEDA Euripide, la parabola discende sino ai confini d'una più consueta mediocrità: si che par nel principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi se non il midollo originario della fiaba, ma si mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari- dito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene lo spirito che negli inizii verso lei convergeva in- tiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo al- largarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è solito allo storico del mito si deve ripetere ancor qui : assai fu perduto che ci avrebbe di molto giovato nello studio di cosi fatta decadenza mitica. Non son più che quattro gli autori (1), in cui ci ritorni il racconto del ketos; ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa caratteristica. Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con l'altre ancor questa favola, si riconnette a Fe- recide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio- ti) Dal numero è escluso Igino Fav. 64, come quello che contiene varianti di particolari, ma non imprime d'un propi'io segno la fiaba. DOPO EURIPIDE 91 coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi in margine, ferma la notizia d' una tradizione alcun poco diversa dalla ferecidea (1). Chi legga distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia intenti d'investigazione erudita : nel che si appalesa dunque la caratteristica di questo strato evolutivo. All'autore che la narra la leg- genda è morta: è cadavere che egli ricompone fra bende, con qualche cautela, a fin che poco di quelle membra che furono organismo vada disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui, nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo compilatore ; presso il quale è già armonia di contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre, una ragione più alta, intima alla logica dello sviluppo storico, onde Euripide dev' essere ta- ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e la volgata con tutte le sue piccole e grandi va- rianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ; è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; già che la distinzione deve va- lere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apol- lodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale del suo la- voro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò (1) Cfr. § I. 92 II. - ANDROMEDA sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ; la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per- sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol tanto entro i loro limiti il poeta si concede di imitare altre fonti, sia pure Euripide. Il romanzesco imprenta tutto quanto il com- patto manipolo degli esametri tra la fine del quarto e il principio del quinto libro nelle Me- tamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il miracolo della potenza oltreumana: dal volo che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del capo gorgoneo che termina l'episodio. In appa- renza però Ovidio non se ne compiace con la maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com- primerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce convito vien pa- ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con- fine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente dell'aquila: non insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simi- glianza di cignale fra cani in torma : scena cui è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri. In realtà, queste similitudini umane riescono una più sicura esaltazione dello stupefacente: — ne- cessarie perché le intuizioni si concretino, escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla- sticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto e terreno : — utili, di più, per creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo straordinario e il normale. Si compie qui, ac- DOPO EURIPIDE 93 canto a un magistero d' arte più evoluto che vede i particolari e li esprime non li accenna, uno sforzo per accrescere la distanza di cui se- parasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due ri- prese, il racconto. In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo stuolo dei congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione estrema a l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero ; che ciascuna di quelle trasforma- zioni ha importanza speciale, né può valere se non congiunta con la prima o la seconda delle scene in cui il racconto si divide. La prima è intorno alla venuta di Perseo, al duello con la fiera, alla vittoria (1). Novamente da l'una parte e da l'altra egli si av- vince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma : e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide, avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus (Berlino 1914). 94 II. - ANDEOitfEDA bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria. Si ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca- tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti, il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva, — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse stata fiducia della materna bellezza. Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona : avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do- loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la- crime molti giorni vi potranno restare ; a porger sal- vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo- latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an- teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene- fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote il lor regno, i genitori. Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando DOPO EUKIPIDE 95 d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra, alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea; cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina- chide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe- santiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate. A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei fianchi colpiti. D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su- perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au- silio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e (1) Per avere una idea precisa della " spada ricurva , " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720 {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig 1902-9) pag. 2053-4. 96 II. - ANDROMEDA Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine, della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno, virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con- tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta, che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era verga nel mare, sopra il mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio cui s'ab- bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si termina, col libro quarto, il primo episodio, per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen- timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac- colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor- dina. Un che d'ignoto par che l'attenui come d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi- candosi tutto il successivo evento appunto dal sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il vertice avventuroso del racconto, questa scena a l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o, meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire DOPO BURIPIDB 97 "iin elemento disgregatore, una disarmonia nel- l'opera: e la passione tramutò in accordo nu- ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil- mente: ella s'induce a rivelare allo straniero il perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre: egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre la belva avanza e il terror tragico martella i cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene onorevole genero al re. I più generosi appajono, poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è capace in altri casi. I soli accenni più appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza numerica della forma cela l'esiguità della intui- zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma un poco anche guasto la vita. Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti a banchetto nuziale il re e la regina con la figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan- zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma tenta ora di riaverla quando il ketos è ben morto. Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' im- prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie (1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. A. Ferbabino, Kalypso. 7 98 II. - ANDROMEDA una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida rabbia dei vènti. Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con- tesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta, " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della car- pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare, Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in- furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa mercede compensi la vita di lei ch'è sal- vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero Ammone, ma quella belva del mare che veniva per farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „. Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi (1) È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof- fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. DOPO EURIPIDE 99 comincia il combattere. E il racconto si distende lungo per circa due centinaja di versi : che la battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab- bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu- multo è grande (1). " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va- namente pio suocero, e con la madre la nuova sposa, son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „. Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico. Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal gesto rimase statua di marmo ,. All'ultimo è pro- strato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie- trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere. Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né risguardare ardiva quello cui con la voce pregava, rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore. (1) V 30-235 ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg. lOO II. - ANDROMEDA — ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre, nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „. E lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che nel principio commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis- sità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il car- dine del secondo episodio mitico: efficace tra- passo per il quale la compiacenza ferecidea verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di armoniosa bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé tutta la seconda parte della leggenda, la equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat- mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di un grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che com- piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui banale mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes- DOPO EURIPIDE 101 sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana- logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita- zione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé 102 II. - ANDROMEDA quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori- gliando. L'eco della terra par muovere da una lontananza. Ma la terra è presente (1). Tritone e le Nereidi. Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden- dolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. — Egli uccise il ketos. If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man- dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im- presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com- pagni? che altrimenti la via è difficile. (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881). DOPO EURIPIDE 103 Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora- vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo. If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar- dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas- sero volò via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che 104 li. - ANDBOMBDA colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione in- ventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è DOPO EDRIPIDE 105 la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro- mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar- tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una interessata volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima- ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha più una base di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne- reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da cui sono animate è, non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne- garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac- cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni 106 II. - ANDROMEDA denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica è tutta- via indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con la luce della sfera più alta le te- nebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di- parte : le è anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro- vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si che qui si misura, con precisa esattezza, il re- gresso dell'efficacia leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per ciò si connettano con il tragico che, — forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito, scompare di (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. DOPO EURIPIDE 107 poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leg- genda, sta adunque una singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa diretta. CAPITOLO III. La Demetra d'Enna ^^l 1. — Il mito siculo. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au- rore e dei tramonti settembrini, le pupille be- vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De- metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i §§. (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca- strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912). Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen- siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve- gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in- sieme erano pregnanti religione e mito. (1) CicER. in Verr. IV 106. IL MITO SICULO 111 È probabile che gli avvenimenti seguissero cosi (1). Enna, nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse riu- scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più ve- tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr. §§ 1 e III. 112 III. - LA DEMETRA d'eNNA intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del- l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti- tuto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del no- madismo, avevano per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi- nità delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza, cir- condava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi- rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma- turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re- cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula- bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a- scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è un germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. — Altra via tien la famiglia IL MITO SICULO 113 nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la- sciando nella dimora le cose tutte che già furono segnate del suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul- timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien sensi- bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei A. Febeabino, Kalypso. 8 114 III. - LA DEMETRA d'eNNA familiari su dalla morte , non mancano , tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende- volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale anche più efficace influenza vi doveva essere. Però che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa- miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perché sono il nu- trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo- rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami gli agri- coltori. — Antica accanto a questa, ma anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma- ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà, deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18. IL MITO SICULO 115 morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione umana , quanto della produzione terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad ogni modo, — come principio ad effetto, — forma anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa- miglie composte da genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis- setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che 116 III. - LA DEMETKA d'eNNA s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. — Quando delle figurazioni che si accennarono (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. IL MITO SICULO 117 è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es- serne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fe- nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic- cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina- gione e il riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po- tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at- tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella proba- bilità storica la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più 118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel che più importa, — in canti che il pregio del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre. n. — Il mito greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima pa- rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis- simili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro- babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel- Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri- IL MITO GRECO 119 buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melo- grano. Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba- stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. 120 III. - LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac- canto ai protagonisti : però che essi fossero i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sot- terranei, addotti da quel vincolo di analogia che IL MITO GRECO 121 vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista. — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non po- tevano congiungersi in parentela, perché s'eli- devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia supe- rare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scam- bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto (1) Pag. 115. 122 III. - LA DEMETRA d'eNNA il tono austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e pla- smarla allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef- ficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo racconto, IL MITO GBECO 123 diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor- rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ; onde di notte lo pone, con certe sue arti ma- giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e (1) Yv. 91-304. 124 III. - LA DEMETBA d'eNNA soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, ri- vestendo un venerando colore di antichità sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo- raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti De- metra è la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo, è giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra- (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310. IL MITO GEKCO 125 pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma- nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si- gnificato primitivo, questo permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi- nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla- stica pittorica, col carattere di adolescente gio- vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no- vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore rico- stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza mag- 126 III. - LA PEMETRA d'eNNA giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven- detta di Demetra, che in verità non avrebbe più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé tutta la seconda parte della leggenda, la equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat- mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di un grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che com- piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui banale mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes- DOPO EURIPIDE 101 sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana- logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita- zione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé 102 II. - ANDROMEDA quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori- gliando. L'eco della terra par muovere da una lontananza. Ma la terra è presente (1). Tritone e le Nereidi. Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden- dolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. — Egli uccise il ketos. If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man- dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im- presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com- pagni? che altrimenti la via è difficile. (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881). DOPO EURIPIDE 103 Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora- vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo. If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar- dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas- sero volò via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che 104 li. - ANDBOMBDA colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione in- ventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è DOPO EDRIPIDE 105 la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro- mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar- tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una interessata volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima- ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha più una base di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne- reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da cui sono animate è, non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne- garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac- cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni 106 II. - ANDROMEDA denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica è tutta- via indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con la luce della sfera più alta le te- nebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di- parte : le è anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro- vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si che qui si misura, con precisa esattezza, il re- gresso dell'efficacia leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per ciò si connettano con il tragico che, — forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito, scompare di (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. DOPO EURIPIDE 107 poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leg- genda, sta adunque una singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa diretta. CAPITOLO III. La Demetra d'Enna ^^l 1. — Il mito siculo. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au- rore e dei tramonti settembrini, le pupille be- vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De- metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i §§. (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca- strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912). Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen- siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve- gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in- sieme erano pregnanti religione e mito. (1) CicER. in Verr. IV 106. IL MITO SICULO 111 È probabile che gli avvenimenti seguissero cosi (1). Enna, nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse riu- scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più ve- tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr. §§ 1 e III. 112 III. - LA DEMETRA d'eNNA intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del- l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti- tuto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del no- madismo, avevano per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi- nità delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza, cir- condava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi- rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma- turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re- cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula- bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a- scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è un germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. — Altra via tien la famiglia IL MITO SICULO 113 nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la- sciando nella dimora le cose tutte che già furono segnate del suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul- timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien sensi- bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei A. Febeabino, Kalypso. 8 114 III. - LA DEMETRA d'eNNA familiari su dalla morte , non mancano , tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende- volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale anche più efficace influenza vi doveva essere. Però che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa- miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perché sono il nu- trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo- rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami gli agri- coltori. — Antica accanto a questa, ma anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma- ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà, deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18. IL MITO SICULO 115 morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione umana , quanto della produzione terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad ogni modo, — come principio ad effetto, — forma anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa- miglie composte da genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis- setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che 116 III. - LA DEMETKA d'eNNA s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. — Quando delle figurazioni che si accennarono (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. IL MITO SICULO 117 è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es- serne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fe- nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic- cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina- gione e il riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po- tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at- tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella proba- bilità storica la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più 118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel che più importa, — in canti che il pregio del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre. n. — Il mito greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima pa- rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis- simili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro- babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel- Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri- IL MITO GRECO 119 buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melo- grano. Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba- stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. 120 III. - LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac- canto ai protagonisti : però che essi fossero i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sot- terranei, addotti da quel vincolo di analogia che IL MITO GRECO 121 vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista. — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non po- tevano congiungersi in parentela, perché s'eli- devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia supe- rare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scam- bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto (1) Pag. 115. 122 III. - LA DEMETRA d'eNNA il tono austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e pla- smarla allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef- ficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo racconto, IL MITO GBECO 123 diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor- rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ; onde di notte lo pone, con certe sue arti ma- giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e (1) Yv. 91-304. 124 III. - LA DEMETBA d'eNNA soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, ri- vestendo un venerando colore di antichità sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo- raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti De- metra è la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo, è giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra- (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310. IL MITO GEKCO 125 pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma- nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si- gnificato primitivo, questo permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi- nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla- stica pittorica, col carattere di adolescente gio- vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no- vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore rico- stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza mag- 126 III. - LA PEMETRA d'eNNA giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven- detta di Demetra, che in verità non avrebbe più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non pochimuta- menti, né tutti soltanto di particolari; giacché, dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne costume lecito alterare la saga per adattarla alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un Comune per attingere gli estremi del mondo colto. Unica può starle a paro, per intima vì- goria di concepimento, e per potenza espansiva, la favola composta nell'ambito di quel moto filosofico e religioso onde il pensiero greco, e specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo in- treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci impor- tano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna. Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche con la siciliana, tenace per antichità, infantile per incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo moto di storia. IL MITO SIRACUSANO 127 in. — Il mito siracusano. I Siculi, che si erano ritirati su i monti del- l'interno perché incapaci di resistere ai predoni dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che in Enna avevan con più insistenza fissato il lor mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se- colo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via, dive- nendo sempre più salde più ampie più belle, in città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il terreno, o sgombro facendolo con distruggere e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve a fiore civile intellettuale e artistico grandis- simo in paragone di quelli, e a distendere sn tutte le portuose spiagge dell' isola un incan- cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri- monie della loro mentalità religiosa si radicano ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale e (1) Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc- cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia voi. I (Torino 1894). 128 m. - LA DEMBTRA d'eNNA di culto civico, accopj)iandosi con la congenita irrequieta genialità e l'inconculcabile aspira- zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli presto a violare i segreti delle regioni più in- terne e a portarvi il soffio della propria opera contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol- versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche i commerci di scambio, a Enna ebbero a per- venire folate di vento greco fin dal secolo VI. Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ; perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano alcun poco. La palese influenza dei Grreci su Enna co- mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa. Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op- ponesse non importa qui sapere. Senza dubbio oppose una resistenza ■ riguardo al suo culto e al suo mito, che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero essere. La risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva e la ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente si direbbe contaminata, perché è più tosto un compromesso di politica religiosa, una formula felice per conciliare le pretese o, se piace, i diritti dei due centri di- versi (2). (1) Cfr. § li. (2) Cfr. § II. IL MITO SIRACUSANO 129 In Siracusa Grelone fu un institutore e un pro- pagatore zelante del culto delle greche iddie Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il mito del rapimento. E a quel modo che nel- r Inno a Demetra la favola naturalistica , non spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien ad arte connessa con un preciso e determinato centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten- denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e a applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a un certo nume. Di qui nascono di- fatti sovente contese tra regioni ; in particolare se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto della maggior fecondità d'un suolo a paragone d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla generale tendenza: però che ci sia rimasto in- dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ; onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito, come da una delle bocche dell'Erebo e del sot- terraneo fuoco. Che se accanto a questo parti- ci) V. 133. A. Ferrabino, Kalypao. 130 III. - LA DEMETRA d'eNNA colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infer- nale si apre la via del ritorno presso lo stagno di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti topografici di una saga che adatta il vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nel- l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret- tamente libero da Enna dimostra qual fosse l'impulso originario del culto instituito da Ge- lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca- ducità che lo contraddistingue provano quanto diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i diritti di prima occu- pante che competevano alla fiaba dei Siculi. La quale s'imponeva difatti tanto più quanto maggiormente s' era, traverso gli anni molti, radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo essenziale per lo meno, la sua simiglianza con il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po- tevasi rivestir di fogge e definire con nomi greci ; non asportare dal lago : ove del resto la feracità del luogo e la credenza, anche greca, che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so- vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita. E difatti il ratto rimase. I Siracusani die- dero alla divinità delle biade il nome di De- metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter- mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello (1) V. sotto pag. 131. IL MITO SIRACUSANO 131 di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben sapevano, e con quei particolari che eran dive- nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di- ritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper- tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „ di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca- valli. E noi non sappiamo molto di più; ma è facile che altri particolari della leggenda si connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer- doti. Suggello poi di questo compromesso reli- gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca- ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto di Cora. Questa avrebbe avuto compagne du- rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora Artemide grandemente importava nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera, città a Siracusa amica durante le guerre del V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui si vede costretta a riconoscere che a Demetra doveva esser spettata la signoria di Enna, at- tribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava, al medesimo livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esi- genze dell'antichissima saga ennense e le pretese della pili recentemente sopraggiunta saga sira- cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi 132 III. - LA DEMETRA d'eNNA nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit- tolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico la proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata, signoreggiano due città siciliane ; il suolo è opulento di biade come non altrove : certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente, diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano. Bisognava dunque, da che respinger Trit- tolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto- lemo, avesse avuto il favore di Demetra e co- municato alle terre il dono preziosissimo; si con- cedette che ciò accadesse in occasione del ratto di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, — gli si premise, — già dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia produceva grano, prediletta alle due Dee per la sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, — si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una separazione dunque della Sicilia dal restante paese, onde il ratto divenne il momento pro- pizio per diffondere al mondo il privilegio si- culo. Che era non poco orgoglio. (1) Cfr. § IV. IL MITO SIRACUSANO 133 Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che un poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira- cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi- tico aveva i suoi punti topografici fìssi e armo- nicamente collegati ; il culto preparava salda e e vasta base per un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche particolare non privo di attraenza. Né manca- rono forse i cantori che la materia non inde- gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane se non il testo, povero non chiaro e senza vi- goria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo. Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la potenzialità artistica del mito e la mancata espressione di esso, eh' è a un tempo mancata intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor- dinato svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; ... e che le predette Dee in questa isola primamente ap- parvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg. (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim. 134 III. - LA DEMETRA d'eNNA adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero. Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne' prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città, per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun- dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'om- belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a questi, paludi, e un grande speco con apertura sot- terranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi- racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta- colo pittoresco e gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre- scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversa- zione reciproca si compiacquero specialmente di que- st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo : Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa- rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone, compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Sira- cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane... IL MITO CONTAMINATO 135 Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra, non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo- mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven- dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi misteri eleusinii... (1). Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri, l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala- sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri- pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „. Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che rac- conta. Modello insigne, questo, del come possano mascelle di erudito maciullare e rugumare il fiore della saga. IV. — Il mito contaminato. Il mito siracusano di Demetra e Cora, imper- niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei due centri religiosi, venne accolto nell'am- biente poetico di Alessandria. E fu questo l'i- (1) DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione. 136 III. - LA DBMETRA d'eNNA nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di fatti, oltre alla forma siracusana della favola, erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse, avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fos- sero riusciti a trascendere i limiti della medio- crità espressiva e della ristrettezza geografica, per intrudersi nella letteratura tradizionale. La mitopeja orfica in ispecie aveva trovato acco- glienza favorevole nel colto ambiente alessan- drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più antichi non erano se non una forma, fra l'altre, dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po- steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia è la storia della sua seconda immersione nel flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia del successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di innovazioni via via più complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa- rebbe stato trasparente: dei maggiori alessan- drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia (1) Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es., Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133). IL MITO COìs^TAMINATO 137 e tal volta quasi copia in autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio tratto del quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui appunto si rivela la contaminazione fra diverse correnti leggendarie. Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico- lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a una variazion fantastica, quando nel luogo di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios introduce la ninfa del siracusano lago di Are- tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi elementi siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto duplice di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se non tutta per buona parte, già ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe : dunque, come nel mito protoattico. Ma, come nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi- sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come quella di cui per la vendetta divina fu pretermessa la coltura. In tale contaminazione (1) Vv. 341-661. Cfr. § IV. 138 III. - LA DEMETEA d'eNNA dei due miti protoattico e neoattico la saga si- ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre la propria terra fra più altre, prima nel godere le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer- tilità singolare e di fedeltà a Demetra. D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at- titudine sua mentale come per la natura del suo tema, con particolar compiacenza l'impulso letterario delle metamorfosi. Sembra persino che ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché palude era sembrata luogo dicevole alla scom- parsa di Ade come un lago alla comparsa, offre spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone che gusta la melagrana è sfruttato per immet- tervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nel- l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria si risente in Ovidio per il tentativo di analisi psicologica nei personaggi: in Cora special- mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali per esser vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l' antefatto del mito : il ratto è voluto , non da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è sdegno che tante dee si sottraggano al suo po- tere e che libero ne resti il medesimo Ade (la- tinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando psicologico diviene il racconto, un particolare che, allor che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la fecondante pioggia. IL MITO CONTAMINATO 139 Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in- serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto di culto singolare. Cosi perché pili appaja la giustizia di Griove e ne risalti la umanità del mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proser- pina con la madre e col marito diviso a mezzo non più per terzi. Simile attenzione psicologica governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di De- metra a Giove, materiati di accortezza feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a ciascun momento del- l'animo competono, là dove tecniche mitologiche più elementari non cercano se non il consueto e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa, — e basti per tutti l' esempio solo, — ritrae prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con- viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle- goria agreste. E su la soglia dell'umanità (1). Non lungi a le mura di Enna son le profonde aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami; purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua. Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914). 140 III. - LA DEMETKA d'eNNA gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno e canestri empie e nella raccolta studia superar le com- pagne — ad un punto è veduta amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con mesta voce madre e compagne chiamava; la madre più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue- rili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i ca- valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di fer- ruggine persa (1). È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'an- gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il ge- nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare, me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci- piti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi (1) Omessi i vv. 405-8. IL MITO CONTAMINATO 141 l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che prender si possa (1). Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga vagando , a Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez- zava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò, ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec- (1) Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor- fosi di Ascalabo. 142 III. - LA DEMETBA d'eNNA cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio- lenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ; la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia sup- plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa per sede : e tu clementissima la salva ! Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, op- portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam- mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero, né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno Sposa potente „. La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca- pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue ! se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre com- muova; né meno cara — preghiamo — ti sia perché da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to, IL MITO CONTAMINATO 143 se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop- porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,. E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra- tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto restando che con la bocca là giù cibo alcuno non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „. Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia. Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di- giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1). Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale, il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea, di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi riappare (2). A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag- gioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e delle Sirene. (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa. 144 III. - LA DEMETRA d'eNNA SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato. Contaminato ma diversamente, ci appare il racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro- mani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo- dello). La mente che ricorda il racconto delle Meta- morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo carme (2), con la mano del medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ri- tegno, quasi una schiva attenzione per evitar d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi- tate da Aretusa; non quella è la lor sede: né nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta- cito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ; ma non usurpa da signore lo schema greco più antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan- nosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li- libeo, offrono bensì materia alla fantasia del poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio nella leggenda, onde costituiscono un elenco di (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Con- fronta § IV. (2) Vv. 419-50. IL MITO CONTAMINATO 145 nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi sùbito dopo in abbandono. Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del vecchio Cèleo fu il campo. Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ; e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „ la fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome di madre — " che fai in solitarii luoghi senza com- pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse, e come di lacrima — che non piangon gli Dei — cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien dietro. Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino, Kalypso. 10 146 III. - LA DBMETKA d'eNNA la lunga fame: — e perché della notte in principio ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir delle stelle. Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel bimbo. Salutata la madre — Metanìra la madre si chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue- rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo: tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è lieta : la madre il padre — ciò sono — e la figlia : tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo, a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del sonno. Della notte era il mezzo, era nel placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon- giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ? , e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor- tale; ma primo e con aratro e con seme da le colti- vate terre coglierà premii „. " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1). Qui non è più il racconto dell'Inno con il (1) Vv. 507-562. IL MITO CONTAMINATO 147 mito protoattico ; non è né meno il racconto di Timeo con il mito siracusano : però che a diffe- renza profonda dal primo la umanità è presen- tata ignara di biade e cibata di ghiande prima del ratto; e a differenza caratteristica dal se- condo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico» di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tra- mutato il semplice istitutore di un rituale sacro nel giovinetto onde per favore della Dea un inestimabile benefizio si largiva agli umani. Celeo e Metanira recano identici i loro nomi, ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è tramutato in povera capanna: sul desco stanno cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per- tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se- guita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su la persona del rapitore sono due astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio fra Cerere e Griove, questi decide di dividere l'anno in due parti perché Proserpina rimanga sei mesi col marito e sei con la madre (1). Ora, Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con- sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso (1) Vv. .575-614. 148 III. - LA DEMETRA d'eNNA pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce posson venire considerati anche l'idilliaca scena in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de- licato dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo- rilegio in Enna. L'arte però converte la triplice mischianza in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto- rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel termine ove più personaggi agiscono e parlano con una stringata prontezza che culmina forse nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di- giuno con tre di quei grani che le melagrane ri- copron con molle corteccia „ (1). Le varie correnti mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di mosaico mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo ricollega con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare del culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella capanna d'un misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide, ma non è di origine religiosa, si più tosto muove da una intima commozione umana, di simpatia per la sofferenza eterna, per la semplicità pri- meva, per la faticosa Terra. Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito siracusano; ma per compenso è conseguito più alto pregio letterario che non nell'altro carme (1) Vv. 606-7. IL MITO CONTAMINATO 149 ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or ridu- cendola a magrezza or distraendola a rimoti oggetti. Oltre che elementi siculi proto e neoattici, anche particolari orfici compose insieme con abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane op- pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser copiosi nella parte del poemetto che non fu scritta e trattava del soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine si assommano nella figura di Trittolemo a cui par probabile che venisse attribuito il dono delle biade (2). Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che si dovevano all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascor- reva il tempo intenta a tessere un tessuto ove fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto accadde si per volontà del Fato {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51. 150 III. - LA DEMETRA d'eNNA s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due Dee al ratto non era se non un asse- condar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora, vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap- pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi fu introdotto quello, che pareva più dicevole, d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an- tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su quella parte la quale nel poemetto sul Ratto non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti sono stati raccolti tutti i materiali che da tri- plice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar- rare del ratto e i precedenti e le primissime conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse quella sostanza leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il suo racconto si spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima ha termine col ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo di moglie e ignaro delle dolcezze che la pater- nità concede. Tanto l'assilla il suo veemente (1) Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV. IL MITO CONTAMINATO 151 desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li- berare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in dubbio intorno alla scelta della sposa, già che nessuna volentieri accetterebbe marito il tene- broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg- giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri- tornano, — come si vede, — sott' altra specie, le orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da ogni attentato sotto l'alta protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora ap- punto, profittando della lontananza materna, a Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro- dite, egli fa si che la vergine esca con le com- pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del- l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti di Enna e che su quelli, balzando improvviso dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge. Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie. Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi. 152 III. - LA DEMETRA D^ENNA La seconda parte possiede quell'unità di strut- tura che manca a questa prima. Il centro natu- rale dell'azione è offerto da Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un presentimento vago ma assiduo la turba con sogni atri che mal si dileguano nel risveglio. Alla fine, decide di abbandonar le terre di Ci- bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani. Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile della vergine, e lacrimante in profondo dolore la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto le è però quasi sùbito superato dallo sdegno contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che per- misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu- rando se per tal modo si sovvertissero leggi di giustizia e principii di morale. Giura che non cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'uni- verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia. E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a Zeus. Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria, ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano IL MITO CONTAMINATO 153 vi mancò: non esito a dire che vi mancò per intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu- dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa. Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore, — quella, che prima colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di scene, armonia di verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion delle parti in un tutto su cui si volge il nostro interesse e l'esame più vero. Né la per- fezione stessa è anche da concedersi intera : guasta per certa esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate riuscite e oltre le mancate, com'è composto il grande affresco ? Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti psichici di cui tutto il racconto è pregno: non diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi numi. E suo grande compiacimento si fu narrare ora il cordoglio della madre, ora lo spavento della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu- tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la accorta profondità dell'investigazione intima; e, (1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies , (London 1901) pag. 130 sgg. 154 m. - LA DEMETRA d'eNNA inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan sempre senza stri- denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi quello come questo pregio man- cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grosso- lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel- l'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro personalità per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla tradi- zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma- rito recente, un giudice un po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non im- portano nomi, non colori, non linee. Basta, che per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni della retorica. Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la Sicilia con un senso di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen- dor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e un contenuto orgoglio matronali. La Frigia lontana riceve da Cibele, quasi un recondito balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo : non è in proporzione con la statura degli attori ; o meglio, non con la loro statura d'uomini, si con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il primo contrasto, che par creato a posta dal poeta, IL MITO CONTAMINATO 155 fra la diminuita materia divina della fiaba e l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe dovuto essere dei Numi. Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota che nessuno dei consueti attributi è stato tolto da Claudiano né a Demetra né a Cora né a Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver- gine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice, quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trai- nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste. Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi spirata dentro senza che Fautore mostri di ac- corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è, a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit- tura il grottesco e tramuta il poema in com- media. Quando, — gli esempii potrebber essere moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea tunica, e con pacata voce consola il mesto do- lore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di (1) II 273-276. 156 III. - LA DEMETBA d'eNNA Claudiano : già che le parole che seguono e che vantano di Plutone i pregi qual marito e re son le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin- novazione a punto svela a maraviglia a qual grado di risibile pervenga il poeta nel colorire pateticamente quello spauracchio " feroce „ di Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte tremendo. Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere artisticamente (non dico logicamente, che sa- rebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e meschina al pari d'una qualsiasi siracusana. Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre- mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né ti- more cotesti numi ambigui. E l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché è vuota cosi di dolore materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse spinta in là la ten- denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap- parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra- cotante pompa esteriore, marionette fìngenti per gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa- miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus IL MITO CONTAMINATO 157 con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo- strare come, col decretar da Demetra il dono del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora; ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano ha deformato il sommo Iddio. Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al contrario di quel che era compito dell'arte: ha dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha contrapposto, in vece di avvicinare senza con- trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure non gli avevamo avvertiti: non so che secreta forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga- nismo del mito è moribondo, — e si dissolve. Cosi né pur la contaminazione di motivi, desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon- dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo racconto siculo, che una prima volta aveva sen- tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso greco, e trovò una seconda volta, traverso gli AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con- gesti elementi. CAPITOLO IV. L'abigeato di Caco (i). I. — Presso grindiani e i Greci. Indra e Vritra si combattono. Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ar- dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà, nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi- gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras- sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete. I ben colorati animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal- l'antro, ove segregato si stava il bottino, gli (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive. 160 IV. - l'abigeato di caco giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la grotta, di frecce e di clava colpisce più e più volte il mostro nemico, l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin sopra la terra. Cosi nel Rigveda indiano (1) si adombra per noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia. L' odio , che un' anima paganamente infusa nella natura nutre acre contro il velame dal quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco la presenza di una forza attiva, e nemica cosi della luce benefica come della fiamma benefica, però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le annientano. Il bujo della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio non si spinge, e che, quando spiragli appajono traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra tinta del fumo , che gì' incendii sprigionano, pregno di odori corrotti, su dai possessi degli uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu- muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le pupille: — questi colori queste (1) Cfr. fino a pag. 163 § E. PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie si accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però con ritmo unico il malefìcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam- mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiam- mata in vece che rade una selva è nemica del Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bam- bina non sa che la tenebra è un modo della luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli effetti, delle antinomie fallaci nelle cause. Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ; e comuni, se bene traverso le differenze a volte non piccole, sono le forme di cui si veste e le associazioni psichiche di cui si vale : l'antropo- morfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma- lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale che sia per esserne il valore più immediato, per- mane il riposto senso di allegoria naturalistica. Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con- cetti, poco importa se la fiaba si connetta più tosto con la freccia del fulmine che squarcia il perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente infocato che appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale A. Ferrabino, Kalypso. 11 162 IV. - l'abigeato di caco ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet- tacolosa vicenda della natura, deve esser stata indotta dalle medesime sue associazioni analo- giclie a ripetere, nelle aridità della concezione, un solo racconto per fenomeni simili. Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso pochi come là simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si è, pur serbando pa- recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno- vato in altra forma, la quale, per il nesso che nel pensiero già intercede fra tenebra e male, luce e bene, trasporta il mito a significare il contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo Ahriman. Che se, dopo averle spiegate, non grande conto è da farsi di queste trasposizioni della fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag- giore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi o al persistere di taluni particolari significanti. In essi è il segno di qilanto si accosti o allon- tani dalla saga originaria il nuovo racconto : simili a quei tratti caratteristici che perman- gono a contraddistinguere il volto di una fa- miglia nei secoli. E quando del mito si è poi perduto tutto il senso riposto, restano testimoni veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di- mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione innovatrice sul modello più antico. Quando in vece un significato s'intrude sopra e contro l'o- riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono insieme i primitivi particolari episodici, come un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi. PRESSO gl'indiani E I GBECI 163 o solo tanti se ne serbano quanti non discon- vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié l'energia conservatrice insita in quei partico- lari è costituita, in somma, da una non più co- sciente memoria dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo, avevano, quando ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa pertanto, allorclié al ricordo incosciente sot- tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed ecco difatti tramutarsi anche la foggia este- riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi perpetrato a danno d'una divinità solare venisse narrato insieme con la successiva vendetta nelle saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro assunto la conget- tura. Certo che in secolo a bastanza antico la metamorfosi del racconto si rivela profondis- sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto dalla minore anima greca: quella che baratta e commercia; che ruba con astuzia, e nega con impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av- volge di parole artificiate, di periodi fluenti, di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do- li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati ,, la cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con- fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904) 128 sgg. 164 IV. - l'abigeato di caco mande coperte, l'infelice derubato ; che giura invocando i men pericolosi dèi, nella speranza di averli meglio indulgenti ; che non ignora al- cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte al brocco, e tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse, fissi qua e là su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive in- tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è anche il bene. Ma fra questa maggiore e la mi- nore anima greca i tramiti non sono affatto tronchi. Onde una celata coscienza della supe- riorità di quello spirito che può, se voglia, rin- chiudere in un labii"into di dubbii e di certezze, entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter- locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso di compiacimento interno lo illumina : il sorriso mal palese degli aruspici, secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca, con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac- cogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichia- razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ate- niesi discorrono troppo bene perché si possa lor credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma c'è una lode sobria del ladro abile. E la com- media nasce. Comico, il racconto eh' era stato PEBSSO gl'indiani E I GRECI 165 tragico allorquando Vritra cadeva sotto la in- vitta clava di Indra. Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I protagonisti sono mutati. Ca- duti taluni particolari, altri s'improvvisano dal largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di- verso, perchè alla furberia del mortale compete scena la terra, come alla violenza del mostruoso iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra di- vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ; e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di inverosimile forza e di mente già dotta nelle oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si svolge la principal scena. Due altre la precedono. La prima narra il furto. Non è opera di vio- lenza, ma di scaltrezza. I buoi, — cinquanta, — pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes, per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrec- ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin- castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la refurtiva in una grotta " da la volta elevata „. Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène. E ha luogo la seconda scena (1). E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con (1) Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford 1912). 166 IV. - l'abigeato di caco lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la- travano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus, obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo- vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol- gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole. " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro. Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „. Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti- mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre fre- quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso per certo tenterò — che posso — dei rapinatori dive- nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre (1) Omesso il v. 153. (2) Omesso il v. 167 ch'è corrotto. PRESSO gl'indiani E I GRECI 167 Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della grande sua casa, molto da quella rubando stupendi tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „. n senso d'umanità e la sostanza greca che sono divenuti il nucleo nuovo del mito appa- iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra bambine, è un breve mal represso anelito di sim- patia per il ladro perspicace ed ardimentoso, simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane della carne si ax)provi quel che la ragione con- danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste. Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e l'ombra della sua caverna, dalla quale il mug- ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac- ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi- sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin- quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del contrasto, che la onnipotenza divina giustifica e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra e del poeta. 168 IV. - l'abigeato di caco Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì, la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri- postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am- brosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par- lava ad Ermes illustre. " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi : presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te- nebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg- giando fra i bimbi „. Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos- sente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piac- ciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni. (1) Vv. 235 sgg. PEESSO gl'indiani E I GRECI 169 Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa, che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi, su la testa del padre un grande giuramento farò : né io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun altro ladro dei vostri buoi — checché i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne odo „. Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar- dando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo ri- spose : " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo per vero che spesso per invader le ben abitate case durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che, bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor- tali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo dei ladri „. Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur af- frettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva (1) Omesso il v. 280. 170 IV. - l'abigeato di oaco parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus: con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi ga- gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ . La contesa continua un po', fin che si deci- dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme " con animo concorde „ i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio. Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com- medie sogliono terminare: con una buona pace. Di essa rimangono cardini notevoli l'accor- tezza del trascinare le mucche all'indietro per disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in- sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap- partenendo forse ad antiche trame novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato probabilmente a bastanza tardi. II. — Presso i Latini. Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e presso i Latini in ispecie (1). Né della trasposizione, per cui il mito vien riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né (1) Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI. PRESSO I LATINI 171 dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi- cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an- tico, e rinnova per conseguenza i particolari del racconto : si deve tener parola a proposito della saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su- bite allor quando ci appare formata in età di storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da prima ben radicata nella memoria delle gene- razioni, approfondita nel sangue della stirpe ; che vi si cristallizzò in una foggia, la quale non aveva più il contenuto cosciente della an- tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e intangibile. E però al- lora che r elaborazione artistica sopravvenne con voce più sicura e lievito più possente, non potè distruggere per ricreare ; — dovette co- stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari, che furono proprii della saga primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddi- stingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende che il racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle interpretazioni dei dotti. La presentazione dei protagonisti. Però che forse la differenza più notevole fra il racconto indiano e il probabile, — d'una probabilità ot- timamente fondata, — i^rimitivo racconto latino, consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un qual siasi spettacolo naturale si presenta all'oc- 172 IV. - l'abigeato di caco chio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per riportare ciascun parvente alla sola sostanza. Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da prima, assai più che in una personale figura di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici appresso le differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno fa prevalere, addensando di questo il contenuto e concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon- damentale della fiamma aveva certo moltissimi termini che le corrispondevano : ma uno ne trion- fava là, ed un altro qui. Onde accade che un solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i La- tini, — ma non mai con identici nomi. La presentazione, adunque, dei protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e sen- z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo mito indoeuropeo senza ancora averne dimen- ticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova in ben diverse condizioni. Non solo il primo è (1) Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino 1907) 88. PRESSO I LATINI 173 ben certo, là dove il secondo non è né pur for- malmente sicuro e varia nei due testi ove ap- pare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori. Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio) (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è probabilissimo e consuona bene alla sua natura ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren- derlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop- piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e quali al personaggio sieno stati aggiunti dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre- scelto a significare la forza della natm-a la quale nel Rigveda esprime Indra, da Indra non dif- ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In- dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ; congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe. AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua effìgie ripugnante ed immonda però si deve riferire ad un secondo stadio del suo evolversi mitico , perché son tracce palesi d'una sua più vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i- nizio, valere come non pur malefico si anche fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente, più che in lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in certi specclii dipinti che ne pervennero unica reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con as- sidua cura vigilato un sacro focolare, non dissi- milmente da Vesta. Eorse il termine non signi- ficava da principio se non il fuoco nell'atto dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due contrapposte concezioni della fiamma conflui- rono in esso, e valsero a derivarne ben due figure divine. Il terzo stadio in fine della sua evoluzione Caco toccava quando nei posteriori tentativi di genealogie divine divenne figlio di Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo posto fra i Numi della fiamma. Dei due protagonisti, il furto e il duello si svolgeva quasi certamente in modo simile al racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta della caverna e l'abbattimento del mostro tra il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa- pere, dentro questi termini : senza né originalità sua propria di particolari e di figure né sma- glianza singolare di colorito formale. Un primo arricchimento gli derivò dall'avere, in proceder di tempi, localizzato con più esat- tezza la fiaba, — topograficamente vaga nelle origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi- doglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro PEESSO I LATINI 175 Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana come dal cielo cosi dal suo proprio senso natura- listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo di tempi lonta- nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia accampando una verità fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu ef- fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca- verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E, assai più di quanto possiamo scorgere nelle te- stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic- coli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma pertanto colà in uno stadio, che è il suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven- tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co- stituiscono i iDerni. Acquistare una sede significa però per un mito, non pure raggiungere una consistenza e saldezza maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son radicati. E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu invero non presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole venisse defini- tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1). Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras- correre innanzi ch'egli potesse fondersi con gli (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. I 193. 176 IV, - l'abigeato di caco dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo contigui : prima, dovette divenire familiare, ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser co- nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi- milarsi infine air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav- venne ad assorbire in sé ed annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne serbino tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era di fronte al dio solare notissimo, impresso di grecità? A en- trambi, — sembra, — competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se i riscontri analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno apparteneva a una religione poco evoluta qual la latina, l'altre recavano con sé grande matu- rità religiosa. Una poi di cotesto imprese di Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „ Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della positura geografica approfittarono molti facitori di saghe per le loro combinazioni (1); (1) Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man- PBESSO I LATINI 177 per nessuna forse cosi felicemente come per la latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso della mandra che Caco rapisce. In progressione, quanto più Ercole prevaleva su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg- genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad- distinto per profondi caratteri dal resto. Non più il mito della natura; ma l'impasto non sempre coerente di etiologie, con le quali si tenta di spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un costume, un gesto, projettando il tutto, senza prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico. Del paragrafo che cosi accresce la leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima erano in età storica, prima che il servizio vi fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C), le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che a questi ultimi sembra che non spettasse come a quei primi di partecipare al banchetto in cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la decima, per consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale Sup. di Pisa , XXIV) pag. 216. A. Ferrabino, Kalypso. 12 178 IV. - l'abigeato di caco d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era lecita cosi a generali come a privati cittadini. Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo costituiscono la trama originaria della leggenda etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito, subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare, l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo questi onde non poteron partecipare al ban- chetto delle viscere. Ercole decretò allora che tale nei secoli restasse il costume fra le due famiglie. Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo, non si pensò che in Roma Ercole è anche dio della generazione maschile ; ma si disse che le donne avevano offeso il Nume, in qualche ma- niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta Carmentalis che ne ha il nome è prossima al Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assi- stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una reda- zione forse più antica in vece, donne rinchiuse presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb- bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un uomo : — onde la vendetta di lui. E anche recente è, sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi PRESSO I LATINI 179 al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il particolare che essa fosse eretta da Ercole per ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il suo padre Giove. Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii, i quali si commettono con la figura di Ercole ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen- tano, pur tenendo conto di talune interpola- zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio del racconto; un terzo venne di poi a sovrap- porsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le cause furono, come per Ercole, due. L'una è identica per entrambi : la contiguità delle sedi ; poiché di Evandro era un altare presso la Porta Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga- rano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma del suo nome. La mente non matura che cerca di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'e- timo d'un termine. Caco ad esempio venne, — e forse da eruditi greci, — accostato per omo- fonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale parve del resto convenir bene al mostruoso la- drone. D'altra parte Euander che volto in greco divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi fu facile il riscontro tra il " malvagio ,, del- l'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Tri- gemina. Evandro era, — in una leggenda che qui non 180 IV. - l'abigeato di caco accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per più attinenze con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto in età pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono rac- conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e a favore del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo stadio venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car- menta, di cui era un anticbissimo sacrario presso la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu- fruita per una etiologia del racconto, fu in altra guisa sfruttata per accrescere di solennità la venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tra- dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe, cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del- l'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser- viva assai bene a vantare per antichissimo fra tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata, che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di (1) L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. I 192. PKESSO I LATINI 181 Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro» questo facendo figlio o amico della profetessa, e col ricordo del vaticinio giustificando l'acco- glienza di lui al Tirinzio. Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re- centi che anche presso i poeti mal si collegano col restante racconto. E impossibile dire chi per primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo leggendario più antico, dai successivi stadi! delFetà volgenti deformato in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com- posto un organismo di quel che era opera, non del tutto compaginata, d' una lenta e libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi- zieni grame. Sol tanto si può congetturare che Ennio commettesse nel suo poema la materia come del primo (Caco), cosi anche del secondo stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro- paggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela- mente ad un' altra che giustifica assai bene ta- luni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit- tori dell'età augustea. E probabile difatti, la fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno omerico divulgava in degna veste d'arte e con autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle- gorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di 182 IV. - l'abigeato di caco Maja fu nella mente di talun culto scrittore, — come Ennio, — non privo di analogie con l'a- bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a ripetere qualche particolare attinente più tosto all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accor- gimento del condurre per la coda all'indietro i buoi fino all'antro per disperderne le tracce ; tale anche lo spergiuro del ladro che nega il furto : — questi difatti ritrovammo nella G-recia tratti essenziali della saga rielaborata. Certamente però, quanto al di là di coteste innovazioni e giunte s'è conservato intatto il primo profilo del mito, cosi che i particolari posteriori si sono aggregati ma non sostituiti ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la vendetta narrino del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano : la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg- genda, non dentro ; la colorano, non la costi- tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza. Narrata con un certo abbandono della fantasia, con una cura precisa di non omettere le più vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché gradita, da ripetersi con arte per non guastarla, da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande : il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra- mandata in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i margini dell'umano e dell'e- roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora; I POETI 183 riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non elimina ogni dubbio e non genera certezza di co- noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti. Una fiaba, — dunque, — presso e il poeta e lo storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare, questo è desideroso di credere. Noi non posse- diamo però né i versi degli artisti più antichi né le prose dei più antichi annalisti che in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo ri- prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di Augusto. ni. — I Poeti. Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva po- lito r esametro e , temprandolo per la forza» l'aveva reso agile per la grazia delle movenze. La parola regnava : scelta, limata, contesta, vi- geva nel tono quanto nel significato; aveva un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri- meva, e aggiungeva. E il mito visse nella pa- rola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che l'infrena- vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil- lava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel- 184 IV. - l'abigeato di caco l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle massa linguistica allo schema rigido e inviola- bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me- rito splendeva nel difficile. Il gesto della mano che elegge e soppesa la parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si attennero là dove altro procedere esigesse il general tema dell'opera loro, — il quarto libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo dei Fasti (1). Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli at- tingesse a un modello diverso, sia che con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in- fine si ritenesse lecita una libertà maggiore, — il suo racconto non comprende Evandro, il terzo stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della forma che avrebbe po- tuto assumere la fiaba senza il mito etimologico sul " cattivo „ ladro. Pel resto, il racconto è in tutto personale. I vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in qualità di Dio venerato nel Foro Boario con rito greco e senso romano. La sua sola figura campeggia in due quadri, che uniscono egli e il (1) Gir § III. 135 momento del tempo e la postura della scena. Nel primo combatte Caco in una lotta breve- mente descritta, la quale sembra importare al poeta più nel suo insieme cbe nei particolari. Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi- stico culto della Bona Dea, l'acqua che gli ne- gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe in prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino, e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an- tichissimo mito della natura si dispone allo stesso piano e nella medesima luce del recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen- done una fantasiosa scena cui rende grata e fresca il murmure d'un fonte. Quando (1) l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe- corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor- rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos- (1) Properzio Elegie IV 9; edizione J. S. Phillimore^ (Oxford s. a. [1907]). 186 IV. - l'abigeato di caco sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al- l'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio : i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla : " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo mug- gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di Eoma „. Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om- brosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clau- sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di- nanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi- tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui in- torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al- cide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le tenebre di Stige? (1). E s'anche celebraste (1) Omesso il v. [42J. I POETI 187 sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co- nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir- suto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla ,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo- tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de- posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap- partata dentro limitare secreto „. Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia. " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac- coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non resti la sete d'Ercole escluso „. Padre santo salve! di cui si compiace oramai l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al libro mio. Cosi il breve carme assempra il magistero delle pause musicali, cui si affida più espressione tal volta che al contesto delle note : giacché 188 IV. - l'abigeato di caco quando il mito vive di forza verbale, la pausa lo costituisce non meno della parola. Dal com- plesso della leggenda volgata e nota, che rin- chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi e le luci, — le ombre e gli sfondi lascia alla me- moria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ri- cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca- rattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua squisitezza formale, è dottrina; e il compiaci- mento del poeta è di una garbata esumazione dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se bene dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e un gusto aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai volgare, assai meno aristocratica, ma in com- penso atta a una più vasta cerchia di lettori, è la narrazione di Vergilio: perché l'informano quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santità della fede. Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi prin- cipi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla leggenda, come a quella onde scaturisce l'or- goglio del nome romano e si giustifica la glo- riosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla I POETI 189 figura del pio eroe Enea, che opera per volere di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de- gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti- tuzione del culto erculeo, e celebra età anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi estremi: comincia con le lotte cruente di Enea contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili vittorie romane e alla battaglia d'Azio, signi- ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza intervallo in un constante sentimento ; e, nella compagine salda degli esametri, appajono le divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La leggenda si affonda nella realtà ; la religione le penetra entrambe ; e il canto muove dalle ra- dici profonde dei profondi sentimenti del popolo che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i divoti. Per ciò, e il mito di Caco vien esposto (1) du- rante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon- dante di particolari. Qui è detto quel che Pro- perzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma si sostituisce. E la primordiale figura della saga, — Caco, — non è svolta meno della seconda, — Ercole, — né della terza, — Evandro : — però che rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa e la divinità bella e un antichissimo assetto poli- tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono (1) Vv. 154-279 ; edizione R. Sabbadini' (Torino 1908). 190 IV. - l'abigeato di caco cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il combatti- mento assume, difatti, la parte più notevole perché il canto intiero suona d'armi e perché nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema generale, il mito adombra quei particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia, e lumeggia bene ogni forma di violenza; ricon- ducendoci per obliqua via alla sua probabile foggia originaria : — breve in ispecie l'accenno allo spergiuro del ladro, che più si accosta al furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar dell'importanza su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo storico, le spinge al di là dell'origine di un culto. Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia alla storia, in Caco con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pi- narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino. E il suo cadavere trascinato per i piedi empie d'un'avida curiosità le menti e non basta ad appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i fuochi spenti su le fauci somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con guerrieri. E su l'Aventino, ove Enea contempla ancora le tracce del passato, i contemporanei d'Augusto scorgono marmoree dimore. Parla Evandro ad Enea (1): (1) Vv. 190 sgg, I POETI 191 Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso: e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la di- mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la spelonca, remota in suo immenso recesso, che il semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era calda la terra ed affissi su la soglia violenta pende- vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vul- cano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca re- cendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio. Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò che nullo delitto ed inganno inosato o intentato re- stasse — dal pascolo quattro di mirabile corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche. Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii, e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci una delle giovenche rispose per l'enorme antro mug- ghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile riarse : con la mano afferra l'armi e la quercia gra- vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce del- l'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le 192 IV. - l'abigeato di caco ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno, che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incal- zava il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sù- bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra gran- dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo, non diversa che se nel profondo spalancandosi per forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e di- schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno) da le fauci — mirabile a dirsi — moltissimo fumo vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide 'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco, I POETI 193 là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece, compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa : i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi. Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre- mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso di séte, e su le fauci i fuochi spenti. Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricor- darono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que- st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verrà detta da noi, e massima sempre sarà. A Vergilio sembrerebbe di poter fare seguire senz'altro Ovidio ; che lo imita su questo punto assai strettamente e ne finge anche il senso religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma (1). In realtà sotto una superficiale simiglianza si cela ben profonda differenza. La vita artistica del mito, pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è esaurita, che non osa violare il modello i^er rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che (1) I 461-586; edizione H. Petee* (Lipsia 1907). A. Ferrabino, Kalypso. IS 194 IV. - l'abigeato di caco " claviger „ è detto con falsa audacia Ercole ; si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase, quando è eletta a costituire un verso cosi (1) : Dira viro facies, vires prò corpore, corpus Grande ; sorride bolsa nel bisticcio etimologico (2) " Cacus non leve malum „. Non è più la finezza pro- perziana e la ricca concisione : è il lezio ricer- cato a far un poco attonito chi legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Car- mentalia dell'll gennaio, e il legame che alla cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco '. Car- menta difatti, e perché madre di Evandro, e perché profetessa del culto erculeo, giustifica tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal verso 541 al 582 ; e la sua lontananza nell'essenza e nella forma (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac- contato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel 12 agosto. E parte similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co- lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi non è più, come in Vergilio, il re che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di ce- li) V. 553. (2) V. 551-2. 195 lebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar- cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru- scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza al tema, si addensa su la figura di Carmenta; ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato, stronca il vigore nazionale del mito. Non solo : che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse, straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco " terrore ed infamia della selva aventina „. Cosi una inezia apparente ha tramutato la situa- zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar- tista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei riguardi di questo mito, reale ed efficace. In vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e al- l'artifizio di tale imitazione sospese il suo rac- conto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorità scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'e- leva ad arte (1). Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori. Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della selva aventina, danno non lieve a (1) Vv. 543 sgg. 196 IV. - l'abigeato di caco stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro, Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi : diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Ac- colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con un masso strappato dal monte aveva munito, che cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie. Delle spalle questi si serve — anche il cielo v'aveva posato — e il peso immane smuove crollando. L'ab- batte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pe- sante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio, ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo- mita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata tri- nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. GLI STORICI 197 IV. - Gli Storici. Il gesto più significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco) è la di- chiarazione con cui rifiutano di accettare respon- sabilità per quanto raccontano (1). " Cosi si suol tramandare „ dice Livio ; e richiama tacitamente le parole del suo prologo : " né di affermare né di negare ho in animo „. E Dionisio : " vi sono intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi, e altri più credibili. Il più favoloso è questo „ E vero che, nel gesto comune, Livio crede più di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato l'opinione che il mito abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette prender radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol- vono male, il problema della sua attendibilità. Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves- sero riferito il racconto com'è in Vergilio, né pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa- vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con- venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E (Ij Su Livio e Dionisio cfr. § IV. 198 IV. - l'abigeato di caco un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro : — uomo. La possibilità terrena informa la fiaba e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ; onde le due forze divine avverse si spogliano del soprannaturale e il valore del racconto pesa assai più sul furto che su la vendetta. In questa difatti troppo palese appare la natura mostruosa di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ; ma il malvagio lo invoca in vano. Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incu- naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ; poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante, il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Car- menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il pre- ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una serietà riflessiva, le quali non la soffocano af- fatto, si al contrario l'abbellano di un candore ingenuo. Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel senso secreto (1). (1) I 7. 4 sgg. ; edizione Weissknbohn'^ (Lipsia 1910). GLI STORICI 199 Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'ucci- sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'op- presse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e vo- lendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca, trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà con- ducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte mug- gito, come accade, per desiderio delle restanti, il ri- sponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole. Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei luoghi (1). Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa- stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta uc- sione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto mag- giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai (1) Omesso in parte il § 8. 200 IV. - l'abigeato di caco si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne apprese : " nato da Giove, Ercole , disse " salve ! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre- disse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà " massima „ e venererà secondo il tuo rito „. Dando la destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adem- piere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta con una stupenda giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giun- gessero per i restanti cibi ma già consumate le in- teriora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sa- crifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta la schiatta dei Potizii peri. Tale, nell'insieme, è Dionisio (1): se se ne toglie che Caco è per lui non un pastor ma un predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in Temide (2); che il ladro, interrogato, nega la sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un altare a Giove Inventore; e pochi altri parti- colari minori su la cui natura e sul cui valore non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra (1) I 39-40. (2) Cfr. sopra pag. 181. I RAZIONALISTI 201 vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due capitoli sopra un racconto cui non crede affatto; scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi adombrato un simbolo che rivelerà poi, con si- cumera da erudito certo di sé e del proprio sapere (povera certezza in vero!). Eppure non è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se non alla fine : ^ Intorno ad Ercole questo è il racconto favoloso che si tramanda „. Alla fiaba manca l'amore. V. — I Razionalisti. Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante dell'erudizione romana trovarono il fatto loro» — come i poeti in Ennio, gli storici negli an- tichi annalisti, — negli annalisti dell'età dei Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo (1). Su la forma precisa del racconto che si trovava presso l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non possiamo dubitare su la forma generale. En- trambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica razionalista, concordano nel ridurre il mito a un gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si (1) Cfr. § VI. 202 IV. - l'abigeato di caco direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto alla redazione poetica della favola siccome ap- parve poi in Vergilio ed era apparsa prima in Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla redazione storica che con riserve riprodurranno Livio e Dionisio. Cassio Emina difatti narrava un preteso " rac- conto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il buono Evandro signore del cattivo servo. Co- testa concezione fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un po' diversamente: presso il commentator di Vergilio Servio e il suo inter- polatore ; e presso uno scritto L'origine del popolo romano^ opera probabile d'un erudito del IV secolo che compilava con grami intenti storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra contaminarlo con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac- conto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è tra- visato nella sua essenza. A tale effetto furono bastevoli tre interventi del razionalismo : l'uno a spiegar e ridurre la natura mostruosa del ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a giustificarne i rapporti con Evandro. — Più in là si spinge in vece L'origine^ nell' attinger forse I RAZIONALISTI 203 più compiutamente, certo in modo più esclu- sivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno schiavo ribelle; ma il furto è punito per auto- rità di Evandro senza duello né lotta. I motivi razionali di questa notevole soppressione son due : lo scrittore non aveva spiegato allegorica- mente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvo- lare su la circostanza in cui più il fuoco ha parte ; la qual necessità poi gli servi anche per metter in rilievo la buona figura di Evandro e la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allon- tana dalla fiaba poetica molto più che non appaja Servio, se bene come questo la tenga presente. Come però questa di Cassio Emina doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole ri- duzione del mito fantastico nei termini della realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli annalisti più antichi, non era se non se un lieve i tocco; cosi su questo racconto altri critici in- rtervennero assai più profondamente. Ridurre il mostro a servo : ecco una trovata buona. Ma m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio nella storia dei popoli anche la breve favola. Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo ; e da un contemporaneo di lui, per qual si voglia via, la derivò a sé Dionisio per il suo " più cre- dibile racconto „ (1), (1) 1 41 ; edizione C. Jacoby (Lipsia 1885). 204 IV. - l'abigeato di caco Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa dall'Oceano ; abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie ; colle- gando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili ; e l'altre opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né con- ducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta — phe avvenne pel soprag- giunger dell'inverno — e dal non accettare tutti i popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi è narrata la sottomissione armata dei Liguri, non che d'altri ; per continuare (1) : Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani — un re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi — avesse (1) I 42, 2 sgg. I RAZIONALISTI 205 con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con ap- parecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser- cito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto- dito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre- sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i se- guaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro.... Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà il razionalista si arrogasse; fino a far giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro si- gnore degli Arcadi che la volgata afferma in- sediato sul Palatino al momento del duello. Libertà intesa al servizio del vero " secondo i filosofi e gli storici „, — come s'esprime Servio, — ossia di quella critica, che conduce a creare, accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awen- tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi risultati; se non gl'inquinasse una mal celata boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva che è solamente sterile miseria. Su queste rovine pochi poveri racconti si stre- mano ancora. Evandro richiama con sé la figura di Fauno di cui era divenuto un equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca suggerisce la storiella che la dea abbia otte- 206 IV. - l'abigeato di caco nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello. Poi, è il silenzio. Singolare sorte della saga, in verità. Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle geniture in una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala- tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se- colo a. C. non pur la sua forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per modo, che sopra il quadruplice schema l'età più possente del pensiero romano, l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di ben va- gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore vita : però che dovesse morire intero con l'estin- guersi la potenza alla sua bellezza verbale. CAPITOLO V. Cirene mitica <i). I. — Il sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più eletti stami poeti, tra quanti furono nell'anti- chità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella storia reale una sua trama di fatti concreti e in parte sicuri , da cui deriva direttamente o indi- rettamente tutte le proprie successive forme e in cui è da ricercare il motivo appunto di questa evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso, con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tè- naro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- (1) Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispet- tivi paragrafi. 208 V. - CIRENE MITICA tentrione di Creta ; se la Libia, ferace di gregge e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo geografico: certo fra questi perni essenziali si svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano nella fiaba un riflesso e una deformazione im- mediata, gli altri solo in modo mediato danno impulso a talune vicende, determinano qualche figura, causano pochi episodi! (1). Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica. Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI, sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi, a suggellare della sua particolar impronta il carattere e la storia di quella breve terra. Ma fin dallo scorcio dell'età precedente una mano di cittadini Terei abbandonava con ardire la spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei particolari procedesse, quali che fossero le fa- tiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni non posero in vano il piede su la terra straniera : la quale divenne per essi fiorente di fiore civile, prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi si ebbe i suoi Re (2). Largo era dunque il volo con- cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti, perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola (1) Cfr. § I. (2) Cfr. Beloch Griechische Geschichte - I 1, 128. 264 ; Bo- soLT Griechische Geschichte^ I 479 sgg. : Malten Kyrene C Philologische Untersuchungen , XX 1911) 166 sgg. IL SOSTBATO STORICO 209 a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito; ma quale è la realtà in cristallo iridato. Però che la memoria fosse alterata da quell'am- pio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta re- cassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos- sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abita- tori del cielo della terra del mare. E allargato, di li a non molto, già nel principio del secolo VI, fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni. Regnando difatti Batto II della stirpe che prima aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, per- vadendo e mischiando l' antica massa. G-iun- gevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi distinti per la lor propria dissimiglianza. Griunge- vano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui per la loro importante sede (1). Rinnovarono la stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono un soffio diverso e molteplice ad alimentare di parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non soltanto perché apportatori di nuovi elementi al racconto; ma anche perché, numerosi, costitui- rono a sé un centro secondario di creazione e diffusione mitica, in antitesi al principale, cui la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era, (1) Ebodoto IV 159. 161. A. Ferrabino, Kalypso. 14 210 V. - CIRENE MITICA da questi due distinti gruppi del popolo greco in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato mitico delle leggende cirenaiche. Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto, sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata, realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire, soli, le mature forme della favola di Cirene e Apollo ; ove sfuggisse il centro vero, il proprio crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e vitale, possente d'un suo secreto alito di pura bellezza, organata in una palese e pur varia armonia, la massa confusa e diffusa che si spre- cava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine. Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san- tuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, di- venne d'un popolo ; era d'una regione, se ne im- possessò l'arte, universale (1). E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di quel mondo fantastico, cui diede l'espressione con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in- tonarono per quell'armonia le note. n. — L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che s'insediava primo sulla proda del mare libico recava con sé, prin- (1) Cfr. § V e VI 2. DI CIRENE E d'aBISTEO 211 cipalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe- ciale e insigne culto, uno il cui doppio nome serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo. Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, ve- nerato di profondo e rispetto e amore fra i po- l}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apol- line era sorvenuto, in uno slancio di prepotente predominio, a fondere con sé, come quella che gii era per qualche carattere e attribuzione si- migliante ed afiine, la vetusta divinità dorica. E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran nati il nome nuovo di termine duplice, e la figura nuova in cui le linee primordiali soprav- vivevano accanto alle ultimamente tracciate ; senza vero dissidio, a causa della sostanziale contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi acco- standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo non fu, nella terra libica, pretermesso il culto. Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trova- rono nella patria nuova un'abbondante fontana da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il suolo riarso, a quel Nume appunto questa sor- gente ricchezza delle glebe fu piamente dedi- cata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera di cittadini terei (1). Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan variegando in un disegno ellenico: e come alla stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appre- sero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal (1) Cfr. § III. 212 V. - OIKENK MITICA Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase. E poiché alla fantasia per abitudine secolare si popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira ^ suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „ (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo, e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo in- digeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si succedevano. Era destinata a compaginarsi per impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stu- pisce di vederla scelta a riprodurre, direi eter- nare, in sé l'opera che quelli spesero per adat- tare il paese e renderlo quetamente abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in breve ferma per sempre, irrigidendolo come in uno schema, fissandolo in un gesto tipico. Rimase (1). La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era, e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insen- sibilmente e inevitabilmente condotta presso Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella abitava, e antico Dio del popolo che simboleg- giava ormai ella. Divennero amanti divini ; amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo (1) Cfr. § IL l' " EEA „ DI CIRENE E d'aEISTEO 213 primo del tessuto mitico s'era allacciato. In Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima del paese, la divinità che dava al nome della regione una grazia feminea, fu difatti la pro- nuba benigna e ospitale, cortese di favori agli sposi. Il pensiero era in un felice momento creativo : in uno di quei momenti in cui il volo non si tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce, la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice, ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo Stato nascente un diverso patrimonio anche di leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene, che reprimendo le belve e prodigando l'acque procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza; Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un gio- vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico protettore dei campi ove crescon le messi, dei pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'am- plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro. Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar- cadia. che dunque dall'isole si spingesse in Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la natura sua propria assimilantesi, sia per la legge, onde la fantasia greca è governata, di non lasciar nume alcuno isolato ; come altrove s'era com- messo con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si 214 V. - CIRENE MITICA congiunse, e presto, con la coppia amante; av- vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en- trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac- costato l'uno, necessariamente. Portava egli con sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, cu- stode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea. la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle vario- pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti, e allieta o attrista i contadini a volta a volta : attinenze indubbie, e antiche certo, ma costitui- tesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni modo gli venne la sua più speciale sembianza: dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è pro- babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu- stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede- simo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di fe- rite (1). Accanto dunque alla coppia d'Apollo e Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a pre- ferenza tessalico (2). (1) niade A 822 sgg. 832 A 219. (2) Cfr. § IV. l' " EEA „ DI CIRENE E d'aRISTEO 215 Di questa situazione profittò accortamente chi ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda in naturai guisa si riportava a cagione della figura di Febo; sotto il supremo patronato del quale la favola ricevette un più ampio svolgi- mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se ben forse più riposta, caratteristica. Tendono tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im- portanza del nume Apolline venerato nel locale santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lon- tane regioni. Un esempio: per più punti simili, Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa- natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel racconto, e spontaneamente Apollo aveva da soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag- giore permetteva la favola africana : il Carneo di Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'ordi- tura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben separati; la quale filo maestro contenesse Febo Latoide, identificato già col primo e padre già del secondo ; e come su punti estremi si fissasse su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra la sede dell'amata e la sede del figlio (1). (1) Cfr. § V. 216 V. - CIRENE MITICA Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti, presso l'acque del Pèneo abitava la bella Ci- rene „. Il resto del carme si ricostruisce per congettura. — Figlia del tessalo Ipsèo, re dei Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene crebbe vigorosa e animosa, strenua in combat- tere. Durante la lotta con un leone la sorprese Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone custode di gregge, un Nomio pastore. — Tale lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce, senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a inten- der perché, volendo insieme serbar intatto il carattere tessalico del giovinetto e non cancellare l'episodio della sua nascita in Africa, venisse alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar popolosi di leoni queti piani della Tessaglia ; ma qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '? E fuor di questo, la trama era pregevole per molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg- gera grazia di tocco che temperava con l'amore del dio la salvatichezza della fanciulla; per una l' " BEA , DI CIRENE E d'aRISTEO 217 accorta sapienza prospettica nel disegnare le scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso le parole di Chirone dal molto senno e assai venerando, sino a dargli temperatamente un tono religioso. Che stupenda, del resto, fosse la concezione, dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fio- rentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato. Ma era inevitabile che questi due poli, ben ar- monizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni) dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia- scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridi- venire di là quasi esclusivamente libica. Due filoni se ne originarono, non privi né l'uno né l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea, unica fonte primitiva; ma ben divergenti in processo di tempo : l'uno che con Aristeo tras- porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro che con Apollo rinforza e rincalza i tratti afri- cani di lei. 218 V. - CIRENE MITICA III. — Cirene in Tessaglia. Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta- bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C, in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella '^ corsa in armi „. La patria del vincitore cui il canto è indiriz- zato dovrebbe far supporre che amplissimamente sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu- ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda da valersene nel suo carme (1), non esita a dise- gnar in vece, nel principio del carme medesimo, la figura di Afrodite dal piede d'argento: riu- scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren- deva culto con qualche importanza ; onde fu che la notizia regionale s' insinuò non pur a modi- ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli- carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al- terazione può esser posta un'altra, meno visibile, e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes strettamente congiunto nel mito (2); v'era tra essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il (1) Vv. 55-68. (2) Cfr. in questo volume (libro I) il capo III § L Hi CIRENE IN TESSAGLIA 219 quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni però assai più notabile è la non compiuta au- dacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghi- rone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio eran assegnati attributi fissi e certi da non vio- larsi da non obliarsi, ed erano al tutto scono- sciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze dei primi canti divini. Già che, i^er esempio, Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profe- tante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo antropomorfica risultava la scena in cui al Vate da un Centauro vengono vaticinate le nozze. Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5 protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi- stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sor- riso ed un sospiro (1). Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno riproduce l'Eea. Splendidamente per vero (2). Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla- mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli : Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar (1) Cfr. § V. (2) Edizione di 0. Schrodee- (Lipsia 1914). 220 V. - CIRENE MITICA la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente: Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an- fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle braccia crebbe, Cirene. La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i gaudii delle danze (1) fra casalinghe amiche ; ma, con bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uc- cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che, dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso l'aurora. Sorprese lei un giorno, — sola, — in lotta senz'armi con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride, lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu- pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi- netta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero... È le- cito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto tondere il fiore dolcissimo ? ., A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : " Se- (1) Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. CIRENE IX TESSAGLIA 221 crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della fanciulla, o Signore ? tu, che di tutte le cose conosci il fine e tutte le vie : e quante di primavera germina foglie la terra ; e quante nel mare e nei fiumi da l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel che sarà e donde sarà, ben vedi! — Ma, se anche coi profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'in- signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco- glierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ; parte della terra a lei tosto donando, possesso comune, non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stil- leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu- stode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore: altri lui nominando Aristeo „. Nella pausa che succede a quest'inno, se ne sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La più bella e la maggior sua scena si svolge fuor di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici della fanciulla son rammentati; narrate le sue imprese virginali su le vette ventose del Pelio ; 222 V, - CIRENE MITICA né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri- cana. E tuttavia non per questi motivi, di per sé valevoli, l'ode pindarica scema il signifi- cato primordiale di Cirene; si perché, continuando l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che l'eroina indigena venerata e creata da un popolo in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo culto, gli EUeni. A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'o- rigine vera della Ninfa restava la sua lotta col leone: particolare di precipuo sapore africano. E questo pure andò, in progresso di vicende, eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in- coerenza di quell'episodio che a due veri poeti era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui. Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a custodire gregge e di li la rapisce, senza lo spe- ciale motivo della forza ammiranda di lei, in Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai vv/i,g)ai) li accolgono : le quali son, come tutrici, numi del paese e occupano presso il nuovo poeta sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella per- sonificazione d'una terra, il luogo dell'eponima ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il concetto è attratto dalla fama del Latoide qual Musagète. Che più resta della Signora delle belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno CIRENE IN TESSAGLIA 223 duraturo della sposa colà. La maggior luce è gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un momento. Contro questa general tendenza di Apollonio non starebbe che la soppressione della profezia del Centauro. Pindaro, discutendola, l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispet- toso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente poi il bisogno di non perdere totalmente questa figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la ram- menta quindi, in altro luogo, come partecipe all'educazione del Fanciullo pastore, insieme con le Muse. Non più grande né più intenso poteva essere, sembra, l'influsso della patria acquisita contro la patria e prima e vera (1). E fu più grande e fu più intenso. Bastò che un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, im- perniandolo, ancor più che i suoi predecessori, su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la memore mente dell'artista (o della sua fonte) è il noto e diffuso episodio omerico di Achille invocante nella passion dell'ira e dello sconforto la madre Tetide su la riva del mare. Quando dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nel- l'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel pro- (1) Cfr. § V. 224 V. - CIRENE MITICA fondo gorgo paterno e di addurre su la sponda della corrente acqua il Giovinetto afflitto da eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa breve cenno; ma al fantasioso innovatore del mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe vivono (1). Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa, perdute — si narra — per morbo e per fame le api. Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci- rene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite, perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici) Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter- reni, che a me alacre con pena procacciava solerte custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! di- struggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bi- penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della mia fama „. La madre il lamento senti nel talamo del fiume profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila- vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i bianchi colh (2); e Cidippe e Lieorìade bionda : ver- gine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del (1) Georgiche IV 317 edizione F. A. Hietzkl (Oxford 1900). (2) Omesso il v. 338. CIRENE IN TESSAGLIA 225 parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe, entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ; ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti anno- verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo capo levò. E da lungi: * di tanto gemito non atterrita in vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura, Aristeo ! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la mente di nuovo terrore la madre : " Conducilo, or su, conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di- vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda di lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti (2). Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del ta- lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli (1) Omesso il v. 343. (2) Omessi i vv. .367-373. A. Ferrabino, Kalypso. 15 226 V. - OIBENE MITICA altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi^ — dice, — la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ; tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto avvampò. Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone, Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ; ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua. Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido di aquila: — con Chirone si corruccia e si tra- stulla ; par clie debba annientarlo con un colpo d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un epi- sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor- tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio montano, e ha da portare la selvaggia nella terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota- gonista men palese e più reale del duetto, de- termina essa sola l'episodio centaureo che segue, e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è sce- mato e quasi annullato il comico inevitabile. Sicché la Pitia addensa la materia vasta del- l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei CIRENE IN TESSAGLIA 227 secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli- gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa •ttemplice. Vergilio, — e tanto tempo era trascorso! — fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito. Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui aveva assai volte spinto il viso nei misteri li- quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevo- lezza, — l'uomo nel divino. E l'uomo fu il Ver- :_ilio georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di grazia e immerse in un pudico garbo di colori e di movenze; costumi domestici di fusi e di conocchie, uso agreste di vivande parche e di sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di rac- conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti e facezie. Sovra ogni cosa, poi, — assemprato dallo stillar non triste delle grotte sotterranee, dall'umidore non nocivo di margini erbosi, — sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo, e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento, non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo, flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile, questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più che ogni variante di particolari o differenza di luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man- tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro, k 228 V. - CIRENE MITICA impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso. Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e conciso. Ma è necessario non dimenticare che di tanto trapasso, — se il terreno è lo spirito vergiliano, — la radice è l'aver posto nell'acque, non più della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes- salo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger glebe. Ed è, questa, — si rammenti anche, — l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea, trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro, la Tessaglia. IV. — Cirene in Libiu. Narra in vece Acesandro, — storico cireneo vissuto nel III o II (ch'è incerto) secolo a. C, — " come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene l'abbatté, e ottenne il trono „. E press'a poco identico è il racconto d'un altro storico, Filarco. Entrambi adunque lumeggiano a preferenza l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, — culminante, — della lotta con il leone avviene dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a difesa del paese e per iniziativa di un re indi- geno, Euripilo. CIRENE IN LIBIA 229 Né cotesta è accorta correzione di eruditi ra- zionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti negli esametri martellati d'un poeta cireneo : di Callimaco; segno che la fiaba possiede, come una non dubbia energia vitale, cosi radici assai vaste e assai profonde nel territorio cirenaico (1). Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per sottinteso un racconto analogo a quel di Ace- s andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti se- guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono, il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul colle dei Mirti (2) dove la figlia di Ipseo uccise il leone, infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò quanto a Cirene, memore dell'antico ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato dal- l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco, come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lon- tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tes- saglia; e il leone rugge da vero su le sabbie del deserto. Per che modo e traverso che vicenda si giungesse a cotesta forma della saga, che due (1) Cfr. § Vili. Il testo di Callimaco è del Wilamo- wiTz^ (Berlino 1907). (2) Domina la fontana di Gira. k 230 V. - CIRENE MITICA storici e un poeta indigeno ripetono analoga- mente, è indicato, nel medesimo carme calli- macheo, dal processo del pensiero artistico. Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac- colto in un recesso ove son palme e allori, — gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta, grave e dolce, il senso sacro del Dio immi- nente. Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro, quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi? Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito ; il cigno nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi pa- letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap- parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi, pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, pie- colo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non mai saremo esigui. Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che trascina Callimaco , alquanto si svolge cosi da prima il fervoroso esordio ; il quale non è tuttavia vano, ma serve a preparare, animan- dola della sua vita illuminandola del suo lucore, la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume- razione delle bellezze di lui e degli attributi. Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fon- dator di città. Quadrienne pose le fondamenta in Ortigia. E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto indicò : — corvo, — fu guida al popolo che si recava CIRENE IN LIBIA 231 iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo- La città di Callimaco è dunque fondata, egli dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui re- stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città che di quella lia il nome: si che accanto al nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti, si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la prima novità che ci sorprende. Una lunga parentesi segue poi in cui si rin- tracciano le sedi del culto di Apollo Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti Clario; ovunque a te sono assai nomi. — Io però Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta, Carneo, fu la tua prima sede : seconda Tera: terza poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo (1) condusse a la colonia Tera; da Tera te il sanato Ari- stotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un tempio , un'annua cerimonia in città istituendo, in cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco, l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la ce- nere rode carbone di jeri. (1) Cfr. Erodoto IV 147 e il sèguito del nostro testo. 232 V. - CIRENE MITICA Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia : vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi. Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta indotte, figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul colle dei Mirti in atto di contemplar, — vedemmo dianzi, — i coloni Dori danzanti tra le fanciulle libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe quotato il regno deve essere in rapporto mitico appunto con quei due spunti favolosi poco prima, più che svolti, accennati: con la fondazione di Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in Libia. Comprendiamo che al racconto più pret- tamente libico su la Signora delle belve è pre- fazione una saga su l'origine di essa colonia cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di quello. Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di fatti genera maraviglia che in un carme reli- gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai meno che in un epinicio quel rispetto austero e EFRIPILO ED EDFEMO 233 insieme divotamente inchinevole il quale costi- tuisce Tanima della scena pindarica. Eppure tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo vento che, dal Nume, agita la palma delia e la fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira, bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto. Quindi il breve componimento si spezza in due parti diverse tenute insieme, male, da un elenco dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima di quelle parti è mossa da una contenuta esal- tazione patriottica che si veste, — abito non suo, — del i^aramento religioso, si schematizza nella scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che scarsa armonia di struttura, e abusa di formule innovate sol con sapienza verbale. La parte se- conda, in vece, lascia prorompere la stessa esal- tazione patriottica, ma questa volta verso espres- sioni sue proprie ed adeguate : ivi è la glorifìca- zion della patria nel suo bel passato. L'artificio si discioglie in arte. Ma il bel passato della patria Cirenaica è la leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai, — sospettatala, — rivivere tutta. Y. — Euripilo ed Eufemo. Regnava in Cirene una famiglia, la quale, per ricorrere in essa il nome Batto e per esser ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta I 234 T. - CIRENE MITICA dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in qualche maniera a questo proposito una leggenda etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomi- gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che rite- nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua- lunque valore tal j)retesa avesse e comunque si fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro che palese, fu facile lasciar in breve cadere nell'ombra il particolare della patria di Eufemo o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2). Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a fin di compiacere un desiderio che diremo non illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi in Libia, che qualche avvenimento degli anti- chissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana, ben poteva quello essere il punto in cui il Fato (1) F. Studniczka Kyrene (Leipzig 1890) 96. (2) Cfr. § VI 2. EURIl'ILO ED EUFEMO 235 ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo primordiale delle vicende future. Cosi piacque loro di imaginar la fiaba. Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite, l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi seppe assai opportunamente disporre svolgere e compiere quella fucina medesima che aveva fog- giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza materia indigena imprimersi di uno stampo el- lenico e assimilare in sua roventezza talun'altra fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio leggendario dei Greci spigolato a favore e di Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a due domande: — con chi e quando fu in Libia Eufemo, il figlio di Posidone? — quali vicende traversarono e quali vie tennero i discendenti di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e compiere il fato? Alla prima dimanda fu sodisfatto con un antico spunto mitico, assai propizio. Si raccon- tava che gli Argonauti compagni di Griàsone ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero ■stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago 'era quello ove venne detersa Atena nascente da Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente da luoghi concreti) nella palude ch'è presso la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e, placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae- i 236 V. - CIBENE MITICA strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a favorir qual si voglia racconto di anticM sog- giorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo spartano Dorieo intorno al 515 tentò di coloniz- zare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il tripode rinvenuto da un discendente degli Argo- nauti avrebbe determinato presso il lago la fon- dazione di cento città greche. Malauguratamente Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri- poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti (1): e il tripode non fu rinvenuto perché le cento città non crebbero. Ora in modo analogo procedette TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argo- nauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ; ma a un'altra del medesimo nome: a un lago chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen- sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tri- tone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale è, come la sua denominazione significa, il Dio della " larga porta ,, infernale ; molto diffuso in vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual divinità ctonia, presso grotte e antri ove la volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che (1) Erodoto V 42. IV 178-9. (2) Cfr. § VI 1. EURIPILO ED EUFEMO 237 ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio, molto alle fantasime deirimaginazione spaurita. I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sen- tirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar- rarono farsi incontro ai compagni di Griasone in luogo di Tritone. Con una variazione poi del motivo originario, egli fu fatto donare una zolla non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eu- femo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero, né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo (1). Per quali cammini? Era la dimanda seconda. — Alla risposta forniva argomento anzi tutto la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre punti obbligati e le tre tappe della via compiuta dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di- venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co- nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar- danelli). Accettate e fissate queste come pietre (1) Cfr. § YII. 238 V. - CIRENE MITICA miliari su la strada, ancora bisognava addurre i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo- tivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno alla prima causa e centrale, il dono della zolla d'Euripilo. — Eufemo dunque dalla Libia, rice- \aita la piota africana, si recò con i navigatori iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta nuova. — Questa aveva ora da recarsi nel Pelo- ponneso e da toccar quella Sparta che nel VI se- colo inviò pure una colonia a Tera; ma perché? A giustificare si disse che nel Peloponneso era la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era, nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto, ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito ; era precipuamente beota, e diventò tenario; non godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con quella ch'era al Tenaro non lungi. — Inverati or dunque questi primi due scopi, era d'uopo con pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo EURIPILO EP EUFEMO 239 spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai compagni; dai quali sciolto l'otre contro il di- vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca (1). Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi stata, in un istante di men vigile attenzione, travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò, non essendo essa da Eufemo stata recata sul Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola, da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. — Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il segno ne fu offerto e il momento scelto per opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà essendosi Batto recato a cagion della sua mal sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso di colonizzar quel tratto della spiaggia africana : ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode dunque, ben meritata, al Dio. — Ultima inven- zione questa che rivela il luogo ove la leggenda degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si riconnette assai bene con la figura del Latoide in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi genealogico fissava nella quarta generazione dopo l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella diciassettesima la spedizione verso la Libia (2). Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea (1) Odissea v. 46. (2) Malte.n 192. 240 V. - CIBENE MITICA aveva alla fine assolto anche il secondo tra i suoi due compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio dall'apparenza assai più logica che fantastica ; ciascuna delle sue trovate secondarie era indi- rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a un bisogno del ragionamento; al ragionamento ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di ec- cellenza poetica. Queste, che pajono a noi am- bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi, che ci sembrano fini pratici non artistici: eran nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio regno da inconcussa signora. E la bella favola, creata, ignorava il compenso del suo mercenario creatore. L'accortezza medesima con cui vi si profìtta di analogie nominali per accostare, ad esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro; la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun- zioni spontanee della mente ricca di antiche e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel- l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea nel disegno leggendario, incresce al contempla- tore della bellezza. La quale riappare, con tutta la sua unità sin- tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto I EURIPILO ED EUFEMO 241 tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao vincente col cocchio. L'anno 462 a. C. Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo- roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus, presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo- nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplen- dente colle e di Medea compiuto, con la settima e decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re- gina dei Colehi '. Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af- fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra- pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso — benigno su lui Cronio Zeus fé' rimbombar un tuono — quando gli s'imbattè, mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei (1) (Tera). A. Ferrabi^to, Kalypso. 16 242 V. - CIRENE MITICA consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora soli- tario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di venerando uomo : con amici detti fece principio, come ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora, con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi- sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe, ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano, ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera, l'umido pelago seguendo : che certo spesso furon esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire ; ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade — prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone che un di Europa nata da Tizio generò presso le sponde del Cefiso, — nella quarta generazione allora il sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen- denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia : a lui nella molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura di- sceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del figlio di Crono „. Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono, immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti detti ascoltando. EURIPILO ED EUFEMO 243 beato figlio di Polimnesto (1), te giusta il discorso di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica — con spon- taneo accento : la quale te, tre volte salutato, dichiarò fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter- rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei! Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col san- tuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne- poti. Le quali sono in altro brano anche più esplicitamente significate, ancor su la trama dell'Eea: dico nei versi tra il 251 e il 260. " E su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e tra le mariticide donne di Lemno furono essi (2) Ivi un giorno o notti fatali il seme accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat- tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata, per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'an- tica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei le i^ianure di Libia e di abitare, con savio con- siglio regnando, la divina città di Cirene dal- l'aureo trono „. Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo, n quale mostra quanto profondamente l'animo severo e ascetico di Pindaro consentisse e con- cordasse con il contenuto riposto della leggenda cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (1) (Batto-Aristotele). (2) (Gli Argonauti). b 244 V. - CIRENE 3IITICA svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi : significano con insistenza l'unico essenziale e fon- damentale concetto del mito, il Fato onde il regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con la bocca immortale lo attua. Gli uomini si sce- mano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi eletti. Se non che il Fato è non soltanto il nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, — che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo- stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f o- ruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto, e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com- pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo dinanzi al forte che aveva vinto la gara come dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de- stino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e per sé lasci levare in minor tono il vanto, si massimo per i Numi che l'hanno in protezion benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta dal poeta con un balzo magnifico di rapidità intuitiva: Arcesilao vince a Pito ; da Pito muove Batto ; ecco il trapasso esterno : un destino solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto; ecco il midollo intimo a questo organismo lirico. Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che EUEIPILO ED EUFEMO 245 Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior dell'animo i men nobili desiderii e una certa compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio : è l'elegia d'uno spirito d'uomo. La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova , aperta con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe una scena coreografica ; a quei tempi uno spet- tacolo dei misteri eleusinii ; sempre , il basso- rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come le anime, concreti di evanescenza. Nella notte dei tempi Medea, maga di semplici e vate del futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua profezia. Sono circa cento kola percorsi da un brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca- zione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su la strada nuova ed insueta non dura l'imagina- zione: già l'episodio di Euripilo apparso agli Argonauti s'era innestato con diversissima effi- cienza nel gran quadro di Medea vaticinante, come quello che vi recava tempere più pesanti e meno diafane. Con esso episodio si riconnette poi, non appena cessato l'anelito dell'incom- bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle vicende onde mosse e per che riusci la impresa degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto una nuova serenità omerica, una placidezza di lunghi favellari, un indugio molle su i modi delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su la piazza di Fere con le due lance e il doppio 246 V. - CIKENB MITICA costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la " carrozzabile „. Pindaro vi entra franco e li- bero; lo illude la facilità con cui la fantasia gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni dell'attitudine sua di statuario creatore della vita neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto dramma; e una imperfetta dramaticità trava- glia lo spirito del poeta per affermarsi , senza riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si distrae troppo, una parola lo devia spesso , gli manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di sacrificare i trucioli. E continua cosi , a lungo, faticandosi, irritandosi : l'opera gli riesce un in- sieme di momenti, scelti senza acume di tra- gedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia un luogo e un gruppo per correre nell'altro luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel che là non aveva trovato; non si sodisfa; ri- prende; e cade senza lena alla fine. Allora grida con sdegno : " è troppo lungo per me seguir la carrozzabile ! „. E sul suo spirito esausto hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del carme. Termina in pesce. Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma tal volta li costringe col suo verso in perfetti camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte nella quarta Pitica? La risposta è nella natura EURIPILO ED EUFEMO 247 stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affan- nosa d'una base ove consistere cli'è il racconto degli Argonauti è piena di maraviglie oltre umane e di giustizie divine. Giasone viene a rivendicare appunto il sacrosanto diritto di se- dere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio, le sue gesta sono insolite non di coraggio ma di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende, né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che il poeta poteva credersi avvolto sempre da quel- l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale som- merge in sé il " tereo detto di Medea ,,. Ma s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il ro- manzesco della novella, il mirabile della fiaba, dopo essersi abbandonato, supino il volto, nel- l'estasi santa. La magia lo deludeva con una maschera di religione; il cuore non pago pun- gendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non propriamente gli mancò , ma più veramente venne provandosi in vano a molti cimenti sotto cui è una continua insoddisfazione intima: la insoddisfazione dello spirito che ha aderito in- tiero a un impeto di profonda religione e, non accorgendosi a tempo del transito verso minori sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora quella adesione era stata possibile nel cuore di un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori- gine e scopo della sua stessa vita, il senso so- lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché poche volte una saga ebbe più consono poeta; pochissime, un tal inno è rimasto documento lirico della mischianza dell'uno con l'altra e dell'elegiaca nostalgia che ne consegue. 248 V. - CIRENE MITICA VI. — Gli Eufemidi e Batto. Una cosi compiuta intuizion del mito non ha più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta anzi a svolgere della saga proprio quella parte che Pindaro meno degnava di cure : dove, di- fatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo- nauti , Euripilo ed Apollo, — eroi e numi ; lo storico è pien di zelo per i discendenti di co- loro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito Batto, — non eroi né numi ma uomini. Il primo era assorto nella premessa della leggenda; il secondo corre alle conseguenze. Delle conse- guenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno, non più nella Pitia quarta, ma nella quinta (del medesimo anno); gli accadde però per sbalzi e tratti non connessi, senza organismo, e senza profondità di attenzione. Vide Batto porre in fuga i leoni africani " perché recò loro una lingua d'oltre mare „ ; vide i Terei guidati da Aristotele fondar templi e instituir cerimonie: tutto in pochi kola (2) de' quali la lode di Apollo è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto : a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che pre- cede è avvolto in un silenzio il quale può essere incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi lo storico comincia a narrare. Egli narra con (1) IV 145-156. Cfr. Malten 95 sgg. (2) 103-137. GLI EUFEMIDI E BATTO 249 una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e forse un poco sorridenti ; molto si compiace nei particolari minuti; molto più pensa di poter la tradizione degli Eufemidi connettere con altre indipendenti. Ecco, a suo dire, da Lemno partono non solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli accade di giustificar doppiamente il loro sog- giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lon- tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go : ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son difatti concetti affini (su la cui origine non è qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal volta identificati. — Per spiegar poi la loro par- tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola : i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com- binazione grama e non primitiva. — In fine, i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa, per quale si recarono in Tera? Esisteva, come un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito, ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta nellisola intorno al VI sec. ; e in esso si parlava di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo storico per far muovere parte de' Minii insieme con quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, — bisogna sup- k 250 V. - CIRENE MITIGA porre, — i Minii si serbaron distinti dagli altri cittadini, al meno come schiatta; laddove il trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di quel Tera (l). [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'eca- tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eu- femidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo : " Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel moto : tu dunque comanda di far queste cose a qual- cuno di questi giovini „. A un tempo disse queste cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo in qual luogo della terra fosse la Libia né osando inviare una colonia in un'impresa ignota. — Per sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono. Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò la colonia in Libia. E poiché non avevano altro ri- medio al male, mandarono in Creta messaggeri per ri- cercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse per- venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichia- rava d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero (1) Cfr. Erodoto IV 145-149. i GLI EUFEMin E BATTO 251 a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con- venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi per un anno... I Cirenei e i Terei strinsero a partir da quel fatto grande amicizia coi Samii. — I Terei che avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an- nunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto. Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1). Questo racconto riesce notevole anche perché vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro preciso motivo; e perché vi appare la volontà di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi e ai Samii qualche parte nella colonizzazione della Libia. Volontà, la quale risponde, eviden- temente, a una tendenza politica tarda: a giu- stificar le relazioni e di commercio e d'altro fra lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora a xDunto questo facile rilievo addita il luogo (1) Cfr. Eeodoto IV 150-153. Il brano che riguarda l'ul- teriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al nostro mito. Edizione C. Hude (Oxford 1908). 252 V. - CIRENE MITICA onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano, come si disse (1), due focolari mitici : l'uno dei primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo e avevan quindi desiderio di giustificar con il mito non pure il regno dei Battiadi ma anche la loro politica, raccolse la narrazione tradotta pur ora. Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La quale non è se non questa medesima ove Ari- stotele sia divenuto e balbuziente e bastardo, e i coloni Terei appajano pochi di numero e cac- ciati dall'isola per opera dei lor proprii concit- tadini. E poiché Creta, per la sua stessa posi- tm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu tratto con accortezza profitto per far aiDparire anche di impura discendenza il primo colono Batto. Cosi: Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frò- nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa, volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime, procacciandole danni e macchinando ogni male contro di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone. (1) V. sopra § l II sostrato storico. GLI EUFEMIDI E BATTO 253 Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu- rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse. Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare, adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un secondo comando inviarono i Terei Batto con due navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera. Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che si avvicinassero alla spiaggia ; ordinarono invece di na- vigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale, — come fu detto, — si chiama Platea (1). Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non serbava più in Erodoto la intima e possente vi- goria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina di comune e piatta concretezza umana, su questa leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la (1) Erodoto IV 154-156. Sono omesse le considerazioni personali di Erodoto sul nome Batto. 254 V. - CIRENE MITICA loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti, ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha rimesso della sua dignità religiosa, un poco a pena, e a stento riesce a dargli valore di vene- rando il sèguito delle sventure che puniscono la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol esser storia con esagerata pretesa : ne ingoffisce ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della sua evoluzione che permette la esegesi degli eruditi o la prepara o quasi l'attende. VII. — Conchiusione. Gruardando ora a distanza questa tradizione dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide, di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto ripetono l'opera importante nell'impingere i co- loni; Eufemo, capostipite della casata e com- pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo e con valore divino, della pili antica vita afri- cana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna in Callimaco come d'un re da cui la Signora delle belve ha il trono. Si profila dunque ora compiuta tutta l'ossatura di questa compagine mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo, COSCHIUSION'E 255 luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il con- tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa, la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la origine delfica. Simili dunque e differenti. In forza della lor dissimiglianza restano in più d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi tessalico ; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro, la maggior sua umana pianezza; senza che si formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza della loro simiglianza giungono per diversa via, in uno stadio della lor vicenda, a compene- trarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nel- l'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un popolo. Unici restano distinti, di qua e di là, Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia nona e Vergili© ; all'altro, Erodoto e la Pitia quarta. Lo schema di cotesta evoluzione mitologica è dunque complesso come un quadro genealo- gico. E per vero le singole forme della saga son congiunte da intime attinenze di derivazion vicendevole ; alle quali tutte predomina il nesso fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi capostipite, la origine prima. CAPITOLO VI. Kalypso. I. — L'ÌTituizìone mitica. Il mito è miracolo. L'occliio vede il chicco di grano scender fra le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta- coli che appena lo affaticano lo abbagliano lo trattengono, e che un nulla basta a significare (1). Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato di verginità animatrice, fuor dal mondo reale il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano la lor concretezza in trasparenza, sfumano i (1) In questo capitolo gli esempii addotti son desunti dai precedenti capp. II-V. Ma ci dispenseremo dalle con- tinue citazioni. Cfr. anche cap. I § IV e V. A. Ferrabino, Kalypso. 17 258 VI. - KALYPSO loro contorni in nuove linee : — si tramutano in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il miracolo si è già compiuto: restio ad analisi nella sua complessa essenza ed inesauribile ric- chezza: figlio del mistero, perché nato da una energia la quale tanto meglio si cela, quanto più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo- sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il fondo vero, — il miracolo dello spirito transfi- gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi, il mito solare è di origine oscura come le vicende, che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste- rioso nel suo principio come la fecondazione della gleba. Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel- l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere con suggello suo proprio quel che i sensi avver- tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dal- l' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme un' illuminata elaborazione intima, un assorbi- mento dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco- prir la natura, e le dà un nome e la umanizza. (1) Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal Einleitung in die Psychologie und Sprachtvissenschaft (1871) §219 sgg. ; e quella dell' ap per ce z ione (impressione, associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsycho- logie II 1 (Leipzig 1905) p. 577 sgg. l'intuizione mitica 259 per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto istinto geometrico della stirpe e imponendo alla Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto con atto analogo colui che armerà di clava, per assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta la razza, le dà la sua anima come una divina coppa cui tutti e attingano e contribuiscano; è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il prorompente grido della vittoria, conseguita sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin nelle radici profonde ; è il mortale che, calcando la terra, volge in breve giro il suo braccio, in più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'Uni- verso dei suoi sensi " ti capisco „. La malinconia dello scienziato moderno che sa di non poter dare alla forza ignota, o mal palese in talune forme, che un nome, e non crede d'aver capito l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion- fando di felice ignoranza, che ha, allora solo, veduto la luce il cielo ed il mare. Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar- cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto come civile, non va però si oltre in questo suo bello errore, da non serbar, della forza immane rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui 260 VI. - KALTPSO avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro, traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più efficace che trasportare il tutto in una sfera più che la consueta possente e a cui esso medesimo soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su la scena del divino. E il fenomeno mitologico s'intreccia e si compone con il fenomeno reli- gioso, seguendo con questo una simigliante evo- luzione dal naturismo all'animismo al perso- nismo, per la quale si complica si allarga si condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel principio ogni mito della natura è un racconto intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto e rozzo il nume. La creazione della saga, adunque, somiglia per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion spirituale : perché infonde la vita a individui che la fantasia par animare di un soffio e la realtà foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera del- l'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben destro, è affine ai procedimenti scientifici che insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo, induce l'animo a reverenza d'un potere più largo più alto, or solo più forte or anche più buono, rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. — Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra quei tre ordini disparati. Anche quello con cui sembra meglio coincidere è per vero disforme : l'opera dell'arte non è accompagnata dalla co- scienza di certezza e di apprendimento che è (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se- guita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto, l'intuizione mitica 261 per cui venga riprodotta e amata traverso le succedentisi geniture. La fede mistica per contro, quando sente la divinità vivere e spirare, e la vede risplendere, non si menoma in individua- zioni personificate e denominate, si più tosto in formule ove all'Essere è congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi generali su dai fatti specifici, che raggruppa in classi, rior- dina in ischemi, è necessario dir lontanissima la saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le ripetizioni delle apparenze e le identità fonda- mentali; ed è già matura quando narra Cora ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre e al marito. — Anzi, lungo ciascuno di quei tre ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente ; ^fin che da l'una delle tre mete sopravviene a deformare o incrinare o addirittura distruggere il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie il letterario, violi con la sua indomabile licenza la primordial purezza della favola è in queste pagine segnato con studio. Né qui si tace come anche la religione scavi alacre nella polpa stessa del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù ri- posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca- turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo scienziato non erige ove non abbia prima di- strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in pari tempo la saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che cos'è dunque il mito? Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfaci- 262 VI. - KALYPSO mento pseudo-scientifico non è essenziale quanto il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri- tico, si appaga della rappresentazione come di causa; ed è quella medesima che stimola un senso rudimentale di questa: o forse, è il con- trario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e per spiegarsi le forze naturali le plasma umana- mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della causa preceda o segua la trasfigurazione, la de- termini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si av- verano entrambi i casi, cbé la fragile mente or si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare, " perché? „; ora con spontaneo moto traveste in fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque, sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto, intatto dalla pseudo-scienza. Accade un tempo- rale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)i- riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si di- mandano il motivo dello scompiglio dei bagliori dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola differente ; a tutti (supponiamo) la favola creata è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi, dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla varietà delle creature mitologiche. Queste^, supe- rando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate da una congenita forza eh' è propria, splendenti d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più l'intuizione mitica 263 tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii temporali e si adduce la falsa causa comune; ma allora la saga non deve nascere, si trasforma in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo evolversi: dall'esterno dunque si muove questo ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora rapita sotterra e riapparsa in terra si compie poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ; ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine scientifica non si maturi cosi da non poter più arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella, difatti, estremamente varia e vasta; trascen- dendo la natura e le sue forze, si nutre anche d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è più specialmente umano. I primitivi avvertono Dio nella famiglia, — e onorano di culto la dea Madre e il dio Padre ; lo sospettano o persin lo affermano nell'individuo che più sa e più intende, onde inchinano il Vate. E pure ammesso che primieramente la Divinità appaja traverso la luce del Sole e il risucchio del mare, non si di- mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si pone in contatto con la sovrapotente forza della Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che, ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre- dire ed entro il quale non intuisce, a dir vero, se non se la sola Natura; che, quindi, il mito coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto un momento, transitorii e insufficienti, di quel 264 VI. - KALYPSO senso. E allora è più esatto affermare, la saga contener l'intuito della possanza naturale rive- lata nel fenomeno. Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana- lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e in- dividuazioni artistiche: il vecchio re che cade dal suo trono e cui succede il figlio; la donna che le rapiscono la figlia per nozze; il duello fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'espe- rienza consueta; qui accennano le figure che jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito il suo pensiero. Le forme della consuetudine so- ciale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla fantasia come una veste indistruttibile. E somi- gliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del proprio pollice ; la mano gli vale una certezza : si che traverso questo possesso egli vede la statua e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo scrigno celato la materia ambrata del Verbo e la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole eran acconce a dire le vicende sociali e a de- scriver le forme umane ; la vita arborea non possedeva moto se non per braccia, e il suo prin- cipio non era da esprimersi se non con l'imagine dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in- terno, immersi in lei; la Natura si affrontava dall'esterno: a questa quella unica poteva per tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il l'intuiziqne mitica 265 Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi ; come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la creatura tolta alla madre. In progresso di tempo l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso apparente del Sole e il trapasso del chicco; non li ha trovati allora. Allora serve per la Natura l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione naturalistica. — E l'analogia (non identità, si badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec- niche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci- procità, si che queste par violino bensi quello, ma par insieme che il primo esiga senza scampo il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac- cade quindi che si possa decidere dell'epoca in cui una saga fu da principio narrata, per ciò solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe- rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi o abondevoli. E accadde per converso che taluni fenomeni non determinassero la loro leggenda, se non quando li potè assalire e trascolorare una copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi : ^erseo contro la belva ed Ercole contro Caco sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo, la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece 3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vi- 266 VI. - KALYPSO cende agresti del seme e della spiga non diven- gono vicende, o siano trama narrativa, che a patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente non esistono, clié non sono intuibili. Come (con- tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono senza il consenso dello spirito seguace. — Ana- logia, non identità. Che il divario è tosto sen- sibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale. Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costi- tuiscono la preparazione voluta, né servono ad altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove che nell'arti. Il loro progredire è verso un affi- namento che permetta di sottoporre sempre più e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso artistico. E il loro affinamento esalta sempre più e sempre meglio le arti; non le nega non le di- strugge già mai. La storia della mitologia per contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come sia salita a più grosso valore la somma delle esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono) traverso cui il fenomeno della Natura passa tra- sfigurandosi, incontanente questo legame s'in- frange, si che a due poli estremi la vita sociale e gii spettacoli naturali si esprimono con indi- pendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche le discrepanze superando le affinità ; e la perizia esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge diverse da le dicevoli per le affinità. — Si di- chiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è una visione manchevole del mondo esteriore al- l'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^ i jH LE MANIFESTAZIONI MITICHE 267 mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per con- verso, una vision manclievole di questo ultimo mondo, ignara del suo contrapposto con quel primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rap- porto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla doppia manchevolezza. Ma perché le due insuf- iicienti visioni sono le uniche per ora acquisite, e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul fondamento delle crasse analogie, il rapporto dev'essere ed è, anche, necessario e indispensa- bile ; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni. Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un detei'minato avvenimento naturale intuito come forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano in una mischianza che li deforma entrambi: come forza sovrapotente e divina; — indi il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del culto, e il pregio di motivazione scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi ; — indi la fine della mitopeja con l'eccesso della de- formazione e l'imxDOssibilità della mischianza (1). Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde la morte, sarà detto appresso. I II. — Le manifestazioni mitiche. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor- memente e si altera evolvendosi. Ma immutati (1) Questo nostro risultato storico intorno al mito con- traddice B. Croce {G. Vico pag. 66) per cui il mito è un " universale fantastico „. I 268 VI. - KALYPSO restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e di creazioni, i modi e i mezzi della manifesta- zione mitica. La quale quindi è necessario pre- cisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno della Natura dovette, per affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati d'esser contemplato come l'umano, in tutti i ri- spetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella ma- teria, dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura rimase luminoso della magnificenza divina, ri- chiese di penetrare nei culti e nei riti in cui ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi categorie espressive ; e su i caratteri di ciascuna in generale non è qui da far cenno, che ne trat- tano apposite discipline. Qui basta notare come sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due agl'incunaboli della saga; la quale quindi le trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe appa- recchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi non si sarebbe né meno levato in un respiro immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli, se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del ■ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE 269 primo suo crearsi, e attuali divennero solo più tardi. Il termine filosofico, la jDarola scientifica (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come si respingono sostanze non consentanee. E in un dialogo di Platone la fiaba fu '' racconto,,, anche se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione : l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inade- guatamente, dalla fiaba; mai questa da quella, in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: — qui la saga si foggia a rivelare or l'una or l'altra delle sue congenite potenze, senza dis- sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima intuizione della Natura esala uno dei suoi pro- fumi pili reconditi, e non tra i meno intensi : il culto. Il mito può esser nel culto. AUor quando su l'Ara massima si sacrificano tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo della saga, se non certo, è possibile ; è in parte sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non si venera Demetra senza ripetere il ratto di Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta- mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo le danze trovan riscontro con i leggendarii balli dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di questa interferenza fra culto e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un tempo più semplice, il gesto del rito ripete la vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli 270 TI. - KALTPSO bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati (1) a Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la " pietra del pianto „, che aveva parte non piccola nel culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa- tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione è cosi moderna e lo spirito maturo cosi larga- mente innova, è andato perduto il carattere pe- culiare della tragedia o s'è cancellato il segno delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma appariva quasi la ripetizione gestita del mito, il mito riprodotto attorno ad un altare, da per- sone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che ne rendevano la trama. Appariva, in somma, una specie di culto in cui il rispetto religioso era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi a prendere il sopravvento. Appariva un culto modellato sul mito. Questa però, se è la più tipica interferenza tra i due fenomeni umani, perché in essa la saga offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non è la sola né forse la più consueta. Un'altra è frequentissima: per cui avviene appunto il con- trario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii (1) Pindaro Olimpica VI 95 e lo scolio. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 271 e tradizionali si riportano, idìiì che ad un deter- minato racconto leggendario intorno al dio che si venera, agli attributi di quel dio alle sue mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si invocano in circostanze favorevoli, si supplicano benigne ; o vero si irrogano lontane, si distornano con offerte e con formule ritenute idonee. Vi hanno inoltre, pure estranei al mito, atti reli- giosi sorti in momenti diversi, per caso, per coincidenze fortuite, per iniziative, anche inten- zionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno infine templi e altari elevati, fuori di un certo mito, per un nume cui il mito fu collegato lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale, che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza contiguo al racconto leggendario, non ne dura a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e costituirvi un capitolo interpolato. E questa la massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi- geato del ladrone latino. Sempre, in questi esempii, il contesto narrativo si amplia a van- taggio e ad interesse della realtà religiosa : fe- nomeno che attinse il suo vertice in quei casi, — ma non ne appajono in questo scritto, — che tutta quanta la leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella prima delle due interferenze notate, troviamo la leggenda esprimersi per mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto. Fra le due non difettano attinenze; né è diffi- cile decidere intorno alla priorità. I miti etiolo- gici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono 272 VI. - KALYPSO senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto più tardi degli spontanei miti naturalistici e per solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche, la prima interferenza intacca e interessa intiera la leggenda: onde il culto di Demetra investe tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda interferenza presuppone la leggenda, l'adotta, non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi, la diversità non è tanto profonda quanto par- rebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'anti- tesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un che di non riducibile: fra una scena e l'altra del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma, qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze, ma si riferiscono a un diverso contesto: nel- l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di Zeus insieme con l'altre vicende : prima che Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ; il che si deve dire, come in postilla, ma non appartiene più al dramma sacro, bensi risale al mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti; ma si integra poi con interstizii d'ombra o con premesse a pena accennate o con parentesi sup- LE MANIFESTAZIONI MITICHE 273 pletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi sulla impotenza espressiva del mito rispetto al culto ; la quale è però fatta più tosto di abbon- danza, ijerché quello per solito trascende questo ; consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie 0, in genere, greche in onore di Demetra non sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Per- sef one, si debbono venir comentate col sussidio e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea spettano in testi estranei a quella saga. Qui, come altrove, il culto traspare nella leggenda, ma per uno spiraglio solamente. Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro. Ciò può sembrare da prima strano, da poi che si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano invece cessa di essere, quando si ponga mente (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af- finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto si modifica, e si perfeziona di disinteresse, col- l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro nasce da un'intuizione della natura che deve permanere durabile, e vive nel suo profondo di vita indipendente dalla religiosa. Due rami, dunque, bensì dello stesso tronco; — ma rami diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per due motivi. 1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carat- 274 VI. - KALTPSO tere scientifico che assume la saga o già prima del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo qual spiegazione del fenomeno essa tradisce tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto mai confacente alle menti primitive (né solo a quelle). Se il fulmine è la clava immane che un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte, in culto. E della spiga granita, della messe co- j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune suona il tripudio, come comune il lutto per il rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca, si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle nebbie rosate e si converte nell'egoismo quoti- diano, ch'è il pane, il benessere, — la vita. Ma l'altro motivo per cui culto e mito in- terferiscono sta nella concretezza plastica, che è di talune cerimonie del culto, e che le assempra all'opera dello statuario, ossia le avvicina al- l'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra trasmigrante per le terre con due fiaccole accese su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle ceri- monie di Eleusi. E quando il ketos apparisse vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana, riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa del racconto. Il paludamento ed il gesto corri- spondono all'elezione e alla disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un LE MANIFESTAZIONI MITICHE 275 volto contratto nell'angoscia sottintende ma non significa il dolore medesimo che il poeta piange nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea nella carne vivente la divina maschera di Lao- coonte. Per tanto, non pure mito e culto non si so- vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono coincidere, il culto risulta una imperfetta espres- sione del mito. Accanto alla quale perdura sempre, e per integrarla nella quantità e per elevarla nella qualità, la forma primaria e più acconcia : — l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano, quasi a compimento ed abbellimento, le varie forme del culto, come i minerali alle fogge cri- stalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme con la ]3oesia, emergono, fiori di alto stelo, su da quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti e il disadorno ricordo delle generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa efficienza di espressione. Il vasajo, che nel VI se- colo affigura la saga di Andromeda su la materia tornita e preparata alle vernici, si ripete, tra- verso la serie dei suoi modelli, ad un'antica forma del racconto caduta già in oblio nella let- teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci a costruire quella forma, di cui altre tracce non sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo spe- cialissimo caso ardimento soverchio asserire in- dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a simboleggiare un intero strato mitico, in quanto la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa risalire a una narrazione ; non ce la narra, i^ 276 VI. - KALYPSO per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita tre spighe (1), richiama le nostre cognizioni sul ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non possono essere indipendenti dal racconto parlato quelle arti che non debbono né fermare l'istante né descrivere il moto. Il momento è la loro mi- sura, ai due estremi della quale sono invarcabili colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per rendere una vicenda, per fìngere il moto nella statica. E né meno costituendo in serie i lor prodotti riescono a rendersi autonome dalla forma letteraria; che una Via Crucis raffigu- rata da un genio non è se non mirabile chiosa agli Evangeli (2). Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua espressione, a preferenza artistico; ma anche è precipuamente letterario. La letteratura sola ha il vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com- pimenti né di premesse. Cotesto privilegio però non s'intende tutto, che prescindendo da alquante restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che, contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo (1) " Annali dell'Istituto „ XIX (1847) tav. P. (2) Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (= " Phi- lologische Untersuchungen , V) Berlin 1881. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 277 dell'esame condotto intorno a quattro notevoli miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per- venute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini onde è concbiuso il concetto di letteratura: non fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma comprendendo nel vocabolo anche le manife- stazioni più povere e grame, il racconto d'un antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi- dera nella sua ampiezza tutta questa saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su le forme come una legge fatale; se si scorge il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi da Pindaro all'atleta, da l'atleta a Vergilio, da l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca di Diodoro e la corte imperiale di Roma, per- vadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista dell'età travagliose: — si appalesa a pieno il dominio, indipendente e incomparabile, che sul Mito possiede la Parola. Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre originale, com'è sempre imprevedibile prima del suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo. E un castone che costringe il diamante ora a smussare una punta ora ad arrotondare uno spi- I 278 f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto e parlato, ne è una forma nuova che non si può ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra. In questo, l'arte figurata e il culto, — a parte la loro incompiutezza che si vide, — somigliano alla letteratura; ma, anche in questo, le restano addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e l'altro, non appena possedutala, una certa forma e una certa versione d'una saga incidendola per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la parola ha una sua duttile mobilità, una sua invitta energia innovatrice, che si tradiscono nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa- j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si di- lunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una cosi fatta attività di dominio, come distingue tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie letterarie medesime, ed è il criterio del loro pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al poppante innova bensì, che non s'evita; ma per vero minimamente, a confronto dello storico e del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo, al paragone, e la luce ne devia cosi poco che si trascura. La personalità della parola è quella di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema ; o si invigorisce : e il mito ne riceve più o meno ] individuate le sue forme. Onde è lecita per co- modo di ricerca, se non esattissima in tutto, la distinzione in due grandi categorie, separate per; una diversa potenza creativa, dei contesti ver- bali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi: fecondatori. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 279 Senza traccia, come senza nome e senza gloria, rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono la gleba rude, disprezzata ma indispensabile, senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri- pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di fantasia le fogge tradizionali, come utili a va- gliar le innovazioni, che, diffidando, non accet- tano se non quando una forza geniale le imponga, e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spetta- tori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi le sorti delle loro creature, e che si serbavan fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la selezione e si conserva la vita. Cosi che quando non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino la resurrezione. Le radici sono inaridite. Ma non possono d'altra parte raccogliersi in un solo tutto i fecondatori del mito: che la energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad arazzo. Verità di non poca importanza, come quella che serve a spiegare, perché il mito duri e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si tace, o compia anteriormente all'arte uno svi- luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la trasformazione profonda subita dalla fiaba indo- europea j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nel- 280 Vlnno a Ermes di begli esametri omerici: o pmi'e il comporsi della saga siracusana di De- metra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né senza traccia è rimasta, come senza nome d'in- dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti o, per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi. Ai nomi delle persone, clie mancano e non var- rebbero, possiamo sostituire quelli dei centri onde il moto di elaborazione mosse e si propagò: quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa messe, tra cui raro langue il ciano e il papa- vero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di Ver- gilio il racconto di Ferecide. — In generale, per conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un progresso rispetto alla mitologia (1). E tale as- serzione è sempre vera, se intesa a dovere: pe- rocché il progresso può essere istantaneo e com- piersi nell'attimo medesimo della innovazione, ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il lavoro mitologico di un predecessore o crei esso medesimo la saga che contamina le pretese dei Battiadi con la spedizione degli Argonauti al lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la 1 (1) Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela- borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'ela- borazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi- tologica dalla mitopoetica che sola ha pregio estetico. LE MANIFESTAZIONI MITICHE 281 verità elude con volti ambigui i nostri occki incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile, la contaminazione balza insieme con il ritmo dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente, non raro; ed è ben motivato dalle premesse nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi jonici, che si dissero sopra, stringe membra prima incoerenti in tale organismo d'intuizione unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer quello col verso; se appaja egli stesso anche mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio, che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembre- rebbe quasi insolita la contingenza, in cui al più dell'intuizione non rispondesse il meglio dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno che non sembri, a causa dell'indole propria di ; talune stirpi e della natura speciale di certe in- [novazioni mitiche. Nel fatto, tra i Romani è [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un [arido annalista e che quindi scada dal carme )opolare allo schema di un rozzo diario: tale [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con- [•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur [senza avere alcun intento, — si badi, — di ra- sionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile 3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda in una forma regrediente, che non attingeva 282 VI. - KALYPSO alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un ne- cessario margine a simili casi, per solito si varca d'un salto dalla medesima mente il varco che intercede, — non ampio e non breve, — fra la innovazione mitica e la procreazione d'un'opera d'arte. Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o per maturità conseguita nel tempo, e attinto il vertice più bello, si apre una serie nuova d'in- novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle mitologiche. Ma un facile criterio le distingue senza possibile equivoco. Le une hanno un fine che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrit- tore, che altera la leggenda nel comporre, ob- bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con- sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel ritocco, mutar questo colore, adombrare una figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe- ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di conce- dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup- pare più ampiamente una parte. Per contro il mi- tologo, che è tale prima d'essere artista, tende a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen- dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigo- rosi rami, e a quello procura di recar contributo, adunando, intorno a un nome di eroe o di nume, tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per LE MAXIFESTAZIOXI MITICHE 283 comprimere mia città avversaria, quale Tera; per lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico. In ogni caso, muove da esigenze che non sono quelle del suo tema letterario, né consistono nel tono d'un poema su Enea o d'un canto su le Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi- rizzo mitologico. I due ordini d'innovazioni però, pur essendo tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci- tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'ima- gine che rende la loro reciproca condizione, è quella della pila voltaica ove il succedersi alter- nato dei dischi di rame e di zinco permette lo scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito di- fatti non potrebbe entrare in quel componimento letterario ove deve alterarsi, se per effetto della sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse conseguito già un certo stadio; e per converso, poi. il colore diversamente sfumato dall'arte la variata prospettiva sono a punto cause che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun- gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo il suo senso allegorico antichissimo, per assu- merne, a gradi, uno storico ben diverso: allora solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano, e il gruppo delle etiologie incunearsi nel rac- conto. E allora solo la fiaba di Perseo e An- dromeda è matura per una interpretazione psi- cologica e sociale nella tragedia, quando il mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica l'altro; un passo prepara il susseguente: non importa se i fini del primo non sieno per l'ap- 284 VI. - KALYI'SO punto quelli del secondo. Anzi, perché, come si vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta in una con la innovazione mitopoetica, lo storico resta esitante, in quei casi, prima di decidere da quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi la precedenza, non nel tempo, ma nella respon- sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga. Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in conget- tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia, per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo di chiarezza genealogica e armonia anagrafica, identificato primo Persefone con Cora. I confini sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri- trova chiare le sue vere cause. Questi casi am- moniscono lo storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad esporre l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico pagano. IH. — L'evoluzione della mitopéja letteraria. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi : dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa. Curiosità scientifica, senso del divino, intuito dell'uomo e della natura, immanendo nella saga costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli, che attirano verso di essa i prodotti del più maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria 285 nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali son sorte non da uno sviluppo delle primissime antiche, ma da un superamento deciso di queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnova- mento si comijie entro certi ampi limiti tem- porali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura, sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito: nuovo, se pur non profondamente diverso dal complesso dei suoi analoghi. E il fermentante rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici che il suolo ferace esprime da sé, per l'esube- ranza della sua forza, in unico impeto con le roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano disponendosi l'una a canto dell'altra, affini so- relle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro, simiglianti e differenti, e si dispongono in rac- conti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome personale, un peculiare suggello. La mitologia |indiana serba traccia di questo pletorico groviglio li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è linore : perché già in essa sono sopravvissute [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la [singolarità medesima apprestasse vigoria e resi- stenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò stesso meno individuate, vennero assorbite da pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di 286 VI. - KALYPSO Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gor- gone, di Perseo contro il ketos, attesta l'anti- ch-issima fecondità originaria in favole dissociate per minime differenze, per esigui e mal certi confini, e prova anche come la mente creatrice da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna derivar notevole forza di vita e non scarsa energia personale. Di questo periodo di creazione mitica e di moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età di- fatti, che l'occhio della storia può riguardar sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mi- tica si accresce della fiaba duplice di Cirene e della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi vigorose e determinate che non possono in verun modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi tutto, perché non escono, — se bene adorne poi, dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne do- rate su la loro cetra, — non escono da un bisogno lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un fine pratico, in grazia del quale soltanto sussi- stono, ma a malgrado del quale splendono di magnificenza. Per ciò non creano, ma compon- gono elementi noti, sfruttando intrecci ante- riori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero, e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono. Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge presso la palude Ciane, non sono se non le sosti- l'evoluzione della mitopeja letteraria 287 tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle forme d'un antichissimo racconto greco. Singo- lari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle quali si unisce un cotale spirito di riflessione, un quasi gretto senso di praticità, con una indu- bitabile freschezza creativa, un abbandono lan- guido di sogno. Questo permise il loro travesti- mento poetico, e cosi grande permise che i razionalisti antichi non s'accorsero punto dello scopo politico e materiale onde le belle fiabe che gì' irritavano erano mosse; né se ne accor- sero, prima che sorgesse il metodo critico mo- derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di rifles- sione pratica è il non dubbio indizio che il pe- riodo in cui si moltiplicano i miti è per finire. Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle, in genealogie stremate, in giuochi etimologici trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi in favolette che pochi eruditi ripetono; riven- dica (1) il passaggio di Perseo per Micene ove egli avrebbe perduto il puntale della spada (ó /ivxt]g) ; attribuisce a Trittolemo discendenza argiva (2) ; spiega il nome dei Pinarii pel dover essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù), ho fame) (3). Poi muore. Entro i limiti di tempo cosi largamente se- gnati, profondo e vasto è il rivolgimento. (1) Pausania II 16, 3. (2) Padsania I 14, 2. (3) Servio Comm. a Verg. Eneide Vili 269. 288 VI. - KALYPSO In apparenza, tutti coloro che trattarono let- terariamente le fiabe della nostra ricerca, le considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin- nastica, l'ammaestramento georgico, la meta- morfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza d'una festa, il vanto della preistoria romana : mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di Euripide lo scopo vero è altro da quel che la leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a- tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole il suo contenuto. L'interesse per la saga non è quello primigenio della intuizion naturalistica onde nacque: è, nei varii letterati, vario. — Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si conferma con tutti i testi del nostro studio, per non dover essere tenuta in somma considera- zione. Ma ecco che la realtà la contrasta dura- mente. In tutti i carmi letti , in tutte le prose, il mito entra non di straforo, si per le spalan- cate porte: signore, certo del dominio che nel- l'interno lo attende. Della Pitia IX come della IV è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia ; la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato anche in certi j)articolari minuti : ospite sacro che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve nel cenno alla saga di Cirene : i pochi tòcchi bastano perché gli elementi essenziali delle due leggende contaminate appajano totalmente. Fin in Livio. Fin in Dionisio. — Si contraddicono, dunque, le cause e i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della mitopeja letteraria 289 mito: controversia intima a Kalypso. Contro- versia, da cui derivano e gli acquisti letterarii della saga e le sue letterarie deformazioni; clié, violata da interessi nuovi, cui già era estranea, per quanto con tutta la preponderanza della sua congenita foga imponga le sue forme, è co- stretta ad accettare, dalla sede che l'ospita, le luci. Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella il popolo par condensare, con la propria espe- rienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici delle fìgure che muove la sorte comune. Per essa, traverso la fantasia delle masse, come at- traverso un vaglio singolare, il complesso (ad esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme delle vii'tù e dei vizii che in genere presso quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi di un personaggio tradizionale con tra- dizionali pregi e difetti: il pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. La novella è dunque, per propria natura, pregna della medesima umanità che, nel mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano a volte come nate da unico ceppo. E si accor- dano quindi, sovente e bene, in un medesimo testo : — tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non, A. Feekabiso, Kalypso. 19 290 VI, - KALTPSO però, riverbera simileraente la vampa solare, né vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde durante la divina estate: si che il volume flu- viale acquista potenza di voce che s'ode da lungi, vigore di empito che infrange le sponde ; ma divino di stelle e di selve men vi trova echi e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito e novella il principio dell'abbassarsi quello verso pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane : in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la no- vella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ; accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe. E a questo si deve a punto se di eroi sono i miti. Quando i lor personaggi non sono stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro- tagonista della saga, e il " vecchio vecchio vec- chio „ che i novellatori esagerando desumono dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale, se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce, non trovando altrove favori, con l'estinguersi o diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia, era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe- scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chia- mavasi, né si ricordava nome diverso, tempio di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua so- cietà il mito ; ed entrambi corteggiano il popolo illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria 291 elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui, ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un meglio : gocciole di piova che rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo- gica, intenta a cercare la causa del fatto umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien- tifici appajono per tal guisa paralleli nei due fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per causa del fatto il fatto medesimo, correggendo solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom- pagnano. La fiamma muta contorni divenendo Caco e serba immutata la sua potenza deleteria. E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta, identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La giunta sta nell'episodio umano e abituale : il costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leg- genda integra per un lato quel suo volto che par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue; secónda per l'altro quella sua tendenza che si origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. — Questo tributo però non è solo copia. Rappre- senta anche una riserva di potenze e di sviluppi, che si determineranno in varia misura a seconda dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi individui entro queste diverse categorie, ne trar- ranno spunto alla lor compiacenza differente. E 292 VI. - KALYP80 questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che si disponga a fronte del più vero e antico nucleo mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio- logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio, il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. — L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura insieme con il deformarsi della saga sotto l'in- flusso dei molteplici interessi cui la fa sottostare il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro Cosi il patriottismo adultera il mito; e per vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto sto- rico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro mostruoso di tempi antichi ; Euripilo un re di età lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della porta infernale è perduto, perché una storia fal- lace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato storico; o fa prevalere questo su quello, ove si trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme con il complesso dei particolari cristallizzati, il rapporto tra i protagonisti, però che il favore patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe che qual Dio aveva, nel primo significato, com- battuto le tenebre ; e l'odio nazionale si accumuli su la figura che era stata, nel primo significato, ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg- genda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto favorevoli al serbarsi integro della saga. La psi- cologica o la sensuale posson compiacersi del l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 293 mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e della intelligenza clie li accomunano. La patriot- tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida al mito un sentimento, lo riscalda con un calore affettivo che, dopo la sua origine, gli eran dive- nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è il nucleo effettivo : la simpatia dei coloni per il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano, e la protezione perenne assicurata dalla coppia divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua che il patriottismo di Callimaco crea indelebil- mente : la statua del giovine Iddio che accenna, sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze, onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con la vita della sua stessa radice. E quando un brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta- tori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla sorte che in allora il Fato volgeva su la città marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, — Dio, qual era da prima, splendido al pari del Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito di innamorata estasi simigliante a quello che fu verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo mito s'era originato in una mente ingenua e profonda; — se mai si creò, fu l'anno 412 sopra una scena greca, auspice l'amor della Polis. Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e di vivezza. Il senso religioso è, — già si vide più volte, 294 VI. - KALYPSO — intrinseco al mito, che anzi se ne informa. Esiste fra i due concordia come di gemelli. La quale si svela però non molto jjrofonda. Le si oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma uno solo, fra i caratteri della saga ; ch'è ben piti ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è elle il carme inspirato alla fede tende inevita- bilmente a sviluppare un membro della leggenda a scapito degli altri, tende a farne vibrare una corda sola. E la contemplazione del mito da un punto vicinissimo, ma cosi accosto da non per- mettere più che una visione unilaterale. Tal incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza ; non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di immutabilità. Somiglia la formula d'un culto, che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in vece sono di lor natura non statici, ma energici d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita stessa in una delle sue sublimazioni migliori. Presto, raggiungono, — se non presso tutti, presso talune menti alte al meno, presso l'inspi- rato poeta della fede quasi sempre, — uno stadio superiore, e forse di gran lunga, a quello onde il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è bisogno di eliminar una figura, di scemar la crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere umano al cordoglio d'una dea : si deve informar il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap- presso Pindaro Chirone esita e sorride e si at- teggia a loico furbo, prima di dir la sua pro- fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare l'evoluzione della mitopeja letteraria 295 leggendario rimane, non alterato ; ma il pensiero critico lo discute e ne dubita: che è in appa- renza guasto minore, maggiore in realtà. Per quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la leggenda immergendovisi : la projetta lungi e fuori di sé, se la contrappone: per qualche istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo. Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos. Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede alla saga: il tradizionalismo mitico e il moder- nismo religioso scendono a un compromesso: e possono, fin che sono entrambi avvolti da una atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno l'indizio d'una religione povera e bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle origini, nel mito l'elemento sensuale e il psico- logico. Poi che i fenomeni della natui-a si ve- stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il mare acquistavano volti membra ed atti nostri, essi divenivan senz'altro passibili di figurazione sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel campo della psiche. Analizzare e graduare i sen- timenti di un Perseo non è se non completar l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro. Perseguir con compiacenza, nelle particolari movenze di grazia femminea, Cora mentre rac- coglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in- torno a Cirene nelle case cristalline di Penco, non è che un rinvigorir di sangue, spremuto dalla profonda voluttà umana, le creature cui 296 VI. - KALYPSO ha dato un sesso il mito. Se non che, anche per questa via la fiaba si trasforma: essa diviene un modo di dire, una frase efficace per signi- ficar un pensiero o una intuizione, una forma vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade- guatamente, a volta a volta. Perseo, — è l'esempio già scelto, — può vestire di sé e delle proprie avventure esteriori un ideal personaggio di Eu- ripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di molti individui. Cora, — è l'esempio già usato, — si muove con la leggiadria un po' stereotipa della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fit- tizia, perché non è la prima, antica e vera. Per ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com- pagne di Cirene da un repertorio di nomi ; — e non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a un colore, non svela una persona. Demetra che piange, e di cui si regola il pianto con magistero di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce il bisogno di sminuire, se non proprio soppri- mere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare fra Andromeda e Perseo una scena novissima, di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce per- sino la spiacevole inopportunità dell'intervento di un Nume, in sul finire del dramma, per scio- gliere, con atto oltreumano, una situazione di- venuta umana. Accanto a questa, che la psicologia e il sen- sualismo gittano sul mito, è singolare la luce che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 297 alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura personificano e di cui con la loro vicenda ren- dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevol- mente. In pochi in vece si altera e deforma forse tanto la saga. La Dea delle biade non domina su la vegetazione lussureggiante, non vi regna, qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra, ma in mezzo alle messi che significa e possiede: parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre- sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che si duole nella valle di Tempe, maravigliosa di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il passo similemente. La cintura dei monti lo com- prime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra- versare i regni del nonno, le sedi di cristallo, gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro della natura acquatile e pastorale che af figu- rano, ma una cosi fatta magnificenza è concre- tata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo con perpetui doni ; li circonda non li costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle persone di entrambi : — nella Natura, effettiva protagonista, cui convergono lo slancio del poeta innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed è vero : ma colà la Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano oc- cupato. E una restaurazione. 298 VI. - KALYPSO Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'eru- dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene, nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio, nel nostro studio, di quanto essa possa, senza scemo di pregio letterario, stremarsi della sua vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto al mito sia cànone più severo : per crescere al magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son tramutati i tempi. Più in là, si ritrova, fra più ampio volume di carte, in una più chiusa austerità di ambienti, la Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme. Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce troppo da Livio, Livio da Diodoro. La lor critica e il loro metodo sono diversamente insufficienti. Ma un intuito comune li induce a sopprimere, nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di certi silenzii, pel fine di non arrecare una sto- natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non hanno ancora una storia per sé, si adattano in quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual le raccorcia, esuberanti come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoer- cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono la lingua, conoscono il passato, partecipan co- l'evoluzione della mitopeja letteraria 299 scienti al presente del loro paese, pur avveden- dosi del carattere favoloso di taluni racconti, pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio giunge persino a dichiarare in anticipo che non vuol esser chiamato responsabile di quanto narra per gli antichissimi tempi; — ma narra tuttavia. Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso), il vero che si cela sotto il velame; — ma ripro- duce tuttavia il velame. Del fenomeno una spie- gazione sola è possibile: il pubblico esige la parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che non ammette si ignorino le origini prime della propria stirpe, le vicende antiche della propria città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti; che si sente sodisfatto, — assai piti che dal contenuto stesso della fiaba, — dalla sua forma di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi meglio della realtà; che ritiene di non poter conoscere la vita dei padri se non traverso la tradizione eredata da essi. E la consuetudine: ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'orto- dossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un nuovo pensiero religioso o filosofico. Tucidide do- veva saper di spiacere quando negava un nesso fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli Odrisi signore di Tracia (1) ; ma era da lui l'af- (1) Tucidide II 29, 3. 300 VI. - KALTPSO frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare la resistenza che, per tradizione patriottica, è insita nella leggenda. Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni però sono distinti. Il poeta, che canta la saga patria, o nella saga introduce opportuni accenni alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato : sospira il presente nell'antico, e sotto le luci dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe mae- stosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del re savio regnante Evandro: imagina la spada del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole, contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo sto- rico in vece accade appunto l'opposto: per lui, il mito emana su su dalla storia, come una causa su dagli effetti, una premessa su dalle conse- guenze: j)er lui il mito è una preistoria, una motivazione. Il nesso genetico di causa ed ef- fetto, ch'è insito nella storia ancor quando si manifesta sol grossolanamente in un nesso di precedenza e susseguenza cronologica, orienta nel suo indirizzo anche la concezione della saga, e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è per lo storico in vece un dipendere causalmente del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii e di Tera e di Batto è una necessaria e suffi- ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 301 valgono : perché giustificano. E il loro valore di motivi è cosi grande, che si accettano come ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la fede su la veridicità del lor contenuto. Si fatta deformazione del mito, per cui il ca- rattere etiologico di taluni suoi particolari e, qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica, segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle origini. La saga aveva avuto negli inizii impor- tanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi in parte nel culto, e i bisogni scientifici; supe- ravali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta officio consono alla sua natura; tanto che, pur connettendosi con etiologie cultuali, mantenne su di esse il suo primato di bellezza e di forza, presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando alla fine si trasforma nella pura e semplice causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini, cessa dalla sua indipendenza, acquista un che di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso tra le fantasie. IV. — Il flusso e riflusso delle saghe. In seno al possente spirito mitopeico lette- rario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto della nostra recente esperienza, talune tappe ed erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un continuo nascere maturarsi ed estinguersi di saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel 302 VI. - KALYPSO grembo deirUmanità , che s'è originata e deve a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso è libero ; non perché non lo determinino sempre forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo disegno ; ma perché nessun nodo della contessi- tm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi è del pari degno d'istoria; v'accade regresso in rapporto al livello mediano della mitopeja, e anche progresso: entrambi in diverso modo no- tevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte, ch'è comune a quella ricchezza divèrsa. Il mito, — ciò è, — ha due vite ; o forse vita duplice. Una è la sua più propria: e consiste nella capacità di evolversi, di assumer forme nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in- dividuo: della Pitia IV, del canto Vili nel- l'Eneide, della lirica properziana, del racconto di Livio. Uno stadio dell'evoluzione non elimina i precedenti, né li comprende solo in potenza, ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste due vite pare uniformarsi a leggi diverse. La vita seconda, delle singole individuazioni mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com- ponimenti e il sopravviver loro. Onde il carme d'un poeta non affiora alla superficie che per la strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 303 all'altro il primato, con decreto che non si di- scute e che finisce col condur, tal volta, a pre- valere una redazione e col tramutarla in volgata. Fece cosi Pindaro per Cirene, Vergilio per Caco, Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni effettiva consistenza di strati e importanza di varianti, le narrazioni di pregio artistico infe- riore si aggruppano intorno a quella cui più riser le Muse, come forme incompiute d'uno stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra : di bellezza. E da tutte in selva risplende il mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi pe- renne la vita, perché ogni forma è capace d'im- pulsi, e nella diversità degli spiriti sono impon- derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme dei sopravviventi miti; e la virtù della razza, che diede la passione onde nacquero ; e la virtù del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco, che diede la materia onde si fusero. Di li ritor- nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na. La prima vita in vece non è né cosi varia né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi della quale però, — ed è sua prima peculiarità, — permangono al mito, quasi irrimediabili stim- mate, i segni che furono del suo nascimento : resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Ci- rene, che sorse imperniandosi su la Libia e la Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lon- tane la sua sorte ; e par che fino la più profonda 304 VI. - KALYPSO violenza recata al suo schema confermi quel carattere regionale. Similmente, per essersi for- mato sopra un compromesso e in una contami- nazione, il racconto siracusano di Cora rapita si mischia, negli anni, in una sempre più larga massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva modo storico e religioso, quando prima s'insedia, col suo nome, la sua memoria nei pressi del Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo per sempre caratteristico. Onde la trama di An- dromeda non è da vero compiuta, non pure nei particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro- pria, se non allorché gli spunti novellistici si immettono nel contesto naturalistico, — a prepa- rare per l'avvenire la triplice serie di innova- zioni, psicologiche romanzesche e religiose. Quasi entro gli argini cosi definiti si muove la corrente del tempo. E di mano in mano che la storia della paganità procede, che il pensiero pagano si trasforma, anche la saga è amata sotto aspetti differenti. Nel V sec. a. C. De- metra e Cora son narrate con intenti di gran lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspi- rano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione distende sul mito una propria vernice : che è un particolar modo di vederlo. A noi poco è j)er- venuto di questo stratificarsi perché non ogni strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando, in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ri- costruzione fosse riuscibile nei particolari, una IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 305 foggia mitica, — e sia pure a pena diversamente .sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di esse, nesso causativo, porremmo la sintesi crea- tiva per cui l'intelletto comune, innovandosi, si è superato. Il caso opera poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che non esistesse un grande poeta quando il mito di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire di due linee causali la cui interferenza non con- segue da nessuna delle due premesse. Dal caso pertanto deriva, che non tutti gli strati della evoluzione mitica hanno " lasciata traccia let- teraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha tramandate tracce più profonde e più varie. Del mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra due trame sostanzialmente diverse, la pindarica e la erodotea; il quarto non ce ne concede al- cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra- manda ben cinque quadri con varianti colori e linee; l'età di Giovenale nessuno. Vergilio ir- radia del suo patriottismo il racconto, Properzio della sua raffinatezza, Ovidio della sua sonora compiacenza verbale, Livio della sua ingenua critica, Dionisio del suo impotente razionalismo; ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere complessive nelle quali esso viene inserito e dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava che altre ne potesse assumere e che ancor taluna di queste potesse non aver assunta. A. Feeeabiko, Kalypso. 20 306 VI. - KALTPSO Attinenze fra l'evoluzione spirituale comples- siva stratificantesi sul mito, e le forme casuali della leggenda, esistono visibilmente. Il modo con cui i posteri di Ferecide di Vergilio di Ovidio di Callimaco amarono e ripeterono le saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene deriva, come dalla trasformazione compiutasi nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle pecu- liarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra quella che dicemmo trasformazione del pensiero collettivo, e questa che potrem definire energia plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela letteratura d'una generazione compie su la ge- nerazione successiva, non sono se non alcuni degli effetti che tutta la mentalità della prima compie su lo spirito della seconda. Vale a dire : il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'in- terferenza casuale di due linee causali riprende, fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche, facilmente, le morti dei singoli miti : quelle pause del loro evolversi per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti alla trasformazione né si riprende che tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la mitopeja pagana. — Non è dubbio difatti che una saga qua! siasi continua, più fioco più intenso, il suo respiro fin che il genio mitopeico è una operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di- ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie di ciascun mito si arrestino a un certo punto, oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 307 più sonò il canto. Prova tipica, che non ve n'ha forse più palmare, è la storia del mito di Caco : languido già in quel torno di tempo che segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se bene seguano ad Augusto epoche di culto intel- lettuale di esumazione erudita di compiacenza artistica in cui l'abigeato violento e fumoso avi'ebbe potuto, — possibilità vana, — trovar non manchevoli espressioni. Persino i germi dissolutori insiti nel testo di Vergilio e, più, di Ovidio e, peggio, di Dionisio, tolleravano svi- luppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe mancato, di cui in vece manca fin l'eco. — Op- posto ammaestramento porge la fiaba di Cora e la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre sotto il cielo d'Omero si levavano vie più fre- quenti i crociati segni di Cristo, tenta di pos- sedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma il crollo dell'edificio male eretto non travolge pure la perizia artistica di un uomo, pare in vece che si ripercuota funereo fra peristilii e celle dei templi cui men frequente stuolo di fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'o- maggio: già che, allora, la mitopeja pagana sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in questo se- condo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa, l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge, del pensiero collettivo e delle passioni. — In un rosajo si sfanno di molte corolle senza che scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cor- 308 VI. - KALYPSO tecce aride su stecchi rigidi, e odore di dis- solvimento è nell'aria : il cespo si addorme nel- l'imminenti brume. V. — La fine. Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che non è scomparsa, ma fine di produzione. Ces- sando d'immortalare afferma la sua mortalità. L'agonia comincia con un periodo di rior- dinamento, in cui i miti non si moltiplicano ma si assommano, e che è già iniziato quando l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del resto, le stesse qualità psichiche proprie dei Greci : di ordine di armonia di chiarezza. Qua- lità che furono per fortuna, nel principio, assi- stite da una levità di tocco e da un rispetto per quanto è bello, i quali impedirono che le si tra- mutassero tosto in ruvida villania distruggitrice di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto, in queste pagine, da chi raccolse in unico con- testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella della sua nascita, cui è congiunto il fatale as- sassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa G-orgone, il duello con la belva del mar etio- pico. E un'attività solerte e diligente, cui poco sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere, compaginando rinsaldando, la sua galleria di dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo della verginità comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra tutto venera e tutela sempre i miti che riordina. 309 Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta né meno. Al contrario, tal volta crea: inven- tando, per unire due leggende, un passaggio accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibil- mente sorelle, a fin di poterle narrare Funa ap- presso l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi- nando una circostanza, per colmare un vuoto ; innestando un particolare nuovo su altri più antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma verbale perché a cotesti ordinatori di miti non cada nel pensiero di trovarle un posto nel rac- conto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è il troppo trasparente riscontro di Atena a canto di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo, perché non abbia a essere (e con questa altre cause v'influiscono per diversa via) trasformata, e mutata in amante. Affinché però un cosi fatto procedere si man- tenga utile, è necessario, da un lato, che le va- rianti da comporre in ordine intorno a un mito non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col cessar di queste due circostanze l'attività assom- matrice prende a divenire impotente, perché il suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria, perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo motivo essa si riduce a una compilazione che, come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar le varianti inconciliabili con la volgata, a ri- cordar Demofonte per preferirgli Trittolemo, senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia soverchio né a superare il dissidio contaminando 310 VI. - KALYPSO e creando. Non anche creando : però che la forza creativa scompaja in una colla simpatia con- corde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà tenace il serbarne i modi e i nomi di persone e luoghi. Ora, quando il mitologo ha esausta la forza inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui va- riare costituisce fogge nuove della saga, e per- sino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua credenza si sposta : non può più, come nel prin- cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha una redazione di ciascun mito cui sola presti fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la so- stanza, su quel che, in breve, è comune, oltre ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto somiglia quello che segue alla deformazione storica del mito. Quando difatti l'artista non è più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad eleggere un suono per ciascun colore; quando della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene, per la storia, e il fatto poi vale come causa : allora le vesti adorne e diverse cadono; im- porta il corpo. — Ed ecco il razionalismo dare, in entrambi i casi, una veste nuova a quel corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco, la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo, LA FINE 311 il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto im- mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due, e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la com- piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itine- rarii con le norme d'età posteriori, concepisce le tempeste invernali proibenti il tragitto alla flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mi- topeja, come un sentiero costrutto su scorie, il mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole errante per monti e piagge, in imprese di ca- valleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi, non minore forza di vita che la leggenda del- l'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno: per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non è ancor morta, quando essa saga si forma; e, rimanendole al fianco, le è assidua pietra di paragone. Per superarla e sostituirla, la saga deve difendersi discutendo, far valere palesi le sue origini logiche non artistiche. Onde il suo vero e mortale scapito : però che la logica chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa; l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata. Quindi è che il razionalismo non genera figli morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla cuna. A questa capacità distruttiva, che il raziona- lismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde una eguale potenza deleteria per le belle favole: 312 VI. - KALTPSO che diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba indipendente; vive anzi come un parassita accanto ai testi dei poeti e degli storici. In tarde età riflessive il lettor di Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fan- tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del suo sostrato. Dice: '' due eserciti si son combat- tuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace espri- mere altrimenti il fatto, approfittando della sua libertà „. pure dice: " Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo significa il vate con frase adorna „. E, se ha sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito. Ciascuna leggenda avrà molte di queste giu- stificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua e stentata energia, le forme più antiche, più belle e da più possente alito nate. Malefica è appena quando in una mente rozza, distruggendo intorno a sé, predomina sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i motivi del morir la mitopeja pagana. La favo- letta pretensiosa del razionalista è tutta conte- nuta nell'ambito di una esperienza soda della pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte per quello a poche linee sommarie e a rapporti LA FINE 313 semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri intimi all'anima: giacché nelle prime porta il razionalismo una imaginativa più nutrita e più competente, consona ai tempi progrediti e agli instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'in- genua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su la leggenda, il razionalista non s'avvede d' una inferiorità che la compensa : smarrendosi in lui pur ogni traccia del feno- meno naturale come potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e di moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razio- nalismo regna nella mitopeja, trovato ad espri- mersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui né anche l'uno dei tre vien più avvertito, — se non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evi- dentemente, dunque, è venuta meno la condizion prima ch'era stata già bastevole e necessaria al nascer dell'attività mitopeica; la condizione per cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé, non disponeva per cotale manifestazione se non d'una imprecisa conoscenza degli avve- nimenti umani onde era, nel suo grosso, assomi- gliato; la condizione senza cui la spontaneità mitologica si allontana nelle tenebre d'un pre- tèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitolo- gica, che cosi si spiega, non è la fine dell'inte- resse spirituale verso il mito, interesse dal quale 314 VI. - KALTPSO trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Nel secolo VI a. C. e nel V vedemmo fioriture mi- nori di saghe in forza di questo interesse; tanto forte ancora nelle masse da indurre regnanti e poeti a foggiare e contaminare fiabe per accre- scimento di lor potenza e di favore. Più tardi, se non induce a creazioni novelle con l'imitare le prische e il ricomporle, spreme però nelle guise più varie, secondo i gusti più diversi (se- guimmo nei particolari tal opera), molteplici aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e ogni aroma si esala in seguito a una alterazione, e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi- cenda vasta si conferma la forza vitale del genio mitologico e del mitopoetico. -- Ma lo storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega, deducendo, dopo la fine della creazione spon- tanea, il termine della ripetizione devota. Di- fatti, ogni volta che un nuovo compiacimento attrae l'antico verso la saga, quando il patriot- tismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte di essa, e la fede se ne turba, e il senso psico- logico la scava; ogni volta, una virtù di quella appare splendendo, — e si esaurisce vanendo : perché, al pari d'ogni passione, patriottismo fede sensualità, energie indipendenti e non fa- ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli approcci si rinnovano su una su vénti saghe ; LA FINE 315 le energie si succedono, ad una due, a due dieci; il culmine si attinge in cui il groppo pro- fondo dell'anima è uncinato dal mito : ma poi la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse, e canti di altro suono si intonano in loro ser- vaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene a poco a poco estraneo e si immerge in altre creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e a riempirne un altro : — mag- giore. E il disinteresse mitopeico: la seconda morte che la storia deve registrare nelle sue pagine. Non è, né pur essa, senza compenso; però che una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando, e come, e perché, non è qui luogo opportuno a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re- centi e nel nostro raccoglie le tracce e cumula le testimonianze della terza vita. Qui si elegge la figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin, che rivide con questi nostri occhi mor- tali il Centauro, avendolo i fragori marini e l'albe di perla e le sere di ciano educato allo spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine fa- volosa esprimere nuove bellezze poi che, con- cordando col mito nella sensibilità viva della natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove languiva la mestizia nata dalla coscienza della propria debolezza in confronto con le cime sfio- rate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro. Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro, 316 VI, - KALYPSO che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe e Driadi egli pure ; eran però fuggiasche, e l'a- nelito del suo cuore si compose prima in sdegno violento contro la presunta causa della fuga, — Cristo, — che in ammirazione amorosa verso le bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo, Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando da l'albero, " Non temere o uomo „; e il rim- pianto strappa biasimo fiero avverso chi " più non vede gli antichi numi italici : vivon eglino pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi entro le nari „. Ma non è giusto il suo rim- proccio; il cuore non si sfa nel petto " come frutto putre „. A lui medesimo, che pure vi portava, nuova, la sua sensualità ferina e tor- bida e tormentosa, il mito, creatura fraterna alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implaca- bile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte " magnifica „ e fin troppo cosciente della sua maraviglia valgano a fermarlo un istante, — né meno presso le ruine del tempio antico, e l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne tronche. '' Si allontana melodiosamente „. Perché? — Eumene di Cardia, nell'età dei Diadochi, l'anno avanti Cristo 321, sogna, innanzi a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di una corona spicea. Il di seguente i soldati si ricingono tutti del segno augurale; e la pro- messa divina incita i cuori, come il calcagno i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fati- dica in hoc signo vinces ; e lo sprone è uguale. Eloquenza del fatto minore ! Nei petti si muta la 317 fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le credenze adusate e (è la forma di scetticismo lor propria il mutare credenza) altre ne accol- gono al posto; scompare l'aura benigna in cui si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il terreno fecondante ove ne penetravano le radici. E accade che il valore religioso della fiaba, il valore che sembrava, ed era presso molti, scom- parso e ottenebrato, si riafferma non per rav- vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru- zione. G-li eroi non avevano cessato di essere, — nel profondo delle coscienze, al meno, — iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati, di mano in mano che la Divinità si schiarisce e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con Demetra. Il resto opera la scienza. Non la nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma tutte, le rispettate durante i secoli come vere e come sole, sostituiscono nelle menti la loro ve- rità e il loro equivoco alle interpretazioni fan- tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo e mito pagano, che un appagamento della cu- riosità pel fenomeno poteva ancor stringere. L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcoba- leno di Noè condannano Caco ed Iride, come Sansone soppianta Perseo. — Si che l'elemento scientifico, insito nella saga (se non intrinseco a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il religioso al suo perire, quando l'una e l'altra sete umana, di sapere e di credere, abbian tro- vato altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa della mitopeja, stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, in- dottesi le masse per diversi cammini; non restan 818 VI. - KALYPSO più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simi- glianti per sostanza o per forme ai pagani, e l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo. Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi. E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'ori- ginò la saga ; volonterosa in vano del passionato amore, fra cui si svolse ; pallida, dinanzi l'ombre crepuscolari ove si rifugian labili le figure fa- volose evocate un istante, pallida di accorata nostalgia. Restano anche le storie dei miti e la storia della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte di nostalgia. LIBRO II INDAGINE i Avvertenza. Ho procurato che la bibliografia speciale dei suc- cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'in- dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu- tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etno- logi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal ba- sterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio (1). La omisi dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici; né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto- rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte alle varie correnti e agli opposti principii degli studii mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e generali, bensì dal giudizio particolare recato nella in- dagine e nella storia dei singoli miti. (1) Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione bibliografica alla scienza delie religioni (Roma 1914): lavoro che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo. A. Ferrabino, Kalypso. 21 CAPITOLO I. Andromeda. I. Il racconto di Ferecide. — Il problema che si pre- senta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda con- siste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa ; ci è pervenuta anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vi- cende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso ; ma difetta del tutto l'av- ventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. IV 1091. 1515 = Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'. I 75-77). Ma la parte mancante del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (II 43-45, Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Bi- blioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna ferecidea. 324 I. - ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Fe- recide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste, ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche pro- varsi ne' singoli casi. — In due punti ApoUodoro dà a lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire la paternità di Perseo a Giove, riferisce — senza espli- cita preferenza — che altri l'attribuivano a Prete fll 34); 2. dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gor- gone è uccisa da Atena (II 46). Ciò mostra ch'egli aveva presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene in modo aperto. — Di ben lieve natura difatti son le varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod., separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa- f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg (IT 36) ; nello scolio (IV 1.515) si parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere , tanto più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce che non gli dà nello scolio (IV 1515) : evidentemente chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, — Steno, Euriale e Medusa, — là dove lo scolio (IV 1515) IL KACCONTO DI FEEECIDE 325 dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. (Il 41) narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna a guardar Medusa nello scudo per non esserne impie- trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Er- mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov ; quando in Apollod. (Il 42) dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso, di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare (II 45), mentre la pili concisa omette a dirittura ogni accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teu- tamida (II 47) re di Larisa in onore del padre defunto, e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov iv Tfl Aagioar] (IV 1091). Unica più profonda discre- panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio) ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco diverse : contro la tradizione che ricordava un pentatlo polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a suf- ficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale dev'essere a punto o la ferecidea accolta da ApoUodoro altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo che riassume e di cui cita l'autore. Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Fere- cide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tac- ciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per colmare la lacuna nel racconto ferecideo. Col possesso in tal modo conseguito di una redazione comparativamente antica del mito di Perseo e, in par- 326 I. - ANDROMEDA ticolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie per cui la critica deve procedere nel suo esame : però che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ; ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo Fineo Cassiepea, da ultimo. IL Perseo. — Le imprese di questo eroe sono nu- merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo; decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole com- peta la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tene- brosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch? I 1, Absch. VI Mythos und Religion e G. De Sanctis Storia dei Romani I cap. Vili Religione primitiva dei Romani e cap. III Gl'Indoeuropei in Italia. Un eroe solare ri- tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech. Mythologie{\). Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli , le argo- mentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex. III 2, 2025: giacché egli dimentica la differenza profonda (1) A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig. „ LXI (1910) 219 : * Perseus ' le destructeur ' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée comme Vakinekés l'était chez les Scythes „. PERSEO 327 e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto. A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nel- l'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na- turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di R. Sciava in " Atene e Roma „ XVI (1913) 226 sgg. Assai equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo e la mitologia comparata Pisa 1867. Ma è notevole che quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato e l'origine della Sfinge (pag. 71); e quel primo, trattando di Bellerofonte, non spiega la Chimera: entrambi quindi appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del feno- meno mitologico non a tutti. È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica (1). Il pro- blema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in parte è d'indole generale e vien trattato in questo vo- lume nel libro I cap. VI. Qui diremo solo, in breve, che l'intuizione naturalistica suppone una grossolana cono- scenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già densa di più larga e più ricca esperienza umana. Co- munque, procureremo, dopo queste premesse, di sceve- rare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez- zarsi il racconto di Perseo. (1) È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré- viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. , XllI (1886) 169 sgg. 328 I. - ANDROMEDA III. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. — Nel rac- conto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Pelopon- neso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R. IV 1091). Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa- lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert o. c. 2023). Ma ben più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grand- fragen der Homerkritik^ 223, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaa- yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono a questa attribuiti, — è molto probabile che l'Argo di cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponne- siaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e cri- tici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con pro- babilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti. Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito , il cui valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll. I 88, in un luogo che non è, come il II 34 sgg., sotto l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra- tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, ACKISIO, PRETO; POLIDETTE E DITTI 329 che riferisce questa come una tradizione parallela alla ferecidea, e lo Scoi. A II. S 319, che fa risalir la notizia a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiara- mente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pe- lasgico, quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob- biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non possiamo non propendere a riconoscere carattere argo- lieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che fin " Argo „, l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo fr. 137 RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr. 22, MùLLER FHG. I 74). La tradizione pertanto che dice di Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponne- siaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche que- st'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. V 236-41 ; i quali riproducono una tradizione già alterata da elementi estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo tras- porto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse 330 ANDROMEDA anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo ana- logo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, ap- pare anche nella connessione con i Liei C Luminosi ,) in cui egli è posto dtiìVIliade Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono potrebbero appartenere a uno strato tessalico della leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non dessero modo di trarne un racconto organico e coerente, che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi- tici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che, tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le in- serzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama com- piuta d'un mito: — serbate le due figure di Acrisio e di Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è an- teriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; — serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R. IV 1091) che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le at- tinenze fra Delfi e la Tessaglia; — serbati Ditti e Po- lidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae; — serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: — ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geo- grafica uniforme quanto per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tes- salico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e la figura di Danae : giacché se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e ACRISIO, PRETO, POLIDETTE E DITTI 33l caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R. I 1212 e Antonino Liberale 32. Va pertanto conchiuso che Danae può appartenere assai bene allo strato tes- salico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini della ricerca presente il vagliare il problema mitico di Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi in- torno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratifica- zioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è dif- ficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa antichità, — giacché anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abba- stanza vetuste, — fa risalire non poco nei tempi l'inter- vento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare partitamente l'uno e l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato pelopon- nesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico consiste non tanto nel cercar le cause singole dei sin- goli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Pelopon- neso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire passo passo, fin che è possibile, il processo di penetra- zione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex. Ili 2, 2018 sgg. ; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo 332 I. - ANDROMEDA non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta germinazione di miti secondari sul ceppo del principale dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e propria della leggenda le peculiarità locali non han po- tuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo a Serifo : per cui è a priori possibile cosi che il culto abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Ar- golide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun che (Febeo, fr. 13 -= Scoi. Apoll. R. IV 1091), come di quella la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argo- lide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita, e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto dicevole, — di cui per altro ignoriamo il nome. E non e improbabile che questo fosse tale da determinar per ana- logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne- siaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta avesse un motivo unicamente geografico — l'est — ; ma è ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo- tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333 dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto, bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per tutto il Peloponneso. Un momento successivo è occupato dalla saga di Ti- rinto (Apoll. II 48). Questa saga non si sarebbe dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, co- stringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra parte se era plausibile che, — come si disse da quelli, — dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si ver- gognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor- tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano en- trambi che i personaggi della saga tessala attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Mi- cene p. e. : Pads. II 16, 3), che sfuggono al racconto di Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recen- ziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Pelopon- neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data dai genealogisti. Combinando Apollodoro (Il 21. 47 sgg. con Ferec. fr. 13 e 26 -= Scoi. Ap. R. IV 1091) risulta il seguente schema che può valere come volgata su questo punto : 334 I. - ANDROMEDA DANA.0 Linceo ^ Ipermestra Lacedemone Abante 1 1 1 Euridice 1 ~ ACRISIO 1 Prkto Zeus ~ Danae Megapente PERSEO ' ^ Andromeda Posidone ^- Amimone Nauplio I Damaatore I . I I Pericastore 1 I Peristene -^ Androtoe I Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette I III Anfitrione -^ Alcmene Euristeo Ippotoe I ! ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert o. c. 2023 vi ve- deva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie di- vinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei ceppi. Ma se al Kuhnert si può concedere che tardo sia l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi occupano nello schema genealogico è ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto era possibile; ma due generazioni dovevano necessaria- mente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. ACRISIO, PEETO, POLIDETTE E DITTI 335 B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v 7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introdu- zione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide : — territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò è probabile, ne deriva che Abante potè essere impor- . tato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. — Per Ditti e Polidette non si trat- tava in vece che di porli nella medesima generazione di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi come quello di Nauplio, — eponimo di Nauplia, — di Damastore, — padre dell'argivo Tlepolemo in U. 21416, — di Peristene, — sposo d'una danaide Elettra in Apoll. II 19. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente pelopon- nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert o. c. 2033) rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone; Cirillo c. lui. X 342; Agost. de Civ. XVIII 13; 336 I. - ANDROMEDA Scoi. Totr. IL 5" 319. Questa dev'essere la leggenda più an- tica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert o. c. 2016-17) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo penetrato in Argolide]. Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto no- vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G? I 2, 63) della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe so- lare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo inne- gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o, più latamente, della vergine che contro un esplicito di- vieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga dif- fusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca in- tuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di Perseo contro il nonno. — Ugual carattere novellistico si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana postilla quella di Ferec. fr. 26 òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa- store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide Lahonische Kulte 126 e il Gruppe Gr. Myth. 254). Ma il con- ACRISIO, PRETO, POLIDETTB E DITTI 337 testo della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un an- tico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò e rimase nel mito di Perseo. — Altro è di Polidette : questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios " Jbb. Phil. , CXXIII (1881) 302 ha creduto di identitìcar con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipo- tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due re- strizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete, è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui significato trasparente fa intra vvedere un fondo natura- listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'im- portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del- l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes) libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie- gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un con- cetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, soprav- venuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità A. Ferrabino, Kalypso. 22 338 I. - ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione fere- cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre, e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui ten- tammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando, ce ne darà conferma. IV. Atena e la Gorgone Medusa. — Gli elementi che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quel- l'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci ri- porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex. I 2, 2347 sgg.); il mostro che combatte e vince è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade {Iliade E 740); il luogo onde si muove è Serifo, colonia di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo in Serifo (Paus. II 15, 1, per le monete cfr. Head H. N'^ 490), in Atene (Kchnert o. c. 2019-20), in Mileto (Strab. XVII 801 cfr. Erod. II 15, Edrip. Elena 769, Kuhnert 0. e. 2021): — in Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che ATENA E LA GORGONE MEDUSA 339 quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un effetto. Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso [Esiodo] Teog. 274 sgg.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per- tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte (1) che dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea a 22-24) (2). A Nord, ma con egual significato tenebroso, stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr. Tzetze Chil. VII 695) (3). Non è dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im- portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza noto e chiaro. E da origine rintracciabile con probabilità derivano anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo stesso tema non merita d'esser citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. „ VII) 17. (3) Cfr. Knaack " Hermes , XXV (1890) 457. — Su gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss. „ VIII (1905) 65 sgg., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.; Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. ' CXXXVII (1908) 520.. 340 I. - ANDROMEDA particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech. Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto al mito di Perseo, se Eurip. Jone 991 la ricorda e Apoll. II 46 è costretto a farne menzione. E, — ultima riprova di un fatto già a bastanza palese, — anche quando alla Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo (Ferec. fr. 26 e Apoll. II 41). — Se non che il capo di Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A 36. Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch? I 1, 162) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Me- dusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me- dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradi- zione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men- zionata per lei in //. E 845 ("■^'■^os KvvérJ. — Di natura diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet. 795; Apoll. II 37; TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre. Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la pa- ternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp in RoscHER Lex. 1 2, 1729 sgg.). Ma bisognava prima pro- vare (e la prova manca) che la parentela e la paternità sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine) CEFEO FINEO E CASSIEPEA 341 trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta- lismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. — Ufficio analogo (e analoga origine per con- seguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes do- veva essergli propizio, come quello che quando si scontrò con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure (Beloch Griech. Gesch}l I, 160) (1). Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novel- listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo. Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi perso- naggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari); e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella. V. Cefeo Fineo e Cassiepea. — Gli elementi onde è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai (1) In quanto al valore originario di Ermes lascio qui intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A. II pag. 97. — Ricordo anche Roscher Heìines der Wind- gott (Leipzig 1878) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica appunto col Roscher. 342 I. - ANDROMEDA dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in- ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri- torio forse di formazione e probabilmente di diffusione di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame delle figure singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, — bisogna a pena osservarlo, — parallela per significato all'impresa av- verso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender notizia intomo a un Nume che in quell'avventura com- piesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimolo- gica, da ravvisar in Andromeda , nel cui nome è non dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst. „ X 52 ; KuNHERT 0. e. 2047) in cui Andromeda appare non legata, vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " aju- tatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che esso aveva pia anticamente assunta. — Questa ipotesi però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio da quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno CBFBO FINEO E CASSIEl'KA 343 appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi- milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no- vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). — Se non che alla medesima forma vetusta e primordiale del- l'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto dianzi (v. sopra pag. 339) come le sedi loro nella con- cezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato in- dizio locale bastevole. È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll. II 144, di Paus. Vili 4, 8. 23, 3. 47, 5, di Apoll. R. Argoti. I 161 sgg., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto, in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee Lex. II 1, 1114): fissano in modo esplicito per l'età storica la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Ar- cadi (1). In particolare poi Paus. Vili 23, 3 asserisce che da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il problema, — che non in questo caso solo si presenta alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due nomi non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri- (1) Cfr. W. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens I (1891) 60. 65 sgg.; che mi sembra però superficiale. 344 I. - ANDROMEDA vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle attinenze non sono da negare. — E queste notizie sono non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. 586 sgg. ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor del- l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi, cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte- nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane fr. 72 Bgk.* {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda- où)v) ne aveva sentore : cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja, fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto, sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad. B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11 TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, — senza peraltro addur motivi, — che queste parole de- rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è difficile chiarire la genesi, — posto che equivoco di nome non siavi, — della notizia serbata in quello scolio. Le genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni- scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per (1) Queste genealogie sono studiate ampiamente, se non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „ XXXIII (1913) 53 sgg. CBFKO FINEO B CASSIEPEA 345 eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste no- tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri- terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo arcade è secondo Ellanico (fr. 59 = scoi. Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip. Fenice 150; contro l'opinione del Tumpel a. e. 1109) figlio di Posidone; e secondo Apoll. Ili 102 fratello di Licurgo (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll. I 67). Questi dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo ca- rattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più an- tica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome ri- velano del pari. — Mentre però il nesso fra Cefeo e gli Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an- tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con An- dromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice , di Perseo, solo quando, — e fu, come si vide, assai per tempo (v. sopra), — l'avventura dell'eroe contro il xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa lo- calizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gas- 346 I. - ANDROMEDA siepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „ (cfr. TùMPEL in Roschek Lex. II 1, 993) che compete in bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo fr. 23 Rz. ^), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B 533. Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geogra- fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con- seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser beota [o. e. 988 sgg.). — Ma se la " Millantatrice , è originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per con- tiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli- stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel mo- mento in cui la figura di questa viene appunto novelli- sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven- tava necessario giustificare in qualche modo la cattività della fanciulla; alla quale il vanto della " Millantatrice , potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel o. c. 989-90). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame CBFEO FINEO E CASSIEPEA 347 di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipo- tesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio d'un'antica e diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr VII 2417 sgg. ha messo a sufficenza in luce il sostrato naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole e di danno, contro i venti del Nord , che insorgono a respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. — Ma se le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con- traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintrac- ciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimo- nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex. Ili 2, 2354 sgg.). Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po- poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch Griech. Gesch} I 2, 71) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche l'ipotesi, — contraddicente quella cui si pervenne pur ora, — che il nesso fra Fineo e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso geografico. — Senza dubbio però le tracce che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso Apoll. Ili 97 ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar- cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo 348 I. - ANDROMEDA e determinate da questo. Né giova a sostegno del con- trario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ; perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dob- biamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, rite- nere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe parte simili parte dissimili, senza che la località del- l'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre. Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario rico- struire lo schema genealogico la cui esistenza sia presu- mibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli citi (1) del RoscHER Lex. II 1, 986 sgg. e 1107 sgg.) ha con- siderati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach^) 31 e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo questi due schemi : I (fr. 23) : Tronie ~ Ermes I Arabo I Cassiepea II (fr. 31) : Agenore I Cassiepea ~ Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab, I 41-2: — che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì (1) Che han per fondamento, insieme con l'altro art. del Lex. II 1, 293, il voluminoso saggio dello stesso TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. XVI (188?) 129 sgg. II concetto essenziale di questo saggio (che nella più antica forma del mito la sede dell'episodio di Andro- meda fosse Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu- tato dal KuHNERT 0- e. 1021-2. CEFEO FINEO E CASSIEPEA 349 TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te : perché, — dice, — non v'è corruttela di testo; v'è bensì mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore. Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év KaiaXóyqj conosce Arabo: Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr. 23]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an- cora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). — Di questo passo l'interpretazione non può essere, pare, che una : Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente, degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu- fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde integra il fr. cosi: Tronie ^ Ermes 1 Arabo I Cassiepea ~- Cefeo 1 Andromeda. Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi- li) Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. II 178 e Anton. Lib. 40. 350 I. - ANDROÌWEDA tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. — \Ì7tò yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo- yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol 'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié- Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, — continua, — per tal motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero: in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie- fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa- rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj- filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. — Come si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea della positura geografica degli Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi- tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~ ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ay- voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli (1) Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte. OEFEO FINEO E CASSIBPBA 351 Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31 Rz.^) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe, COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo altrimenti chiaro. — Concludendo, da Strabene, ben letto; può risultar soltanto: 1) che Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per- messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente schema esiodeo : I-f II (fr. 23 + 31): Tronie -^ Ermes I Agenore Arabo j I I Cassiepea -^ Fenice I Fineo. Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito ele- menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi principali raccolti nei due nessi " Cassiepea-Fineo „ e "Fenice-Fineo „. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da spiegarsi al modo medesimo del nesso " Arabo-Fenice , "Fenice-Egitto, ; come, ciò è, un avvicinamento di numi eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stra- nieri. — Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise agli dèi e dagli dèi punite : l'una come " millantatrice „; l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per- mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione 352 I. - ANDROMEDA addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo avrebbe preferito una lunga vita alla vista , offendendo Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via a Frisso (ibid.); Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il 305 sgg.). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul se- condo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è pertanto improbabile che in quell'età comparativamente non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli- stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve- dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di- versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio (1 ), Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si connettessero primamente per i motivi or ora supposti, sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri. Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in- dagini, veniamo a importanti ipotesi : a) Cassiepea (1) offre al mito di " Perseo (ll)-Cefeo (III)- Andromeda (Etiopi) , uno spunto, ed entra in quella trama (pag. 346sgg.); b) Fineo si unisce a Cassiepea (I) per lo spunto no- (1) L'ipotesi è del mio maestro G. De Sanctis; la re- sponsabilità dell'argomentazione è mia. CEFEO FINEO E CASSIEPEA 353 vellistico che trova in questa la causa della pena di quello ; o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere (pag. 352); e) Fineo si unisce a Perseo (II) come nume del bujo ad eroe solare ; o, in linea secondaria, a Cefeo (III) come rappresentante di genti straniere. Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sen- sibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo ; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è una matassa confusa di cui bi- sogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove ac- canto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a so- strato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso : Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello da Perseo (e). Un terzo gruppo infine è costituito da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso ; Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5 Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo è testimoniato in Ferecide (■= Apollodoro) ; il pili ipote- tico è il secondo : esso suppone in vero e una variante su la causa della pena di Fineo (v. sopra), e una va- riante su questa pena medesima : vale a dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo; A. Ferrabino, Kalypso. 23 354 I. - ANDBOMEDA discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però che non ci saprebbero render ragione né della singolarità per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi ele- menti tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza casuale si può concedere solo quando la preferenza lo- gica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi nostra, — pur non pretendendo di rispondere con esat- tezza alla verità né di essere perentoria, — spiega al- meno nel modo che pare pili semplice tutte le testimo- nianze che sono a noi conosciute. E, — ultimo vantaggio, non piccolo, — ci fa intendere come il secondo gruppo e il terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea si vanta (a-b), la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo la libera (b) col tradimento di Fineo che è ucciso da Perseo (e). Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secon- dari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica : 11. / 381 Od. d 85 i 295; e sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie. Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in RoscHEK Lex I 1, 102-4). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi CEFEO FINEO E CASSIEPEA 355 ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi insignificanti e punto caratte- ristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv. 9, 4) singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon- nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo (Pads. II 16, I 14,2; Apoll. II 1, 2; Igino Fav. 145; Ellan. app. scoi. A II. F 75) o un Agenore avo di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads. VII 18, 5) un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Ar- cadia (Apollod. Ili 92) un Agenore etolico figlio di Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav. 244), se rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del- l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico- geografica, sembra da preferirsi la congettura che in quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di rappresentante dei popoli che abitavano la Troade , grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.^ I 774). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo a noi pare, quel che affermammo nell'inizio (pag. 342). 356 I. - ANDROMEDA 11 personaggio fondamentale di questo episodio mitico, Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel- l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare. Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima, in seguito vittima del n^rog : personaggi novellistici della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale, credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana. VI. I miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed Ellanico (frr. 159. 160). — Che il nome di Perseo sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti anzi tutto Erodoto VII 61, 2 : — 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1) ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy- ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: — 'Aliala, (1) Sogg. : " i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO 357 Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av- ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor- dano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-' aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo, Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924. 929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà di pili un nome di " Cefeni , : con cui gli Artei (= Per- siani) sarebbero stati noti presso i Greci : — in cui però non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo eran, — come si vide, — da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Per- siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani. Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „. Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli Etiopi „ : e tale concetto ritroviam difatti presso Stef. Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre FHG. m 25, 4 e GGM. II 375); in realtà però furon concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca- lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca- lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con- tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferente- mente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex. II 1, 1104, ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accetta- bile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per- siani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per mito etimologico insediato; e che quel nome non ha 358 I. - ANDROMEDA quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso va- lore, Artei (1). Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz. XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi- nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit] TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà XaÀSaloi. — Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.^ Ili 2061-62). L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E, come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen in RoscHER Lex. Ili 2, 2370-1); e da Fineo rappresentati. Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce- gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Ce- feni vennero assunti a nomi pristini della regione e del popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babi- lonia, i Caldei. VII. I frammenti dell' " Andromeda „ di Euri- pide. — Su i framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck (1) Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento dello Stein come quello del Macan a Erodoto. I FRAMMENTI DEtL'" ANDROMEDA , DI ECUll'IDE 359 FTG} 392 sgg. furon tentate piti di una volta ricostru- zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm. (1829), Wklckek Die Griechische Tragedie II (1839) 644 sgg., Hartcng Eurip. restitutus II (1844) 344 sgg., Wagner fragni. Eurip. (1846) 646 sgg., Fr. Fedde De Perseo et Andromeda (diss. 1860) 11 sgg., P. Johne Die Andromeda des Euripidea in * Elfter Jahresbericht des K. K. Staats- Obergymnasiums zu Landskron in Bòhmen , (1882-1883), Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg., E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex. Ili 2, 1996 sgg., Wecklein in * Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl. „ 4 febbr. 1888 I 87 sgg., Edwin Mùller Die Andromeda des Euripides in '' Philologus , LXVI (N. F. XX) 1907 pag. 48 sgg. (1). Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra- gedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la struttura comples- siva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine, né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men libera- mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro- fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin- cidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei par- ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta (1) Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. J. H. Hcddilston Greek Trag. in the tight of vases painting (London 1898) 23. 35; con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud. zu den Trag. (Berlin 1900J 63 sgg. 360 I. - ANDROMEDA tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti ap- punto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi medesimi. Uscire da questi circoli viziosi, — che sono i fonda- mentali e in cui altri minori si assommano, — non si può, io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tra- gedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scer- nere. I framm. 150-152-153 debbono venir lasciati in disparte per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che tale asserzione può colorire assai bene , cosi l'angoscia di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia di Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151 si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar la figlia. I framm. 119-122 in vece lasciano trasparire una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del dramma: — debbono pertanto essi pure venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i fram- menti 145-148, che tanto svelano in parte l'azione quanto 8on vuoti di contrasto passionale. n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello 124-132. Perseo giunge volando traverso l'aria a una I FRAMMENTI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 361 terra di barbari (124); scorge sùbito, su la riva del mare, TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo) riva, Andromeda (125). I versi che seguono (126-132) non possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es- sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen- sare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del col- loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora, attirano lo sguardo due frammenti specialmente: 129, 132. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual com- penso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo An- dromeda si offre, — ed è questo da ritener il compenso, — ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di An- dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite- nersi libera nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea- aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discre- panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui il patto si stringe tra i due giovini ; la Ferecidea, per la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboc- camento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse 3G2 I. - ANDROMEDA esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apol- lodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quel- l'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ; poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomenta- zione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe. Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo in- sieme è costituito dai framm. 134. 135. 137. 138. 142. 143. 149. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo- nendosi l'una all'altra. La prima (134. 137. 138. 143. 149) è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale, di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del- l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico- lare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di gio- vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara- zione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po- vero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex' eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emen- dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as- I FBAMME^TI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 363 3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ; e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi- mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. — Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu- zione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passio- nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti troppo mal sicuri e fors'anche inutili. Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 : èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv' Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv. Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos- sibili: 1. * non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi) de' figli illegittimi „ ; 2. " non voglio che tu Andromeda prenda (= generi) de' figli illegittimi ,. Il Wecklein 92 sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dom- maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo avvicinare al fr. 141 il verso 11 del V delle Metam. di Ovidio : " Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum Juppiter eripiet „. Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più 364 I. - ANDROMEDA tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin- ghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo nelle condizioni sociali di Atene sul finir del V sec. — Ora il fr. 141 insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge san- cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^ 470 e n. 1 cfr. 215 n. 1) pone i figli di una straniera (Andro- meda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram- menta che tal legge periclea ne amplia una soloniana, ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese potuto trovarsi e come uomini e come principi in con- dizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,. Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto il suo vigore nel 412. Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa- ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye ^évrjg yvvaiKÓs (1651): HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig ; IIEI. ah fiévroi vrj Ala, &v ye iévrjg ywamóg I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 365 HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa, vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà , odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv, àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog. èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ. Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese sui figli di straniera. — D'altra parte non mancano ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché po- tesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og; là no. Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai framm. risaltano con certezza sono: 1. l'amore di An- dromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica libertà; 2. l'urto fra l'idealismo e la grettezza materia- listica ; 3. il rincalzo che la quistione giuridica e sociale dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro lo slancio spirituale. — I problemi minori : se Fineo sia parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con con- getture esti-emamente mal certe. Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Erato- stene] nei suoi Catasterismi : il contrasto fra l'affetto figliale e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 17 'Av- dQOfiéSa). Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati, non potrà cader dubbio sul momento cui compete il fr. 136, che solo, io credo, merita di venir assegnato al- l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia: 366 I. - ANDROMEDA ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog, ^ fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ■^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et. Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj, [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae. In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com- battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein 97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati sogliono addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e FiLosTRATo im. I 29. Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpreta- zione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passio- nale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato (1) Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb. (2) Sogg. " gli Abderiti ,. I FRAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 367 l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro- meda del Beri. Mus. Inv. 2337 (Bethe in " Jahrb. d. Arch. Inst. , XI 1896), ch'è della fine del V sec. e di poco posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nel- l'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la com- mozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappre- sentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scio- glier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore: ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tra- gedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guar- data da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega la Dea prima del duello. — Mentre dunque il testo di Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani. IV 672 sgg.) assai da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'a- lessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'in- vocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^ais- Non si spiega, se si fa precedere il fr. 136 al duello, perché in Ovidio il duello è rimasto ed è ampiamente svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella ■ Bvolt i 368 I. - ANDROMEDA attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della tragedia. La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che dagli stessi frammenti vengono imposti. Vili. Euripide nel 412. — Abbiamo tentato (sopra p. 60 sgg.) di ricostruire le tendenze più spiccate dello spirito euripideo nel 412 a. C. valendoci deìVEIettra (413) e àeWElena (412). Naturalmente talune delle affermazioni intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere, per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre (Paris 1893); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge 1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif- klàrung (Stuttgart 1901) ; Masqueray Euripide et ses idées (Paris 1905). Questi libri (1) però, notevoli per ampiezza di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati, di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono in Croiset " Journal des Savants , VII (1909) 197-205 e 246 ; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei- tung usw. ed Hera1cles~. Per le allusioni storiche di Eu- ripide v. E. Bruhn * Jahrbb. f. class. Phil. „ Supplb. XV (1887) 314 sgg. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI (1898) (1) Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i! recentissimo voi. di G. Murray Eur. and his age. BUBIPIDB NEL 412 369 508. Il recente libro di H. Steiger Euripides, seine Dich- tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten , Heft. V, Leipzig 1912) rappresenta senza dubbio un buon tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è, a mio credere, viziato per un lato da poca profondità, per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen; parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con cer- tezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo- gamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol at- tribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche pagine di E. Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Lite- ratuì'^ I (1910) 36-46; le sue intuizioni colpiscono, se- condo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche appro- fondimento, maggiore. A. Fkrkabiko, Kalypso. 24 CAPITOLO IL Il culto di Demetra in Erma. I. — Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per- sefone in Enua si combattono due teorie. L'una è soste- nuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.) I 172 sgg. che ritiene preesistente all'influsso greco il culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si- cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia (Catania 1911) 3 sgg. 187 sgg. : questi difatti, pur non negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera- mente probante, di esser invece costretto a riconoscere il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età sto- rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamen- tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola. 372 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA Per lui di fatti da Gela ed Agrigento il mito e il culto delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna nel VI sec, in Siracusa nel V. Se non che pare che in tal modo il problema sia posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser entrato in Enna per opera di Greci già nei principi! del V sec, pretende assai più che non sia necessario alla tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro traccia possibili vie di penetrazione in epoca compara- tivamente tarda, dimostra assai meno che non sia ne- cessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'e- same merita di esser ripreso. E poiché le nostre testi- monianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha già assunto foggia greca, non resta da prima che esa- minarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipo- tesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti ap- prossimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale. II. I caratteri del culto ennense nell'età storica. — Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i carat- teri con cui il culto e il mito ennense si presentano a noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si trova raccolto da L. Bloch in Roscher Lex. II 1, 1284 sgg. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a De- metra (v.446). Questo particolare, che il Bloch (col. 1319) dice * siciliano-alessandrino ,, non può riferirsi alle con- dizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora) men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan- drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso I CARATTEEI DEL CULTO ENNENSE NELl'eTÀ STORICA 373 Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la fa scender sotterra (Timeo in Diodobo V 3-4 = Geffcken Timaios' Geogr. des Westens " Philolog. Unters. , XIII pag. 104-106; cfr. Ovidio Metamorf. V 409 sgg.). è necessario intender tutto il valore di questo particolare essenziale. Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor- tasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffu- sione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. X 39 8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Pro- serpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori (Steab. vi 256): conservò tuttavia — quel che importa — il primato a Siracusa. — Per Enna avviene il contrario: è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve ri- spettare una tradizione autorevole che il ratto pone in Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere all'inferno. Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo (DioD. V 4 = Geffcken 105) su Atena ed Artemide che avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e con- seguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo orfico (v. sotto pag. 389). La testimonianza di Diodoro fa dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adat- tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un parti- colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef- fettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch} Il 1, 322). Checché 374 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'anto- logia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predo- minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di Artemide (sui quali v. Ciaceri o. c. 156. 165); ma si ac- concia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui, secondo p. e. Ciaceri 193, il culto siracusano doveva su- perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per ef- fetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse grande importanza , (Ciacebi 191). Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en- nense da parte di Siracusa (fin dal V sec, come sembra) appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. V 462 sgg. Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane; poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate ed Elios. L. Bloch o. c. 1317, 65 sgg. ritiene "priva di significato „ questa forma del mito ; L. Malten "Hermes, XLV (1910) 513 sgg. la spiega come un arbitrio del poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, — i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex. I 2 spec. 1888), — la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i Fasti ovidiani IV 575 sgg. (v. sotto), sostituiscono nell'uf- ficio d'informatori presso Demetra figure più concrete e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke- leos in scoi. Aristid. Panai. 1816 (Frommel), scoi. Aristof. Cavai. 698, Mit. Vat. 2, 96; Trittolemo in I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE NELL'eTÀ STORICA 375 Paus. I 14, 3, Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk Patr. gr. 36 pag. 1019, Tzetze ad Es. Opp. 33; — cittadini di Ermione, secondo Apoll. I 29, scoi. Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov. 17; — Kabarnos, della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch. s. v.) presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro; — Chry- santhis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus. I 14, 2 ; — cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. 15 app. Fozio Bibl. cod. 186. Di fronte a cosi numerose analogie è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'infor- matrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima che presso la non lontana Ciane fa avvenire la di- scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo (su cui V. anche Ciackei o. c. 246). Né fa ostacolo il fatto che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio del- l'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradi- zioni mitiche (1) e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in senso siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa con- siderazione va rilevato che un tentativo mitico in anti- tesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di Enna ma presso l'Etna: cfr. VEpitafio di Pione 33 (1) Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del rac- conto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi del CiACEEi 0. e. 166 sg. 376 li. - IL CULTO DI DÉMETKA IN ENNA e G. Knaack "Hermes, XL (1905) 338-3 il quale senna- tamente dimostra che non può né ivi né in altri testi simili (Igino fav. 146, scoi. Pind. Nem. I 20, Giovanni Lido de mens. IV 85, Oppiano Hai. Ili 486 sgg., Val. Flacco Argon. V 343 sgg., Ausonio Epist. IV 49 sgg.) trattarsi di uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna- riconoscere una incontestabile priorità initica. Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna, nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi ele- menti essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il centro dell'elaborazione di esso; — elaborazione che in Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi ra- dicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né taciuto né artificiato favorevolmente. A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H. N.^ 137). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di Imera, nel sec. V. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod. XI 26, 7) innalzò in Siracusa i templi di Demetra e di Cora, iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area. Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira- Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ; e in verità la litra, che è la testimonianza più antica, è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE KELL'eTÀ STORICA 377 numismatici, al periodo fra il 461 e il 430 a. C. e dal Hill Coins 91 al 480-413. Al sec. V pertanto può farsi di- cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mi- tica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; — e che ha per indispensabile antecedente una credenza a divi- nità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella sostanza. Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della greca Demetra penetrasse in Enna per opera di Agri- gento e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone. Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti, questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'auten- tenticità del culto ennense dì cui e menzione presso Cicerone in Veri: IV 106-110 cfr. V 187. Noi difatti di quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in- tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri- spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec. con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe di- menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla Pindaro Pit. XII 1 sgg. (anno 490 a. C. Schhodek^) e che quindi nella tradizione letteraria non poteva essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo lo stesso Cicerone {in Verr. IV 99 V 187 : cfr. Lattanz. div. inst. II 4) sa di un signum vetusto di Cerere esi- stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con- forta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri. Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto 378 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti, — come si afferma, — da Gela si fosse partito, a non molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense, è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo, assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geogra- fiche e politiche. E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede, dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si ap- prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da un frammento di Filisto (fr. 8 = FHG. I pag. 186) che è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna Grecia I 560 sgg.). Sembra in somma che nulla si sappia di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul tempo : certo è arrischiato il Ciaceri (o. c. 159) nel dire Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero il Freeman {H. of S. I 542) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en- nense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con i quali, concludendo, possiamo supporre nella metà del V sec. un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna né concedere che il supporli giovi a risolvere la que- stione. III. Il primitivo probabile nucleo siculo. — Dal- l'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si formò dovette tener conto di un precedente e forse molto più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 379 ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spie- gherebbe il forzato rispetto di Siracusa. Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini archeologiche e storiche (cfr. G. De Sanctis Storia dei Romani I 98 sgg. 312 .sgg.) ci danno un quadro delle condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi- stesse una saga simigliante alla greca di Kora e che questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa foggiò nel sec. V. Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma veri- simile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracu- sana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma ri- spetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna; conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo es- senziale del culto preesistente. D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi (Italici) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar fra questi il piti antico embrione della leggenda e di at- tribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (su i quali V. in questo volume libro I cap. IV e libro II capo III; cfr. inoltre G. De Sanctis o- c. I 281). Il più antico testo che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti- colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere, 380 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di mes- saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra le pili notevoli figure divine delle campagne feconde, al par di Gea. — Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); 2° Ar]/iii^Ti]Q ; B° IIeQaeq>óv£ia; 4° KÓQu. Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni ele- menti deìVInno induce una conseguenza : se nel VII sec. (età probabile della composizione di esso) il mito era già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre non è probabile che a favor di questo centro appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto senso è troppo intimamente connesso con i primordiali riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una, certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni con- trastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone 5 sgg. ; Welcker Griech. Gotterl. I 395 II 474 ; Preller Griech. Mith} 757 ; L. Bloch o. c 1311, 55 sgg. ; L. Malten " Archiv. ftìr Religionswiss. , XII (1909) 309): soltanto significa che mancò l'occasione o non fu colta per intro- durvelo. — Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Per- sefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo: ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P 76 e 125) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A 445 IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 381 n 625 cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss. „ Vili (1905) 203 sgg. ; Maass Orpheus 219 n. 23 e Wilamowitz Reden und Vortrage^ pag. 71). Dal quale s'è voluto dedurre che l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad asserire che la conseguenza troppo supera la premessa (Prkller Dem. u. Pers. 4 sgg.). Tuttavia non si può né si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è le- cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos- sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife- rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli; 2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina del- l'inferno. Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non la " Figlia , e il suo valore e significato è tutto conte- nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è confermato da quello che il mito narra di lei nella sua forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di par- tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA.^ I 1, 160 che vede in Kora una divinità lunare (1); la cui vicenda do- vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg. Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi (v. sotto) e che pertanto il carattere della seconda non può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il (1) La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St. ant. „ I (1895) 35 sgg. 382 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN EKNA Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and of the wild voi. I 42; se bene egli sia stato un po' schematico nella separazione delle due figure e lo tem- perino opportunamente le osservazioni della J. E. Harrison Prolegotnena to the study of greek Religione 271 sgg. In breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui ritorna. Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti del mito è quel di Esiodo Op. e Gior. 465, ove Zebs Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs} 298 lo ScHERER (in Roscher Lex. I 2, 1780) sostiene a ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo Zevg naxa%&óviog àoìVlliade (I 457. 569). Ed è certo evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri- cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma gli è parallelo e simigliante. — Non bisogna però con- fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse tracce di una At]fti]Ti]Q ■aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5 raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra- dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che Persefone regina dei morti è divenuta figlia della dea delle biade , allora questa assume un carattere nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a tras- formarlo in Plutone (v. i testi in Scherer o. c. 1786). Ili PKIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 383 L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano di pili ai primordii del mito conduce a costituire due gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nel- l'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta contro l'ipotesi di R. L. Farnell Theeults ofthe greek States III (Oxford 1907) 120 che suppone un'antica divinità Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De- metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui (pag. 121-2) che Demetra-Kora costituisse una divinità unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De- metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem- plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche Carter in Roscher Lex. Ili 2, 3143). A ogni modo, si tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché questa non deve mai aver superato i primissimi stadii, tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver fatto della " rapita „ la regina dei morti. A completar le caratteristiche di essa saga sicula, al- cune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figura- zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da un unico centro (L. Bloch o. c. 1337), trova la sua ra- gione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto II 171. — Sotto 384 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe la " Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch. 281 sgg. e Frazer The golden bough^ V part., voi. I pag. 42). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana- loghe alle " Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll. Fil. class.. Vili 1900-1 p. 136) (1) e a Libero e Libera dei Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella deificazione dei membri delle famiglie che par consueta fra gli Indoeuropei (De Sanctis St. d. R. I 278). Cosi si spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma come dea filiale riacquista una maggiore consistenza. E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera, unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom} 310); ma anche oltre a Libera si venera la Madre Matuta. — In tal caso si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un tempo il mistero della vegetazione nel grembo della terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu- rando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con quel che nel principio di questo § notavamo a proposito del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga sira- cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda. (1) Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. , Vili (1906) 53 sgg. IL PBIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 385 Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva- zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la mela- grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riap- parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse né meno probabile che anche nella leggenda sicula esi- stesse una parte a questa simile. Giacché la sua forma- zione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'as- senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di- verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom. I 260-1). Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa storia. Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con- statazione degli elementi che quel nucleo portò con in- sistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insuffi- cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco, ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as- serire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi, A. Ferrabino, Kalypso. 25 386 II. - IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA IV. Le versioni greche del ratto di Kora. — Ofifri- rebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi. Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contri- buendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio- logica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns 7 sgg. e al Jevons An introduction to the history of religion ^ cap. XXIV e Appendice (pp. 358, 377). Solo un punto richiama qui il nostro esame ed è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini cono- scevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Me- tanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo. La concezione che predomina nel V secolo è in vece, com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch in RoscHER Lex. II 1 col. 1317; Malten "Archiv ftìr Re- ligionswiss. , XII (1909) 441 ; Pringsheim Archdol. Bei- i LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 387 trdge zur Geschichte cles eleus. Kults 97 n. 3). Ora è anzi tutto da vedere come questa concezione nuova, — che contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup- pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade, e si può quindi chiamare neoattica, — si comporti con Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci dà Apollodoro I 31-32 che conserva Demofonte per la magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so- vrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti (IV 394-620) Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in me- schina capanna. Di qui due problemi : 1° È anteriore la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo- fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone con varii materiali un " testo unico , della leggenda; so- spetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In Ovidio in vece la combinazione appare di mitologia poe- tica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo soprav- viene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà soprav- viene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono- scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel V se- colo e nel santuario eleusinio una innovazione erudita è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nel- l'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Meta- 388 II. - IL CULTO DI DEMETBA. IN E»NA nira, che digradarono a poveri vecchi. — 2° Questa in- novazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si il Malten loc. cit. 441 sgg. e "Hermes, XLV (1910) 532 : perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli inter- preta (pag. 431) óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat (1) „. Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi- natore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo all'influenza orfica : che il particolare dei majali (v. 464), non è orfico esclusivamente, come pare al Malten (pag. 532 n. 2) e già al Forster {R. u. R. pag. 78 sgg.), ma si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati al V. 414. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ; altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo se- minatore fu portato a soppiantare Demofonte e impove- rire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di (1) Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th. pag. 57. LE VEBSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 389 origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai ri- vela neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = semi- natore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Ar- gonauti V. 1193 si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot "ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal Forster o. c. 42 Atena Artemide e Afrodite. Il confronto con EuKiPiDE Elena 1301 sgg. (cfr. il testo del Wilamowitz in Comm. gramm. IV 27 e " Sitzb. Beri. Akad., 1902, 871) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar- temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten " Archi V, cit. pag. 422; ma le presenta nell'aspetto eu- ripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il Forster dall'altro il Malten (1), mi sembra che l'ipotesi migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova in Igino fav. 147 (non che in Claudiano), sia l'ammet- tere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico so- stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di dee armate, sieno passate alla difesa della rapita. L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro- toattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro V 3 e Geffcken pag. 103 sgg.). Notammo già (sopra pag. 373) l'uso che ivi è fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre- mamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in (1) Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la Sicilia or. , I (1904) 76. 165. 390 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione (pag. 103, 23 6.) ; in Sicilia le due Dee facevano spesso soggiorno (pag. 104, 17 sgg.); avvenuto poi il ratto, Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi, agli Ateniesi (pag. 106, 10 sgg.); gli Ateniesi quindi eb- bero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i Siciliani (pag. 106, 23), i quali se l'erano avuto dalle Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol- KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleu- sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del se- minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo del- l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo con una figura indigena, — come quei di Sidone con un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus. II 11, 2); né di farlo entrare in genealogie locali, — come gli Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus. I 14, 2); né di identificarlo con un antico loro iddio, — come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach Castrogiovanni (Leipzig 1912) 23. Essi poterono venerare Trittolemo (Cicerone in Verr. IV 109. 110) come colui che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo il già loro secreto del seme. LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 391 La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti IV 394- 620 e in Metamorfosi V 341-661. Si è discusso se si tratti di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia di- stinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten 'Hermes, XLV (1910) 506 sgg. cfr. 511 n. 1. Tennero la seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d, Pers. 72 sgg. poi Ehwald-Korn Metani, vs. 385. Noi cre- diamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole assenso dal Wilamowitz (" Sitzungsber. d. Beri. Akad. „ 1912, 1 pag. 535 n. 1), sia in errore. Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti : 1° Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il lago Pergo durante l'antologia (vv. 385 sgg.) ; 2° Cerere ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su l'Etna (vv. 438 sgg.); 3° veduta presso la fonte Ciane la zona di Proserpina, se ne sdegna : ...terras tamen increpat omnes Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas, Trinacriam ante alias... (vv. 474 sgg.) e distrugge gli aratri e impedisce la vege- tazione del grano ; 4" Demetra, dopo le indicazioni di Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo, ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa recultae (vv. 487 sgg. 646 sgg.). Ora, noi vedemmo sopra (pag. 374) che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in 392 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA Euna. Ma la concezione espressa nei versi 474 e 646 (già citati) non si copre con la siciliana: è più larga. Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile (v. 476). E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Ti- meo ? Ognun vede che essa contiene : 1° del mito pro- toattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la vendetta divina ; 2° del neoattico, Trittolemo = semina- tore. Ne rappresenta quindi un tentativo di concilia- zione (1) in cui s'innesta la leggenda siracusana con qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta, della zona e la supplica di Aretusa che il Malten (pag. 514) calcola a un anno, è chiaro che non è pre- ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten, che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten (p. 516) diremo adesso che la metamorfosi di Lineo tra- scinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ; dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contami- nazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non è orfico (sopra pag. 388); e perché ha ragione il Malten (pag. 533-4) di riconnettere con la volgata poetica degli Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da (1) Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis. Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken pag. 107 = DiOD. V 5). LE VEKSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 393 amore per volere di Afrodite (1). E di modello alessan- drino essendo tutte le metamorfosi (2), la nostra conclu- sione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano fu- rono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo Ascalabo Aretusa e l'altre. Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto av- viene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di fatti Aretusa ve le aveva invitate (v. 423 sgg.) e Cerere vi era giunta da poco (modo venerai Hennam v. 455) allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet tirbes ecc. (v. 421), la frase, come vuole il verbo al pre- sente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten p. 507). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per sua prata (v. 426), si deve intendere " i prati di cui è dea„, che tutta la vegetazione è in lei compresa nel tardo concetto poetico (contro il Malten p. 508 n. 1). — 2° Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice pi'imus arabit — et seret et eulta praernia tollet humo (559-60), togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi di bacche duravano (cfr. il proemio vv. 401-2 Ceres, homine ad meliora alimenta vocato, — mutavit glandes uti- (1) Nel verso 533 Dixerat, at Cereri certum est educere natam il Malten fp. 573) vuol vedere un riferimento al- l'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che basti. (2) Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil. Hai. , XXIV 1 (1912). 394 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA Uore cibo). — 3° Seconda tappa della ricerca è costituita dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea, Helice ed il Sole (w. 575 sgg.)- — 4» Da ultimo accade il colloquio con Giove e il verdetto finale (vv. 585 sgg.). Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina (vv. 605 sgg.). Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe proventi (non rediit) cessatis in arvis (v. 617), ossia nei campi " incoltivati „ {cesso = non exerceo). L'interpreta- zione comune ("nei campi trascurati ,) non può reggersi confrontando i vv. 559-60 già citati (1). — Ora, dallo schema cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca) è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del- Vlnno omerico (cfr. Malten p. 520); l'ordine cronologico degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in- tento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore, può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà (1) può reggersi ammettendo un' incongruenza irra- zionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana nel poeta. LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 395 (sopra pag. 372); e col gusto medesimo concorda l'accet- tazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi tratti siciliani e con spunti di recente mitologia. Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta nelle Metamorfosi e definita sopra (pag. 393): là si ri- cercava di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai due componimenti unica fonte. Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permette- remo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di spettanza degli storici della letteratura (1), e del tutto secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito si- racusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni. (1) Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. , IX (1911) 87 sgg. CAPITOLO III. L'abigeato di Caco. I, Il problema. — Intorno al mito che narra il furto di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima fra esse, — della quale basti citare rappresentanti il Peter in Roscher Lexicon I 2, 2270 sgg. e il Binder Die Plebs 108 sgg. fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il De Sanctis Storia d. Rom. I 193, — il nucleo primordiale del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le sembianze di ' Eracle-Ercole ' ; il contenuto di esso è na- turalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poe- tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto- rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per l'altra teoria in vece, — che sostengono fra noi il Pais Storia critica di Roma I 199 sgg. e all'estero il v. Wi- LAMowiTZ Euripidea Herakles^ I 25, 1, il Wissowa in PAtTLy-WissowA Real-Encykl.^ III 1165 sgg. ^non che, ora, Rei. u. Kult. d. Romer- 282) e J. G. Winter The myth 398 lu - l'abigeato di caco of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies, Umanistic Series „ voi. IV Roman History and My- thology edit. by H. A. Sanders (New York 1910), — il mito è opera dell'influsso letterario greco, pur conceden- dosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vul- cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del fuoco (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. — Il problema era in questi termini quando fu ripreso recen- temente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel 1911) (1). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo- witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Ge- winnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode — Interpretation, Analyse, Vergleichung — mit moglich- ster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet werden , (p. 6). Difatti, dopo una indagine la quale " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er- schienen sein solite , (p. 68), giunge a sostener questa tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii della letteratura latina (p. 108). I più antichi annalisti lo concretarono nella forma che ci appare in Livio I 7, 3 sgg.; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già raziona- lizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo di reale istoria; solo la * Romantik „ dell'età augustea (1) Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella " Beri. Phil. Woch. „ (XXXI 1911, p. 998 sgg.) una sua ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo, Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto (p. 409. 418) interpre- tiamo con tutt'altro valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO 399 riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt, Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende Kleid der Poesie hullte „ (p. 111-112). Il nome Caco era diffuso in antiche tradizioni italiche (p. 113); egli era da prima concepito come semplice uomo, pastore o la- drone, e da Vergilio solo fu mutato in un mostro tra di- vino e bestiale (p. 75, 79, 81). 'Eracle-Ercole' era già nella primitiva forma della narrazione e il nome di Ga- rano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione eve- meristica della versione volgata del racconto (p. 95). A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi con speciali pretese di saldezza logica e precisione me- todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem- bianza sia falsa è per apparire. IL II valore del mito indiano. — Nella mitologia indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda I 6, 5 p, xxi) ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra, il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc. (cfr. Peter o. c. 2279, 25 sgg.). — E ne furono tratte da più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Her- cule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris 1863), da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. , XIII (1864) 386 sgg. — n MuNZER in vece ha creduto di poter tra- scurare al tutto questa significativa coincidenza tra il racconto indiano e il latino, appellandosi ai * nvich- 400 III. - l'abigeato di caco ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo al WiNTER 0. e.) l'errore fondamentale di tutta la sua ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta coincidenza può e deve avere non solo come argomento, ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche. Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possi- bile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano, ne consegue da prima che il valore allegorico di questo, il quale non è dubbio (Bréal o. c. 93 sgg.), dev'essere a un di presso identico al significato di quello romano : la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. — Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al- terth. , VI (1848) 117 sgg. 128 spec), par metodico con- chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico dalle radici arie, — e non è in vece l'imitazione delle fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci. Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare, prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman; Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.), — su cui si veggano Bréal o. c. 124 sgg. e 139, Spiegel 0. e. 387 sgg., — i miti greci di Apollo in lotta col Pi- tone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo, pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Ge- rione Apollod. II 108, per Ermes l'omerico Inno a Ermes VEBGILIO E OVIDIO; PROPERZIO 401 68-404, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad Apollo. Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'epi- sodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a de- cidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evo- lutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag- giormente esser antico un particolare e vetusta una fi- gura quanto meglio collimi con le forme e le linee del racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si precluse la via a giudicar con metodica * Nùchternheit „ i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi latini. III. Vergilio e Ovidio; Properzio (1). — Il risultato della ricerca che il Munzer conduce nel suo I cap. (se si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe- tiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto del furto e la vendetta di Ercole corre nel material nu- mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio, 1:2 presso Ovidio, 2:1 presso Properzio. "Die Folge- rung scheint unabweisbar , che appunto nella vendetta di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tra- dizione precedente per concedere alla propria fantasia volo pili libero e più ampia indipendenza (p. 25). Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di contar i versi d'un carme per determinarne gli strati mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo, ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale (1) Cfr. Eneide Vili 185; Fasti I 543 sgg.; Elegie IV 9. A. Feebabino, Kalypso. 26 402 111. - l'abigeato di caco da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer) è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi si esercitasse piti liberamente e più profondamente in- novasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti. E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer a preferir senz'altro la prima e a proclamarla " unab- vreisbar ,. — Ecco in vece che il mito del Rigveda in- terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso che tutti i particolari noti da Vergilio ed Ovidio e co- stituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac- conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te- nebroso costituisse non pur una rilevante porzione della leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo della vetustissima saga italica. Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pe- dissequamente imitato da Ovidio : cfr. En. Vili 190-197, Fasti I 555-58. Ma perchè V. usa per la spelonca la frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce " vix ipsis invenienda feris „ a esprimere un concetto affine, il Munzer insiste a lungo (p. 30-36) su la difi'e- renza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due parole " semihomo , e " semifer „ che V. usa a designar Caco accanto a l'altra di " monstrum „. Perché il sem- TERGILIO E OVIDIO ; PKOPEBZIO 403 biante degli Dei è identico a quello degli ucraini, per questo " semihomo , equivale ad " halb Gott , (p. 46). Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di " vir , da 0. tribuito a Caco (vv. 553 e 576) non si conviene alla concezione vergiliana del " semihomo „, sebbene 0. imiti pel resto l'Eneide e ripeta (y. 554) la parola " monstrum „ e la paternità del ladrone. Per vero il " vir , ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Ver- gilio, SI a quello del Mùnzer (p. 52). — Ugual giudizio deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava, presso V. ed 0. (p. 67). Nel mito indiano Indra usa il fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del rac- conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im- possibile dire. Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una de- duzione che gli è fondamentale. A quel modo che nel- l'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre, cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili© lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo è accanto a una serie di altri " monstra , vergiliani riportati ad analogia (pp. 43-48), l'unico argomento per asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung der dichterischen Phantasie „ (p. 50). Per qual motivo Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens „ (ibid.). 404 III. - l'abigeato di caco — Una confutazione ormai non è più necessaria. — Più ragionevole è la tesi del Winteb o. c. p. 251 sgg.: che Vergilio risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog. 820; Inno ad Apollo 340-70). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, — si può aggiungere, — per altri consimili mostri), a fine di colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non già di ricrearlo. Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru- dentissimo diviene il • Mùnzer (p. 65-70) ; e non a torto, in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel dell'Eneide (M. 21. 32) che il PtOTHSTEm (nota a IV 9, 9) dichiara come riferimenti culti a Vergilio, potrebbero in vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica della saga: riferimenti p. e. ad Ennio. — E parimenti antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Ge- rione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di Ercole. — Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori- ginario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr. sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione di Evandro. LIVIO E DIONISIO 405 IV. Livio e Dionisio. — Cfr. Liv. I 7, 4-9; Dion. I 39-40. 11 Caco di Livio è " pastor ... ferox viribus , (5) e prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum nequiquam , invoca. E in somma un uomo: — ben di- verso dal " monstrum , di Vergilio. Di qui due possibi- lità si presentano al critico : o la concezione liviana è prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la statura del personaggio; o la concezione vergiliana è l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Il Mùnzer che s'è, — come si vide, — chiusa la via a sceglier con metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili ragioni (p. 75). E nello stesso errore cade, per motivi analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai dall'origine naturalistica. — E poiché a ragione il Miinzer afferma (p. 72) Livio indipendente da Vergilio e atti- nente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra co- lorita. A punto perché anche il racconto della fonte di Livio è coperto di una patina da fiaba, Dionisio (39) scrive : UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il rac- conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eser- citi interi. Col che si confuta il Mùnzer (p. 76) quando, 406 III. - l'abigeato di caco prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af- ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „; e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo alla seconda versione, * più vera „ della prima e men favolosa. Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta fra Ercole e Caco, — quella su cui si dilunga Vergilio e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto era il perno del mito e il fondo della sua allegoria; quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M. p. 77). — Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dio- nisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios (39, 2). Tal diffe- renza acquista valore se la si contrappone alla concordia con cui due poeti indipendenti, Vergilio e Properzio, raf- figurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif- . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del- l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro MùNZER 78-79). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde di non aver visto i buoi (39, 3). Ciò, — fu notato, — corrisponde a Vergilio (263 " abiuratae rapinae „). In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non che cosi della presenza come dell'omissione è diffi- cile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ri- tornano nell'omer. Inno a Ermes (75-78, 211, 220 sgg.; 235-386). Nel quale, ove si narrano le astute imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba I PABTICOLABI ETIOLOGICI DEL CULTO 407 di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer 77). — E anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi- cini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinseca- mente connessa con la forma prima del mito. — Né si erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei suoi travestimenti razionali. Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma pri- mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito: la etiologica, che attende ora il nostro esame. V. I particolari etiologici del culto.— Quella parte del racconto, in Vergilio Ovidio Properzio Livio Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er- cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bi- sogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal pro- posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: " dassin der Tat Cacus 408 III. - l'abigeato di caco und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben, rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind... ,. E anche : " Der Einfluss der Verbindung mit Euander àus- serte sich am frubesten und am bedeutssamsten da- durch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher bestimmt wurde „ (p. 89). A questa concezione si contrap- pongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154) : " hanno contribuito a suggerirne [del mito] i particolari l'Ara Massima di Ercole vincitore nel Foro Boario e le vicine scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino I 18; Diod. IV 21). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco eti- mologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del- l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros) ,. La tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile. Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole ; e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at- tiene il nome di Caco (" scalae Caci „) e uno ove si rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi due servissero a localizzar il mito e il primo in- nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone, prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole, (1) Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^, e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu, — com'è noto, — interpretato " buon uomo „. I PARTICOLARI ETIOLOGICI DEL CULTO 409 per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Ga- rano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simi- glianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) 6, 6 sgg. a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato : " hic per- peram idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor gentis Caciae ,. E il Mùnzer accetta, pur ammettendo (p. 116) che il nome alle scale possa derivar anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war ,. — Ora il testo di Diod. IV 21, 2 (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet Korà xìiv 'PiLfiTjv. TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco- ftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono : 1) l'esistenza di scalae Caciae; 2) l'antichità dei Pinarii; 3) le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii ed Ercole. Da questi dati sono desunti : 1) (per falsa eti- mologia) il nome KaKtog; 2) il nome Ilivd^tog; 3) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan- HuLSEN Topogr. I 8, 41) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad 410 III. - l'abigeato di caco ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa " R. E. ^ , VITI 1, 563), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi ap- punto (cfr. Pais Storia critica di Roma I, 1 200 n.: contro WiNTER 222 sgg. e 260 sgg.). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (Verg. En. Vili, 231, Ovidio Fasti I 551), se ne deve concludere: che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel- l'altro verso l'Aventino (caverna). La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono, tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole. (Cfr. Peter o. c. 2281 sgg.). — Che se il mito di Caco è, come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di questo costituisca un secondo strato leg- gendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sa- crifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc. In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclu- sione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio IV 9, 21 sgg. ; dallo scritto I PAKTICOLAEI ETIOLOGICI DEL CULTO 411 OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti, in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi- fica come un unico fatto venisse travestito in almeno due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi in- ventori che è ricordata in Dion. I 39, 4, Solino I 7, Origo geni. rom. 6. Ovid. l. e. .579-81, e taciuta dagli altri. Il qual silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al- tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen- ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è improbabile che il motivo ne vada cercato nella topo- grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). — Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda in- venzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe erige l'ara a Giove (o. e. 2286, 32 sgg). Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in- torno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, — che è essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio 1. e, Dion. l. e, Ovid. l. e, Solino I 10, Serv. En. VIII 268-9 (= Myth. Vat. I 69 [II 153] III 13, 7) e nello scritto Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si sa bene perché (v. sopra § III), — è però narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale, fra gli spettatori del primo sacrifizio : e secondo Servio egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu- zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico 412 III. - l'abigeato di caco (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide son sue variazioni di sapore greco. E pari- menti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però con una base topografica non pseudo-etimologica. En- trambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di Evandro. — Se non che tutto cotesto processo semieru- dito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età Augustea, — in quelle medesime ove non è più incerta la localizzazione della saga nel Foro boario ed è soli- damente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo di gran lunga più tardo. — Rappresenta dunque il terzo strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la ve- nuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom. 7). Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (Der- CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee IV 387); o di Fauno il figlio, Latino (Conone Narr. 3 appr. Fozio Bibl. cod. 186; cfr. anche Schweglee Rom. Gesch. I 374). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è, a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aven- tino) ; Ercole, con l'Ara Massima ; Evandro, con taluni episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie, come sul mito vero e proprio, si esercitò il razionalismo degli eruditi. VI. Gli eruditi. — Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI 413 cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal suo cap. VI " die antike Forschung ,. Egli si trova di fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Vili 203 (" Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam Romani consentiunt : solus Verrius Flaccus dicit Garanum fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit, omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules dictos ,) e nello scritto (1) Or. gen. rom. 6, 1 (e 2. 3. 5. 7; 8, l=sei volte) (" Recaranus quidam, Graecae ori- ginis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appel- latus ,) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe- rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è incerto (con Mukzee 104 contro Peter o. c. 2272, 60 sgg., Pais 0. e. 200 n., Winter 205, Bohm in Pault-Wissowa " R. E.^ „ VII 752). Ma non è incerta, a noi pare, la in- terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Her- cules dictos ,. Riteniamo per conseguenza legittimo at- tribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui (1) Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae „ in " Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu Leipzig , Phil.-hist. Kl. LXIV (1912) 71 sgg. 414 III. - l'abigeato di caco preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in vece il Mùnzer (p. 95) deve asserire, giusta la sua tesi, che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario un semplice pastore non un eroe fa- moso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio, sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Ga- rano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato. Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto, l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n. e il WiNTER 205 accettano), Garano e Recarano esser " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide, fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata, giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta- colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo mito latino. Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su Caca (p. 98-102). Servio En. Vili 190 (= Myth. Vai. [II 153] III 13, 1) parla d'una sorella di Caco, — Caca, — la quale lo avrebbe denunziato : ed ivi pure è data notizia di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei — per virgines sacrificabatur {cod. Reginensis); — per vir- GLI ERUDITI 415 gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); — pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima lettura è la preferita; la prima sceglie il M. (p. 101). Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve ridursi ad ammettere (pag. 102) l'esistenza del sacellum a una dea Caca (1). Col che ha già ammesso troppo contro la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrificava " sicut Vestae , e l'altro emetteva fiamme dalla bocca, la dedu- zione non può esser che una. — Verissimo tuttavia che lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il travestimento di queir " una boum , che appresso Ver- gilio rivela il furto né meno il M. osa sostenere (p. 100). — E se il " sacellum Cacae „ sia per il M. (p. 102) oscuro al pari dell' " atrium Caci , e se entrambi oscuri non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvi- cinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. Vili 190 si esprime : * Cacus secundum fabulam Vulcani filius fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia populabatur. veritas tamen secundum philologos et hi- storicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum servum ac furem; — ignem autem dictus est vomere, (1) Cfr. su Caca, G. Giannelli II sacerdozio delle vestali romane (Firenze 1913) pag. 23. 33. 416 III. - l'abigeato di caco quod agros igne populabatur; — novimus autem malum a Graecis kuhóv dici : quem ita ilio tempore Arcades ap- pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut 'EÀévi] Helena „. (Cfr. Myth. Vat. I 66 [li 153] III 13, 1). Poi a En. Vili 269 si danno le notizie sull'Ara Massima i Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che qui non c'interessa più (v. sopra § V). Il razionalismo si è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il nome. Molto più si permette il racconto che si trova in Origo gen. rom. (6, 1): " Recaranus quidam, Graecae originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus „; — (6, 2) " Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et praeter caetera furacissimus „ : — tali i due avversarii. Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca è per partirsi quando (6, 4) " Enander, excellentissimae iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora Recarano dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi. Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. — Cotesto racconto è di gran lunga più finito e parti- colareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione ra- zionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore con- cilia col più noto di Ercole, Ercole mutando in soprannome. Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.), GLI ERUDITI 417 e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, — senza dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale po- tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la pro- fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con- fusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a spiegarla. Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza pro- fonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimi- glianza in altri. Di questa si comprende il valore com- parando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha pre- sente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne vale solo saltuariamente rispettando molto pili il rac- conto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore àeWOrigo, è detto quivi al cap. 7, 1 : " haec Cassius libro primo „. Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Il Mùnzer (p. 107) a tal proposito suppone che a Cassio venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, — in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve- risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco. Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al rac- conto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e A. Ferrabino, Kalypso. 27 418 III. - l'abigeato di caco Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e ar- monica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M. p. 111). Di natura opposta alle due testimonianze erudite che furon or ora discusse sono i racconti di Dion. I 41-2 e di Cn. Gellio appr. Solino 18 = Peter fr. 7*. Difatti là dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eser- citi. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d. Bom. I 173); per contro Gellio è oscurissimo, " hic [= Cacus], ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Me- gale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et Campaniam regno... oppressus est. Megalen Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti „. — Il carattere che sùbito appare più evidente in tal rac- conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito, le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda originaria accosti per tal modo tanti popoli. — Ora fin che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, pos- siamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a ima- gine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste- rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. «LI ERUDITI 419 E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da un mito cumano o campano (il passo di Festo p. 266 b 26 sgg. s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi , trattarsi d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimo- logica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone) che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ri- tratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi [KòETE Etruskische Spiegel V tav. 127, Rilievi delle tirne etnische II 2.54 sgg. ; Petersen * Jahr. D. Instituts „ XIV (1899) 43 sgg.; De Sanctis " Elio , lì (1902) 104; MuNZER 0. e. 113 e " Rhein. Mus. , LUI (1898) 598 sgg.] e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilis- simo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre- senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla contaminazione d'una terza leggenda con la latina e l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rap- presentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire la fiaba che sarà poi seguita da Vergilio. Questo, il rac- conto che narrerà Livio. Per ciò Dionisio dopo aver esposto il mito assai similmente a Livio, dà il suo àAri- ^éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg = liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna- 420 m. - l'abigeato di caco lista pili tardo come ermeneutica del racconto " favo- loso „ dell'annalista più antico. Allo stesso modo che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo vergiliano, desunto da Ennio. VII. Conchiusione. — Tra le due teorie che (cóme vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è da preferire quella che crede ad un antico mito latino» in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coe- rentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, con- tradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro) si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succes- cessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio- nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma- nifestazioni. CAPITOLO IV. Cirene mitica (1). I. Bibliografìa e metodo. — Il complesso dei miti raccolti attorno alla figura di Cirene fu studiato già da J. P. Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae 1828) che rac- colse i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe va- gliarli. Ha trovato poi trattazione minuta ed accurata per opera di Fbanz Studniczka Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig 1890), che la stessa materia rielaborò in RoscHER Lexicon III, 1717 sgg. ; e di Lddolp Malten Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen in " Philologische Untersuchungen , del Kiessling e Wi- lamowitz XX (1911) ove è tenuto conto anche delle ipo- tesi brevemente enunciate da A. Geecke in " Hermes . (1) Nella sostanza identico e sol nella forma diverso si vegga questo capitolo negli " Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino , XLVII 17 marzo 1912. Qui ap- pare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora consente. 422 IV. - CIRENE MITICA XLI (1906) 447-459. Dopo i quali non si vuol citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in " Ausonia , VII (1911) 27-38 (1). Indipendentemente il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede- cessori. A prescindere di fatti dalle particolari discre- panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler cercare un significato recondito nei miti , (Costanzi 32) 0, com'io mi espressi (* Atti „ p. 505 n. 1), nel non volervi cercare * la chiave delle più antiche vicende greche „ in Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene 45 sgg.) negava di poter spiegare la leggenda di Cirene senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalo- beota in Tera; e il Malten (cfr. spec. p. 209-10) pure stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelo- pico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di pro- vare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico punto di veduta, passo ai particolari. II. La ninfa Cirene. — Dopo che il Malten (spec. 62 sgg.) ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe (2). (1) Cfr. inoltre sotto a p. 448. (2) Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let- LA NINFA CIRENE 423 ■* Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist... " Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie " dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist, friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden, " war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es " kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffs- katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn " des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der ky- renaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Dio- medes, kehren auf ganz engem Raum an der thraki- schen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine " ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten 63-65. 65 n. 1; Studniczka 134 sgg.). " Aber nicht genug damit. " Auch in Kroton ist ein^ Kyrene (als Mutter des Laki- " n[i]os) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios (1) " mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist " fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt, tera, esprimeva il dubbio che le sue argomentazioni non potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli- gente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria (1) Jambl. vii. Pijth. 36 S. 265 (N. d. Gr.). 424 IV, - CIRENE MITICA " aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem " glaube ich entnehmen zu durfen: 1) dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, Ur- " spruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder " der Quellnamen selbst — aus dem dann, aber wohl " schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder * Heroine geschopft sein mùsete — von Griechen tìber- * tragen wurde ; 2) dass die vier Namen Euphemos, Ari- " staios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordent- " lich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus " Grùnden, die ich nicht in der Kurze ent- " wickeln kann(l), bin ich ùberzeugt, dass die Verknùp- " fung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das im " VlII.Jahrh. einbedeutendesKolonialreichbesessenhaben " muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene " und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von " wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen " wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen, " will ich nicht behaupten obwohl ich es "glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer " Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von " Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. , Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Tre- zene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia; bisogna provare: 1° l'esistenza di questo quadrinomio a Trezene; 2" il ritorno costante di esso nei luoghi ras- segnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da pos- sibili equivoci; 3° l'insistente ripetersi, nelle forme e nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo alterarsi non sia ben motivato. (1) Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascri- zione. LA NINFA CIRENE 425 1° Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insi- stere " in der Kiirze „ : sorvoleremo noi pure. 2" A Crotone si sarebbero potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è riscontrata in Cirenaica; Ariste© e Cirene. Tuttavia farò sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si * basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla intorno al culto locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di La- cinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes 66; cfr. Serv. a Verg. Eneid. Ili 552j. Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia dei Romani I 192-3), non è improbabile che a Crotone si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'epo- nimo del Lacinium promontorium li presso. — Ma se mal sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in Crotone, altr' e tanto incerte son quelle che il Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten 65 corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in IIvQr^vrj. Per il Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nel- l'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tra- dizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede; credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la sup- posizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso " Cirene-Diomede ,, una corruzione * Pirene-Diomede ,, un 426 IV. - CIRENE MITICA ampliamento * Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone „; né è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apol- lodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricor- rendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti- ficata la supposizione del Malten : in territorio predomi- nato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Ma- ronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba rite- nere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indi- pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni (B 486-7), e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio del Fai^oxog. — Or come né in Crotone né in Tracia Ci- rene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon- datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a si- miglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a simiglianza degli Argonauti (v. sotto § VII); ma sol tanto perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leg- genda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare. — In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in Crotone, dubbii in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza iden- tico all'avo dei Battiadi ; in Libia Diomede non esiste. 3" Per di più, oltre ad essere incerta la presenza di tutt'e quattro i numi in Crotone in Tracia in Libia, non si capisce, — se, come vuole il Grappe, tra quelli lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi altrove, — perché a Crotone il perno del mito sia il APOLLO CARNEO 427 nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la discendenza di Dio- mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito dalla commessione * Cirene-Aristeo „. E né pure si ca- pisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della leggenda si distrugge e si trasforma: — senza causa evidente. Non posso dunque finora accettare la teoria del Gruppe ; e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamen- tale del mito. III. Apollo Carneo. — Non cade dubbio che Apollo e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di Wide e Hofeb in Roscheb Lex. II 1, 961 sgg.). Ma per il mito di Cirene è di somma importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto in Cirenaica (cfr. Malten 61 sgg.). Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propa- gasse dal centro originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi ritengo preferibile all'altra. 428 IV. - CIRENE MITICA Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene, giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen Thera III 69) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di * Apollo-Carneo „, non è imprudente o arbitrario il supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. an- teriore. Né a tale ipotesi è contrario il Malten 60; il il quale scrive : * Gewiss ist die Verbindung ' Apollon- Kameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet „. Se non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è lo- gicamente possibile. Poiché — difatti — tutta Vlliade (prescindendo dai pili meno antichi strati) dimostra il carattere premi- nentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.^ 1 1, 319 (cfr. II. 1 405) ; se si ammette che già in Tera Apollo preponde- rasse su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Ci- renaica avevano ormai alla loro principale divinità ricono- sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la opinione che un tal carattere a quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene. La quale appar quindi non la causa del fondersi in- sieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un ef- fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato, crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga: Aristeo. IV. Aristeo. — Non è qui opportuno studiarne la dif- AP.ISTKU 429 fusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto dal Malten 77 sgg. e negli * Atti dell'Accad. di Torino „ citt., a p. 510 n. 1). Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi. Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton. 72, 2, scoi. Pit. IV 4 (ràv 'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possi- bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia) e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di quella connessione e la determina. Tra le due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole dell'Egeo, — quali Ceo (1) Chic l'Eubea, — e l'Arcadia: onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco cono- sciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che tra il principio del VI sec. e il principio del V, cui risale la Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per VEea di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si com- mettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Ci- rene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno (1) Cfr. K. C. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos Diss. Giessen 1912, pag. 7 sgg. 430 IV. - CIBENE MITICA stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con Zeus in Arcadia: cfr. Malten 77 sgg. (1). L'analogia è sufficiente motivo. Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di minore rilievo a confronto con quelli che riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire nelle sue linee principali il componimento da cui quelle tre figure vennero collegate in racconto: — l'Eea. V. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. — Con- vengo col Malten 1 sgg. che le fonti cui dobbiamo at- tingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro Pit. IX, Esiodo t'r. 128 Rzach^, Ferecide in scoi. Pit. IX 27, Seiivio a Veeg. Georg. I 14 = Esiodo fr. 129 Rz.', Apoll. Rodio II 500 sgg. : — cui vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno di grande valore, Timeo appr. Diod. IV 81. 82, Nonno Pan. Dionis. V 215 sgg. 292 XIII 300 XIX 225 XXIV 83 sgg. XXV 180 sgg. XXVII 263 XXIX 179 sgg. XXXVII 198 sgg. XLV 21 XLVI 238 (Malten 35 sgg.). Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti (1) Il Malten a p. 82 lascia in dubbio * ob der Gott... schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der Kjrene v/urde „; ma a pag. 212, per amor della sua tesi, asserisce quasi il contrario : " Hier [in Thessalien] erregte sie [Kyrene] das Gefallen des Gottes... Ihr Sohn ward Aristaios... ,. LA RICOSTRUZIONE DKLl'eEA DI CIRENE 431 elementare : ritenni originario tutto che ritornasse co- stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflet- tenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più com- plesso. Fu dimostrato poc'anzi (§ III) che non può venir attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto, Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tes- saglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del tra- sferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasfor- mare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cire- naico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è pro- babile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il rac- conto sul figlio di lui Atteone (1). D'altra parte la figura di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante perché traverso essa e per sua causa non dovessero pene- trare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti : i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue più tarde propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi ri- sultati; — 1. Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo: cfr. Malten 8. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit. (1) Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del nostro lavoro qui si omette, Malten 16 sgg. — Si vegga inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di • Studi critici offerti a C. Pascal , (Catania 1913). 432 IV. - CIRENE MITICA IX 27) fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone. Se non che questa variante è sospetta, come quella che tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chi- rone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il cen- tauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con Aristeo prima che questo con Cirene. — 2. Apollo scorge la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone è ricordata da Pino. Pit. IX 26, da Nonno loc. cit.; non da Apoll. R. II 500 sgg.: questi l'introduce nell'officio di pastorella. Il Malten 62 resta per ciò in- certo su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra (v. p. 222), mostra come esso si allontani assai dall'ori- ginaria forma del mito a causa dell'influsso del raziona- lismo: al quale adunque si deve anche attribuire la sop- pressione della belva e della lotta che troppo male consentivano al paese tessalo. — 3. Chirone profèta le nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka 41. Col quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribel- larsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Cen- tauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol- lonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii es- sendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in- serto quello. — 4. Apollo trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro (Malten 8-9). — 5. Cirene è accolta da Libia. Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten 11. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da pre- ferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai. LA KICOSTBUZIOXE PELL'eeA DI CIRFNE 433 vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite (v. 9). La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu in- trodotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo- óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit. V 24) e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr. Malten 207); giacché non trascurabile culto a essa dea si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone XVII 836). — 6. Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R. II 509. Pindaro Pit. IX 59 attribuisce quel- l'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr. l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. 153 Rz.^ = Anton. LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione 10 sgg. Ermes per ordine di Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. — 7. Aristeo è allevato dalle Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon. II 507 sgg.: però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di Bglaai (Aristot. fr. 511 Rose); l'altra pindarica che in- troduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le Muse ; varianti delle quali la prima troppo strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'altera- zione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricor- dare B. A 603); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra- scorso impreciso dell'autore che una vera e propria va- A. Fersabi>-o, Kalypso. 28 484 IV. - CIBENE MITICA riante. — 8. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten 10 sgg.)- Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello. Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Ari- steo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. a p. 440) : cfr. Malten 25. 61 che qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide) è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini tessaliche del culto di Asklepios in " Rassegna di Antichità classica „ I (1897) 237 sgg. contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in " Sàrtr. u. Sprakv. Sàllsk. forhandl. 1894-97 i Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sa- natrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} I 1, 156 e Wilamowitz Isylìoi 93. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio; poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i risultati di queste ricerche (§ II- V), abbiamo: che Cirene è nome libio-greco della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia ; che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Co- ronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro di elaborazione mitopoetica. VI. Euripilo ed Eufemo. — Le due principali figure del racconto di Pindaro Pit. IV han dato occasione alle EURIPILO ED EUFEMO 435 più diverse ipotesi: cfr. Studniczka 111 sgg, e Malten 95 sgg. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre- parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della ninfa Cirene. 1. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Eve- mone B 736; in Cos, figlio di Posidone, B 677; in Misia, figlio di Telefo e condottiero dei Cetei À 519; in Acaja, Pads. vii 19. — Ora è probabile che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. Wilamo- wiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti gli altri sono indipendenti. — L'Acaico viene bensì da Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri- jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden- temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu- ripilo di Tessaglia. — Il re dei Cetei è dal Malten 118 ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon- dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo. Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipen- dente di un Euripilo in Misia. — Alla schiera adunque (1) Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens I 257. 259. 436 IV. - CIKENB MITICA di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia) viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omo- nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manife- stazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia fa- cilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto, questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino 1912) 308 sgg.] che era ritenuta appunto apertura di Dite (cfr. Strab, XIV 647 XVII 886; Tolemeo Geog. IV 4, 4, 8; Plinio V 31). In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit. IV 57) cfr. Malten 116 sgg.: Atlante I PosiDONE ->- Celeno £lios I I ^^^ Tritone Euripilo —- Sterope Pasifae LicAONE Lbdcippo Se non che questo schema ci appare sùbito una com- binazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak. Kul. 249), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. XVII 836 e Pind. Pit. IV 20), L i e e o = Zeus Liceo (Eeod. IV 203, 2 eSTUDNiczKA 14 Sgg.) souo accertati in Libia da altre fonti: elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce (cfr. Maass " Hermes „ XXV 401-2 e Studniczka 126 sgg.). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi. II. 2 486, Apoll. EUBIPILO ED EUFEMO 437 Bibl. Ili 111) è padre Posidone e madre Celano, Atlan- tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inse- rendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una genera- zione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dal- l'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condi- zioni geografiche. 2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit. IV) con- nesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera con la Libia. La connessione con Lemno è una conse- guenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo {scoi Pit. V 99, scoi. Apoll. R. IV 1750). Resta adunque ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per patria (Pind. l. e. 430 : ol'aoi), i Battiadi di Cirene per vantati discendenti. — Ora in Beozia v'è traccia della sua supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad. II 43) : e non v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteri- sticamente beota. Col che si connette la sua presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia : a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti beotici e tessalici. — Ma perché i Battiadi ne avrebbero fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co- 438 IV. - CIRENE MITICA Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten 151 che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne fa- cessero il proprio avo. Il Costanzi 33 mi par ben più vicino a una probabile ipotesi: * I Battiadi stanno ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli Euripontidi a Prode „; come, soggiungo, i dinasti Mo- lossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste ana- logie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore; Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille nell'epopea: — e similmente ArcesLlao, appellativo di quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade {B 495 329 cfr. Pads. IX 39, 3). E se è errato sostenere col Mììller Orchomenos ~ 350 che di Beozia fu tratto il nome, non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quan- d'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genea- logia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio, le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzio- nate al fatto che vogliono spiegare. — Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece, importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide Lak. Kulte 33 sgg.). Non solo, ma i caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più vicini a quelli di Apollo (Stodniczka 1 14 sgg.) e, in ge- nere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo riten- nero Eufemo p. es. lo Studniczka (p. 155) e il Maass (Gòtt. Gel. Anz. 1890, 354; Orpheus 157) (1) solo sulfonda- (1) Ben altrimenti il Gruppe Gr. Myth. 1149. I rapporti di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha EUKIPILO ED EUFEMO 439 mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade : fondamento per cui s'indussero anche a forzare il signi- ficato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto, eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia. Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta ar- tificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osser- vazioni, si legge la IV Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente far toccare, tre for- niti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene : a Lemno abbiam già veduto Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spie- gare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Pelo- ponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo era figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa ipotesi molto più semplice che non quella del Malten 95 sgg. (1). Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo, e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di in- trodurlo nelle genealogie laconiche ; difatti lo troviamo nipote dell'Eurota (Tzetze Chil. II 43); o figlio di una Doride [scoi. Pind. Pit. IV 15); o sposo di una Laonome sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit. IV 76). Ma ha torto il Malten (p. 134) di dar peso a tali genealogie, e in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indi- pendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd ' Abh. Beri. Akad. Wiss. ' 1850, 174 sgg.). (1) Su Eufemo re dei Ciconi v. sopra pag. 426. 440 IV. - CIRENE MITICA e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif. IV 76. Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare, già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello con cui al Tenaro si venerava Posidone: fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri •^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi ^Evvoacyaiq) fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R. I 179-84, IV 1568. 1575; Igino fav. 14; Acesandro e Teoceesto in scoi. Apoll. B. IV 1750. Se dunque è vero che la localiz- zazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat- tiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cire- naico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente) di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singo- lare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti, per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Te- naro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten 160. 3. Crediamo adunque di aver mostrato e che Euri- pilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi, certo è estraneo al Tenaro. Al Malten 139 pertanto che afferma Euripilo ed Eufemo costituire " eine Reihe, die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thes- salien hat , e con l'uno d'essi collegarsi intimamente EUBIPILO ED EUFEMO 441 Atlante e Posidone, " urpeloponnesisch „ (124), possiamo rispondere di aver troncato a quella " Reihe „, per Eu- ripilo r " Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i nervi a quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In LicoFEONE 901 sgg. naufragano su la costa libica Euri pilo (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde il Malten 132 sgg. sostiene che il nau- fragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cire- naica (LicoFB. 597-99, Apollod. VI 15 e 15 a Wagner) : e rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi però abbiamo già osservato a proposito di Diomede (cfr. sopra pag. 426) che nei vóaroi la spiaggia libica appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leg- gende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per conte- nuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili, per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la " feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und " Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die " in Arkadien ihren Knotenpunkt hat , (Malten 138). Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente le due figure, non resta che studiare la trama narrativa in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argo- nauti in Libia. 442 IV. - CIRENE MITICA VII. Gli Argonauti in Libia. — Poiché su questo punto io profondamente mi allontano dal Malten 126 sgg. terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggen- darie dobbiamo por mente: Pindaro Pit. IV 1-63, 251-262; Erodoto IV 178-9; Licofronk 877 sgg.; Apoll. Rodio IV 1231 segg.; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con Medea dall' Oceano sopra VArgo , debbono per dodici giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone, una zolla: fatidico dono (1). In questo racconto non v'è nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il lago, di cui Strab. XVII 836, presso Berenice (Bengasi) che esiste tuttora (" i laghi salati „). E non si vede bene, svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della prefe- renza; però che paja invece piti probabile il contrario: Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il che lascia supporre che in Libia una leggenda più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possi- bilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi. (1) Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. GLI ARGONAUTI IN LIBIA 443 Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esi- steva una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava cir- cumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improv- visamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode. Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città: Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat, TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia. Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli altri CosTANzi 0. e. 29-30) un riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo nel 515 circa. Ma il dono del tripode non è che fittisiia- mente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo : suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localiz- zato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è assai più antico, e preesiste a Dorieo : gli appartengono i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, gros- solanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi simili. Identico è il nome della palude ; ma diversi sono i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione 444 IV. - C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. I 1, 676 e Costanzi o. c. 29). Iden- tico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso, risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo degli Argonauti si convenga il dono che serve a favorire il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato adunque più antico di Erodoto appare alla nostra ana- lisi come la forma su cui vennero foggiate : da un lato la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, — con alcune alterazioni dicevoli ; dall'altro la leggenda spartana in favor di Dorico, — con altri mutamenti opportuni. Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Ki- vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten 129, che fluisce, in vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argo- nauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per compenso del quale egli insegna loro la via, e pro- fèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impau- riti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazio- nalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di GLI ARGONAUTI IN LIBIA 445 Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr. 902) (contro Malten 130). In breve, Licofrone contamina; mischia in- sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Ar- gonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giun- gono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati : il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contamina- zione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella, di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'ar- bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona con- ferma delle premesse medesime. Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che, nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degli Ar- gonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la 446 IV. - CIRENE MITICA conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Ero- doto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicita- mente, ma solo parenteticamente, degli Argonauti. Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esi- genze poetiche o l'estro dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati delle ricerche (§§ VI-VII) sul mito dei Battiadi. A favore di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico mo- tivo favoloso su gli Argonauti in Libia : conducendo quivi e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come al- trove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifaci- mento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note, non già altre, anteriori e ignote. Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre- diamo si possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene. — Il Malten 41 sgg. 58-9, vede nel nesso ' Cirene-Euripilo ' la forma più antica della leggenda, quella che l'Eea avrebbe adul- terata. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come Ace- SANDRO {scoi. Apoll. R. II 498) e Filakco (ibid.), storici, cirenaico l'uno, egizio forse l'altro (III-II sec. a. C), sente una più viva eco e più genuina della primitiva forma mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tes- saglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui- CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE 447 tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia era invero signore di Ormenio un Euripilo (B 736) figlio di Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro, è pur posteriore alla leggenda dinastica degli Eufemidi, già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degli Argo- nauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore forma indigena della leggenda che fu og- getto del nostro studio; a quel modo che Vergilio (v. so- pra pag. 223 sgg.) rispecchia una posteriore forma stra- niera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase di lui fievà jiÀeióvùìv : Cirene di fatti sarebbe pervenuta in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po' diverso, è Giustino XIII 7, 8: mandati dal padre di Ci- rene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fer- mati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo, bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi di questo processo mitopeico sono : 1) Euripilo è in Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque molto prima di Batto; 2) Cirene è in Libia ra- pita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; 3) Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli antichi tempi; 4) con Cirene, che ha il trono da Euri- 448 IV. - OIBENE MITICA pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non si debbon confon- dere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee. IX. Esegesi novissima. — Storia e indagine su Ci- vette mitica erano in questo volume già per intero com- poste quando apparvero di G. Pasquali le Quaestiones Callimacheae (Gottingae MCMXIII) ove (pag. 93-147) il mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino „ 1914, 17 Maggio). Torino, Giugno 1914. FRATELLI BOCCA, EDITORI — TORIXO Piccola Biblioteca di Scienze Moderne
Friday, April 1, 2022
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