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Friday, April 1, 2022

GRICE E FERRABINO

 Pl€°Ifl      ffRMBIKOjI.   KflLYPSO     % H. ^'     l'.^^>^>M-     Z%!^-'^^J1     'V, j^i;»-'     AL bO FLRRABI MO   Kf\\ypso      PIC^ BIBLIOTtCB     S?254     bi SCIENZE nODLRME  r"i'BOCCB EDIT.     Digitized by the Internet Archive   in 2011 with funding from   University of Toronto     http://www.archive.org/details/kalypsosaggiodunOOferr     KALYPSO     ALDO FERRABINO     KALYPSO     Saggio d'una Storia del Mito      TORINO  FRATELLI BOCCA, EDITORI   MILANO - BOMA  1914     PROPRIETÀ LETTERARIA     yti      779987     Torino — Tipografia Vincenzo Bona (12496).     A MERCEDE PALLI KALYPSO     LIBRO I. — STORIA.   Capitolo I. La storia del mito . . . pag. 3-37  È necessaria e legittima, 3 — Il suo triplice valore, 8   — Caratteri, 18 — Il genio mitopeico, 23 — Ka-  lypso, 36.   Capitolo II. Andromeda pag. 39-107   Prima di Euripide, 39 — Euripide, 58 — Dopo Eu-  ripide, 89.   Capitolo III. La Demetra d'Enna . . pag. 109-157  Il mito siculo, 109 — Il mito greco, 118 — Il mito  siracusano, 127 — Il mito contaminato, 135.   Capitolo IV. L'abigeato di Caco . . pag. 159-206  Presso gli Indiani e i Greci, 159 — Presso i Latini,  170. — I poeti, 183 — Gli storici, 197 — I razio-  nalisti, 201.   Capitolo V. Cirene mitica pag. 207-255   11 sostrato storico, 207 — L' " Eea , di Cirene e d'Ari-  steo, 210 — Cirene in Tessaglia, 218 — Cirene in  Libia, 228 — Euripilo ed Eufemo, 233 — Gli Eufe-  midi e Batto, 248 — Conchiusione, 254.   Capitolo VI. Kalypso pag. 257-318   L'intuizione mitica, 257 — Le manifestazioni mitiche,  267 — L'evoluzione della mitopeja letteraria, 284   — Il flusso e riflusso delle saghe, 301 — La fine, 308.     vili INDICE     LIBRO IL - INDAGINE.   Avvertenza pag. 321   Capitolo I. Andromeda „ 323-369   Il racconto di Ferecide, 323 — Perseo, 326 — Acrisie,  Preto, Polidette, Ditti, 328 — Atena e la Gorgone  Medusa, 338 — Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I  miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co  (frr. 159. 160), 356 — I frammenti dell'* Andromeda „  di Euripide, 358 — Euripide nel 412, 368.   Capitolo II. Il culto di Demetra inEnnajart*;. 371-395   La questione , 371 — I caratteri del culto ennense   nell'età storica, 372 — Il primitivo probabile nucleo   siculo, 378 — Le versioni greche del nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — È necessaria e legittima.   Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione  del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta  su lo scoglio al mostro marino ; la ninfa Cirene,  domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da  Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza di  Ercole piegò annientandolo (1) : tali persone e  vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso  noi nome di Mitologia greca e latina, inducono,  ciascuna, al pensiero un racconto, non pur defi-  nito ne' termini e preciso ne' particolari , ma  costante nel contenuto, si da valere (usando  espressioni proprie a fenomeni differenti) per     (1) Cfr. in questo voi. i cap. II, III, IV, V. E cosi ri-  spettivamente ogni volta chC;, nel testo, si allude a uno  fra questi quattro miti.     I. - LA STORIA DEL MITO     classico o canonico, da apparire quel mito. Né il  prevalente costume , a pari di molti, è senza  motivi : già che si ricollega per un lato ai modi  che, nel concepire ed esporre miti , tennero i  compilatori alessandrini, quando miti non più  s'inventavano, ma si raccoglievano in contesti  dotti, e a scopo di conservazione erudita cia-  scuno si ordinava secondo uno schema princi-  pale, ne' margini sol tanto apposte discrepanze  minori e facili a obliterarsi; si ricollega esso  costume per altro lato al vezzo, — malo quanto  diffuso, suffragato dall'ignoranza, — pel quale  la saga chiude in sé una sostanza di verità, in  ispecie storica; si che, la verità non potendo  esser che singola, unico similmente sarebbe l'in-  treccio della fiaba onde è compresa. Ora, poiché  i criterii de' gramatici alessandrini, vissuti negli  ultimi tre secoli avanti Cristo, in nessun modo  possono essere più i nostri; e né meno è più  nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione  né il senso storico, una tanto facile fede nella  veridicità del racconto mitologico ; bisogna riso-  lutamente farsi a considerare qual via possa  divenire la buona non che la nuova.   Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e  di troppe astrazioni il porre, con precisione sto-  rica, i materiali grezzi della mitologia. // mito  di Cirene, — dimostrano questi, — non esiste :  meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi  pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno  di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscri-  zione di Rodi; dopo ciò, e dopo tutto che è an-  dato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e  che di conseguenza ignoriamo. In altre parole,     E NECESSARIA E LEGITTIMA     l'indagine concreta non conosce se non un com-  plesso di componimenti letterarii, manufatti ar-  tistici, riti cultuali ; e sente entro ciascun compo-  nimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé  e per sé, il mito. All'infuori, questo può tuttavia  sussistere; e per vero in due modi. risulta da  quelli, sia per ordinata compilazione, sia per  alterazion fantastica ; ma è allora diverso e  nuovo, un altro mito a pena affine a qualunque  l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii  componimenti manufatti culti e spiega i singoli  stadii e i singoli trapassi; ma in tal caso è di-  venuto, non la forma canonica o classica, bensì  la storia di quel mito. Conchiudendo : l'artista  moderno clie ci ripete una fra le molteplici  fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie  .di vicende, cui sottostò quella fiaba già nel pas-  sato; egli, insomma, elabora una fiaba nuova,  la quale può essere per certe analogie di casi e  identità di nomi avvicinata a talune antiche  meglio che ad altre, ma non diviene per questo  la fiaba di  quei nomi e di quei casi: questa in  qualclie modo ci dà, solo, lo storico , compren-  dendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze  della favola e organandole geneticamente ed  evolutivamente. Chi vuole il mito di Andromeda,  ne legga la storia. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti  principi nella mitologia pagana? Da due radici:  un fatto, e una tendenza. — Riandando storie di  miti accade di avvertire, chi anche sia grosso-  lano osservatore, quale e quanta rete di interessi  politici, di orgogli civici, di odii regionali, di  vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra,     I. - LA STORIA DEL MITO     musco boschivo, il crescente tronco della leg-  genda. Indi, la preferenza decisa vien concessa,  in certo luogo e in certo momento, a quella tra le  forme esprimenti la saga, la qual contenga il  particolare simpatico, 1' aneddoto favorevole, o  (che basta) si atteggi nella luce che più appaga.  Un fine pratico, per conseguenza, può canoniz-  zare i miti. altre volte, V ala d' un poeta, la  vigoria d'uno storico. 0, infine, il piti fortuito  caso. — Sempre, tuttavia, a canto di questa pre-  minenza d'una fra le forme mitiche, valse a  traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo,  dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché,  comparati tra loro diversi racconti d'una saga,  parte coincidevano, e pareva il più, parte dif-  ferivano, e sembrava il meno ; si ritenne lecito  prescinder dalle differenze per insistere su le  coincidenze ; e di queste costituire la saga, e  quelle giustaporre in guisa di " varianti „ se-  condarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque  testi di cinque autori intorno alle vicende, po-  niamo, di Cora, legittimavano la creazione ar-  bitraria d'un fittizio mito di Cora. G-rossolano  errore contrassegnato di superficialità. Difatti,  oltre le minori discrepanze notate, pure sotto le  uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii  testi alcunché, men ponderabile forse, ma al-  trettanto reale: la complessiva intonazione del  racconto. Il paesaggio medesimo, certo; ma in-  combente la luce di tramutati Soli. L'artificio  è cosi palese che stupisce potesse ingannare e  diffondersi. E pure condusse più oltre : a fìngere,  dopo il mito di ciascun personaggio, il mito in  sé, quasi ente separato, capace di influssi attivi     E NECESSARIA E LEGITTIMA     e passivi ; senza che divenisse tosto palese, come  cotesto ente non sussista se non col suo predeces-  sore logico; come quest'ultimo sorga da una  contaminazione di varie forme letterarie arti-  stiche cultuali; come quindi uniche esse forme  costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi.  Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per  asserire (e lo asserimmo dianzi) che conoscerle  significa giustificarne le vicende.   Ossia : per affermare che solo storicamente si  può conoscere il mito. Ma dopo tale asserto, e  dopo scoperti i motivi reconditi dell' equivoco  consueto, rimane ancor dubbio, se o no sia legit-  tima la storia del mito. Difatti chi sa di aver  innanzi espressioni multiformi, cui f uron mezzo  le più disparate materie, dalla parola al colore,  dal bronzo al gesto sacerdotale, può sospettare  a ragione che trasceglier quelle espressioni, con-  netterle in serie, narrarle in istoria debba ac-  cadere per nessi, non intimi, ma estrinseci : per  identità di nomi di figure d' imprese ; mentre  tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, carat-  teri cosi mutati di ambiente, sembrerebbero per-  mettere, o comandare, la distinzion pili recisa.  Sospetto lecito, questo ; ma specioso. — Non im-  porta che certa temperie (dico, ad esempio, l'e-  poca di Augusto, o il magistero di Ovidio) ac-  costi molto fra loro due saghe di soggetto diverso;  là dove lontananza d'anni e di spazii separan  spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci  ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di  Ovidio, e del posto che la mitologia prende in  quella o presso questo. Ma è d'altra parte irre-  cusabile che ciascuna espressione di un mito,     I. - LA STORIA DEL MITO     in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle  precedenti da un vincolo più profondo e più in-  timo che r argomento : le conosce, ciò è, e le  rielabora. Disposte quindi in serie cronologica  coteste espressioni, ciascuna è materia greggia  rispetto alle successive, ed è sintesi originale  (anche negativamente originale, si capisce) a  confronto con le anteriori. Ne segue che la storia  ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra :  essa, co' suoi criterii di tempi e di luoghi, con  tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a co-  struirne quasi una genealogia ; della quale i rami  e i gradi son segnati da reciproci influssi più o  meno profondi, da modelli più o meno diversi,  sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. — Del  resto, il resultato medesimo o, se piace di più,  il medesimo soggetto di questa, che diciamo,  storia del mito ne legittima, dopo gli argomenti  or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a co-  struire sopra varianti forme favolose un indi-  viduo organico e definito : individuo ch'è, come  mostrammo, la leggenda.     II. — Il suo triplice valore.   Ma quali saran per essere i modi di tale istoria?  Il suo procedimento è chiaro. Raccolte (suppo-  niamo) le espressioni del racconto su Cirene  o su Cora, sia per notizie tramandate sia per  industria di congetture ne è, quasi sempre,  presto determinato l'ordine cronologico, se non  nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti.     IL SUO TRIPLICE VALORE     Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pen-  siero, insomma, prende a conoscere quelle espres-  sioni: di ciascuna distingue prima gli elementi  costitutivi ; ciò sono i particolari della saga, e  quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che  episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il  punto di veduta onde i particolari le scene gli  episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove  consiste o se esista la forza sintetica che i par-  ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò,  fuse. Triplice processo: valevole come per un  carme, cosi per una pittura e, checché sembri,  per un culto. Giusta poi le risultanze di questa  nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in-  torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi  per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire  lo schema delle lor geniture. — Allora lo scopo è  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra  specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa,  qual si conviene alla ricerca, e faticosa di con-  troversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane  incerto è delimitato ; quel che può essere certo,  è posseduto ; si che le lacune e il ricolmo si di-  stinguono nette. Altrui giudizii su la materia  son superati con l'approvarli o respingerli o mo-  dificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale  lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine,  diviene poi quasi base ; e sovr' esso si erige, pei  suoi muri maestri nei suoi archi di commessione  co' suoi travi intelajati, 1' edificio definitivo. Il  mito ha la propria storia.   Il mito è, da questo momento, vera ricchezza  nello spirito nostro. — Si obietta che è acquisto  mal certo, però che sieno per pensarsi o seri-     10 I. - LA STORIA DEL MITO   versi ancora, nell'avvenire come nel passato, di  quella stessa leggenda storie molto o poco di-  verse con asserzioni contradittorie alle prece-  denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in  parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-  nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla  discordia dei pensieri individuali. — Ma né l'una  né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto.  E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-  mandate o è cosi fatta che impedisca la storia  o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce  (e son taluni casi), il danno è davvero grave.  Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-  teplici che non perseguiamo qui), la jattura può  variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo,  al fenomeno comune della individuale memoria  e, traverso questa, della memoria collettiva; si  riduce, quindi, alla condizione imprescindibile  della nostra conoscenza intorno al passato. In se-  condo luogo, il differire degli storici intorno a una  saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes-  suno parere domma, prova insieme che ciascuna  è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero  per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con  agile freschezza e cura non intermessa ; attesta  quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè  dinamica. — Nell'uno e nell'altro luogo, poi:  quello spirito che ha conosciuto la storia d'una  leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera  altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra-  mutando in organismo il tutto insieme inorga-  nico delle fonti; sia impregnando della propria  essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto  armonia del discorde, e reso personale l'alieno.     IL SUO TRIPLICE VALORE 11   Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche  materiato della più alta virtù di pensiero. Dura  come una fatica ; splende come una vittoria. Che  se di poi mutazioni intervengano e pentimenti,  non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,  superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-  nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non  immutabile, certo personale, in tutta la serie co-  nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon-  tane e disperse.   Il mito è, dunque, da quel punto viva ric-  chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare  tal verità, sottile è però discernere i valori di-  versi della conoscenza in quella guisa procurata.  Ma è necessario, per farla più conscia.   Lo storico si è, durante i successivi momenti  della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa.  Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?  Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi  di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre-  tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ?  Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al-  l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-  rico e questi con loro, fin quando similmente a  ciascuno la materia si sublimi in arte. — Tuttavia,  in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-  dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo  vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o  il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che  conoscono, verso la nuova espressione, che igno-  rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in-  telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla  loro espressione quanto dall'altre precedenti, e  quella conosce, e queste conosce del pari. Si che     12 I. - LA STORIA DEL MITO   là dove l'artista si trova di fronte a un che di  imprevisto, in cui l' impreveggibile è determi-  nato dalla potenza della sua energia creativa ;  per contro lo storico si trova sùbito a conoscere,  traverso l'opera compiuta, appunto quella po-  tenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla.  L'effetto è che non solo egli si è identificato  con una delle espressioni nelle quali la saga  visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di pos-  sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico  non si considera pago né pur di questo giudizio  che già di per sé lo eleva sopra l'artista in-  tuente : vi avverte un valor m omentaneo e, te-  nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può  assurgere a quell'intuizione sintetica della saga,  da cui appajono giustificate le intuizioni singole  degli stadii e delle forme come dallo scopo il  mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito,  può quindi esser detto pregio intuitivo.   Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche di-  scipline difatti van di continuo preparando al  pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera  sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli  scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui  sono attendibili, ai culti con le fogge che di-  vennero consuetudinarie, ai popoli con le cre-  denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le  menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,  quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto  meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono,  più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi  condensando; consigli, che risparmino fatica in-  dividuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze.  Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti     IL SUO TBIPLICE VALORE 18   riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza  fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu-  late lungo gli anni da tanti sforzi concordi,  convergono nella storia della leggenda; e quanto  più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole  l'ossatura, e permettendole o promettendole con-  senso più vasto e interesse più vario. — Fra tutte,  precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza  dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg-  giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto.  Cento numi agresti si rinvengono fra cento po-  poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E-  quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti,  le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo  insieme, vario concento sopra un ritmo unico:  che ogni gente reca il suo contributo. E cielo,  monti, acque silvestri marine lacustri, paschi  pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide,  biade che la zolla e il Sole indorano, notti il-  luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori  delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen-  diture del suolo : l'immenso respiro pànico, che  penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma  costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre  lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo.  Ond'è che son opere in cui questa varietà spe-  ciosa è ricercata con amore intento, disposta  con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi     (1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For-  schungen (Strasburg 1884); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn  1888); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V  Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau-     14 I. - LA STOBIA DEL MITO   molte leggende sono narrate, molte cerimonie  descritte, quelle che gli uomini dicono e com-  piono da quando sorge il lor Sole a quando tra-  monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma  ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito  pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,  tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua-  zione, perché si vuole, badando al generale ed  al comune, conseguire identità spirituali contro  distanze di tempi di luoghi e differenze di forme.  Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre  opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti  obliqui di interessate invenzioni che non è lieve  scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli-  genza che tenta le cause del fenomeno ignoto,  ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste,  come un nome frainteso generasse talvolta un  popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come  Scaevola connesso con l'aggettivo che significa  " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido  Muzio e della destra bruciata. Insegnano che  per dar ragione al nome di una città (Roma?)  s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).  Spiegano che un culto greco fra culti romani  parve agli antichi giustificato col narrare qual-  mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da  l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare  in classi i fatti; e creano alle classi fin la de-  nominazione discorrendo di " miti etimologici „  per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul-     DissiN Adonis und Esmun (Leipzig 1911); E. S. Haktland  The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6).     IL SUO TRIPLICE VALORE 15   timo (1). Tutti bisogna che lo storico sappia, per  sviscerare gli stadii della sua saga, senza equi-  voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti,  quindi, è conscia la storia di una leggenda. La  quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce de-  finita, si da impedir confusioni con altre pur si-  miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con  le formule della propedeutica confermandole in  presso che ogni sua vicenda. Non che in tal  modo scemi la singolarità sua propria; e allora  perché farne storia? Né manco che non aggiunga  tal volta materia alla propedeutica medesima;  già che questa non è mai conchiusa, e di con-  tinuo si accresce, per l'appunto come la espe-  rienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi  la storia di un mito ha questo pregio scientifico:  mentre è impregnata, come più latamente può,  del sapere collettivo intorno alla propria ma-  teria; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste  per la sua dissimiglianza ; è pronta a contri-  buirvi con tutta sé medesima, per quanto con-  tiene di insolito, e per quanto riafferma del con-  sueto.  Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore.     (1) Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (To-  rino 1909) pagg. 319 sgg., ove in polemica è chiarito assai  bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno-  minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea  su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può  per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras-  segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte  der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband  CXXXVII (1908).     16 I. - LA STOEIA DEL MITO   Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jias-  sato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce  di lui, or come nebbia da piani pigri, or come  da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano  durante un giorno, e le compongono varia bel-  lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo  delle trasfigurazioni luminose come del soprav-  venir tenebroso, è secreto dello spirito umano.  Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi  piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la  meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli  astri, purezze nivee e dentate di vette inviola-  bili, scompigli di chiome arboree nello squassar  dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera  finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli  acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito  indicibile gli urta su la fronte le tempie, illu-  dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza  ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa-  venta ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che  con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli,  la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo  ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto  i muscoli e gli artigli della belva silvana, per  farla sua preda o imitarne il destro miracolo ;  e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv-  vise forme che la natura plasma tra cielo e terra,  nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque,  ammira il volto del suo nimico o la violenza  della fiera. Appresso, su la prima trama esigua,  quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si  consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'in-  venzione originaria non si perde, ma, serbata  tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte     IL SUO TRIPLICE VALOEE 17   per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer  lento e difficile dei travagli clie martellano Fu-  manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile.  Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,  forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende,  s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,  rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri  dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca  le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia  onde si crea il diafano contesto verbale o si  plasma nella dura materia il moto o si finge l'an-  sito nel colore; e con lei genera creature d'ale  e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli  mostri e deformi. Far quindi la storia del mito  significa spremerne cotesto succo occulto, il quale  si mischia col nostro più profondo pensiero su  la vita e saggia le nostre idee sul bello sul  buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua  visione, e la forza della sua espressione, e il suo  lungo cammino. — Idee che costituiscono d'altro  lato lo scheletro stesso della storia d' un mito.  Del quale il trapasso di forme può venir conce-  pito geneticamente, l'una determinando l'altra ;  o staticamente, i nessi essendo privi di forza  generatrice; o in rapporto all'evolversi comples-  sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia-  scuna dipende da una teoria filosofica. Persino  chi per orror metafisico mai abbia voluto im-  pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av-  versione nella storia e ve ne lascerà i segni,  non giova dire di quale specie. Onde la cono-  scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur  contenendosi nei termini di un limitatissimo fe-  nomeno, pur fermando nel pensiero una por-   A. Ferrabino, Kalypso. 2     18 I. - LA STORIA DEL MITO   zioncella minima del grande moto di cui tutto  il passato è pieno nella memoria degli anni,  tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto  e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta.  Filosofìa : senza cui, il breve mito sarebbe assai  poco ; con cui, diviene moltissimo.     in. — Caratteri.   Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen-  siamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia  gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare  sùbito qual sia la lega comune onde tanto com-  patto è il resultato. Ma lega si rivela l'intel-  letto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle  discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal  pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova  nella vita dellintuizione, quando vengono esposti  all'attrito della realtà testimoniata. — Di più  non può dirsi: che ha da restare intatto il mi-  stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede  come larghissima parte della intelligenza vada  a imprimere la storia d'una semplice saga; come  quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva.  Né forse è detto ciò senza stupore di molti ;  perché prevale oggi il principio della oggetti-  vità storica, tanto che il riconoscimento del con-  trario nell'opera di chi che sia suona quasi a  rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a  cercarvi le parole della certezza assoluta, allet-  tandoli con un equivoco ch'è quasi una mistifi-  cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel     CARATTEBI 19     racconto delle vicende storielle per cui un mito  si svolse sono le stimmate d'una personalità; né  solo, ma il valore di quel racconto è in queste  stimmate ; in quanto la personalità, non pure as-  somma, si anche fonde e ritempra, com'è neces-  sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria  filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che  si riconoscono indispensabili alla costruzione  d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre,  dalla misura di esse cognizioni teoria potenza  e del loro commettersi, dalla misura, in breve,  della personalità medesima, è segnato il pregio  del contesto narrativo.   Dal qual evidentissimo principio si definisce  anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di  chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re-  verenza ad autorità indiscussa : invece, ragione-  vole assenso, ora parziale ora totale, ora nei par-  ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli  uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è  solo responsabile e che, scoprendosi con ardi-  tezza, accetta onestamente d'essere imputato.  Compito arduo, adunque, è il leggere non meno  che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che  quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,  solo per il lato si adempie che costituisce l'in-  teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato  soltanto sogliono originarsi le censure, le più  modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la  storia della saga di Cirene deve soddisfare le  pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,  il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più  lieve a tutti costoro l'opera di critica rielabo-  ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, al-     20 I. - LA STORIA DEL MITO   meno; non costumava cosi Tucidide, né Ma-  chiavelli ; con pena della moderna indagine)  mostra, in una qualunque parte del suo lavoro,  i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite;  onde ne è pronto il riscontro (1).   Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto  della soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar-  tefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera  propria ; allora, sopra le testimonianze e le for-  mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan  concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si  cristallizzano in materia nuova su la materia  che vedemmo preesistere allo storico. Accade  perciò, da tal momento, che si possa misurare  quanto ciascuna individuazione sia piena di  realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di-  venuti esteriori e concreti, di cui nella intimità  e fluidezza dello spirito creativo essa si era nu-  trita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto,  vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di  individuatore, tutti questi elementi, scissi prima,  organati poi; e valuta il pregio dei singoli e  della mischianza loro. Cosi, quel che fu già ema-  nazione viva d'una vivente persona; imponde-  rabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e  definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa pas-  sibile di metro, di scandaglio e di analisi; defi-  nito, per tanto, " oggettivo „.   Sempre, per opera dello storico la leggenda  assume la finitezza della persona e i caratteri  dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.     (1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.     CARATTERI 21     una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio  e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è  quindi un nascimento e un corrompimento, fra  cui si tocca la maturità. La storia d'una saga  sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul  suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar  la creatura morta, ma pretensiosa di balsa-  marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già che  si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio  si compone : non è elegiaca ; però che, pur la-  mentando , se crede , la morte avvenuta, ne  indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen-  siero senza stingerli col sentimento. Ma en-  trambe queste risposte esigono d'esser più am-  piamente delucidate.   Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto  io credo) che non solo è necessaria la storia  del mito per conoscer il mito, ma è in tutto  legittima, perché opera sopra un individuo pre-  ciso il quale ha una reale e non disconoscibile  esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in-  dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun  d'essi non può star solo, ma è in intima atti-  nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora pos-  siamo specificare meglio : che ciascuno stadio  rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco  o di molto momento, vi è immancabile l'attività     (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pro-  nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti  dell'Acc. Pontaniana , XLIII (1913), a pag. 6 sgg. del-  l'estratto]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica-  zione della storia con la filosofia.     22 I. - LA STORIA DEL MITO   d'un artefice che ha segnato di sé medesimo,  con grande o con piccola impronta, la materia  leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta  speciali energie e del mito sviluppa potenze che  o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte.  Per conseguenza, astraendo si possono conside-  rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele-  menti : la manifestazione, senza  cui non sa-  rebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii  anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di  qui, son possibili varie evenienze: o che a un  certo momento ogni manifestazione cessi, per  qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza  ancora negli spiriti e nel mito; o che la mani-  festazione appaja inadeguata alle precedenti e  per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,  l'energie dell'artefice apportino alla sostanza  della saga violenze che la rinneghino. Nel primo  caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio;  nel secondo è preceduta da uno scadimento, che  la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la  vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban  spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è  sempre. E la storia, in quanto storia, deve nar-  rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-  vitabilmente, catastrofica.   Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza  dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi-  casse, fra gli uomini che hanno assiduo il fer-  mentar delle forze nello spirito, l'accensione di  un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito  di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi  ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è  motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come     IL GENIO MITOPEICO 23   meglio, la distruzion del tutto. — Rimane, per  altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del  danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual  egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave-  vano formato, ninna potenza terrena può ri-  crearlo indipendentemente: un individuo inso-  stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo  perdiamo. Molte saghe venner create con bel-  l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,  non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni  dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer-  dotali; non molte, poche divennero nell'epoca  del pili adulto pensiero classico, quando per con-  taminazioni la ricchezza del numero si fu as-  sottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova  morte sminuisce quella dovizia di una unità,  scema questa bellezza di grande efficacia : quel  che sottentra è copia e grazia dello spirito  umano, della mitopeja classica non più... Una  maggior individualità, dunque, è minacciata  dalle morti di questi minori individui mitici.  Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si  squassa.     IV. — Il genio mitopeico.   Quella individualità maggiore è oramai em-  brionalmente posseduta dal nostro pensiero.   Quando siasi letta la saga di Andromeda, e  poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora;  appresso, non si conoscono pure quattro vite di  saghe, come fossero di eroi o di santi o di sta-     24 I. - LA STORIA DEL MITO   tisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nel-  l'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente  esperienza, rotti i termini entro cui si è for-  mata, tenta di organarsi in altro stampo, in-  frange l'intuizione del singolo per disporsi, in  che ? come ? Per la risposta, da principio ingan-  nano due parvenze, contradittorie nella forma,  entrambe erronee.   La prima parvenza è brevemente questa. Con  l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio  di quattro miti si possono perseguire due com-  piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel  raccogliere tutti i fatti constatati durante lo  studio e nel disporli con altro criterio che il cro-  nologico e genetico : nel guardare, in breve, il  medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da  altro pimto di veduta. H secondo compito, in  vece, costringe a trascendere i limiti segnati  dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le  saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne  sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto  l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa  quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo  pratico ; come quelli che servono a concludere  ordinatamente sotto la specie di leggi (nel se-  condo caso) o di formule (nel primo) esperienze  compiute storicamente sotto la specie delFindi-  viduo. E sono , perché pratici , utilissimi ; né  giova, secondo piace a taluno, predicarli ride-  voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano,  tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il  nostro pensiero, elaborato che abbia un certo  numero di storie su fiabe. Non può esistere un  soggetto vivo cui attribuire quelle formule e     IL GENIO MITOPEICO 25   quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat-  teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e  le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbi-  trarie le formule, perché incardinate su criterii che  non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e  irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla  massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè teme-  rariamente affermano più del conosciuto, impe-  gnando in sé, insieme con il già intuito, il non  mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà  viva onde germinano, incadaveriscono in freddo  schema e, come schema, lasciano straripare oltre  di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle  quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando  tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi  affatto un intelletto veramente avido di sapere  concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora  insufficienti.   Fallita la prova di questa parvenza, l'altra  vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu  avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca  nella nuova opera i miti, soggetti delle singole  storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea  uno difatti, f)ur che si astragga un poco come  suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi-  rito, cui competano tutti i caratteri dei varii in-  telletti che influirono, di stadio in stadio, su  l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente  appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo  e fede, scettico scherno e dubbio religioso, pre-  occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-  giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni  virtù in una sintesi superiore alle contradizioni  apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse.     26 I. - LA STORIA DEL MITO   esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i  quali si disporrebbero le sue energie e i suoi  attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile  di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to.  Difatti, mentre chi narra la storia di un mito  opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé  congiunti, e che senza nesso non sono né pure  compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece  e le energie di quel pseudo spirito vengono solo  per caso delimitati, avvicinati e graduati : già  che unico motivo per cui quel falso ente si af-  ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune  vicende, e non altre, è la scelta, precedente-  mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti,  e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli  attributi muterebbero numero, specie e succes-  sione. Segue, che è necessario guardarsi dall'in-  sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si  voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e  svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi.  Vinto l'errore, la salute appare spontanea.  Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero  e non artificiato, intuibile dallo storico e sog-  getto vivo delle nostre esperienze anteriori, li-  mitate per qualità e per quantità. Ora, se è  (come dicemmo) arbitrario determinare un in-  dividuo mitopeico valevole per quattro miti,  perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra  anterior ricerca, il numero di quattro : soppri-  mendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un  reale individuo, allo spirito greco-romano in  quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei  Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef-  fettivamente, di certamente vivifìcabile, di indù-     IL GENIO MITOPBICO 27   bitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova  a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la  realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno  a confluire nella materia ignea , rimettendo di  lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan-  descente. — E conquistato una volta questo certo  soggetto, si comprende d'un tratto come tutto  che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe  conosciute vale ed è esatto per il genio mito-  peico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e  insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo  casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza  di questo tutto, ha importanza, dev'essere affer-  mato, e può assumere, esprimendosi, un tono  generale. La medesima sua incompiutezza poi  è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre  alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a  disposizione del pensiero che volesse conoscerle  in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico.  Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo  tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe  per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de-  corso del tempo, privo di qualche sua saga, e  quindi scemo di talune energie, per guisa che  dovrà in ogni maniera venir intuito traverso  molte si ma non tutte le sue manifestazioni ;  non dissimilmente dall'indole degli uomini che  la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli  istituti che remoti echi ci tramandano irrego-  lari. — Quattro miti son dunque poco i3er pos-  sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo  leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse-  gnamento è certo, se bene incompiuto; insuffi-  ciente, non arbitrario.     28 I. - LA STORIA DETi MITO   Cosi le storie di quattro miti conducono alla  storia della mitopeja. — La quale pertanto non  può consistere nell'insieme inorganico di quelle  quattro singole storie, se si mantenga incom-  piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inor-  ganico delle storie su le varie saghe conosciute.  Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del  nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la  esigenza di quella più larga istoria emergere a  punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non  sodisf acimento) di taluni racconti men larghi.  Come, per analogia, le biografie di cento indi-  vidui non souD la storia della nazione cui ap-  partengono, e che li comprende in sé e in sé li  distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe  non s'individuano che a patto di delimitar  volta per volta il total genio mitopeico in mar-  gini che non sono i suoi proprii. E a quel modo  che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se  non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte  le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte  non si conoscono, che spezzando in un testo più  ampio i termini in cui si conchiusero le cono-  scenze dei singoli. — Evidenza pari ha, o do-  vrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a  questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia  di un mito, nell'atto di mostrare come le mol-  teplici manifestazioni leggendarie potessero ag-  grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e  le fondamentali vicende che accomunano ta-  lune fra esse ; disegnavasi pure , come possi-  bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni  molteplici più tosto sotto le rubriche delle di-  verse epoche e dei differenti luoghi, per com-     IL GENIO MITOPEICO 29   porre, con criterio cronologico e geografico, la  storia della mitopeja pagana lungo i secoli e  traverso le regioni del mondo classico. Età per  età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella  determinata temperie, intervenire su tutto il pa-  trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue  predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue  attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale  opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem-  porale e regionale dei Gentili, come se sia stata  ristretta in taluni confini di paese o di momento,  è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?  o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi-  sogno più alto? Senza dubbio, un paragone  con l'insieme inorganico delle singole storie di  miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso  difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su  la susseguente dopo che la precedente su essa  aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani  riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe  altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a  parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste  tuttavia. Sopra le differenze più o men no-  tevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due  i casi la costanza con cui talune energie del-  l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,  influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor  patrio, il senso naturalistico e l'acume psicolo-  gico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale.  Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno  fra esse intervengono nella mitopeja, fin che  alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,  come più si discenda nei secoli, non solo si ac-  crescono per numero ma quasi si succedono per     30 I. - LA STORIA DEL MITO   dignità, tramandandosi tal volta nel corso la  fiaccola, umanamente. Si comprende che son le  potenze del genio pagano in officio di mitopeja ;  s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,  cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no-  minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma  merita indagine; e si desidera cercare questa  armonia e quelle potenze.   Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar-  bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi.  Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi  ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi-  care qualcosa di assai individuo e concreto : al-  tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti  della storia, e in determinati punti della terra,  hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora  iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel-  l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e  solo per storia conoscibili. Le carità patrie di  Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dio-  nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e  d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto-  ricamente son racchiusi entro un'opera e un  temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un  l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le  differenze, quelli e queste ordinano in sintesi:  fino a divenire, in diverso contesto storico, la  carità patria, il razionalismo, la religione del  genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi  non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e in-  dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin-  gole saghe: individuato, rispetto al genio mito-  peico. ,— Di che può aversi riprova. A quel modo  che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, Tinte-     IL GENIO MITOPEICO 31   resse più attento soverchia il cerchio breve del  palco ove poche persone son mosse in non molte  vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di  quel moto ; del pari, per l'interesse più attento,  anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,  e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, com-  petono fin da principio , dopo che a Vergilio a  Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità  pagana di cui son pregni, alla vita de' Grreco-  romani nella quale immersi son trascinati su-  bendo e reagendo, come massi che il fiume ha  composti e disgretola poi con la medesima forza.  Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii  d'un mito superano il mito, e si proiettano, in  altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone  non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze  spmtuali.   Però a questa disposizione nuova manca tut-  tora l'ordine della successione : che è, anche,  l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non  può valerci più, adesso, il criterio cronologico :  atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto  del tutto a decider, con certezza che non sia di  pallida congettura o non nasca da arbitrio di  pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza  delle sue acque nel mito prima che l' analisi  psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al  proposito, ogni saga darebbe una propria ri-  sposta, diversa secondo vicende casuali o neces-  sarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe con-  temporanee le manifestazioni in apparenza più     (1) Sul valore di queste es^pressioni cfr. cap. VI Ka-  lypso § IV.     32 I. - LA STORIA DEL MITO   disparate o in sostanza più contradittorie. E, per  tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo  di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni  individuo definito, evolvendo le sue speciali  energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres-  sioni che ci richiamano senza dubbio alla sua  origine ; altre, che ci riportano quasi con cer-  tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare  ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com-  pararle o alle qualità originarie o agl i ultimi  corrompimenti. Ma perché più certe appajono le  prime, a esse la com[)arazione va riferita. E  tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza)  quell'energia che, acquisita allo spirito mito-  peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per  essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo  insieme, a una tappa nuova ; si che il momento  della conquista è ben paragonabile all'oscilla-  zione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.  Una storia compiuta dovrebbe però seguire il  mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il  punto in cui dopo la precedente essa confluisce  nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando  il modo del deformare. Una storia, per contro,  incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i  suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della  sua incompiutezza, col tratteggiare senza dise-  gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due  vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle  forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga  introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara  armonia del complessivo progresso geniale, le  cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del-  l'animo e dalle forze del pensiero.     IL GENIO MITOPEICO 33   Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa  armonia, apparirebbe la constatazione che tutte  quasi le saghe, le quali la storia può scegliere  a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di  fronte a noi, in lavori di arte letteraria e ma-  nuale o in riti di culto, quando oramai o per  intiero o in buona parte lo spirito onde sono  elaborate ha acquisito le sue virtù : pel che  quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi,  secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco  grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in  somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi  di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un di-  verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che  non è senza evoluzione ma con evoluzione di-  versa dall'originaria. Condizioni di ambiente  fanno si che in una sola età, l'augustea, la leg-  genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo  e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di  scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso  Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità  cronologica, non esitiamo a proclamare più ve-  tusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo  della complessiva mitopeja. Tal certezza si con-  forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde  appare VergiKo attingere a più antica sorgente  che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia  anche quando il riscontro non fosse possibile  per qual siasi motivo. Com'è del mito di An-  dromeda, il quale è già scaduto in un tentativo  di travestimento storico allor che Euripide lo  solleva al culmine della sua vita penetrandolo  di passione patria e di pensiero religioso. Crii è  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro   A. Feeeabino, Kalypao. 3     34 I. - LA STORIA DEL MITO   di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in  volta ne fa uso secondo richieggano sorti di-  verse. Spetta all'occliio dello storico separare,  caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio  acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba  sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori  di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo  nel progresso del genio mitopeico.   Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme,  per cui le figure si moltiplicano disponendosi  l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non iden-  tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in-  trecciano simiglianti e differenti ; e si dispon-  gono in racconti svariati, che ciascuno possiede,  quasi nome personale, una peculiare orma, né  confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal-  l'arte, ha destino qualche volta non perituro.  La storia della mitopeja per contro diviene  scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza  creativa, la limitatezza fondamentale della ma-  nifestazione : il sottostrato di potenza definita,  di là dalla superficie delle creazioni che si tra-  mutano lungo serie senza termine e fogge senza  numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio,  essa si converte in scienza astraente e classifi-  cante. Quando vengono disegnate le vie che la  mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano  certo concetti empirici e partizioni; quali fra  letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto,  per cui il filosofo userebbe termini ben diversi.  Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie  dei singoli miti, insieme con altri, e non impe-  discono che quelle storie concretino individui  ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro     IL GENIO MITOPBICO 35   presenza non può decidere senz'altro contro  la natura storica di un' opera. Difatti, ancor  questa di cui parliamo lata storia mitopeica  fonde leggi categorie e formule nello scoprire:  in primo luogo, i confini entro cui tutte le ma-  nifestazioni favolose son racchiuse; in secondo  luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte;  onde riesce a precisare una risposta a questo  problema, ch'è denso di realtà storica : con che  mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito  pagano mitopeico si manifesta ? — Il badile ed  il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le  pagine ove Tincruento travaglio campestre e la  sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci  e selvaggi.   Ma poi che questa diversa istoria del genio  mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle  sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi  compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a  sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,  senza sconforto, la fine della mitopeja pagana.  — Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa.  Non vediamo pili Centauri scender galoppando  dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera  il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri  marini e piegare tracotanza di violenti. Quella  cecità e questa negazione sono stati il prezzo  con cui pagammo altri spettacoli ed altre cer-  tezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore,  alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-  digia di opulenza spirituale.     36 I. - LA STORIA DEL MITO     V. — Kalypso.   Sin qui tentammo della mitopeja e della sua  storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che  si forma nella pratica degli studii e della vita,  e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle  fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un  motivo interviene spesso a ridurre le indagini  e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol  tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei  confini della letteratura. Certo, il genio lette-  rario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere  immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con  l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia  concesso senz'altro esser la letteratura di gran  lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad  ogni diversa forma del significare le saghe (1).  Non cessa però che di queste ridurre la storia  nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente  riconoscendola, questa colpa è grave.   Né medicabile. Si può palliarla: come suole  lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla  storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-  proca guisa. In ispecie quando, per le lacune  che sono ampie e non rade nel pur ricco pa-  trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più  stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma  di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o di-     (1) Su ciò V. cap. VI Kalypso § II.     KALTPSO 37   pinti o in altro modo artisticamente lavorati  dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca  deve a forza integrarsi di quella sua parte che  un caso rende ben necessaria e come vitale. Con  simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul-  tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe-  deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e  lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine  non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife-  rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto.   Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con  la incompiutezza cui limitate esperienze entro  esiguo numero di miti costringono il ritratto  del genio pagano facitore di saghe. Permane :  la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si  che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal  volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf-  ficiente cosi della singola favola come della total  mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si  cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom-  bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di  amarlo, con promessa di rendergli " senza vec-  chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,  da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa-  tria lontana.     CAPITOLO II.  Andromeda d).     I. — Prima di Euripide.   L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu-  ripide fece rappresentare in Atene una sua tra-  gedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva  materia un episodio del mito di Perseo. Ma se  l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so-  stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera  la saga viveva una vita altra da l'anteriore:  però che lunga già e complessa ne fosse stata,  innanzi, l'evoluzione.   Antichissimamente, negli anni cui corrispon-  dono, eco affievolita, i più vetusti canti della  epopea e poche mal certe tracce, una assai uber-     ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II  cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive.     40 II. - ANDBOMEDA     tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un  semplice racconto (1).   Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella  pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi,  di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),  molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non  lontano da morte, egli era tuttora senza prole  maschile, unica essendogli nata una figlia a  nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua  schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi  l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,  non essergli per nascer maschi se non da Danae,  ma dovergli il nipote togliere e trono e vita.  Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu  posta a che la vergine restasse dal generare,  contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,  riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo  che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle  tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa  vendetta del re impaurito, il quale decretava  che la giovine e il neonato fossero, — come  Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti  in balìa della violenta natura e delle intemperie.  Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per-  vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li  accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi  nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino  crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra  i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo  di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di  braccia si rivelassero. Allora piacque al caso     (1) Cfr. § II e III.     PRIMA DI EURIPIDE 41   che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima  gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a-  dolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio  ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,  che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva  sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo  lanciato, — opera d'un nume! — contro le de-  boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o-  racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri-  conosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo.  Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice  e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria,  frutto non insolito d'un seme a più altri simi-  gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne  scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve  racconto, lo spunto originario della morte inflitta  dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio  progenitore, che il passato ha curvo e fiacco :  dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di  purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole  occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo  sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la  notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e  l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato  da una Danae (donna di quei Danai che nella  leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e  sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case  sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo,  cui è il mal grato biancore di ossa a pena  commesse, diedero nel principio veste di muscoli  e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di  bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiama-  vano a tanti concreti particolari della realtà : le     42 li. - ANDROMEDA     pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando  oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia  in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima  la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,  disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito  un brivido tra di paura e di pietà.   Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù  venne foggiandosi in forme di plastica umana,  s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro  come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle  quali il popolo par condensare, con la propria  esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché  vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-  stiche delle figure che sospinge la sorte comune.  Traverso la fantasia delle masse, come traverso  un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei  pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle  virtù che in genere presso quelli si riscontrano,  si affina in una selezione di cui è vano cercar le  leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio  tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il  pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e  onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto  ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema  della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e  che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili  virgulti quello e questo ; cosi fatti però che im-  provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-  tano sopra una determinata leggenda : cui recano,  per altro, non esiguo contributo in compiutezza  e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impres-  sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman-  zesca e forza dramatica. Non fu tuttavia so-     PRIMA DI EURIPIDE 43   vrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il  più recente prevalesse sul più antico fino a ri-  durlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;  onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale  del bujo Polidette, permasero a costituire il  volto significativo del mito durante tutto questo  primo stadio, tessalico, della sua formazione.   Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo Pelasgico  o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,  venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli  scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con  altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e  potenza il più antico, ed era situato in un con-  chiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,  nell'oriente della penisola. I due Argo furon  quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi  il peloponnesiaco; per guisa che a questo si  riportarono via via le leggende che a quello  si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la  nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se  pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di  schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-  zione argolica assimilò ben presto la saga tes-  sala con i suoi particolari e le sue figure: persino  l'accenno a la Magnesia, che quanto mai discon-  veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro-  fondo ; persino, e specialmente, la morte di  Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e  di mare separava dal Peloponneso, si mantenne  non alterata. Al conservarsi contribuirono due  motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per     (1) Cfr. § III.     44 II. - ANDROMEDA     mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva  padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre  al nome della persona ogni valore di riferimento  al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni atti-  nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un  sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro  perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda  poteva facilmente trascurare.   Ma col proceder degli anni tutto che nel mito  non fosse o compatibile senz'altro con la mutata  sede o ineliminabile per cause intrinseche fini  con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti  figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il  padre di Perseo vennero corretti e adattati: né  è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ;  ma si vede bene quale è per essere il più impor-  tante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sosti-  tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui  si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo :  già che forse piacque cosi adombrare quel Preto  che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che  aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto  naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della  Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sosti-  tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai  costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo.  Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;  notevole a ogni modo è che per essa un lembo  di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata  fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra  tanto il mito si diffonde: attinge Micene, pe-  netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica,  che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno,  avesse onta di rientrare in Argo e preferisse     PRIMA DI EURIPIDE 45   ceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino  Megapènte figlio di Preto.   Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno  Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in  territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura  una base duplice in cui son contenuti potenzial-  mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol-  vono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato  e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile  lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.   Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena,  cui molto culto si tributava e particolar reve-  renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un  mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una  delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo del-  l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare  e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo  significava trofeo d'una vittoria conseguita dal-  l'iddia avverso la protervia nefasta di quella  figlia di abissi marini. La leggenda era antica,  traccia della natura xDrima ond'era informata  Atena, divinità della luce solare, nume del tem-  porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze  luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole  per vero un altro attributo si riferiva, tra i  Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa,  lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava  il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei  di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce  agli occhi umani per molte ore vestendosi di     (1) Cfr. § IV.     46 II. - ANDROMEDA     oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali  tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le  quali, se si accoglievano bene nella figura di  Atena, non formavano ancora intorno alla sua  persona una veste cosi aderente, che non fosse  possibile separamela in parte con lievi altera-  zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la  Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si  riportavano assai meglio al sostrato naturalistico  della Dea che non al suo individuo, alla folgo-  rante luce che non alla sostanza corporea della  effigie umanata. E perché Perseo quando per-  venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in  Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo  essere dall'energia naturale (la veemenza del  Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva  pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a  Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero  e l'impresa contro Medusa e il cappuccio ca-  nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio  se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu  quasi una contaminazione delle due leggende  in una; ma di due leggende non indipendenti  né ciascuna distinta per sé, si di due che si ori-  ginavano da una medesima intuizione delle forze  naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti  simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto  in luoghi distinti doppio nome di Atena e di  Perseo.   Il racconto che ne nacque, come prese a vi-  vere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni  materia vivente in organismo : si accrebbe. La  fantasia che plasma le leggende ha certi suoi  modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va     PBIMA DI EUEIPIDB 47   foggiando analoghe le sue opere : essa imprime  del suo segno terreno il racconto di quegli spet-  tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti  e gesti umani : prende una seconda volta pos-  sesso della sua materia. Cosi non concede essa  all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che  l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile  e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa-  rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis-  mani senza cui l'opera non può compiersi e per  i quali trovare si richiederanno altre fatiche :  ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a  preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per-  sonaggi. — Qui, furono le figure in cui la novella  fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje,  canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un  occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con  un dente. Esse, — si narrò, — sapevano la sede  di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non  era concesso ad uomo trasvolar fino al limite  dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia  (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo  spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò  dunque ma non ottenne né quelli né questa se  prima non ebbe con violenza privato le tre vec-  chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a  compenso della restituzione i due oggetti cui  mirava.   Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire  lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce.  Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare  diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi;  il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio     48 II. - ANDROMEDA     luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc-  corritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai  allargata la saga.   A concliiuder la quale non rimaneva oramai  se non motivare l'impresa strana del fanciullo  cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.  Cronologicamente essa non poteva cadere ciie  nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il  ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente  la causa dell'avventura e del pericolo aveva a  connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po-  lidette. E poiché non certo l'originalità è più  ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui  un comune motivo leggendario, stracco per quel  che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da  non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti  episodici onde abbisognava. Come contro la Chi-  mera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò  la morte; come Q-iàsone in Colchide venne in-  viato perché perdesse nell'arduo cimento la vita;  cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo  per stimolo di Polidette, che innamorato di  Danae bramava toglier di mezzo il giovine di-  fensor della donna.   Oramai il racconto era compiuto : armonico,  organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla  quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da  parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetra-  zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a tra-  verso strati naturalistici e nove] listici aveva  dato alla fine il suo bel frutto maturo.   Analogo al processo d'evoluzione mitica per  cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era     PBIMA DI EURIPIDE 49   accresciuto d'un episodio e di due campeggianti  figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso  terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a  un tempo, incomparabilmente più complesso ed  inviluppato: tanto che l'indagine riesce a rico-  struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-  cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in-  certezze non jDOclie, e con grande cautela. Se  l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i  X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta  con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o, —  come il suo nome significa senza dubbio, — la  " millantatrice „; tipo popolaresco della donna  orgogliosa troppo di sua bellezza che osa com-  petere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita  per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque  di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,  novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un co-  mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a  commettersi con più altri elementi, a raccoglierli  intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi  da allacciare in maglia e in rete più trame mi-  tiche distinte. Per essi si formarono due compa-  gini leggendarie che insieme li contenevano e  n'erano quindi accostate fra loro. —   L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in  particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma,  Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere  e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo del-  l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di po-     (1) Cfr. § V.   A. Ferrabino, Kalypao.     50 n. - ANDROMEDA     poli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.  Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli  Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra-  montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi  nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli  Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse  lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle  quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso  cui come a simili mete muovono in awentm'a  i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi  nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a  pena bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu  scelto non an mostro specifico, quale Medusa,  ma una vagamente indicata belva che sorgesse  da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc-  correvole, nell'officio di Atena contro la preda  gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,  strenua in combattere, ignara di mollezze fe-  minee, il cui maschio nome istesso rendeva ima-  gine di possanza non muliebre si virile: l'An-  dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla  impresa ignoriamo; ma possiam senza errore  fìngercene uno non dissimile da quel che ap-  prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde  con questo per contenuto forma e valore. Si  ottiene un mito modellato sopra i medesimi  schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ;  nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma  tutte le tinte sarebber identiche se non fosser  d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in-  variati se non apparissero scemi al paragone.  Un arricchimento però venne ad esso mito  quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette  non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione.     PEIMA DI EURIPIDE 51     si più tosto nel trasformarsi profondo del signi-  ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre-  parare. Due avventure di Perseo contro mostri  delle tenebre non potevano non venir avvicinate  prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la  minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi,  si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di  Andromeda. La " Maschia v, si andò raggenti-  lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo  novellistico della fanciulla che l'eroe libera di  prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco  nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro  il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del  secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del  lancio, — constringendole e movendole le membra  l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio  insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, di-  venne indispensabile giustificar la cattività della  fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il  mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo.  n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese  punito nella vita giovine e florida della figlia,  — Andromeda fu tramutata in sua figlia, —  sarebbe appunto stato la causa prima del peri-  colo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo  tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato,  nel profondo. La seconda forma possiede la vita  che non la prima. E individuata come non la  prima.   Da l'una a l'altra segna il passaggio Andro-  meda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo  che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal  mito i personaggi caratteristici, i fondamentali  sono Perseo e Cassiepea. —     52 II. - ANDROMEDA     Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra,  in un'altra leggenda differente di origine. Pro-  tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten-  trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti  opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti :  secondo che dietro lui muova il rigente turbine  del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la  freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri-  cacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il  Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere  fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli  sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle  Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da  Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli  di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse-  guitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In  tutto parallelo al formarsi di questo mito delle  Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-  marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro  di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio  deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la  forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per  vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'au-  tunno sopravviene, nella nostra leggenda, a miti-  gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima-  vera a dissipar le brume e i geli foschi dello  inverno.   Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico  fu, — sembra, — appunto Perseo, in singoiar  duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e  trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta  pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar  la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio : figlio  per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che     PKIMA DI EURIPIDE 53   si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche  di fornire compiutezza romanzesca alla favola,  quando il significato naturalistico ne andasse  smarrito. C era dunque la materia , idonea a  produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé  il levame opportuno, un mito pur esso drama-  tico né meno denso di bellezza poetica. In vece,  prima ancora che riuscisse a comporsi in opera  ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso  complesso. —   Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo,  ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari-  vano non pure nell'identità de' nomi ma e nella  analogia degli uffici, non potevano rimanere  distinti: e tanto meno potevano se, — come non  è provato ma è forse da ritenere, — un mede-  simo suolo li generava. Si com penetrarono di-  fatti fin che divennero una narrazione sola in  cui gli elementi delle due generatrici sussiste-  vano tuttavia presso che integri, là sol tanto  alterati ove fosse parso inevitabile alla logica  della commessura. Rimase il duello fra Perseo  e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda  da Cassiepea: ma, — e fu il segno della con-  nessione fra le 'due saghe indipendenti, — la  causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata  non più nel supposto vanto d'una madre, ma  nella stessa precedente vittoria di Perseo contro  il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,  sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda  avanti la venuta del giovine liberatore: cosi  ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso  poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascol-  tato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato     54 II. - ANDROMEDA     con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa  fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei  due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An-  dromeda, su rineo r altro) andasse perduto,  tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e  Fineo.   Chi confronti ora da un lato l'avventura me-  dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed  Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos  con il premio della vergine e il contrasto con  Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei  due episodii, senza indagarne il significato re-  condito ; non vi trova pili tracce di quella simi-  gliali za che le saghe della "Maschia,, e della  Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av-  verte dramaticamente diversi, materiati entrambi  di moti sentimentali ma or verso la madre Danae  or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe-  rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro  la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato.  La cosi ottenuta diversità formale, permise a  chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo  tutte le vicende di lui, di comporre queste due  in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la  uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta  fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise  tutto il mito, nel suo insieme organico, e di-  venne per tanto la base prima d'ogni ricerca  costruttrice (1). Ne possediamo un sunto per     (1) Cfr. § I.     PRIMA DI EURIPIDE 55   opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è  necessario integrarlo col testo del ben più tardo  Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa-  dorna. Essa non è più per noi, nella forma con  cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la  lunga gestazione per effetto della sintesi nar-  rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla  nascita misteriosa vediamo Perseo compiere ,  dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av-  venture, la medusèa e l'etiopica, per ritornar-  sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa  a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi  in Tirinto il suo regno, che Argo gli era di-  venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata rac-  colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di  Perseo non fu solo di fargli attribuire per  arma contro Fineo il capo della Gorgone o di  condurre sul trono di Argo Andromeda re-  gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe  all' episodio del ketos ogni vita autonoma :  valse esso qual momento d'una complessiva  azione ed ebbe valore di conseguenza da un  lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,  doveva dal tutto ricever sua norma e sua im-  portanza: fin che al meno non ne fosse mu-  tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua  romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più  quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di  particolari le vicende, di gesti le figure, — non  si trasformasse in essenza diversa.   Nel molto che andò perduto eran certo forme  varie di cotesta indispensabile trasformazione.  Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli sto-     56 li. - ANDROMEDA     rici del secolo quinto (1). Per essi la favola  di Perseo e Andromeda acquista una impor-  tanza nuova di reliquia fededegna serbata a  traverso gli anni. La cagione è un avvicina-  mento verbale : uno de' consueti di cui si com-  piacque la fantasia degli anticM nel conato  e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra  Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo-  gica ma fonica indusse a ritener quello capo-  stipite di questi: non direttamente però, si bene  per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato  il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.  A dar poi un aspetto anche meglio credibile  alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta  ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,  " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ;  quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua  discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine,  sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli  Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga:  però che essi si riconoscessero, in quell'epoca,  or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud  dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Ce-  fèni „ desumendoli, come traspare, dall'ap-  pellativo medesimo del re. E si pensò che a  Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio  di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i  Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ;  e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui  si denominasse Persiano. La garbata ricostru-  zione critica non fini in questo : perché, difatti,     (1) Cfr. § VI.     PRIMA DI EURIPIDE     57     i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi  gli Artei? La risposta si trovò combinando  questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi  semiti che avevan sede intorno a Babilonia,  eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto,  presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo  esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli  staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre  sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava  abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per  tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni  avevano abbandonato la regione loro, allor  quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso  il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la  trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di-  parte una schiera di Caldei ad occupare la  terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ;  che si spingono verso gli Allei, li sottomet-  tono e insieme divengono il popolo de' Persiani.   Se non che questa mitopeja di eruditi pur  riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in  singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon-  dendogli una essenza nuova dissonante dal resto  della fiaba , finiva però in una soppressione  dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce-  feni, la lotta col ketos, le nozze con Andro-  meda, il duello con Fineo, sono un niente a  petto della conseguenza precipua su cui ogni  altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le  premesse non hanno più vita artistica; le con-  seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo  realtà nasce; ma la bellezza muore.   Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa-  trimonio letterario troppo non ci traggono in     58 II. - ANDROMEDA     inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque  dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii»  emergenti a lor volta su da rigide abitudini  mentali e in mezzo a consueti aspetti della  fantasia mitopeica, non solo perde presto la  sua autonomia col commettersi ad altre vicende,  ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a cir-  coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché  il senso critico lo adulterasse e , un poco , lo  vituperasse.     n. — Euripide.   Fu sorte della tragedia dare a esso episodio  di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu  né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di  altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri-  pide possediamo i frammenti bastevoli a rico-  struire il drama, se non ne' suoi particolari di  arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo  nelle sue linee maestre (1).   Era consuetudine ferrea che la tragedia nei  suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale  modo i tragedi pervenissero all' elezione del  tema e alla scelta dell'argomento non è possi-  bile dire, per la oscurità imperscrutabile de' pro-  cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia     (1) Cfr. § VII. I frammenti, naturalmente, son citati  e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^  (Lipsia 1889).     EURIPIDE 59   delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con  qualche chiarezza intendere come il problema di  arte si presentasse al poeta allor quando si ac-  cinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andro-  meda ; come, in somma, lo spirito di lui pren-  desse possesso, nell'impeto creatore, della materia  leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi,  come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi  distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere  singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra-  verso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per  consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile  nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio  di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu-  ziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano  la loro unità in un terzo, che è, in somma, del  mito il carattere eroico e la forma romanzesca.  Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen-  siero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno  suscitava spontaneamente il suo più vivo inte-  resse. Non solo difatti egli staccava nella tra-  gedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua  I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta  la dramatica greca, di appassionare non la fan-  tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo  sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio  e forza intrinseci non per smaglianza esteriore  di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie,  come sono ben lontane da quelle che l'hanno  creato dinanzi la natura e complicato in novella,  cosi son anche più mature dell'altre che ne han  goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario  e l'impossibile. Per certo le più antiche e le  moderne cerca van tutte nella saga una verità ;     60 II. - ANDROMEDA     ma la verità naturalistica e la verità eroica non  appagavano ora quei cittadini di Atene che vi  desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto  spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito ro-  manzesco che un tempo riusciva opportuna o  indispensabile commessione fra i due diversi  elementi della fiaba, sopravviveva adesso, in-  sieme col divino, quale materia in apparenza  superflua. In qual maniera difatti allivellare  sopra un piano medesimo una gesta miracolosa,  un affetto terreno, un intervento di Dei? E  ovvio però che il poeta non vide, come qui cri-  ticamente si espone, il suo problema; ma che  lo intui da artista. A punto per questo egli non  ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le  sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio  or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi  in guise diverse.   Poiché ci sono rimaste nella loro integrità  V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel  medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in-  trawediamo a bastanza la vita dello spirito  euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte  tentava il nodo mitico di Perseo (1).   Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra  tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed  Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per     (1) L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so-  ciale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edi-  zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed  emana da quello. Di più cfr. § Vili.     EURIPIDE 61     vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano  fino a darle la morte la donna da cui nacquero,  ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi  che col sangue di lei scorre nelle lor vene una  indicibile virtù di amore e rispetto : proten-  dono da la scena una dolorante maschera umana ;  fraterna con la grande pallida faccia intenta  dagli scanni del teatro. — E quando Menelao re-  duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto  recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im-  batte nell'Elena vera, quella che gli Dei re-  carono celatamente in Egitto, mentre un vuoto  simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla  decennale guerra; e la gioja irrompente per la  ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe  con lo sconforto per i travagli sopportati in  vano e la vita gittata in vano da centina] a di  prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte  le creature terrene, cui piacere e sofferenza giun-  gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno  nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immer-  gersi dell'artista nella sostanza dei personaggi,  nella correntia delle vicende, con un oblio com-  pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si-  stema filosofico applicato, co' suoi postulati ge-  nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso,  dal profondo, con la freschezza d'una polla cui  s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è pos-  sibile indurre riferimenti con l'ambiente storico  del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo  stato psichico di lui in quegli anni; ma solo  intorno al consueto modo della sua forza d'arte.  L'animo di Euripide si rivela più in là. In  quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò.     62 II. - ANDROMEDA     Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di  Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non  poteva respingerené poteva non alterare. Tali  l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto  a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or-  dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto  Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,  permettendo sperpero immane di energie e va-  lore. Cotali interventi divini eran la premessa  indispensabile dell'azione ; divennero per Euri-  pide radice di nuova tragicità : però che, tanto  più gli parve orribile il delitto di Elettra, in  quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal  Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio  di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto  adunque le parti divine della tragedia si con-  nettono per lui strettamente con il travaglio  umano ; ma costituiscono una forza cieca e  buja contro cui bisogna urtare : simile al peso  corporeo che non s'evita con gli slanci dello  spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime  con i trovati dell'ingegno.   Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma  chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp orta paziente  l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con-  fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo-  climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello     (1) Elett. vv. 1298-1301.     64 II. - ANDROMEDA     ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,  cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii  sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i  terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui  il problema si formula ; ma nulla lo risolve ;  nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo.  Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi  semidio? qual fra i mortali, anche spingendo  molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo?  quale, dopo aver visto l'opere divine or qua  or là balzare con contradittorie e inaspettate  vicende? ,,. Nessuno risponde.   Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si  svolge materialmente su la scena, accanto i per-  sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta,  ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se-  conda tragedia, più che la prima. Non di com-  passione, di simpatia geniale verso la sofferenza  d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e  strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La  quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della  sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero  di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai  la concezione omerica e infantile degli Dei, non  vi crede ; l'ha sostituita con una più matura.  Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo  mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama.  Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tor-  menta : ripete a chi l'ode la favola bella degli  antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo-     (1) Elena tv. 1136 sgg.     EURIPIDE 65   sofia ; questa e quella compone, senz'accordo  logico, entro il suo affanno.   Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione  postulava nel mito, ed Euripide accetta trava-  gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche  hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in  cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;  intrusioni sgorgate da un animo che, non pure  assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella  saga si profonda e si abbandona, anche con  quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.   Tale s'originò nel drama di Clitemestra la  figura del contadino, povero e rozzo, ma pur  squisito di sentimenti e schietto di azioni :  VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta  in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli  se nati da nobile genitore. Egli, come apprese  la condizione della fanciulla che gli veniva de-  stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a'  suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospi-  tare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo,  per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando  aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre  son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi  arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la  Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di  forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e so-  brio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela  semplice perché diritto : e mentre Elettra ed  Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure,  egli va crescendo in valore fino a superarli nella  sua persona salda e nel suo fermo polso. Né  basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama  gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa   A. Feekabino, Kalypso. 5     66 II. - ANDROMEDA     esclamare con maraviglia un poco attonita (1) :  "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere  la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli  uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di  padre generoso; e rampolli onesti di genitori  perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la  magnanimità in un corpo povero. C'ome orien-  tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio  questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi-  seria è una malattia, cattivo maestro è il bi-  sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM  risguardando a la lancia giudicherebbe qual  sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde-  cisi codesti problemi. Costui per esempio grande  non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne  per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure  si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta  figura divien quasi di maniera e par disegnata  per dimostrar una tesi o attingere uno scopo.  Quale tesi o quale scopo si propose Euripide  nel concepirla e nello stagliarla?   Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena  la novità introdotta. E anzitutto nella scelta  medesima della favola : un mito secondario che  risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal  leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem-  brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il  tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare;  che forse si assommano nel desiderio di met-     (1) Elett. vv. 367 sgg.   (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo-  pàdie , VII (1912) pag. 2833.     67     terne in risalto il singoiar contenuto. La donna  bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa-  rebbe stata causa unica di ire e guerre per un  decennio, di sventure ed errori per altri dieci  anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli  strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i  poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più  pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha  giurato a Menelao di " morire ma non mai vio-  lare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che di  morire è sul punto, e attiene la parola, ed è  beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a  te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo)  il coniugale amore di Menelao ; che le afferma  " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più  li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da  acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af-  fetti traverso anni e vicende acquista il suo più  vero significato quando venga contrapposta al-  l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,  di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa di-  fatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non  pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe  più, spiritualmente : su la fine difatti di quella  prima viene annunziato e svolto in breve il  tema della seconda (5). E le attinenze diven-  gono palesi quando le due cognate si parago-  nino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è  presso Euripide se non la malvagia donna : tale  la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i     (1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840.  (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg.     68 II. - ANDROMEDA     vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella  bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione  di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è  savia, tutto consenta al marito „ (1); non è giustoj  per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne  nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra,  — tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse  decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena  da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio  le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la  donna che, assente il marito, adorna la sua bel-  lezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato  amico di cotesta non buona, figura Egisto, non  prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia  corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle  donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro  fra due coppie : riscontro a base morale, ma in-  trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi  d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché intro-  dotto? perché l'arbitrio?   Alla domanda che per la seconda volta in  breve esame ci si presenta non si deve rispon-  dere se non dopo aver rilevato un altro parti-  colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il  simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi du-  rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno  contro gl'indovini che, prendendo parte all'im-  presa, non scorsero la verità, non svelarono il  comune abbaglio, né evitarono vittime inutili.  Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere     (1) Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.  (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3.     BUBIPIDE 69     degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal-  cante non disse né rivelò all'esercito vedendo  gli amici morire per una nuvola ; e né pure  Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse,  che un Dio non volle. E perché allora ci rivol-  giamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio  invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :  furono inventati ad allettaménto della vita, ma  nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il  senno e il buon consiglio sono l'augure mi-  gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso-  naggio, non pur dramaticamente notevole, ma  anche moralmente insigne, Teonoe sorella di  Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù  di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi  invasa da una potenza profetica analoga alla  magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è  buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra,  tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af-  finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me-  nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che  non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi  per bocca del Nunzio come per bocca de' Dio-  scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi  il suo più soggettivo pensiero.   In questo suo pensiero sta di fatti la ragione  e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della  purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme  di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia,  di cui quelle son le forme momentanee ; è morso     (1) Elena vv. 744     70 II. - ANDROMEDA     da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono  gl'indizii occasionali.   Egli appare un moralista. Ecco i personaggi  per cui parteggia con simpatia : una moglie  onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la  figura che crea con compiacenza paterna : un  lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av-  versa acre e violento : un bellimbusto galante,  una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un  lato coloro che rientrano nel suo concetto del  bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar-  tengono al suo concetto del male e dell'iniquo.  Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul  principio che regola la sua morale ; solo la  espressione può venirne discussa.   Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo  ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli  vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli re-  puta degno e capace di governare la pubblica  cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna  e Menelao gli piace constituita la polis a scopo  di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che  il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:  mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre  scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo  in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K  a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret-  tano a conchiuder V Elettra perché debbon " sal-  vare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso  minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte  non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La  democrazia non dà buoni frutti dopo la morte  di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel  potere con quello degli estremi : ed è tale la     EURIPIDE 71     sfortuna di Atene che gli uni non attingono il  governo se non quando le disfatte han dimo-  strato rinettitudine degli altri, e non son per  per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano  a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza;  ed ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra  tutti, male comune nell'inettitudine comune, si  stende la piovra della cupidigia, la sete del gua-  dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono  massime cui ciascuno informa l'opere se non le  parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è po-  tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il  povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno  in una lotta, ove il pregio morale non conta,  la forza intellettiva non importa più che il tesoro  cumulato ; forse meno.   Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif-  ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava  superarla ; piegar la realtà possedendola sino al  fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.  E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri-  volgimento costituzionale serpeggiavano e fer-  mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu-  zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta  la materia sociale toccò Euripide ; il suo spi-  rito ne fu macerato e sconvolto : però che contro  l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine-  riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non     (1) Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig  1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui  è veduto con gli occhi di Euripide.     72 II. - ANDBOMEDA     segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece  con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli  adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me-  nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica,  che il suo genio d'artista non poteva né doveva  sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro-  blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di-  venne malinconico di speranze deluse e rina-  scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette  nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta-  tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro-  blemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia  flebile, nella quale confluiscono, — opportuna-  mente, — tutte quante le quistioni minori della  vita sociale e familiare ; le contese minute su  questa legge o quel decreto : le spine sparse  lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet-  tiva contro gli auguri, secondaria piaga dello  Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che  repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di  filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino  probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero  dono divino si rivela appunto pel modo del suo  uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „  corruccio ancor questo: che favore di auguri  aveva secondato l'infausta spedizione siciliana (1).  Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel-  l'animo del poeta per tal via: melanconico spi-  raglio alla più intensa vita.   Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la  materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della     (1) Tucidide VII 50; Vili 1.     EUKIPIDE 73   religione e della filosofia ; preoccupato dalle  sorti politiclie e dalle condizioni sociali della  sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto  di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e  con VElena^ V Andromeda.   Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i par-  ticolari minori e grinciampanti aneddoti della  saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel  pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col  ketos la tragedia era nel combattimento delle  due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.  Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la  leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mito-  grafo, la bellezza era constituita dal numero e  dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del  poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore  di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei  due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in  cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro  elemento si dispose intorno a questo : dal quale  ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il  primo flusso del nuovo sangue infuso nella  vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che  non sembri.   Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della  tragedia appariva la fanciulla sospesa a una  rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e  piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi;  non lontano è il mare onde la belva vorace  verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in  Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda,  che tentano vani conforti a la tremenda scia-  gm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravve-  nire. E nell'animo degli astanti la deprecazione     74 II. - ANDROMEDA     del male imminente lotta con la tormentosa  ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i  capi come un mostro informe. " sacra notte,  qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg-  gendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del  divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ (1):  tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore  si ribella contro l'asprezza del fato e la trista  disparità del dolore : " loerché più larga parte  di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso  alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta  il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre  sente alleviato il suo male, se del pianto fa  parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel  petto, senza sollievo, con la durezza della ma-  teria minerale, e non prorompe se non per voci  d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il  moto compassionevole delle compagne, si di-  scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la  vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino  onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla  pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di  forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as-  sommano nel presente pianto della figlia pu-  nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la  scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara  voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una  insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze  avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza,  — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata;  non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi     (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119.     EUBIPIDE 75     e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere  Tuniformità di questo tormento, giunge a tra-  verso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal  rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne  reca in Argo (2). E radioso della sua recente  gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce  prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col   veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo?   Timagine d'una vergine, come scolpita da mano  sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sol-  lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu  taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade-  guato interprete del pensiero „ (5). Non senza ran-  cuna son le prime parole di quella : " ma tu chi  sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la  tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof-  frire, non definisce audace colui che persiste nel  voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi  sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine,  ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni  freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era an-  cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel  che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta.     (1) Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des  Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei  particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri.  Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,   ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura  a sinistra di Ermes.   (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124.   (4) Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127.  (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente  dato dal Nauck.     7G II. - ANDROMEDA     La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si  susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un  concento unico di vivace simpatia vicendevole.  E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si  forma adesso assai più nell'inconscio secreto del  cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli  forti e pronti, erompe in promessa : " vergine!  s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-  la sua prodezza non vuole compenso per solito ;  la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora  chiede è più che una gloria : è il possesso ma-  gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo  animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza  mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'il-  ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di  pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che  nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer  dura al generoso offertore; l'istinto femineo se  ne avvede e la spinge a soggiungere : non per  colpa di te " ma molto può avvenire contro  l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la  vita non è nata o almeno non è del tutto salda;  è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome  del suo passato di vittoria, della sua strenua  energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli  moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci-  narla con sé nel sogno, a persuaderle certa la  liberazione prossima. E Andromeda allora lascia  ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa  onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro  oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul     (1) Fr. 129. (2) Fr. 131.     EURIPIDE 77     mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero !  e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia  moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro  tutto; mi sciogli dai vincoli! „ (1). Perseo com-  batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico  mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo  dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando  una tazza d'edera colma di latte, chi succo di  grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola  del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa  del salvatore (2).   Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è  la fondamental intuizione psicologica della tra-  gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In  quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco  valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo  offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan-  ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima  nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:  meglio, l'anima non le è data. Euripide per  contro ne fa il centro della scena : plasmandola  d'una sostanza indipendente, la costituisce di  sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in  una persona non comparabile con altre, la crea  fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella  gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura  mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di  Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de-  siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol  morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal  mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge,     (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.     II. - ANDROMEDA     la divinità di lui si menoma e si abbassa di-  nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una  corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi,  tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie  Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia An-  dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve-  nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di  sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce.  Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al  fervido desiderio del prode il grido della sua  dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo,  vivace, nella sua libertà che dalla passione forma  il volere, del volere compone il proprio decreto.  La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo  mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro  la belva, era più vigorosa corporalmente; non  era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella  tragedia euripidea, una tanto geniale innova-  zione doveva sembrare anche anarchica urtando  contro le consuetudini legali e morali della vita  ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve-  lare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E  chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo,  o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna,  e a ricomporre nello schema giuridico la mossa  ardita della figlia. E fine si manifestava forse,  in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.   L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza  effetti. L'amore della vergine che prima della  lotta trionfale era come offuscato di paura e di  speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò  di malinconia contrastando con gli affetti filiali.  " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ?  Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al     EURIPIDE 79     vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva  grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora  (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec-  chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col-  pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel  doloroso contrasto levasi l'appello al dio che  travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere  i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini  e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle  o ajuta benigno gli amanti che penano pene di  cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,  onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo  stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia  di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto  piacque al pubblico perché nella veemenza del-  l'amante incontro al Dio della sua passione tras-  pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire,  non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a  tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore  vince.   Era ancor questa una giunta di Euripide al  mito. Ma secondaria: un che di convenzionale  la gravava ; non improntandola il segno del pen-  siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia  dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del-  l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue  quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto  e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più  larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psi-  cologica queir ansia pregna di preoccupazione     (1) Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII.     80 II. - ANDKOMEDA     politica, quel travaglio complesso di meditazione  sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due  tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma-  gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui  crede di aver esaurito per una via la materia  psichica del dramma, una nuova senza indugio  gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma  generica umanità del suo pubblico, per eccitarne  peculiari moti e destarne i singolari interessi.  Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,  l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro  alla difesa della giovinezza e della passione, da  lui concette e atteggiate sotto la piti seducente  specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il  pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cas-  siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la  quistione giuridica o sociale o politica di cui è  per far cenno, dalla sola impostatura dei ter-  mini si comprende che Euripide, — anche una  volta, — aspira a risolvere una difficoltà em-  pirica col criterio non dell' utile e del pratico  ma del buono e del bello.   La quistione poi non è sola, si consta più ve-  ramente di due. I genitori della vergine s'ar-  mano oltre che dei proprii diritti sentimentali,  di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento  degli esseri si trasforma in un contratto econo-  mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto  da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la  peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia  del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro  io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche  se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bi-  sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della     EURIPIDE 81     felicità! „ (1). Che importa forza di gioventù,  ardimento di cuore ? clie importa la gloria im-  mortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii  venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno  viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli,  con l'esempio recente, che si può per ricchezze  fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3).  Risponde, al ricco anche la sventura esser più  lieve che al povero: già che quello non soffre  se non del presente ; questo " ogni giorno spa-  venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-  lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la  fiducia idealistica e il materialismo gretto si as-  somma in una sentenza : " questa delle ricchezze  è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu-  ripide ha torto ; la ragion pratica lo deve con-  dannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha  torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non  al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla  plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale  dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal  tragico non vien conseguito, un altro lo è, più  dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare  la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è  recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il  lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie  di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono an-  cora in Atene ; ognuno interroga l' imminente  destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor-  bida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando     (1) Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.   (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137.   A. Ferbabiko, Kalypso.     82 li. - ANDROMEDA     cader la sua massima morale il suo rigido e  teorico principio, se non insegna una via, dis-  gusta del presente cammino.   Nel male generico poi rocchio di lui scorge,  e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, —  quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ — Pe-  ricle aveva proposto e fatto votare un psèfisma,  secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i  nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino.  E tale legge era durata in vigore di poi fino  ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Ari-  stofane. In verità se si pensa agli scambii con-  tinui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci  s'avvede subito in qual forte numero gli Ate-  niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e  decaduti a un grado inferiore, solo per aver con-  tratto unioni con donne straniere. Pericle stesso  fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né  solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno  urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte  le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né  pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate-  niese, per esempio, una donna nata in città della  Lega marittima, dura e perigliosa barriera si  rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur  del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la  loro fedele assistenza doveva contare specie du-  rante le guerre infelici. Onde il largo spirito  euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse  la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo  etnico che la saga conferiva ad Andromeda per  riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad  Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre :  " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi !     EURIPIDE 83     che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, sof-  frono per legge: da questo è necessario che ti  guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto  mònito è pari alla profondità del problema toc-  cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non  pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge-  nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio  sia la eventual vittima della dura legge ; che  la ragion giuridica stia con il cattivo genio della  tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio  intiero contro il decreto e gli strappa, non per  raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.  Aristofane muove a riso se un suo cotale perde  l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide  indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere  ma, dopo un estremo rischio, nel giusto com-  penso d' amore. All' architettura passionale la  scenica doveva corrispondere per modo che non  s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né del-  l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito  potrebbe menare grande scalpore.   Anacronismo e irrazionalità era difatti mo-  strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto —  che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non  se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano  essi indizio d'un' alterazione del mito ben più  profonda ed esiziale di quella operata dalla ge-  nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di     (1) Fr. 141. Cfr. § VII.   (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di  G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To-  rino 1903).     84 II. - ANDBOMEDA     rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti  fra la nostra essenza umana e le favolose vi-  cende. Invece, una volta intrusi fini di ripren-  sione politica e di biasimo sociale sopra la trama  della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.  Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del  ketos, affronta problemi proprii dello statista, non  prosegue se non l'opera del mitologo che, al me-  desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e  il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito  la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano  r antropomorfismo contenuto nel primissimo  germe. Si assiste cosi a una penetrazione suc-  cessiva e graduale del fenomeno solare nella  sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento  procede, tanto meno il mito serbasi, qual era,  mito di maraviglia cui si presta la fede non ra-  zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta  in paradigma d'una teoria logica, in schema di  una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è di-  venuto pretesto a un problema giuridico, egli  è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra  le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto  si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla  vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono  però le sue prime rigogliose radici.   Mentre da questo lato la leggenda si profonda  verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-  sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò  di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le  vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.  Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar-  lumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come  la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri-     EUKIPIDE 85     volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ;   lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega  la vita, piega la fortuna con lo spirar dei  vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,  senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2).  E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di  Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3).  Né manca un moto d'ira contro la divinità che  ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è  espresso in forma accorta e velata : non avverso  a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ub-  bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An-  dromeda il Coro — " che dopo averti generata,  o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade  in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti  il principale, da cui traggono luce gli altri, è  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso  con un suo analogo, rimastoci della Melanippe  incatenata (5). " Pensate voi che le colpe bal-  zino su con le ali presso gli Dei? e che poi  qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavo-  lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda  giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste-  rebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli  uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esa-  minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi :  Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,.  Dunque Euripide ha un concetto di giustizia     (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel se-  condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150.   (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag.   (4) Fr. 120. (5j Fr. 506.     86 II. - ANDROMEDA     a cui non vede rispondere né l'opere né i de-  creti divini, a cui gli pare meglio s' addica la  condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo  fra Zeus eDike: questa non può seder presso  quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene:  queste mal rispondono a quelle né sempre presso  al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità:  un re felice è tramutato in infelicissimo per  l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso  non ha la gioja del premio e deve superare  nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre.  E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che  cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?  La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio  tragico, - — ritorna, e accompagna, in tono mi-  nore, il concerto delle passioni eroiche e dei pro-  blemi sociali.   Ma cotesto non è più mito. E critica del mito :  in quanto esso contiene un ricco elemento reli-  gioso. Critica singolare però : che è insieme atto  di negazione e atto di fede. Euripide accetta la  leggenda, la narra senza alterarne il lineamento  essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli  un legittimo procedere della divinità. E la sua  risposta ha un sottinteso profondo. Egli po-  trebbe difatti negar di credere al racconto per  le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con-  trario, perché le sente, dopo averle psicologica-  mente vivificate, umane e, come umane, verisi-  mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo.  E una maniera di sceverar, nella fiaba, la in-  corruttibile verità, — il dolore l'amore la morte,  — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti  e le forme divine. Se non che essa verità ca-     EURIPIDE 87     duca non è morta, ha vita in assai spiriti an-  cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo  svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E  il tentativo di ripossedere totalmente il mito  fallisce; una rocca resta inespugnata.   Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri-  pide investito il problema che la leggenda eroica  di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero.  Della leggenda la sostanza umana fu la più  riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito  creatore si profondò con la sua potenza d'in-  tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di  politica da l'altro; quella per cui l'animo si com-  piacque della finzione antica, e la godette ri-  creandola. L'elemento divino fu contemplato con  occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata-  mente. Al di sopra si conservava intanto la patina  eroica, lo splendore delle avventure, la maestà  delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.;  reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro  orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga  dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im-  mensamente lontano. Non si sa se nella tra-  gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere-  cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali:  certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un  sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera  estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza  umana, elemento divino, vernice romanzesca non  trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello  spirito euripideo : sintesi che non è concordia  logica, né armonia estetica ; si bene vita in an-  goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo-  gico e l'affanno politico e il dubbio religioso     88 li. - ANDKOMEDA     si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,  la sorte di Perseo assommano in un solo vivo  vertice le divergenti passioni dell' intera tra-  gedia. Per comprender questa nella sua forma  poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie  molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del  poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui  potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una  sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque  e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu-  pato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet-  tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli  spettatori come al poeta il fato travaglioso  dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli  Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si  tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più  sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato,  da l'alto, le infortunate vicende della grande  Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende  argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi  gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma  di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi  fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da  quando il suo impulso ideale vien premuto dalla  material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude  ha la maschera ambigua dell' avvenire che at-  tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce  la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze  con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione  in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra-  mutati in constellazioni. I problemi umani della  sua vita sono tronchi da un intervento divino :  non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol-  tanti il timore per le imminenti sorti della     I     DOPO EURIPIDE 89     patria; s'accresce il senso vivace del mistero che  regola le fortune terrene.   Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico  del mito compaginati negli spiriti di Euripide  e del primo suo pubblico, non significa che si  fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione  può, nello spirito, comporsi per il dolore me-  desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,  disarmonica la forma estetica che la esi^rime-  Quindi l'unità è momentanea, non stabile. Le  diverse materie della leggenda si serbano dis-  gregate e inorganiche. E, non potendosi nel  tempo, se non per via di critica, riprodurre iden-  tico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età  che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano  derivate non accolgono simpatie e non trovan  cultori. Ond' è che il drama nella storia della  fiaba rappresentò una pausa senza echi.     III. — Dopo Euripide.   Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un  lento ma spiccato impoverirsi della sua vita.  Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece,  di arricchimento; la tendenza verso una polie-  drica complessità: onde naturalismo e novel-  Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan  avuto giunta dal romanzesco, per attingere il  sommo della pienezza nel dramatico travaglio  del pensiero religioso e politico, il vertice del-  l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo     90 II. - ANDROMEDA     Euripide, la parabola discende sino ai confini  d'una più consueta mediocrità: si che par nel  principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi  se non il midollo originario della fiaba, ma si  mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari-  dito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza  alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene  lo spirito che negli inizii verso lei convergeva in-  tiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo al-  largarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si  immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della  leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi  del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un  nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato  a pena uno stampo, prende a foggiarsene e  riempire un altro : maggiore.   Il lamento ch'è solito allo storico del mito si  deve ripetere ancor qui : assai fu perduto che ci  avrebbe di molto giovato nello studio di cosi  fatta decadenza mitica. Non son più che quattro  gli autori (1), in cui ci ritorni il racconto del ketos;  ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa  caratteristica.   Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con  l'altre ancor questa favola, si riconnette a Fe-  recide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa  aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua  origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio-     ti) Dal numero è escluso Igino Fav. 64, come quello  che contiene varianti di particolari, ma non imprime  d'un propi'io segno la fiaba.     DOPO EURIPIDE 91     coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi  in margine, ferma la notizia d' una tradizione  alcun poco diversa dalla ferecidea (1). Chi legga  distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi  abbia intenti d'investigazione erudita : nel che  si appalesa dunque la caratteristica di questo  strato evolutivo. All'autore che la narra la leg-  genda è morta: è cadavere che egli ricompone  fra bende, con qualche cautela, a fin che poco  di quelle membra che furono organismo vada  disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,  nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo  compilatore ; presso il quale è già armonia di  contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre,  una ragione più alta, intima alla logica dello  sviluppo storico, onde Euripide dev' essere ta-  ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e  la volgata con tutte le sue piccole e grandi va-  rianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ;  è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila  a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra  le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche  della mitopeja; già che la distinzione deve va-  lere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo.   Se non che tale aspetto non fu del solo Apol-  lodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del  pari, se pure non nell'atto materiale del suo la-  voro, certo nella sfera fantastica della sua mente,  da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide  erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò     (1) Cfr. § I.     92 II. - ANDROMEDA     sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ;  la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per-  sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due  giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa  e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol  tanto entro i loro limiti il poeta si concede di  imitare altre fonti, sia pure Euripide.   Il romanzesco imprenta tutto quanto il com-  patto manipolo degli esametri tra la fine del  quarto e il principio del quinto libro nelle Me-  tamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il  miracolo della potenza oltreumana: dal volo  che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del  capo gorgoneo che termina l'episodio. In appa-  renza però Ovidio non se ne compiace con la  maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com-  primerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo,  il ketos avanzante al feroce convito vien pa-  ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con-  fine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra  con l'empito discendente dell'aquila: non insolito  spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simi-  glianza di cignale fra cani in torma : scena cui  è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar  degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria  dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri.  In realtà, queste similitudini umane riescono una  più sicura esaltazione dello stupefacente: — ne-  cessarie perché le intuizioni si concretino, escano  dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla-  sticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il  riscontro consueto e terreno : — utili, di più, per  creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo  straordinario e il normale. Si compie qui, ac-     DOPO EURIPIDE 93     canto a un magistero d' arte più evoluto che  vede i particolari e li esprime non li accenna,  uno sforzo per accrescere la distanza di cui se-  parasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio.  Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine?  Per la metamorfosi che conchiude, in due ri-  prese, il racconto. In quella il romanzesco si  dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa  che impietra in coralli le verghe del mare e  converte lo stuolo dei congiurati in affoltata  marmorea di statue danno una sanzione estrema  a l'inverosimile che precede. Non in egual modo,  a dir vero ; che ciascuna di quelle trasforma-  zioni ha importanza speciale, né può valere se  non congiunta con la prima o la seconda delle  scene in cui il racconto si divide.   La prima è intorno alla venuta di Perseo, al  duello con la fiera, alla vittoria (1).   Novamente da l'una parte e da l'altra egli si av-  vince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma :  e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e  di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte  etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva  ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna  lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,  avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non  avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido  pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne  avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa     (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus  (Berlino 1914).     94 II. - ANDEOitfEDA     bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria.  Si ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca-  tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,  il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e  perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa  parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il  volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva,  — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più  spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi  proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse  stata fiducia della materna bellezza.   Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :  avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta  sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do-  loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri  entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con  sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si  serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la-  crime molti giorni vi potranno restare ; a porger sal-  vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo  nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé'  pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone  anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo-  latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an-  teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene-  fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore  salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per  vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote  il lor regno, i genitori.   Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro  le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale  la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto  dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa  Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando     DOPO EUKIPIDE 95     d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,  alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque  fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista  ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che  nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga  concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non  torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea;  cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della  fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina-  chide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata  da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si  asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di  fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno  spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;  adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei  fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si  termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella  con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti  misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe-  santiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi  a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo  vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate.  A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i  gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei  fianchi colpiti.   D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su-  perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au-  silio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e     (1) Per avere una idea precisa della " spada ricurva ,  " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720  {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon  d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig 1902-9) pag. 2053-4.     96 II. - ANDROMEDA     Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine,  della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta  purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda  l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,  virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa  di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso  midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con-  tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse  rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il  mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon  ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su  l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,  che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era  verga nel mare, sopra il mare sasso diventi.   Seguono le scene di festoso tripudio cui s'ab-  bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti.  E si termina, col libro quarto, il primo episodio,  per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi  sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra  Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen-  timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac-  colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor-  dina. Un che d'ignoto par che l'attenui come  d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi-  candosi tutto il successivo evento appunto dal  sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa  del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il  vertice avventuroso del racconto, questa scena a  l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o,  meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa  del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo  senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire     DOPO BURIPIDB 97     "iin elemento disgregatore, una disarmonia nel-  l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-  ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil-  mente: ella s'induce a rivelare allo straniero il  perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri  celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre:  egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre  la belva avanza e il terror tragico martella i  cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene  onorevole genero al re. I più generosi appajono,  poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore  danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista  fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse  alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è  capace in altri casi. I soli accenni più appropriati  toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente  Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della  vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza  numerica della forma cela l'esiguità della intui-  zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma  un poco anche guasto la vita.   Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti  a banchetto nuziale il re e la regina con la  figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E  l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan-  zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il  coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma  tenta ora di riaverla quando il ketos è ben  morto.   Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' im-  prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie     (1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc.  A. Ferbabino, Kalypso. 7     98 II. - ANDROMEDA     una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti  alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E  i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare  a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida  rabbia dei vènti.   Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con-  tesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,  " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della car-  pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove  in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare,  Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in-  furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ?  con questa mercede compensi la vita di lei ch'è sal-  vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo  a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero  Ammone, ma quella belva del mare che veniva per  farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu,  quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu  brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non  basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo  soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli  che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ?  Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era  affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual  lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si  porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi  come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.   Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi     (1) È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus  avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof-  fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae.     DOPO EURIPIDE 99     comincia il combattere. E il racconto si distende  lungo per circa due centinaja di versi : che la  battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab-  bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu-  multo è grande (1).   " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per  la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va-  namente pio suocero, e con la madre la nuova sposa,  son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma  prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „.  Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla  turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che  mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.  Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il  capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti  commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la  mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal  gesto rimase statua di marmo ,. All'ultimo è pro-  strato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal  mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci,  Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie-  trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego.  Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per  la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa  per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.  Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a  me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né  risguardare ardiva quello cui con la voce pregava,  rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti  posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore.     (1) V 30-235 ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.     lOO II. - ANDROMEDA     — ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi  vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,  nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la  mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „.  E lo impietra.   Cosi la vasta e agitata folla che nel principio  commoveva la scena si tramuta in un popolo  rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis-  sità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il car-  dine del secondo episodio mitico: efficace tra-  passo per il quale la compiacenza ferecidea  verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza  dell'azione si sublima in motivo di armoniosa  bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di  Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochimuta-  menti, né tutti soltanto di particolari; giacché,  dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne  costume lecito alterare la saga per adattarla  alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare  di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con  l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di  un Comune per attingere gli estremi del mondo  colto. Unica può starle a paro, per intima vì-  goria di concepimento, e per potenza espansiva,  la favola composta nell'ambito di quel moto  filosofico e religioso onde il pensiero greco, e  specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei  Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di  " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e  Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo in-  treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli  Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci impor-  tano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci  sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.   Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e  l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche  con la siciliana, tenace per antichità, infantile per  incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo  moto di storia.     IL MITO SIRACUSANO 127     in. — Il mito siracusano.   I Siculi, che si erano ritirati su i monti del-  l'interno perché incapaci di resistere ai predoni  dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che  in Enna avevan con più insistenza fissato il lor  mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se-  colo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare  dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi  di sedi le quali si trasformavano via via, dive-  nendo sempre più salde più ampie più belle, in  città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII  e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il  terreno, o sgombro facendolo con distruggere  e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a  siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve  a fiore civile intellettuale e artistico grandis-  simo in paragone di quelli, e a distendere sn  tutte le portuose spiagge dell' isola un incan-  cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri-  monie della loro mentalità religiosa si radicano  ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor  dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata  vigoria e bellezza.   Certo la lor somma di progresso spirituale e     (1) Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc-  cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I  (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I  (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia  voi. I (Torino 1894).     128 m. - LA DEMBTRA d'eNNA   di culto civico, accopj)iandosi con la congenita  irrequieta genialità e l'inconculcabile aspira-  zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli  presto a violare i segreti delle regioni più in-  terne e a portarvi il soffio della propria opera  contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol-  versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche  i commerci di scambio, a Enna ebbero a per-  venire folate di vento greco fin dal secolo VI.  Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ;  perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né  fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano  alcun poco.   La palese influenza dei Grreci su Enna co-  mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.  Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo  alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad  Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi  di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana  e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op-  ponesse non importa qui sapere. Senza dubbio  oppose una resistenza ■ riguardo al suo culto e  al suo mito, che non poterono venir eliminati,  ma rispettati dovettero essere. La risultante di  queste due forze (la siracusana che assorbiva e  la ennense che non cedeva) fu una leggenda,  la quale impropriamente si direbbe contaminata,  perché è più tosto un compromesso di politica  religiosa, una formula felice per conciliare le  pretese o, se piace, i diritti dei due centri di-  versi (2).     (1) Cfr. § li. (2) Cfr. § II.     IL MITO SIRACUSANO 129   In Siracusa Grelone fu un institutore e un pro-  pagatore zelante del culto delle greche iddie  Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto  aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il  mito del rapimento. E a quel modo che nel-  r Inno a Demetra la favola naturalistica , non  spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien  ad arte connessa con un preciso e determinato  centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten-  denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo  dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle  saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii  alle indeterminate frasi del racconto mitico e a  applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le  cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un  moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra  Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la  preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce  di fronte a un certo nume. Di qui nascono di-  fatti sovente contese tra regioni ; in particolare  se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto  della maggior fecondità d'un suolo a paragone  d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla  generale tendenza: però che ci sia rimasto in-  dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la  quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo  di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri  testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;  onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito,  come da una delle bocche dell'Erebo e del sot-  terraneo fuoco. Che se accanto a questo parti-     ci) V. 133.   A. Ferrabino, Kalypao.     130 III. - LA DEMETRA d'eNNA   colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infer-  nale si apre la via del ritorno presso lo stagno  di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti  topografici di una saga che adatta il vecchio  mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane  è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla  zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei  Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nel-  l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret-  tamente libero da Enna dimostra qual fosse  l'impulso originario del culto instituito da Ge-  lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca-  ducità che lo contraddistingue provano quanto  diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra  l'indipendenza contro i diritti di prima occu-  pante che competevano alla fiaba dei Siculi.   La quale s'imponeva difatti tanto più quanto  maggiormente s' era, traverso gli anni molti,  radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati  su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo  essenziale per lo meno, la sua simiglianza con  il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po-  tevasi rivestir di fogge e definire con nomi  greci ; non asportare dal lago : ove del resto la  feracità del luogo e la credenza, anche greca,  che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so-  vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.   E difatti il ratto rimase. I Siracusani die-  dero alla divinità delle biade il nome di De-  metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter-  mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello     (1) V. sotto pag. 131.     IL MITO SIRACUSANO 131   di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto  l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben  sapevano, e con quei particolari che eran dive-  nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di-  ritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo  libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper-  tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi  aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A  Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „  di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca-  valli. E noi non sappiamo molto di più; ma  è facile che altri particolari della leggenda si  connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer-  doti. Suggello poi di questo compromesso reli-  gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca-  ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto  di Cora. Questa avrebbe avuto compagne du-  rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre  le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee  vergini. Ora Artemide grandemente importava  nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera,  città a Siracusa amica durante le guerre del  V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno  dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui  si vede costretta a riconoscere che a Demetra  doveva esser spettata la signoria di Enna, at-  tribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di  Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto  questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna  e, quel che importava, al medesimo livello.   Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esi-  genze dell'antichissima saga ennense e le pretese  della pili recentemente sopraggiunta saga sira-  cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi     132 III. - LA DEMETRA d'eNNA   nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit-  tolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna  Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per  vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende  sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra  e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico  la proteggono; Atena ed Artemide, compagne  alla violata, signoreggiano due città siciliane ;  il suolo è opulento di biade come non altrove :  certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde  il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla  sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,  diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del  grano. Bisognava dunque, da che respinger Trit-  tolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa  ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza  garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto-  lemo, avesse avuto il favore di Demetra e co-  municato alle terre il dono preziosissimo; si con-  cedette che ciò accadesse in occasione del ratto  di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto  il racconto. Ma, — gli si premise, — già dianzi,  avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia  produceva grano, prediletta alle due Dee per la  sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, —  si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto  agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una  separazione dunque della Sicilia dal restante  paese, onde il ratto divenne il momento pro-  pizio per diffondere al mondo il privilegio si-  culo. Che era non poco orgoglio.     (1) Cfr. § IV.     IL MITO SIRACUSANO 133   Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti  senz'eccezione gli elementi per un ben contesto  tessuto leggendario che un poeta potesse far  suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira-  cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi-  tico aveva i suoi punti topografici fìssi e armo-  nicamente collegati ; il culto preparava salda e  e vasta base per un'accorta serie di invenzioni  etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città  s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la  stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche  particolare non privo di attraenza. Né manca-  rono forse i cantori che la materia non inde-  gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane  se non il testo, povero non chiaro e senza vi-  goria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo.  Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la  potenzialità artistica del mito e la mancata  espressione di esso, eh' è a un tempo mancata  intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca  istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor-  dinato svolgimento.   I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro  progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo  nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora;  ... e che le predette Dee in questa isola primamente ap-  parvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del  grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova     (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in  Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg.   (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.     134 III. - LA DEMETRA d'eNNA   adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola  e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee  soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.   Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne'  prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città,  per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno  di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra  che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun-  dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto  piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso  e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel  mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'om-  belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a  questi, paludi, e un grande speco con apertura sot-  terranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano  che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le  viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi-  racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta-  colo pittoresco e gradito.   Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre-  scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che  insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune  il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversa-  zione reciproca si compiacquero specialmente di que-  st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle  parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a  lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo :  Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per  lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa-  rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i  prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone,  compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Sira-  cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita  nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane...     IL MITO CONTAMINATO 135   Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,  non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei  crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra  abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo-  mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven-  dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti  donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più  d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi  misteri eleusinii... (1).   Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea  ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,  l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala-  sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste  sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il  difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri-  pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „.  Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che rac-  conta. Modello insigne, questo, del come possano  mascelle di erudito maciullare e rugumare il  fiore della saga.     IV. — Il mito contaminato.   Il mito siracusano di Demetra e Cora, imper-  niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso  dei due centri religiosi, venne accolto nell'am-  biente poetico di Alessandria. E fu questo l'i-     (1) DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione.     136 III. - LA DBMETRA d'eNNA   nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di  fatti, oltre alla forma siracusana della favola,  erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma  dell' Inno omerico, insieme con la variante di  Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella  diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte  simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,  avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi.  E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche  alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fos-  sero riusciti a trascendere i limiti della medio-  crità espressiva e della ristrettezza geografica,  per intrudersi nella letteratura tradizionale. La  mitopeja orfica in ispecie aveva trovato acco-  glienza favorevole nel colto ambiente alessan-  drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti  e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più  antichi non erano se non una forma, fra l'altre,  dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po-  steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La  storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  è la storia della sua seconda immersione nel  flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia  del successivo accogliersi intorno ad esso di  giunte e di innovazioni via via più complesse.   Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere  dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa-  rebbe stato trasparente: dei maggiori alessan-  drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia     (1) Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,  Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133).     IL MITO COìs^TAMINATO 137   e tal volta quasi copia in autori romani. Con  questo valore, ci appare un ampio tratto del  quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui  appunto si rivela la contaminazione fra diverse  correnti leggendarie.   Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio.  Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico-  lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una  tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi  a una variazion fantastica, quando nel luogo  di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca  affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio  del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios  introduce la ninfa del siracusano lago di Are-  tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti.  Se non che questi elementi siciliani, che al pari  di Enna pajono saldati con il concetto duplice  di una Sicilia esperta del grano prima del ratto  e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi  Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema  diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se  non tutta per buona parte, già ha avuto il dono  del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col  privare gli uomini di aratri di bovi di spighe :  dunque, come nel mito protoattico. Ma, come  nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di  Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i  due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi-  sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta  come quella di cui per la vendetta divina fu  pretermessa la coltura. In tale contaminazione     (1) Vv. 341-661. Cfr. § IV.     138 III. - LA DEMETEA d'eNNA   dei due miti protoattico e neoattico la saga si-  ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre  la propria terra fra più altre, prima nel godere  le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer-  tilità singolare e di fedeltà a Demetra.   D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at-  titudine sua mentale come per la natura del  suo tema, con particolar compiacenza l'impulso  letterario delle metamorfosi. Sembra persino che  ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in  quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti  di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché  palude era sembrata luogo dicevole alla scom-  parsa di Ade come un lago alla comparsa, offre  spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in  acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone  che gusta la melagrana è sfruttato per immet-  tervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nel-  l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra  tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria  si risente in Ovidio per il tentativo di analisi  psicologica nei personaggi: in Cora special-  mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo  cerebrali per esser vere, sino a farla piangere,  non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei  fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto  l' antefatto del mito : il ratto è voluto , non  da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è  sdegno che tante dee si sottraggano al suo po-  tere e che libero ne resti il medesimo Ade (la-  tinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando  psicologico diviene il racconto, un particolare  che, allor che esso era naturalistico, valeva con  tutt' altra importanza: la fecondante pioggia.     IL MITO CONTAMINATO 139   Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in-  serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite  difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto  di culto singolare. Cosi perché pili appaja la  giustizia di Griove e ne risalti la umanità del  mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proser-  pina con la madre e col marito diviso a mezzo  non più per terzi. Simile attenzione psicologica  governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di De-  metra a Giove, materiati di accortezza feminea  e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde  poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per  toccare di quelli che a ciascun momento del-  l'animo competono, là dove tecniche mitologiche  più elementari non cercano se non il consueto  e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa,  — e basti per tutti l' esempio solo, — ritrae  prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte  sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e  il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto  omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con-  viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle-  goria agreste. E su la soglia dell'umanità (1).   Non lungi a le mura di Enna son le profonde  aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non  spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque  corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami;  purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.   Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or     (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914).     140 III. - LA DEMETKA d'eNNA   gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno  e canestri empie e nella raccolta studia superar le com-  pagne — ad un punto è veduta amata rapita da  Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con  mesta voce madre e compagne chiamava; la madre  più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste,  da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco  anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue-  rili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il  cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i ca-  valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di fer-  ruggine persa (1).   È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'an-  gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal  suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe  notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse  tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi  andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il ge-  nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi.  Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare,  me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse  non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le  braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio  frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo  il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la  terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci-  piti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane,  la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua  fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse  tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già  era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi     (1) Omessi i vv. 405-8.     IL MITO CONTAMINATO 141   l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime  parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome,  le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra  in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e  le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui  si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al  vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che  prender si possa (1).   Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse,  lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne  meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove  indaga vagando , a Ciane viene. Tutto le avrebbe  narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non  ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva  parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre:  di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto  nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come  lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse,  i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più  volte il petto con le sue mani percosse.   Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre  biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del  dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del  danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez-  zava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari  morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori,  ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò,  ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità  del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade,  ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec-     (1) Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor-  fosi di Ascalabo.     142 III. - LA DEMETBA d'eNNA   cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi  ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a  le piante del grano e non estirpabil gramigna.   Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e  dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:  " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice  di biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio-  lenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ;  la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia sup-  plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide  diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo  pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per  penati, questa per sede : e tu clementissima la salva !  Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande  mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, op-  portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo  volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam-  mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo  sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là  sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri  occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero,  né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma  nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno  Sposa potente „.   La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed  attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la  grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio  ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca-  pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio  (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue !  se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre com-  muova; né meno cara — preghiamo — ti sia perché  da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco  rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,     IL MITO CONTAMINATO 143   se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop-  porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone  degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,.  E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me  con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi  vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci  sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o  Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra-  tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor  che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai  desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto  restando che con la bocca là giù cibo alcuno non  abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.   Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia.  Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di-  giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal  ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da  la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).   Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,  il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,  di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la  madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta  ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso  Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole  che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi  riappare (2).   A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag-  gioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per  l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve     (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e  delle Sirene.   (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa.     144 III. - LA DEMETRA d'eNNA   SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte  dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai  colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.   Contaminato ma diversamente, ci appare il  racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti  libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro-  mani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien  difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo-  dello).   La mente che ricorda il racconto delle Meta-  morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo  carme (2), con la mano del medesimo poeta, il  I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ri-  tegno, quasi una schiva attenzione per evitar  d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi-  tate da Aretusa; non quella è la lor sede: né  nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno  non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta-  cito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ;  ma non usurpa da signore lo schema greco più  antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan-  nosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o  Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara  Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri  luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li-  libeo, offrono bensì materia alla fantasia del  poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono  per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio  nella leggenda, onde costituiscono un elenco di     (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Con-  fronta § IV.   (2) Vv. 419-50.     IL MITO CONTAMINATO 145   nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati  mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito  siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi  sùbito dopo in abbandono.   Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del  vecchio Cèleo fu il campo.   Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate  agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda.  La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ;  e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „  la fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome  di madre — " che fai in solitarii luoghi senza com-  pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque  il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che  misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava  una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello,  che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e  padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua  sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse,  e come di lacrima — che non piangon gli Dei —  cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del  pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e  dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a  te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non  disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea  " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai  ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien  dietro.   Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio  malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria  di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie  lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che  ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse   A. Ferrabino, Kalypso. 10     146 III. - LA DBMETKA d'eNNA   la lunga fame: — e perché della notte in principio  ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del  cibo l'apparir delle stelle.   Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni  cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel  bimbo. Salutata la madre — Metanìra la madre si  chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue-  rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:  tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è  lieta : la madre il padre — ciò sono — e la figlia :  tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli  stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele  dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo,  a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del  sonno.   Della notte era il mezzo, era nel placido sonno  silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la  mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon-  giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il  corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che  l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la  madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ? ,  e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per  non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni  divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor-  tale; ma primo e con aratro e con seme da le colti-  vate terre coglierà premii „.   " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti  sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1).   Qui non è più il racconto dell'Inno con il     (1) Vv. 507-562.     IL MITO CONTAMINATO 147   mito protoattico ; non è né meno il racconto di  Timeo con il mito siracusano : però che a diffe-  renza profonda dal primo la umanità è presen-  tata ignara di biade e cibata di ghiande prima  del ratto; e a differenza caratteristica dal se-  condo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto  all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»  di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo  a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tra-  mutato il semplice istitutore di un rituale sacro  nel giovinetto onde per favore della Dea un  inestimabile benefizio si largiva agli umani.  Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,  ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è  tramutato in povera capanna: sul desco stanno  cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per-  tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se-  guita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda.  Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo  influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori  di Cerere su la persona del rapitore sono due  astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;  analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non  la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore  che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto  vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio  fra Cerere e Griove, questi decide di dividere  l'anno in due parti perché Proserpina rimanga  sei mesi col marito e sei con la madre (1). Ora,  Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con-  sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso     (1) Vv. .575-614.     148 III. - LA DEMETRA d'eNNA   pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino  delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce  posson venire considerati anche l'idilliaca scena  in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de-  licato dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo-  rilegio in Enna.   L'arte però converte la triplice mischianza  in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta  che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto-  rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel  termine ove più personaggi agiscono e parlano  con una stringata prontezza che culmina forse  nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di-  giuno con tre di quei grani che le melagrane ri-  copron con molle corteccia „ (1). Le varie correnti  mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di  mosaico mitologico; una inspirazione centrale  muove tutto il carme, lo ricollega con qualche  sparso accenno a questo o a quel particolare del  culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo  solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore  d'una Madre e compiuto nella capanna d'un  misero. La gratitudine verso la Dea si traduce  bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide,  ma non è di origine religiosa, si più tosto muove  da una intima commozione umana, di simpatia  per la sofferenza eterna, per la semplicità pri-  meva, per la faticosa Terra.   Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito  siracusano; ma per compenso è conseguito più  alto pregio letterario che non nell'altro carme     (1) Vv. 606-7.     IL MITO CONTAMINATO 149   ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti  trasformazioni deforma la sua materia, or ridu-  cendola a magrezza or distraendola a rimoti  oggetti.   Oltre che elementi siculi proto e neoattici,  anche particolari orfici compose insieme con  abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto  di Proserpina volle dedicare, senza per altro  condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i  ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane op-  pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le  fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti  protoattici dovevano esser copiosi nella parte  del poemetto che non fu scritta e trattava del  soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa  di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine  si assommano nella figura di Trittolemo a cui  par probabile che venisse attribuito il dono delle  biade (2). Su questa trama vennero innestati  parecchi motivi che si dovevano all'orficismo.  Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva  affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti  e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascor-  reva il tempo intenta a tessere un tessuto ove  fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora :  che il ratto accadde si per volontà del Fato  {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di  Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle  {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi  cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non     (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.     150 III. - LA DEMETRA d'eNNA   s'accorse o non volle accorgersi che il concorso  delle due Dee al ratto non era se non un asse-  condar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne  che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora,  vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a  violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo :  nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap-  pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto  il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi  fu introdotto quello, che pareva più dicevole,  d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an-  tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel  suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase  tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte  altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a  Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su  quella parte la quale nel poemetto sul Ratto  non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti  sono stati raccolti tutti i materiali che da tri-  plice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che  gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar-  rare del ratto e i precedenti e le primissime  conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito  del poeta investisse quella sostanza leggendaria  e la elaborasse esprimendo.   Il suo racconto si spezza spontaneamente in  due parti: delle quali la prima ha termine col  ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo  di moglie e ignaro delle dolcezze che la pater-  nità concede. Tanto l'assilla il suo veemente     (1) Vv. 1301 sgg.   (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV.     IL MITO CONTAMINATO 151   desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso  Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li-  berare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago.  E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in  dubbio intorno alla scelta della sposa, già che  nessuna volentieri accetterebbe marito il tene-  broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta  scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per  sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli  insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg-  giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure  della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri-  tornano, — come si vede, — sott' altra specie, le  orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene  certa da ogni attentato sotto l'alta protezione  celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi  in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla  fine queste due linee narrative da quando il  Signore degli Dei decide di maritare Cora ap-  punto, profittando della lontananza materna, a  Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro-  dite, egli fa si che la vergine esca con le com-  pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del-  l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti  di Enna e che su quelli, balzando improvviso  dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il  sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge.  Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide  tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.  Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E  presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba,  fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove  l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii  torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi.     152 III. - LA DEMETRA D^ENNA   La seconda parte possiede quell'unità di strut-  tura che manca a questa prima. Il centro natu-  rale dell'azione è offerto da Demetra; intorno  a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre  non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un  presentimento vago ma assiduo la turba con  sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.  Alla fine, decide di abbandonar le terre di Ci-  bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.  Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi  le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar  Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta  la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile  della vergine, e lacrimante in profondo dolore  la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di  disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto  le è però quasi sùbito superato dallo sdegno  contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che per-  misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-  rando se per tal modo si sovvertissero leggi di  giustizia e principii di morale. Giura che non  cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'uni-  verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia.  E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a  sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso  il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.   Il resto si desidera. Ne importa gran fatto,  che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il  poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi  alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria,  ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda  ad artefice che non sia di assai fermo polso; e  ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a  rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano     IL MITO CONTAMINATO 153   vi mancò: non esito a dire che vi mancò per  intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della  sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu-  dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso  a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa.  Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore,  — quella, che prima colpisce, bellezza formale  di particolari, eleganza di scene, armonia di  verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come  perfezion delle parti in un tutto su cui si volge  il nostro interesse e l'esame più vero. Né la per-  fezione stessa è anche da concedersi intera :  guasta per certa esuberanza, che assempra il  vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul  collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta  se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni  modo, sopra le singole pennellate riuscite e  oltre le mancate, com'è composto il grande  affresco ?   Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti  psichici di cui tutto il racconto è pregno: non  diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue  dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi  numi. E suo grande compiacimento si fu narrare  ora il cordoglio della madre, ora lo spavento  della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu-  tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che  in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la  accorta profondità dell'investigazione intima; e,     (1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato  essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies ,  (London 1901) pag. 130 sgg.     154 m. - LA DEMETRA d'eNNA   inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la  donna o l'uomo, figuravan sempre senza stri-  denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto  per contro cosi quello come questo pregio man-  cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grosso-  lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel-  l'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le  sfumature di talune emozioni gli sono ignote ;  i suoi personaggi, non pur non condensano la  loro personalità per l'arte di lui, si scemano per  la imperizia fin quel vigore e scancellano quella  determinatezza ch'era lor impressa dalla tradi-  zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma-  rito recente, un giudice un po' pauroso e a  bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non im-  portano nomi, non colori, non linee. Basta, che  per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni  della retorica.   Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce  la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo  di versi circoscrive la Sicilia con un senso di  sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee  l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen-  dor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e  un contenuto orgoglio matronali. La Frigia  lontana riceve da Cibele, quasi un recondito  balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra  svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus  Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur  varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo :  non è in proporzione con la statura degli attori ;  o meglio, non con la loro statura d'uomini, si  con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il  primo contrasto, che par creato a posta dal poeta,     IL MITO CONTAMINATO 155   fra la diminuita materia divina della fiaba e  l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato  trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe  dovuto essere dei Numi.   Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota  che nessuno dei consueti attributi è stato tolto  da Claudiano né a Demetra né a Cora né a  Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad  alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei  morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver-  gine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime  ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice,  quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le  frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trai-  nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo  oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.  Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi  spirata dentro senza che Fautore mostri di ac-  corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è,  a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit-  tura il grottesco e tramuta il poema in com-  media. Quando, — gli esempii potrebber essere  moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno  più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora  e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i  lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si  commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto  vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo  amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea  tunica, e con pacata voce consola il mesto do-  lore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di     (1) II 273-276.     156 III. - LA DEMETBA d'eNNA   Claudiano : già che le parole che seguono e che  vantano di Plutone i pregi qual marito e re son  le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e  Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin-  novazione a punto svela a maraviglia a qual  grado di risibile pervenga il poeta nel colorire  pateticamente quello spauracchio " feroce „ di  Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro  a tutte tremendo.   Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere  artisticamente (non dico logicamente, che sa-  rebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo  divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano  all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra  ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il  tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia  ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e  meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.  Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus;  ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre-  mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi  i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né ti-  more cotesti numi ambigui. E l'invettiva che  contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla  sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché  è vuota cosi di dolore materno come di ribellion  religiosa. Se per poco fosse spinta in là la ten-  denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap-  parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra-  cotante pompa esteriore, marionette fìngenti per  gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità  olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-  miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica  in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus     IL MITO CONTAMINATO 157   con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo-  strare come, col decretar da Demetra il dono  del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre  un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora;  ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano  ha deformato il sommo Iddio.   Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al  contrario di quel che era compito dell'arte: ha  dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha  contrapposto, in vece di avvicinare senza con-  trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già  tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan  perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure  non gli avevamo avvertiti: non so che secreta  forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se  adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è  che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga-  nismo del mito è moribondo, — e si dissolve.   Cosi né pur la contaminazione di motivi,  desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon-  dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste.  Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.  Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo  racconto siculo, che una prima volta aveva sen-  tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso  greco, e trovò una seconda volta, traverso gli  AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica  da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con-  gesti elementi.     CAPITOLO IV.  L'abigeato di Caco (i).     I. — Presso grindiani e i Greci.   Indra e Vritra si combattono.   Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ar-  dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al  pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,  nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi-  gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in  vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras-  sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne  secrete. I ben colorati animali furono avvolti  dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza  uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal-  l'antro, ove segregato si stava il bottino, gli     (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II  cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.     160 IV. - l'abigeato di caco   giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò  e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con  la sua possente forza la grotta, di frecce e di  clava colpisce più e più volte il mostro nemico,  l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel  cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin  sopra la terra.   Cosi nel Rigveda indiano (1) si adombra per  noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi  per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che  dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia.   L' odio , che un' anima paganamente infusa  nella natura nutre acre contro il velame dal  quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha  sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco  la presenza di una forza attiva, e nemica cosi  della luce benefica come della fiamma benefica,  però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e  di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla  caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere  umane e le annientano. Il bujo della notte;  l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio  non si spinge, e che, quando spiragli appajono  traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra  tinta del fumo , che gì' incendii sprigionano,  pregno di odori corrotti, su dai possessi degli  uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco,  che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far  di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-  muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno,  che acceca le pupille: — questi colori queste     (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 161   forme quest' energie si accostano nel pensiero  primitivo, si compongono variamente e diversi  si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però  con ritmo unico il malefìcio costante e il duro  danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-  mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta  dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù  di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiam-  mata in vece che rade una selva è nemica del  Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme  la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bam-  bina non sa che la tenebra è un modo della  luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga  o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli  effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.   Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del  pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ;  e comuni, se bene traverso le differenze a volte  non piccole, sono le forme di cui si veste e le  associazioni psichiche di cui si vale : l'antropo-  morfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il  sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-  lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo.  E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale  che sia per esserne il valore più immediato, per-  mane il riposto senso di allegoria naturalistica.  Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con-  cetti, poco importa se la fiaba si connetta più  tosto con la freccia del fulmine che squarcia il  perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente  infocato che appare impro\^iso e avido tra le  sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con  altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale   A. Ferrabino, Kalypso. 11     162 IV. - l'abigeato di caco   ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet-  tacolosa vicenda della natura, deve esser stata  indotta dalle medesime sue associazioni analo-  giclie a ripetere, nelle aridità della concezione,  un solo racconto per fenomeni simili.   Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito  ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso  pochi come là simboleggi il temporale. Presso  gli Eranii tramutato si è, pur serbando pa-  recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a  e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno-  vato in altra forma, la quale, per il nesso che  nel pensiero già intercede fra tenebra e male,  luce e bene, trasporta il mito a significare il  contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo  Ahriman.   Che se, dopo averle spiegate, non grande  conto è da farsi di queste trasposizioni della  fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag-  giore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi  o al persistere di taluni particolari significanti.  In essi è il segno di qilanto si accosti o allon-  tani dalla saga originaria il nuovo racconto :  simili a quei tratti caratteristici che perman-  gono a contraddistinguere il volto di una fa-  miglia nei secoli. E quando del mito si è poi  perduto tutto il senso riposto, restano testimoni  veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di-  mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione  innovatrice sul modello più antico. Quando in  vece un significato s'intrude sopra e contro l'o-  riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono  insieme i primitivi particolari episodici, come  un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi.     PRESSO gl'indiani E I GBECI 163   o solo tanti se ne serbano quanti non discon-  vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié  l'energia conservatrice insita in quei partico-  lari è costituita, in somma, da una non più co-  sciente memoria dell'importanza essenziale clie  tutti, in vario modo, avevano, quando ancora  la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa  pertanto, allorclié al ricordo incosciente sot-  tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto  e d'un fine diverso.   Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha  assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed  ecco difatti tramutarsi anche la foggia este-  riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi  perpetrato a danno d'una divinità solare venisse  narrato insieme con la successiva vendetta nelle  saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e  ci sembra inutile pel nostro assunto la conget-  tura. Certo che in secolo a bastanza antico la  metamorfosi del racconto si rivela profondis-  sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte  in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto  dalla minore anima greca: quella che baratta  e commercia; che ruba con astuzia, e nega con  impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av-  volge di parole artificiate, di periodi fluenti,  di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do-     li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati ,, la  cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con-  fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886)  181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) 128 sgg.     164 IV. - l'abigeato di caco   mande coperte, l'infelice derubato ; che giura  invocando i men pericolosi dèi, nella speranza  di averli meglio indulgenti ; che non ignora al-  cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno  più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma  ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale  discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per  l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,  certo che giungono in parte al brocco, e tiene  fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,  fissi qua e là su oggetti che non guarda; il  Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive in-  tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel  ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima  greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno  s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono  è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la mi-  nore anima greca i tramiti non sono affatto  tronchi. Onde una celata coscienza della supe-  riorità di quello spirito che può, se voglia, rin-  chiudere in un labii"into di dubbii e di certezze,  entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter-  locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso  di compiacimento interno lo illumina : il sorriso  mal palese degli aruspici, secondo Catone; il  sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,  con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac-  cogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichia-  razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ate-  niesi discorrono troppo bene perché si possa lor  credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma  c'è una lode sobria del ladro abile. E la com-  media nasce. Comico, il racconto eh' era stato     PEBSSO gl'indiani E I GRECI 165   tragico allorquando Vritra cadeva sotto la in-  vitta clava di Indra.   Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie  elude la forza. I protagonisti sono mutati. Ca-  duti taluni particolari, altri s'improvvisano dal  largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-  verso, perchè alla furberia del mortale compete  scena la terra, come alla violenza del mostruoso  iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra di-  vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ;  e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.  Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella  sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di  inverosimile forza e di mente già dotta nelle  oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle  ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si  svolge la principal scena. Due altre la precedono.   La prima narra il furto. Non è opera di vio-  lenza, ma di scaltrezza. I buoi, — cinquanta, —  pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro  e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes,  per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo  sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrec-  ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin-  castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la  refurtiva in una grotta " da la volta elevata „.  Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène.   E ha luogo la seconda scena (1).   E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in  sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con     (1) Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford 1912).     166 IV. - l'abigeato di caco   lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la-  travano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus,  obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile  a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto  nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo-  vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò  nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol-  gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla  balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva  l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.   " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di  notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te  pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno  legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o  finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.  Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il  Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.   Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre,  perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo  bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti-  mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte  apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei  immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci  rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre fre-  quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi  che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad  onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come  Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso  per certo tenterò — che posso — dei rapinatori dive-  nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre     (1) Omesso il v. 153.   (2) Omesso il v. 167 ch'è corrotto.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 167   Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio  e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della  grande sua casa, molto da quella rubando stupendi  tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti  di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „.   n senso d'umanità e la sostanza greca che  sono divenuti il nucleo nuovo del mito appa-  iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione  alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la  difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra  bambine, è un breve mal represso anelito di sim-  patia per il ladro perspicace ed ardimentoso,  simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane  della carne si ax)provi quel che la ragione con-  danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel  Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole  serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste.  Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e  l'ombra della sua caverna, dalla quale il mug-  ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli  animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in  favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola  di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore  di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e  la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel  futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac-  ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno  rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi-  sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin-  quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del  contrasto, che la onnipotenza divina giustifica  e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra  e del poeta.     168 IV. - l'abigeato di caco   Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il figlio,  adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la  fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere  molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava  sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve  raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno  dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però.  Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì,  la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo  piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande  casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri-  postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am-  brosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte  della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei  beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della  grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par-  lava ad Ermes illustre.   " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi :  presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra  noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te-  nebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre  alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg-  giando fra i bimbi „.   Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide,  qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando  agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né  d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne  premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos-  sente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piac-  ciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia  madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.     (1) Vv. 235 sgg.     PEESSO gl'indiani E I GRECI 169   Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa,  che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe  che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra  mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ;  i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi,  su la testa del padre un grande giuramento farò : né  io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun  altro ladro dei vostri buoi — checché i bovi si sieno,  poi che per fama sol tanto ne odo „.   Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre  ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar-  dando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo ri-  spose :   " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo  per vero che spesso per invader le ben abitate case  durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza  rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle  valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che,  bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in  pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se  non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della  nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor-  tali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo  dei ladri „.   Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse  Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani  levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo  del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti  tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo  l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur af-  frettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva     (1) Omesso il v. 280.     170 IV. - l'abigeato di oaco   parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:  con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi ga-  gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .   La contesa continua un po', fin che si deci-  dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio  Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo  solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo  Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato  ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due  Dei di cercare insieme " con animo concorde „  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.  Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com-  medie sogliono terminare: con una buona pace.   Di essa rimangono cardini notevoli l'accor-  tezza del trascinare le mucche all'indietro per  disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in-  sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi  ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap-  partenendo forse ad antiche trame novellistiche,  sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato  probabilmente a bastanza tardi.     II. — Presso i Latini.   Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e  presso i Latini in ispecie (1).   Né della trasposizione, per cui il mito vien  riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né     (1) Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.     PRESSO I LATINI 171     dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi-  cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an-  tico, e rinnova per conseguenza i particolari del  racconto : si deve tener parola a proposito della  saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su-  bite allor quando ci appare formata in età di  storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da  prima ben radicata nella memoria delle gene-  razioni, approfondita nel sangue della stirpe ;  che vi si cristallizzò in una foggia, la quale  non aveva più il contenuto cosciente della an-  tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche  i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere  ne diveniva veneranda e intangibile. E però al-  lora che r elaborazione artistica sopravvenne  con voce più sicura e lievito più possente, non  potè distruggere per ricreare ; — dovette co-  stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma  irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo  tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari,  che furono proprii della saga primordiale aria e  che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddi-  stingue, senza eccezione, la serie intiera delle  vicende che il racconto attraversa di poi, tanto  nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle  interpretazioni dei dotti.   La presentazione dei protagonisti. Però che  forse la differenza più notevole fra il racconto  indiano e il probabile, — d'una probabilità ot-  timamente fondata, — i^rimitivo racconto latino,  consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da  ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un  qual siasi spettacolo naturale si presenta all'oc-     172 IV. - l'abigeato di caco   chio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero  scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per  riportare ciascun parvente alla sola sostanza.  Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da  prima, assai più che in una personale figura  di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita  ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune  ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica  da un lato trasforma quei nomi per fenomeni  fonetici appresso le differenti razze; dall'altro,  il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno  fa prevalere, addensando di questo il contenuto  e concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon-  damentale della fiamma aveva certo moltissimi  termini che le corrispondevano : ma uno ne trion-  fava là, ed un altro qui. Onde accade che un  solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge  bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i La-  tini, — ma non mai con identici nomi.   La presentazione, adunque, dei protagonisti.  Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e sen-  z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le  loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo  ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non  affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo  mito indoeuropeo senza ancora averne dimen-  ticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare  i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano  o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova  in ben diverse condizioni. Non solo il primo è     (1) Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino  1907) 88.     PRESSO I LATINI 173     ben certo, là dove il secondo non è né pur for-  malmente sicuro e varia nei due testi ove ap-  pare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un  etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i  Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori.  Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio)  (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è  probabilissimo e consuona bene alla sua natura  ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio  a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren-  derlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il  nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop-  piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile  definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e  quali al personaggio sieno stati aggiunti dal  secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre-  scelto a significare la forza della natm-a la quale  nel Rigveda esprime Indra, da Indra non dif-  ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce  né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In-  dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del  vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;  congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un  antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.  AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza  gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo  circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua  effìgie ripugnante ed immonda però si deve  riferire ad un secondo stadio del suo evolversi  mitico , perché son tracce palesi d'una sua più  vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i-  nizio, valere come non pur malefico si anche  fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti  antitetici erano potenzialmente, più che in lui,     174 IV. - l'abigeato di caco   nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli  ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in  certi specclii dipinti che ne pervennero unica  reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il  culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con as-  sidua cura vigilato un sacro focolare, non dissi-  milmente da Vesta. Eorse il termine non signi-  ficava da principio se non il fuoco nell'atto  dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due  contrapposte concezioni della fiamma conflui-  rono in esso, e valsero a derivarne ben due  figure divine. Il terzo stadio in fine della sua  evoluzione Caco toccava quando nei posteriori  tentativi di genealogie divine divenne figlio di  Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo  posto fra i Numi della fiamma.   Dei due protagonisti, il furto e il duello si  svolgeva quasi certamente in modo simile al  racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito  bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la  clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta  della caverna e l'abbattimento del mostro tra  il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito  latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa-  pere, dentro questi termini : senza né originalità  sua propria di particolari e di figure né sma-  glianza singolare di colorito formale.   Un primo arricchimento gli derivò dall'avere,  in proceder di tempi, localizzato con più esat-  tezza la fiaba, — topograficamente vaga nelle  origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo  che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il  Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi-  doglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro     PEESSO I LATINI 175     Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la  saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana  come dal cielo cosi dal suo proprio senso natura-  listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto  di avventure terrene, il ricordo di tempi lonta-  nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti  ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda  che la pretende a storia accampando una verità  fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu ef-  fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca-  verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E,  assai più di quanto possiamo scorgere nelle te-  stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae  Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic-  coli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale  si forma pertanto colà in uno stadio, che è il  suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven-  tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co-  stituiscono i iDerni.   Acquistare una sede significa però per un mito,  non pure raggiungere una consistenza e saldezza  maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze  nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son  radicati. E un contagio cui il suolo serve di  conduttore: e che qui fu invero non presto, ma  fu per compenso profondo. Quando il dio greco  Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario  latino e sotto la veste di Ercole venisse defini-  tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1).  Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras-  correre innanzi ch'egli potesse fondersi con gli     (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. I 193.     176 IV, - l'abigeato di caco   dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia  modo contigui : prima, dovette divenire familiare,  ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser co-  nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi-  milarsi infine air ambiente. Non presto dunque  dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli  si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav-  venne ad assorbire in sé ed annientare la figura  di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade  in cosi profondo oblio clie non se ne serbino  tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come  l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente.  Il dio solare poco noto che era di fronte al dio  solare notissimo, impresso di grecità? A en-  trambi, — sembra, — competevano e le frecce  e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le  lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non  erano se non se i riscontri analoghi del duello  fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno  apparteneva a una religione poco evoluta qual  la latina, l'altre recavano con sé grande matu-  rità religiosa. Una poi di cotesto imprese di  Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „  Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva  il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole  e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza  di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia  nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe  avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare  l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma.  Della positura geografica approfittarono molti  facitori di saghe per le loro combinazioni (1);     (1) Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man-     PBESSO I LATINI 177     per nessuna forse cosi felicemente come per la  latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in  Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la  presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso  della mandra che Caco rapisce.   In progressione, quanto più Ercole prevaleva  su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg-  genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto  romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece  tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad-  distinto per profondi caratteri dal resto. Non più  il mito della natura; ma l'impasto non sempre  coerente di etiologie, con le quali si tenta di  spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un  costume, un gesto, projettando il tutto, senza  prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico.  Del paragrafo che cosi accresce la leggenda,  uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica  origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più  tarde.   Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima  erano in età storica, prima che il servizio vi  fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C),  le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che  a questi ultimi sembra che non spettasse come  a quei primi di partecipare al banchetto in cui  dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle  vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la  decima, per consueto, d'un proprio guadagno o     CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna  Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale  Sup. di Pisa , XXIV) pag. 216.   A. Ferrabino, Kalypso. 12     178 IV. - l'abigeato di caco   d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era  lecita cosi a generali come a privati cittadini.  Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo  costituiscono la trama originaria della leggenda  etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,  subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare,  l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima  del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui  sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei  Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo  questi onde non poteron partecipare al ban-  chetto delle viscere. Ercole decretò allora che  tale nei secoli restasse il costume fra le due  famiglie.   Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne  erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,  non si pensò che in Roma Ercole è anche dio  della generazione maschile ; ma si disse che le  donne avevano offeso il Nume, in qualche ma-  niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia  dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi  ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta  Carmentalis che ne ha il nome è prossima al  Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assi-  stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta  in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una reda-  zione forse più antica in vece, donne rinchiuse  presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb-  bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato  al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua,  per non lasciar violare il sacrario da un uomo :  — onde la vendetta di lui. E anche recente è,  sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,  esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi     PRESSO I LATINI 179     al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il  particolare che essa fosse eretta da Ercole per  ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il  suo padre Giove.   Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii,  i quali si commettono con la figura di Ercole  ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen-  tano, pur tenendo conto di talune interpola-  zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio  del racconto; un terzo venne di poi a sovrap-  porsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le  cause furono, come per Ercole, due. L'una è  identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;  poiché di Evandro era un altare presso la Porta  Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro  Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per  Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga-  rano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma  del suo nome. La mente non matura che cerca  di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene  d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'e-  timo d'un termine. Caco ad esempio venne, —  e forse da eruditi greci, — accostato per omo-  fonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale  parve del resto convenir bene al mostruoso la-  drone. D'altra parte Euander che volto in greco  divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi  fu facile il riscontro tra il " malvagio ,, del-  l'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Tri-  gemina.   Evandro era, — in una leggenda che qui non     180 IV. - l'abigeato di caco   accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi  dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino,  accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua  persona pareva dunque acconcia a esser legata  per più attinenze con quella di Ercole e Caco;  e se il racconto lo avesse accolto in età pili  antica senza dubbio troveremmo una volgata  concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece  fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono rac-  conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita  Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la  natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con  Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza  figurar contro di questo e a favore del greco  figlio di Zeus.   In questo medesimo terzo stadio venne a  confluire, confondendovisi, e innestandosi con  Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car-  menta, di cui era un anticbissimo sacrario presso  la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu-  fruita per una etiologia del racconto, fu in altra  guisa sfruttata per accrescere di solennità la  venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tra-  dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe,  cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del-  l'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi  rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser-  viva assai bene a vantare per antichissimo fra  tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,  che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di     (1) L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. I 192.     PKESSO I LATINI 181     Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso  Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che  si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»  questo facendo figlio o amico della profetessa, e  col ricordo del vaticinio giustificando l'acco-  glienza di lui al Tirinzio.   Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re-  centi che anche presso i poeti mal si collegano  col restante racconto. E impossibile dire chi per  primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo  leggendario più antico, dai successivi stadi!  delFetà volgenti deformato in parte, in parte  svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com-  posto un organismo di quel che era opera, non  del tutto compaginata, d' una lenta e libera  evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi-  zieni grame. Sol tanto si può congetturare che  Ennio commettesse nel suo poema la materia  come del primo (Caco), cosi anche del secondo  stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta  parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse  adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro-  paggini.   La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela-  mente ad un' altra che giustifica assai bene ta-  luni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit-  tori dell'età augustea. E probabile difatti, la  fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno  omerico divulgava in degna veste d'arte e con  autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso  su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con  fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle-  gorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di     182 IV. - l'abigeato di caco   Maja fu nella mente di talun culto scrittore, —  come Ennio, — non privo di analogie con l'a-  bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a  ripetere qualche particolare attinente più tosto  all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accor-  gimento del condurre per la coda all'indietro i  buoi fino all'antro per disperderne le tracce ;  tale anche lo spergiuro del ladro che nega il  furto : — questi difatti ritrovammo nella G-recia  tratti essenziali della saga rielaborata.   Certamente però, quanto al di là di coteste  innovazioni e giunte s'è conservato intatto il  primo profilo del mito, cosi che i particolari  posteriori si sono aggregati ma non sostituiti  ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando  la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la  coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la  vendetta narrino del temporale che il Sole vince  o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è  nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano :  la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg-  genda, non dentro ; la colorano, non la costi-  tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.  Narrata con un certo abbandono della fantasia,  con una cura precisa di non omettere le più  vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché  gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,  da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande :  il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno  con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra-  mandata in vece con un ritegno sobrio che la  contenga dentro i margini dell'umano e dell'e-  roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il  sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora;     I POETI 183   riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non  elimina ogni dubbio e non genera certezza di co-  noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la  riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.  Una fiaba, — dunque, — presso e il poeta e lo  storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare,  questo è desideroso di credere. Noi non posse-  diamo però né i versi degli artisti più antichi  né le prose dei più antichi annalisti che in  Roma accolsero il mito : solo li conosciamo ri-  prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di  Augusto.     ni. — I Poeti.   Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso  il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva po-  lito r esametro e , temprandolo per la forza»  l'aveva reso agile per la grazia delle movenze.  La parola regnava : scelta, limata, contesta, vi-  geva nel tono quanto nel significato; aveva un  senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri-  meva, e aggiungeva. E il mito visse nella pa-  rola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse  in quella come la congiuntura nella vita: per  gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a  tema di un carme; per i distici che l'infrena-  vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli  aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil-  lava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre  quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel-     184 IV. - l'abigeato di caco   l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle  massa linguistica allo schema rigido e inviola-  bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me-  rito splendeva nel difficile. Il gesto della mano  che elegge e soppesa la parola, simboleggia,  riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di  Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto  non si attennero là dove altro procedere esigesse  il general tema dell'opera loro, — il quarto  libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo  dei Fasti (1).   Properzio occupa rispetto agli altri due un  posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio,  difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche  artisticamente improbabile, cosi che gli sembra  più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli at-  tingesse a un modello diverso, sia che con  Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in-  fine si ritenesse lecita una libertà maggiore, —  il suo racconto non comprende Evandro, il terzo  stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco  ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la  causa, un esempio della forma che avrebbe po-  tuto assumere la fiaba senza il mito etimologico  sul " cattivo „ ladro.   Pel resto, il racconto è in tutto personale. I  vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in  qualità di Dio venerato nel Foro Boario con  rito greco e senso romano. La sua sola figura  campeggia in due quadri, che uniscono egli e il     (1) Gir § III.     135     momento del tempo e la postura della scena.  Nel primo combatte Caco in una lotta breve-  mente descritta, la quale sembra importare al  poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.  Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi-  stico culto della Bona Dea, l'acqua che gli ne-  gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due  sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi  a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con  un moto di violenza, concretate entrambe in  prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,  e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il  Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco,  e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an-  tichissimo mito della natura si dispone allo  stesso piano e nella medesima luce del recente  mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di  quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen-  done una fantasiosa scena cui rende grata e  fresca il murmure d'un fonte.   Quando (1) l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia,  aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe-  corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli  stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor-  rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele  il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non  furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno  Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni  emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-     (1) Properzio Elegie IV 9; edizione J. S. Phillimore^  (Oxford s. a. [1907]).     186 IV. - l'abigeato di caco   sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al-  l'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva  al Dio : i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le  tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre  tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla :  " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema  della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte  mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo mug-  gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di  Eoma „.   Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto  è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la  terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om-  brosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clau-  sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a  maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie  purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso  fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde  un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva.   Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su  l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di-  nanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del  bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi-  tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui in-  torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto  nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che  il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al-  cide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea  clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense  fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo  si diradar le tenebre di Stige? (1). E s'anche celebraste     (1) Omesso il v. [42J.     I POETI 187   sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi  avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il  mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal  libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii  offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co-  nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir-  suto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla ,.   Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo-  tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche :  * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco;  ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per  temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara  che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno  scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de-  posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti  donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap-  partata dentro limitare secreto „.   Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi  battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma  poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un  triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.  " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac-  coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La  massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa  nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non  resti la sete d'Ercole escluso „.   Padre santo salve! di cui si compiace oramai  l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al  libro mio.   Cosi il breve carme assempra il magistero  delle pause musicali, cui si affida più espressione  tal volta che al contesto delle note : giacché     188 IV. - l'abigeato di caco   quando il mito vive di forza verbale, la pausa  lo costituisce non meno della parola. Dal com-  plesso della leggenda volgata e nota, che rin-  chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro  dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi  e le luci, — le ombre e gli sfondi lascia alla me-  moria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ri-  cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno  ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in  parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà  mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per  tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca-  rattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua  squisitezza formale, è dottrina; e il compiaci-  mento del poeta è di una garbata esumazione  dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito  la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa  non l'idea nazionale anima quei distici, se bene  dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un  senso fine dello stile e un gusto aristocratico  dell'accenno sapiente, della misurata allusione  mitologica.   Nei limiti dell'arte, che non può esser mai  volgare, assai meno aristocratica, ma in com-  penso atta a una più vasta cerchia di lettori, è  la narrazione di Vergilio: perché l'informano  quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor  patrio e la santità della fede. Dentro la cornice  del poema, che esalta la nazione nei suoi prin-  cipi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla  leggenda, come a quella onde scaturisce l'or-  goglio del nome romano e si giustifica la glo-  riosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla     I POETI 189   figura del pio eroe Enea, che opera per volere  di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-  gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti-  tuzione del culto erculeo, e celebra età anteriori  alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non  essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e  ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro  ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi  estremi: comincia con le lotte cruente di Enea  contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili  vittorie romane e alla battaglia d'Azio, signi-  ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle  prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza  intervallo in un constante sentimento ; e, nella  compagine salda degli esametri, appajono le  divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano.  La leggenda si affonda nella realtà ; la religione  le penetra entrambe ; e il canto muove dalle ra-  dici profonde dei profondi sentimenti del popolo  che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti  alle imprese, al culto i divoti.   Per ciò, e il mito di Caco vien esposto (1) du-  rante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon-  dante di particolari. Qui è detto quel che Pro-  perzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma  si sostituisce. E la primordiale figura della saga,  — Caco, — non è svolta meno della seconda, —  Ercole, — né della terza, — Evandro : — però che  rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa  e la divinità bella e un antichissimo assetto poli-  tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono     (1) Vv. 154-279 ; edizione R. Sabbadini' (Torino 1908).     190 IV. - l'abigeato di caco   cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno  dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui  le due forze divine si combattono. Il combatti-  mento assume, difatti, la parte più notevole  perché il canto intiero suona d'armi e perché  nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti  dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del  tema generale, il mito adombra quei particolari  di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia,  e lumeggia bene ogni forma di violenza; ricon-  ducendoci per obliqua via alla sua probabile  foggia originaria : — breve in ispecie l'accenno  allo spergiuro del ladro, che più si accosta al  furbo diniego di Ermes.   Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar  dell'importanza su questo duello ne accresce le  conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo  storico, le spinge al di là dell'origine di un culto.  Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la  pareggia alla storia, in Caco con la belva muore  la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non  sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pi-  narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino.  E il suo cadavere trascinato per i piedi empie  d'un'avida curiosità le menti e non basta ad  appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto;  e i fuochi spenti su le fauci somigliano un  simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con  guerrieri. E su l'Aventino, ove Enea contempla  ancora le tracce del passato, i contemporanei  d'Augusto scorgono marmoree dimore.   Parla Evandro ad Enea (1):     (1) Vv. 190 sgg,     I POETI 191   Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso:  e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la di-  mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui  fu la spelonca, remota     in suo immenso recesso, che il  semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca  dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era  calda la terra ed affissi su la soglia violenta pende-  vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vul-  cano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca re-  cendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti  il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.   Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone  ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui  vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano  i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò  che nullo delitto ed inganno inosato o intentato re-  stasse — dal pascolo quattro di mirabile corpo tori  distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.  Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li  trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii,  e li occulta nell'opaca caverna.   Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco.  Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto  moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella  partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion  la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci  una delle giovenche rispose per l'enorme antro mug-  ghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera.   Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile  riarse : con la mano afferra l'armi e la quercia gra-  vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo  monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco  pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce del-  l'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le     192 IV. - l'abigeato di caco   ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,  che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea  fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito  le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incal-  zava il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua  e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira  fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte  le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella  valle riposa.   Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una  roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo  sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli.  Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul  fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da  le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sù-  bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra gran-  dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il  fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar  scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo,  non diversa che se nel profondo spalancandosi per  forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e di-  schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto  l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore  tremassero i Mani.   Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava  rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra  Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e  con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora  (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)  da le fauci — mirabile a dirsi — moltissimo fumo  vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi  togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte  aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide  'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco,     I POETI 193   là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel  grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre  afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,  compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si  ingorga di sangue.   Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa :  i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al  cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.  Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre-  mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso  di séte, e su le fauci i fuochi spenti.   Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricor-  darono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con  la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que-  st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre  verrà detta da noi, e massima sempre sarà.   A Vergilio sembrerebbe di poter fare seguire  senz'altro Ovidio ; che lo imita su questo punto  assai strettamente e ne finge anche il senso  religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né  l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste  sacre e nazionali di Roma (1). In realtà sotto una  superficiale simiglianza si cela ben profonda  differenza. La vita artistica del mito, pregnante  in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza.  Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è  esaurita, che non osa violare il modello i^er  rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di  mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto  piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che     (1) I 461-586; edizione H. Petee* (Lipsia 1907).  A. Ferrabino, Kalypso. IS     194 IV. - l'abigeato di caco   " claviger „ è detto con falsa audacia Ercole ;  si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase,  quando è eletta a costituire un verso cosi (1) :   Dira viro facies, vires prò corpore, corpus  Grande ;   sorride bolsa nel bisticcio etimologico (2) " Cacus   non leve malum „. Non è più la finezza pro-   perziana e la ricca concisione : è il lezio ricer-  cato a far un poco attonito chi legga.   Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di  tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Car-  mentalia dell'll gennaio, e il legame che alla  cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato  dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco '. Car-  menta difatti, e perché madre di Evandro, e  perché profetessa del culto erculeo, giustifica  tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma  il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens  della poesia, ne è lontana dal verso 541 al 582 ;  e la sua lontananza nell'essenza e nella forma  (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa  nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa  al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac-  contato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel  12 agosto.   E parte similmente della sua forza patria la  fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co-  lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi  non è più, come in Vergilio, il re che, ormai  latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di ce-     li) V. 553. (2) V. 551-2.     195     lebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar-  cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru-  scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad  apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone  materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza  al tema, si addensa su la figura di Carmenta;  ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato,  stronca il vigore nazionale del mito. Non solo :  che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse,  straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia  proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco  " terrore ed infamia della selva aventina „. Cosi  una inezia apparente ha tramutato la situa-  zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar-  tista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei  riguardi di questo mito, reale ed efficace. In  vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e al-  l'artifizio di tale imitazione sospese il suo rac-  conto.   Pur nella facile vena del verso, nella sonorità  scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'e-  leva ad arte (1).   Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe  che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui  ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi  feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il  Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori.  Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie  airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore  ed infamia della selva aventina, danno non lieve a     (1) Vv. 543 sgg.     196 IV. - l'abigeato di caco   stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze  rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro,  Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi  ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le  belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la  terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal  serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :  diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Ac-  colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor  per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con  un masso strappato dal monte aveva munito, che  cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.  Delle spalle questi si serve — anche il cielo v'aveva  posato — e il peso immane smuove crollando. L'ab-  batte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pe-  sante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti  alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi  sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio,  ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo-  mita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala,  crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna  ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata tri-  nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro  volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita  il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra.   Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e  chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva  quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte  dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di  Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra  abbia a bastanza goduto l'Ercole suo.     GLI STORICI 197     IV. - Gli Storici.   Il gesto più significante clie insieme compiano  Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto,  i quali riferirono la leggenda di Caco) è la di-  chiarazione con cui rifiutano di accettare respon-  sabilità per quanto raccontano (1). " Cosi si suol  tramandare „ dice Livio ; e richiama tacitamente  le parole del suo prologo : " né di affermare né  di negare ho in animo „. E Dionisio : " vi sono  intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi,   e altri più credibili. Il più favoloso è questo „   E vero che, nel gesto comune, Livio crede più  di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato  l'opinione che il mito abbia un contenuto storico  (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette  prender radice col primo insediarsi laleggenda  sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol-  vono male, il problema della sua attendibilità.   Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa  del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves-  sero riferito il racconto com'è in Vergilio, né  pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo  segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa-  vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i  più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella  veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con-  venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco  vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E     (Ij Su Livio e Dionisio cfr. § IV.     198 IV. - l'abigeato di caco   un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro :  — uomo. La possibilità terrena informa la fiaba  e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ;  onde le due forze divine avverse si spogliano  del soprannaturale e il valore del racconto pesa  assai più sul furto che su la vendetta. In questa  difatti troppo palese appare la natura mostruosa  di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela  nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi  in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria  d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe.  Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ;  ma il malvagio lo invoca in vano.   Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce,  i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor  dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incu-  naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe  di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta  ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge  l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ;  poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie  intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,  il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Car-  menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il pre-  ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi  legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia  si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una  serietà riflessiva, le quali non la soffocano af-  fatto, si al contrario l'abbellano di un candore  ingenuo.   Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel  senso secreto (1).     (1) I 7. 4 sgg. ; edizione Weissknbohn'^ (Lipsia 1910).     GLI STORICI 199     Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'ucci-  sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume  Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi  a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco  egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con  un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come  per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'op-  presse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di  violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e vo-  lendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto  all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte  medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,  trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi,  quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora  come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge  e s'accorse che una parte ne mancava dal numero,  si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà con-  ducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte  al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo  prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo.  Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte mug-  gito, come accade, per desiderio delle restanti, il ri-  sponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole.  Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener  con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando   l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei   luoghi (1). Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa-  stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta uc-  sione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,  scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto mag-  giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai     (1) Omesso in parte il § 8.     200 IV. - l'abigeato di caco   si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne  apprese : " nato da Giove, Ercole , disse " salve !  Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre-  disse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e  che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale  un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà  " massima „ e venererà secondo il tuo rito „. Dando la  destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adem-  piere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora  per la prima volta con una stupenda giovenca della  mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero  e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le  famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.  Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad  essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giun-  gessero per i restanti cibi ma già consumate le in-  teriora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei  Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sa-  crifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di  quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a  pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta  la schiatta dei Potizii peri.   Tale, nell'insieme, è Dionisio (1): se se ne  toglie che Caco è per lui non un pastor ma un  predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in  Temide (2); che il ladro, interrogato, nega la  sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un  altare a Giove Inventore; e pochi altri parti-  colari minori su la cui natura e sul cui valore  non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra     (1) I 39-40. (2) Cfr. sopra pag. 181.     I RAZIONALISTI 201     vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una  stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due  capitoli sopra un racconto cui non crede affatto;  scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi  adombrato un simbolo che rivelerà poi, con si-  cumera da erudito certo di sé e del proprio  sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e  stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si  afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare  se non alla fine : ^ Intorno ad Ercole questo è  il racconto favoloso che si tramanda „. Alla  fiaba manca l'amore.     V. — I Razionalisti.   Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può  che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le  stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante  dell'erudizione romana trovarono il fatto loro»  — come i poeti in Ennio, gli storici negli an-  tichi annalisti, — negli annalisti dell'età dei  Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo (1). Su la  forma precisa del racconto che si trovava presso  l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non  possiamo dubitare su la forma generale. En-  trambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica  razionalista, concordano nel ridurre il mito a un  gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si     (1) Cfr. § VI.     202 IV. - l'abigeato di caco   direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto  alla redazione poetica della favola siccome ap-  parve poi in Vergilio ed era apparsa prima in  Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla  redazione storica che con riserve riprodurranno  Livio e Dionisio.   Cassio Emina difatti narrava un preteso " rac-  conto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di  servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il  buono Evandro signore del cattivo servo. Co-  testa concezione fondamentale ci ritorna in due  testimonianze, ma un po' diversamente: presso  il commentator di Vergilio Servio e il suo inter-  polatore ; e presso uno scritto L'origine del  popolo romano^ opera probabile d'un erudito  del IV secolo che compilava con grami intenti  storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua  fonte; il primo sembra contaminarlo con altre  informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio  adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo,  soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine  malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto  vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome  gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^  come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté  ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac-  conto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a  uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è tra-  visato nella sua essenza. A tale effetto furono  bastevoli tre interventi del razionalismo : l'uno  a spiegar e ridurre la natura mostruosa del  ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a  giustificarne i rapporti con Evandro. — Più in  là si spinge in vece L'origine^ nell' attinger forse     I RAZIONALISTI 203     più compiutamente, certo in modo più esclu-  sivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo  forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno  schiavo ribelle; ma il furto è punito per auto-  rità di Evandro senza duello né lotta. I motivi  razionali di questa notevole soppressione son  due : lo scrittore non aveva spiegato allegorica-  mente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvo-  lare su la circostanza in cui più il fuoco ha  parte ; la qual necessità poi gli servi anche per  metter in rilievo la buona figura di Evandro e  la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allon-  tana dalla fiaba poetica molto più che non  appaja Servio, se bene come questo la tenga  presente.   Come però questa di Cassio Emina doveva  essere, rispetto ad Ennio, una considerevole ri-  duzione del mito fantastico nei termini della  realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli  annalisti più antichi, non era se non se un lieve  i tocco; cosi su questo racconto altri critici in-  rtervennero assai più profondamente. Ridurre il  mostro a servo : ecco una trovata buona. Ma  m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti:  ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio  nella storia dei popoli anche la breve favola.  Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo ; e  da un contemporaneo di lui, per qual si voglia  via, la derivò a sé Dionisio per il suo " più cre-  dibile racconto „ (1),     (1) 1 41 ; edizione C. Jacoby (Lipsia 1885).     204 IV. - l'abigeato di caco   Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e  comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse  tutta la terra compresa dall'Oceano ; abbattendo, ove  c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le  repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di  uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di  stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie  repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie ; colle-  gando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi  con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e  diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando  fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti  inaccessibili ; e l'altre opere compiendo, per modo che  l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio  di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né con-  ducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver  traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore);  ma guidando numeroso esercito per sottomettere e  dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato  l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto  e dall'assenza della flotta — phe avvenne pel soprag-  giunger dell'inverno — e dal non accettare tutti i  popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui.   Quindi è narrata la sottomissione armata dei  Liguri, non che d'altri ; per continuare (1) :   Fra costoro che furono superati in battaglia, si  dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani — un  re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi — avesse     (1) I 42, 2 sgg.     I RAZIONALISTI 205     con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti  era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso  Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con ap-  parecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser-  cito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto-  dito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio  dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu  ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre-  sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i se-  guaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro....   Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà  il razionalista si arrogasse; fino a far giunger  nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro si-  gnore degli Arcadi che la volgata afferma in-  sediato sul Palatino al momento del duello.  Libertà intesa al servizio del vero " secondo i  filosofi e gli storici „, — come s'esprime Servio,  — ossia di quella critica, che conduce a creare,  accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e  grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awen-  tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render  civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto  sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il  " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi  risultati; se non gl'inquinasse una mal celata  boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva  che è solamente sterile miseria.   Su queste rovine pochi poveri racconti si stre-  mano ancora. Evandro richiama con sé la figura  di Fauno di cui era divenuto un equivalente  sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira  il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca  suggerisce la storiella che la dea abbia otte-     206 IV. - l'abigeato di caco   nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco,  suo fratello.   Poi, è il silenzio.   Singolare sorte della saga, in verità. Ricca  di densa materia; vissuta traverso il succedersi  delle geniture in una propaggine del vigoroso  ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala-  tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se-  colo a. C. non pur la sua forma poetica e la  sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e  su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per  modo, che sopra il quadruplice schema l'età più  possente del pensiero romano, l'augustea, non  seppe se non disporre adorne trame di ben va-  gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il  mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore  vita : però che dovesse morire intero con l'estin-  guersi la potenza alla sua bellezza verbale.     CAPITOLO V.  Cirene mitica <i).     I. — Il sostrato storico.   Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più  eletti stami poeti, tra quanti furono nell'anti-  chità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di  Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella  storia reale una sua trama di fatti concreti e in  parte sicuri , da cui deriva direttamente o indi-  rettamente tutte le proprie successive forme e  in cui è da ricercare il motivo appunto di questa  evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso,  con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tè-  naro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set-     (1) Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II  cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispet-  tivi paragrafi.     208 V. - CIRENE MITICA   tentrione di Creta ; se la Libia, ferace di gregge  e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo  geografico: certo fra questi perni essenziali si  svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano  nella fiaba un riflesso e una deformazione im-  mediata, gli altri solo in modo mediato danno  impulso a talune vicende, determinano qualche  figura, causano pochi episodi! (1).   Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo  decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti  fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a  quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica.  Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI,  sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi,  a suggellare della sua particolar impronta il  carattere e la storia di quella breve terra. Ma  fin dallo scorcio dell'età precedente una mano  di cittadini Terei abbandonava con ardire la  spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre  Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei  particolari procedesse, quali che fossero le fa-  tiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni  non posero in vano il piede su la terra straniera :  la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,  prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi  si ebbe i suoi Re (2). Largo era dunque il volo con-  cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,  perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola     (1) Cfr. § I.   (2) Cfr. Beloch Griechische Geschichte - I 1, 128. 264 ; Bo-  soLT Griechische Geschichte^ I 479 sgg. : Malten Kyrene  C Philologische Untersuchungen , XX 1911) 166 sgg.     IL SOSTBATO STORICO 209   a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga  vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito;  ma quale è la realtà in cristallo iridato.   Però che la memoria fosse alterata da quell'am-  pio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il  quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa  misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta re-  cassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos-  sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abita-  tori del cielo della terra del mare. E allargato,  di li a non molto, già nel principio del secolo VI,  fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni.  Regnando difatti Batto II della stirpe che prima  aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole  flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, per-  vadendo e mischiando l' antica massa. G-iun-  gevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi  distinti per la lor propria dissimiglianza. Griunge-  vano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui  per la loro importante sede (1). Rinnovarono la  stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono  un soffio diverso e molteplice ad alimentare di  parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai  venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe  locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non  soltanto perché apportatori di nuovi elementi al  racconto; ma anche perché, numerosi, costitui-  rono a sé un centro secondario di creazione e  diffusione mitica, in antitesi al principale, cui  la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e  la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,     (1) Ebodoto IV 159. 161.   A. Ferrabino, Kalypso. 14     210 V. - CIRENE MITICA   da questi due distinti gruppi del popolo greco  in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato  mitico delle leggende cirenaiche.   Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto,  sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata,  realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire,  soli, le mature forme della favola di Cirene e  Apollo ; ove sfuggisse il centro vero, il proprio  crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e  vitale, possente d'un suo secreto alito di pura  bellezza, organata in una palese e pur varia  armonia, la massa confusa e diffusa che si spre-  cava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine.  Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san-  tuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea  vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica  si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, di-  venne d'un popolo ; era d'una regione, se ne im-  possessò l'arte, universale (1).   E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di  quel mondo fantastico, cui diede l'espressione  con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica  di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di  Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in-  tonarono per quell'armonia le note.     n. — L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo.   D drappello d'uomini terei che s'insediava primo  sulla proda del mare libico recava con sé, prin-     (1) Cfr. § V e VI 2.     DI CIRENE E d'aBISTEO 211     cipalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe-  ciale e insigne culto, uno il cui doppio nome  serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo.  Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, ve-  nerato di profondo e rispetto e amore fra i po-  l}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apol-  line era sorvenuto, in uno slancio di prepotente  predominio, a fondere con sé, come quella che  gii era per qualche carattere e attribuzione si-  migliante ed afiine, la vetusta divinità dorica.  E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran  nati il nome nuovo di termine duplice, e la  figura nuova in cui le linee primordiali soprav-  vivevano accanto alle ultimamente tracciate ;  senza vero dissidio, a causa della sostanziale  contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi acco-  standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo  non fu, nella terra libica, pretermesso il culto.  Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trova-  rono nella patria nuova un'abbondante fontana  da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il  suolo riarso, a quel Nume appunto questa sor-  gente ricchezza delle glebe fu piamente dedi-  cata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo  ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera  di cittadini terei (1).   Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni  alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan  variegando in un disegno ellenico: e come alla  stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appre-  sero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal     (1) Cfr. § III.     212 V. - OIKENK MITICA   Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un  suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso  a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase.  E poiché alla fantasia per abitudine secolare si  popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le  sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine  fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira ^  suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „  (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo,  e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo in-  digeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e  tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto  più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si  succedevano. Era destinata a compaginarsi per  impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stu-  pisce di vederla scelta a riprodurre, direi eter-  nare, in sé l'opera che quelli spesero per adat-  tare il paese e renderlo quetamente abitabile.  Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice  (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare  abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in  breve ferma per sempre, irrigidendolo come  in uno schema, fissandolo in un gesto tipico.  Rimase (1).   La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era,  e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insen-  sibilmente e inevitabilmente condotta presso  Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella  abitava, e antico Dio del popolo che simboleg-  giava ormai ella. Divennero amanti divini ;  amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo     (1) Cfr. § IL     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aEISTEO 213   primo del tessuto mitico s'era allacciato. In  Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima  del paese, la divinità che dava al nome della  regione una grazia feminea, fu difatti la pro-  nuba benigna e ospitale, cortese di favori agli  sposi.   Il pensiero era in un felice momento creativo :  in uno di quei momenti in cui il volo non si  tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce,  la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice,  ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo  Stato nascente un diverso patrimonio anche di  leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene,  che reprimendo le belve e prodigando l'acque  procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza;  Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa  eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un gio-  vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non  sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico  protettore dei campi ove crescon le messi, dei  pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli  aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai  regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'am-  plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino  in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.  Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar-  cadia. che dunque dall'isole si spingesse in  Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti  all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la  natura sua propria assimilantesi, sia per la legge,  onde la fantasia greca è governata, di non lasciar  nume alcuno isolato ; come altrove s'era com-  messo con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe  indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si     214 V. - CIRENE MITICA     congiunse, e presto, con la coppia amante; av-  vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa  che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma  "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en-  trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac-  costato l'uno, necessariamente. Portava egli con  sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali  alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran  di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era  con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, cu-  stode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino  con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate  poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea.  la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle vario-  pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,  e allieta o attrista i contadini a volta a volta :  attinenze indubbie, e antiche certo, ma costitui-  tesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente  però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da  vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni  modo gli venne la sua più speciale sembianza:  dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è pro-  babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-  stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede-  simo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella  salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio  Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di fe-  rite (1). Accanto dunque alla coppia d'Apollo e  Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri  delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a pre-  ferenza tessalico (2).     (1) niade A 822 sgg. 832 A 219. (2) Cfr. § IV.     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aRISTEO 215   Di questa situazione profittò accortamente chi  ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso  letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda  in naturai guisa si riportava a cagione della  figura di Febo; sotto il supremo patronato del  quale la favola ricevette un più ampio svolgi-  mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine  e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei  rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se  ben forse più riposta, caratteristica. Tendono  tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im-  portanza del nume Apolline venerato nel locale  santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di  lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno  (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lon-  tane regioni. Un esempio: per più punti simili,  Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa-  natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel  racconto, e spontaneamente Apollo aveva da  soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae  lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e  di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag-  giore permetteva la favola africana : il Carneo di  Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'ordi-  tura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben  separati; la quale filo maestro contenesse Febo  Latoide, identificato già col primo e padre già  del secondo ; e come su punti estremi si fissasse  su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra  Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra  la sede dell'amata e la sede del figlio (1).     (1) Cfr. § V.     216 V. - CIRENE MITICA   Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di  Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta  di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O  quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti,  presso l'acque del Pèneo abitava la bella Ci-  rene „. Il resto del carme si ricostruisce per  congettura. — Figlia del tessalo Ipsèo, re dei  Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene  crebbe vigorosa e animosa, strenua in combat-  tere. Durante la lotta con un leone la sorprese  Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone  la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò  sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa  li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre  recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono  e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad  Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone  custode di gregge, un Nomio pastore. — Tale  lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce,  senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto  penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo  Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico  riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a inten-  der perché, volendo insieme serbar intatto il  carattere tessalico del giovinetto e non cancellare  l'episodio della sua nascita in Africa, venisse  alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso  i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar  popolosi di leoni queti piani della Tessaglia ; ma  qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '?  E fuor di questo, la trama era pregevole per  molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg-  gera grazia di tocco che temperava con l'amore  del dio la salvatichezza della fanciulla; per una     l' " BEA , DI CIRENE E d'aRISTEO 217   accorta sapienza prospettica nel disegnare le  scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde  senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in  gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo  senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso  le parole di Chirone dal molto senno e assai  venerando, sino a dargli temperatamente un  tono religioso.   Che stupenda, del resto, fosse la concezione,  dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti  poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di  sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle  lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla  dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fio-  rentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una  il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per  l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato.  Ma era inevitabile che questi due poli, ben ar-  monizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni)  dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia-  scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a  divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridi-  venire di là quasi esclusivamente libica. Due  filoni se ne originarono, non privi né l'uno né  l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea,  unica fonte primitiva; ma ben divergenti in  processo di tempo : l'uno che con Aristeo tras-  porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro  che con Apollo rinforza e rincalza i tratti afri-  cani di lei.     218 V. - CIRENE MITICA     III. — Cirene in Tessaglia.   Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta-  bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta  dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C,  in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella  '^ corsa in armi „.   La patria del vincitore cui il canto è indiriz-  zato dovrebbe far supporre che amplissimamente  sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza  libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve  ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu-  ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che  conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda  da valersene nel suo carme (1), non esita a dise-  gnar in vece, nel principio del carme medesimo,  la figura di Afrodite dal piede d'argento: riu-  scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era  dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren-  deva culto con qualche importanza ; onde fu che  la notizia regionale s' insinuò non pur a modi-  ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli-  carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al-  terazione può esser posta un'altra, meno visibile,  e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes  strettamente congiunto nel mito (2); v'era tra  essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro  adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il     (1) Vv. 55-68.   (2) Cfr. in questo volume (libro I) il capo III § L     Hi     CIRENE IN TESSAGLIA 219   quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non  Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato  Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni  modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni  però assai più notabile è la non compiuta au-  dacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghi-  rone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza  religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio  eran assegnati attributi fissi e certi da non vio-  larsi da non obliarsi, ed erano al tutto scono-  sciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze  dei primi canti divini. Già che, i^er esempio,  Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profe-  tante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo  antropomorfica risultava la scena in cui al Vate  da un Centauro vengono vaticinate le nozze.  Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5  protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-  stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sor-  riso ed un sospiro (1).   Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno  riproduce l'Eea. Splendidamente per vero (2).   Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla-  mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e  prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli :   Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio  il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo  cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in  gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar     (1) Cfr. § V.   (2) Edizione di 0. Schrodee- (Lipsia 1914).     220 V. - CIRENE MITICA   la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse  Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine  redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce  letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli  l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente:   Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano  seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an-  fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la  Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle  braccia crebbe, Cirene.   La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i  gaudii delle danze (1) fra casalinghe amiche ; ma, con  bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uc-  cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi  procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che,  dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso  l'aurora.   Sorprese lei un giorno, — sola, — in lotta senz'armi  con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia  faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida  Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,  lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu-  pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi-  netta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le  treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da  quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita  le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero... È le-  cito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto  tondere il fiore dolcissimo ? .,   A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno  chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : " Se-     (1) Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk.     CIRENE IX TESSAGLIA 221   crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri  amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini  questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto  la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene  menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste  finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della  fanciulla, o Signore ? tu, che di tutte le cose conosci  il fine e tutte le vie : e quante di primavera germina  foglie la terra ; e quante nel mare e nei fiumi da  l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel  che sarà e donde sarà, ben vedi! — Ma, se anche coi  profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti  su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'in-  signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai  raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di  piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco-  glierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ;  parte della terra a lei tosto donando, possesso comune,  non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di  belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes  di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e  alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia  al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stil-  leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o  Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu-  stode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:  altri lui nominando Aristeo „.   Nella pausa che succede a quest'inno, se ne  sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La  più bella e la maggior sua scena si svolge fuor  di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici  della fanciulla son rammentati; narrate le sue  imprese virginali su le vette ventose del Pelio ;     222 V, - CIRENE MITICA   né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri-  cana. E tuttavia non per questi motivi, di per  sé valevoli, l'ode pindarica scema il signifi-  cato primordiale di Cirene; si perché, continuando  l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che  l'eroina indigena venerata e creata da un popolo  in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa  di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e  Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto  alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo  culto, gli EUeni.   A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'o-  rigine vera della Ninfa restava la sua lotta col  leone: particolare di precipuo sapore africano.  E questo pure andò, in progresso di vicende,  eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti  nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in-  coerenza di quell'episodio che a due veri poeti  era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui.  Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a  custodire gregge e di li la rapisce, senza lo spe-  ciale motivo della forza ammiranda di lei, in  Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai  vv/i,g)ai) li accolgono : le quali son, come tutrici,  numi del paese e occupano presso il nuovo poeta  sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta  dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella per-  sonificazione d'una terra, il luogo dell'eponima  ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo  alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il  concetto è attratto dalla fama del Latoide qual  Musagète. Che più resta della Signora delle  belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno  alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno     CIRENE IN TESSAGLIA 223   duraturo della sposa colà. La maggior luce è  gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue  vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un  momento. Contro questa general tendenza di  Apollonio non starebbe che la soppressione della  profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,  l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispet-  toso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta  la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente  poi il bisogno di non perdere totalmente questa  figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la ram-  menta quindi, in altro luogo, come partecipe  all'educazione del Fanciullo pastore, insieme  con le Muse. Non più grande né più intenso  poteva essere, sembra, l'influsso della patria  acquisita contro la patria e prima e vera (1).   E fu più grande e fu più intenso. Bastò che  un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, im-  perniandolo, ancor più che i suoi predecessori,  su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la  memore mente dell'artista (o della sua fonte)  è il noto e diffuso episodio omerico di Achille  invocante nella passion dell'ira e dello sconforto  la madre Tetide su la riva del mare. Quando  dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse  il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nel-  l'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre  Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e  nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola  libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma  di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel pro-     (1) Cfr. § V.     224 V. - CIRENE MITICA   fondo gorgo paterno e di addurre su la sponda  della corrente acqua il Giovinetto afflitto da  eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa  breve cenno; ma al fantasioso innovatore del  mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo  è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe  vivono (1).   Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa,  perdute — si narra — per morbo e per fame le api.  Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto  lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci-  rene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite,  perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici)  Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o  il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori  celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter-  reni, che a me alacre con pena procacciava solerte  custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo  per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le  beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! di-  struggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bi-  penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della  mia fama „.   La madre il lamento senti nel talamo del fiume  profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila-  vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e  Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i  bianchi colh (2); e Cidippe e Lieorìade bionda : ver-  gine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del     (1) Georgiche IV 317 edizione F. A. Hietzkl (Oxford 1900).   (2) Omesso il v. 338.     CIRENE IN TESSAGLIA 225   parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe,  entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ;  ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le  quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e  l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti anno-  verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto  rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente  il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su  i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre  sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo  capo levò.   E da lungi: * di tanto gemito non atterrita in  vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura,  Aristeo ! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo  padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la  mente di nuovo terrore la madre : " Conducilo, or su,  conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di-  vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda di  lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui  l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel  vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la  sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli  umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti  boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti  osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti (2).   Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del ta-  lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti  del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida  l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan  di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli     (1) Omesso il v. 343.   (2) Omessi i vv. .367-373.   A. Ferrabino, Kalypso. 15     226 V. - OIBENE MITICA   altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi^ — dice,  — la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E  insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe  sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre  volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;  tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto  avvampò.   Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo  a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa  Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il  nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una  scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone,  Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ;  ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua.  Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido  di aquila: — con Chirone si corruccia e si tra-  stulla ; par clie debba annientarlo con un colpo  d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece  un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un epi-  sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor-  tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra  a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la  cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono  unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio  montano, e ha da portare la selvaggia nella  terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota-  gonista men palese e più reale del duetto, de-  termina essa sola l'episodio centaureo che segue,  e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è sce-  mato e quasi annullato il comico inevitabile.  Sicché la Pitia addensa la materia vasta del-  l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di  quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei     CIRENE IN TESSAGLIA 227   secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli-  gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa   •ttemplice.   Vergilio, — e tanto tempo era trascorso! —  fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito.  Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole  silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui  aveva assai volte spinto il viso nei misteri li-  quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il  Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine  che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta  sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevo-  lezza, — l'uomo nel divino. E l'uomo fu il Ver-  :_ilio georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di  grazia e immerse in un pudico garbo di colori  e di movenze; costumi domestici di fusi e di  conocchie, uso agreste di vivande parche e di  sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di rac-  conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti  e facezie. Sovra ogni cosa, poi, — assemprato  dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,  dall'umidore non nocivo di margini erbosi, —  sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo,  e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento,  non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo,  flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile,  questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel  recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito  della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro  alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più  che ogni variante di particolari o differenza di  luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man-  tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli  conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro,     k     228 V. - CIRENE MITICA   impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso.  Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e  conciso.   Ma è necessario non dimenticare che di tanto  trapasso, — se il terreno è lo spirito vergiliano,  — la radice è l'aver posto nell'acque, non più  della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes-  salo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare  le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger  glebe. Ed è, questa, — si rammenti anche, —  l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea,  trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio  motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi  la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro,  la Tessaglia.     IV. — Cirene in Libiu.   Narra in vece Acesandro, — storico cireneo  vissuto nel III o II (ch'è incerto) secolo a. C, —  " come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo  fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché  un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in  premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene  l'abbatté, e ottenne il trono „. E press'a poco  identico è il racconto d'un altro storico, Filarco.  Entrambi adunque lumeggiano a preferenza  l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, —  culminante, — della lotta con il leone avviene  dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a  difesa del paese e per iniziativa di un re indi-  geno, Euripilo.     CIRENE IN LIBIA 229     Né cotesta è accorta correzione di eruditi ra-  zionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti  negli esametri martellati d'un poeta cireneo : di  Callimaco; segno che la fiaba possiede, come  una non dubbia energia vitale, cosi radici assai  vaste e assai profonde nel territorio cirenaico (1).  Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno  ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per  sottinteso un racconto analogo a quel di Ace-  s andrò.   In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti se-  guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono,  il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor  potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la  fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il  Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul  colle dei Mirti (2) dove la figlia di Ipseo uccise il leone,  infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza  non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò  quanto a Cirene, memore dell'antico ratto.   L'antico ratto è quel medesimo narrato dal-  l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco,  come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lon-  tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tes-  saglia; e il leone rugge da vero su le sabbie  del deserto. Per che modo e traverso che vicenda  si giungesse a cotesta forma della saga, che due     (1) Cfr. § Vili. Il testo di Callimaco è del Wilamo-  wiTz^ (Berlino 1907).   (2) Domina la fontana di Gira.     k     230 V. - CIRENE MITICA   storici e un poeta indigeno ripetono analoga-  mente, è indicato, nel medesimo carme calli-  macheo, dal processo del pensiero artistico.   Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac-  colto in un recesso ove son palme e allori, —  gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta,  grave e dolce, il senso sacro del Dio immi-  nente.   Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,  quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già  a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi?  Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito ; il cigno  nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi pa-  letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è  juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-  parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi,  pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, pie-  colo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non  mai saremo esigui.   Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che  trascina Callimaco , alquanto si svolge cosi  da prima il fervoroso esordio ; il quale non è  tuttavia vano, ma serve a preparare, animan-  dola della sua vita illuminandola del suo lucore,  la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume-  razione delle bellezze di lui e degli attributi.  Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fon-  dator di città. Quadrienne pose le fondamenta  in Ortigia.   E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto  indicò : — corvo, — fu guida al popolo che si recava     CIRENE IN LIBIA 231     iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura  donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo-   La città di Callimaco è dunque fondata, egli  dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui re-  stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una  attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino  ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una  Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città  che di quella lia il nome: si che accanto al  nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti,  si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la  prima novità che ci sorprende.   Una lunga parentesi segue poi in cui si rin-  tracciano le sedi del culto di Apollo Carneo:   Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti  Clario; ovunque a te sono assai nomi. — Io però  Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta,  Carneo, fu la tua prima sede : seconda Tera: terza  poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo (1)  condusse a la colonia Tera; da Tera te il sanato Ari-  stotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un  tempio , un'annua cerimonia in città istituendo, in  cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o  Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari  fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore  adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,  l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la ce-  nere rode carbone di jeri.     (1) Cfr. Erodoto IV 147 e il sèguito del nostro testo.     232 V. - CIRENE MITICA   Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo  la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta  a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia :  vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel  " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che  avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.  Ed è la novità seconda.   Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,  figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul  colle dei Mirti in atto di contemplar, — vedemmo  dianzi, — i coloni Dori danzanti tra le fanciulle  libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui  Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio  dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien  perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei  Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi  dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe  quotato il regno deve essere in rapporto mitico  appunto con quei due spunti favolosi poco prima,  più che svolti, accennati: con la fondazione di  Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni  dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in  Libia. Comprendiamo che al racconto più pret-  tamente libico su la Signora delle belve è pre-  fazione una saga su l'origine di essa colonia  cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di  quello.   Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la  coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel  suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non  è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di  fatti genera maraviglia che in un carme reli-  gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai  meno che in un epinicio quel rispetto austero e     EFRIPILO ED EDFEMO 233   insieme divotamente inchinevole il quale costi-  tuisce Tanima della scena pindarica. Eppure  tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo  vento che, dal Nume, agita la palma delia e la  fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,  bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso  chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua  Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso  (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto.  Quindi il breve componimento si spezza in due  parti diverse tenute insieme, male, da un elenco  dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima  di quelle parti è mossa da una contenuta esal-  tazione patriottica che si veste, — abito non suo,   — del i^aramento religioso, si schematizza nella  scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che  scarsa armonia di struttura, e abusa di formule  innovate sol con sapienza verbale. La parte se-  conda, in vece, lascia prorompere la stessa esal-  tazione patriottica, ma questa volta verso espres-  sioni sue proprie ed adeguate : ivi è la glorifìca-  zion della patria nel suo bel passato. L'artificio  si discioglie in arte.   Ma il bel passato della patria Cirenaica è la  leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,   — sospettatala, — rivivere tutta.     Y. — Euripilo ed Eufemo.   Regnava in Cirene una famiglia, la quale,  per ricorrere in essa il nome Batto e per esser  ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta     I     234 T. - CIRENE MITICA   dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava  memoria, e accanto al più vulgato si ricordava  un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in  qualche maniera a questo proposito una leggenda  etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco  verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una  sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomi-  gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la  genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza  difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano  essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che rite-  nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua-  lunque valore tal j)retesa avesse e comunque si  fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo  scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si  sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché  tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro  che palese, fu facile lasciar in breve cadere  nell'ombra il particolare della patria di Eufemo  o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2).  Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a  fin di compiacere un desiderio che diremo non  illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere  più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi  in Libia, che qualche avvenimento degli anti-  chissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee  dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si  anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se  già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana,  ben poteva quello essere il punto in cui il Fato     (1) F. Studniczka Kyrene (Leipzig 1890) 96.   (2) Cfr. § VI 2.     EURIl'ILO ED EUFEMO 235   ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo  primordiale delle vicende future. Cosi piacque  loro di imaginar la fiaba.   Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite,  l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta  la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi  seppe assai opportunamente disporre svolgere e  compiere quella fucina medesima che aveva fog-  giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi  e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza  materia indigena imprimersi di uno stampo el-  lenico e assimilare in sua roventezza talun'altra  fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio  leggendario dei Greci spigolato a favore e di  Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo  questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a  due domande: — con chi e quando fu in Libia  Eufemo, il figlio di Posidone? — quali vicende  traversarono e quali vie tennero i discendenti  di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e  compiere il fato?   Alla prima dimanda fu sodisfatto con un  antico spunto mitico, assai propizio. Si raccon-  tava che gli Argonauti compagni di Griàsone  ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al  [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero  ■stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago  'era quello ove venne detersa Atena nascente da  Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente  da luoghi concreti) nella palude ch'è presso  la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo  limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi  sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,  placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae-     i     236 V. - CIBENE MITICA   strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle  strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a  favorir qual si voglia racconto di anticM sog-  giorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo  spartano Dorieo intorno al 515 tentò di coloniz-  zare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a  prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e  aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il  tripode rinvenuto da un discendente degli Argo-  nauti avrebbe determinato presso il lago la fon-  dazione di cento città greche. Malauguratamente  Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri-  poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti (1): e il  tripode non fu rinvenuto perché le cento città  non crebbero. Ora in modo analogo procedette  TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argo-  nauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ;  ma a un'altra del medesimo nome: a un lago  chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen-  sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della  Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tri-  tone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale  è, come la sua denominazione significa, il Dio  della " larga porta ,, infernale ; molto diffuso in  vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual  divinità ctonia, presso grotte e antri ove la  volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi  appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca  orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor  dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non  può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che     (1) Erodoto V 42. IV 178-9. (2) Cfr. § VI 1.     EURIPILO ED EUFEMO 237   ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e  v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio,  molto alle fantasime deirimaginazione spaurita.  I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sen-  tirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque  addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar-  rarono farsi incontro ai compagni di Griasone  in luogo di Tritone. Con una variazione poi del  motivo originario, egli fu fatto donare una zolla  non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eu-  femo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto  Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare  al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei  suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero,  né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse  fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire.  D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel  lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo (1).   Per quali cammini? Era la dimanda seconda.  — Alla risposta forniva argomento anzi tutto  la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di  Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni  Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre  punti obbligati e le tre tappe della via compiuta  dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta  ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di-  venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co-  nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei  compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la  costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar-  danelli). Accettate e fissate queste come pietre     (1) Cfr. § YII.     238 V. - CIRENE MITICA   miliari su la strada, ancora bisognava addurre  i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una  all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo-  tivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno  alla prima causa e centrale, il dono della zolla  d'Euripilo. — Eufemo dunque dalla Libia, rice-  \aita la piota africana, si recò con i navigatori  iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il  mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta  nuova. — Questa aveva ora da recarsi nel Pelo-  ponneso e da toccar quella Sparta che nel VI se-  colo inviò pure una colonia a Tera; ma perché?  A giustificare si disse che nel Peloponneso era  la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,  nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro  Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con  valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto,  ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò  non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo  {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere  alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito ; era  precipuamente beota, e diventò tenario; non  godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi  venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è  noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si  anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di  fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il  viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno  nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per  il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto  le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con  quella ch'era al Tenaro non lungi. — Inverati or  dunque questi primi due scopi, era d'uopo con  pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo     EURIPILO EP EUFEMO 239   spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo  na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni  vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai  compagni; dai quali sciolto l'otre contro il di-  vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca (1).  Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba  d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi  stata, in un istante di men vigile attenzione,  travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde  e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò,  non essendo essa da Eufemo stata recata sul  Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,  da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. —  Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il  segno ne fu offerto e il momento scelto per  opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà  essendosi Batto recato a cagion della sua mal  sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso  di colonizzar quel tratto della spiaggia africana :  ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode  dunque, ben meritata, al Dio. — Ultima inven-  zione questa che rivela il luogo ove la leggenda  degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su  tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si  riconnette assai bene con la figura del Latoide  in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome  già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi  genealogico fissava nella quarta generazione dopo  l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella  diciassettesima la spedizione verso la Libia (2).  Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea     (1) Odissea v. 46. (2) Malte.n 192.     240 V. - CIBENE MITICA   aveva alla fine assolto anche il secondo tra i  suoi due compiti fondamentali.   Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio  dall'apparenza assai più logica che fantastica ;  ciascuna delle sue trovate secondarie era indi-  rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a  un bisogno del ragionamento; al ragionamento  ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati  i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e  alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di ec-  cellenza poetica. Queste, che pajono a noi am-  bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi,  che ci sembrano fini pratici non artistici: eran  nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la  quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue  imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio  regno da inconcussa signora. E la bella favola,  creata, ignorava il compenso del suo mercenario  creatore. L'accortezza medesima con cui vi si  profìtta di analogie nominali per accostare, ad  esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro;  la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi  motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber  essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun-  zioni spontanee della mente ricca di antiche  e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel-  l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità  si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si  mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello  storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea  nel disegno leggendario, incresce al contempla-  tore della bellezza.   La quale riappare, con tutta la sua unità sin-  tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto     I     EURIPILO ED EUFEMO 241   tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao  vincente col cocchio. L'anno 462 a. C.   Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo-  roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare  col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai  Latoidi e a Pitone.   In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus,  presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo-  nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola  lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplen-  dente colle e di Medea compiuto, con la settima e  decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa  figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re-  gina dei Colehi '.   Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode  Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af-  fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle  sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra-  pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di  brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi  remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno  è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno  che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo  simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette  Eufemo dalla prora disceso — benigno su lui Cronio  Zeus fé' rimbombar un tuono — quando gli s'imbattè,  mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce  Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la  portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei     (1) (Tera).   A. Ferrabi^to, Kalypso. 16     242 V. - CIRENE MITICA   consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora soli-  tario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di  venerando uomo : con amici detti fece principio, come  ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron  da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava  l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco  immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora,  con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi-  sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe,  ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,  ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor  della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,  l'umido pelago seguendo : che certo spesso furon  esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire ;  ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola  l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade  — prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in  patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul  sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone  che un di Europa nata da Tizio generò presso le  sponde del Cefiso, — nella quarta generazione allora il  sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i  Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo  golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen-  denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col  favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un  Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia : a lui nella  molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura di-  sceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur  . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del  figlio di Crono „.   Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono,  immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti  detti ascoltando.     EURIPILO ED EUFEMO 243   beato figlio di Polimnesto (1), te giusta il discorso  di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica — con spon-  taneo accento : la quale te, tre volte salutato, dichiarò  fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter-  rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei!   Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col san-  tuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel  mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne-  poti. Le quali sono in altro brano anche più  esplicitamente significate, ancor su la trama  dell'Eea: dico nei versi tra il 251 e il 260. " E  su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e  tra le mariticide donne di Lemno furono   essi (2) Ivi un giorno o notti fatali il seme   accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat-  tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata,  per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di  poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'an-  tica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi  il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei  le i^ianure di Libia e di abitare, con savio con-  siglio regnando, la divina città di Cirene dal-  l'aureo trono „.   Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più  minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo,  n quale mostra quanto profondamente l'animo  severo e ascetico di Pindaro consentisse e con-  cordasse con il contenuto riposto della leggenda  cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia  e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra,     (1) (Batto-Aristotele). (2) (Gli Argonauti).     b     244 V. - CIRENE 3IITICA     svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto  ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :  significano con insistenza l'unico essenziale e fon-  damentale concetto del mito, il Fato onde il  regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea  con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con  la bocca immortale lo attua. Gli uomini si sce-  mano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi  eletti. Se non che il Fato è non soltanto il  nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, —  che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo-  stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto  incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col  vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f o-  ruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non  graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui  un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto,  e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com-  pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo  umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo  dinanzi al forte che aveva vinto la gara come  dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui  ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de-  stino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e  per sé lasci levare in minor tono il vanto, si  massimo per i Numi che l'hanno in protezion  benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza  fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta  dal poeta con un balzo magnifico di rapidità  intuitiva: Arcesilao vince a Pito ; da Pito muove  Batto ; ecco il trapasso esterno : un destino  solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto;  ecco il midollo intimo a questo organismo lirico.  Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che     EUEIPILO ED EUFEMO 245   Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla  fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior  dell'animo i men nobili desiderii e una certa  compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto  è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea  d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio : è l'elegia  d'uno spirito d'uomo.   La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è  la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova , aperta  con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe  una scena coreografica ; a quei tempi uno spet-  tacolo dei misteri eleusinii ; sempre , il basso-  rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come  le anime, concreti di evanescenza. Nella notte  dei tempi Medea, maga di semplici e vate del  futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua  profezia. Sono circa cento kola percorsi da un  brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca-  zione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su  la strada nuova ed insueta non dura l'imagina-  zione: già l'episodio di Euripilo apparso agli  Argonauti s'era innestato con diversissima effi-  cienza nel gran quadro di Medea vaticinante,  come quello che vi recava tempere più pesanti  e meno diafane. Con esso episodio si riconnette  poi, non appena cessato l'anelito dell'incom-  bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle  vicende onde mosse e per che riusci la impresa  degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto  una nuova serenità omerica, una placidezza di  lunghi favellari, un indugio molle su i modi  delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in  somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su  la piazza di Fere con le due lance e il doppio     246 V. - CIKENB MITICA   costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti  di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento  obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli  eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la  " carrozzabile „. Pindaro vi entra franco e li-  bero; lo illude la facilità con cui la fantasia  gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni  dell'attitudine sua di statuario creatore della vita  neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision  vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto  dramma; e una imperfetta dramaticità trava-  glia lo spirito del poeta per affermarsi , senza  riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si  distrae troppo, una parola lo devia spesso , gli  manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di  sacrificare i trucioli. E continua cosi , a lungo,  faticandosi, irritandosi : l'opera gli riesce un in-  sieme di momenti, scelti senza acume di tra-  gedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia  un luogo e un gruppo per correre nell'altro  luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel  che là non aveva trovato; non si sodisfa; ri-  prende; e cade senza lena alla fine. Allora grida  con sdegno : " è troppo lungo per me seguir  la carrozzabile ! „. E sul suo spirito esausto  hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del  carme. Termina in pesce.   Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno  sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare  un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre  sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma  tal volta li costringe col suo verso in perfetti  camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte  nella quarta Pitica? La risposta è nella natura     EURIPILO ED EUFEMO 247   stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affan-  nosa d'una base ove consistere cli'è il racconto  degli Argonauti è piena di maraviglie oltre  umane e di giustizie divine. Giasone viene a  rivendicare appunto il sacrosanto diritto di se-  dere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e  nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio,  le sue gesta sono insolite non di coraggio ma  di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,  né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che  il poeta poteva credersi avvolto sempre da quel-  l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale som-  merge in sé il " tereo detto di Medea ,,. Ma  s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il ro-  manzesco della novella, il mirabile della fiaba,  dopo essersi abbandonato, supino il volto, nel-  l'estasi santa. La magia lo deludeva con una  maschera di religione; il cuore non pago pun-  gendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non  propriamente gli mancò , ma più veramente  venne provandosi in vano a molti cimenti sotto  cui è una continua insoddisfazione intima: la  insoddisfazione dello spirito che ha aderito in-  tiero a un impeto di profonda religione e, non  accorgendosi a tempo del transito verso minori  sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora  quella adesione era stata possibile nel cuore di  un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori-  gine e scopo della sua stessa vita, il senso so-  lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché  poche volte una saga ebbe più consono poeta;  pochissime, un tal inno è rimasto documento  lirico della mischianza dell'uno con l'altra e  dell'elegiaca nostalgia che ne consegue.     248 V. - CIRENE MITICA     VI. — Gli Eufemidi e Batto.   Una cosi compiuta intuizion del mito non ha  più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta  anzi a svolgere della saga proprio quella parte  che Pindaro meno degnava di cure : dove, di-  fatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento  verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo-  nauti , Euripilo ed Apollo, — eroi e numi ; lo  storico è pien di zelo per i discendenti di co-  loro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito  Batto, — non eroi né numi ma uomini. Il primo  era assorto nella premessa della leggenda; il  secondo corre alle conseguenze. Delle conse-  guenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno,  non più nella Pitia quarta, ma nella quinta (del  medesimo anno); gli accadde però per sbalzi e  tratti non connessi, senza organismo, e senza  profondità di attenzione. Vide Batto porre in  fuga i leoni africani " perché recò loro una  lingua d'oltre mare „ ; vide i Terei guidati da  Aristotele fondar templi e instituir cerimonie:  tutto in pochi kola (2) de' quali la lode di Apollo  è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto :  a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia  anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che pre-  cede è avvolto in un silenzio il quale può essere  incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi  lo storico comincia a narrare. Egli narra con     (1) IV 145-156. Cfr. Malten 95 sgg. (2) 103-137.     GLI EUFEMIDI E BATTO 249   una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e  forse un poco sorridenti ; molto si compiace nei  particolari minuti; molto più pensa di poter la  tradizione degli Eufemidi connettere con altre  indipendenti.   Ecco, a suo dire, da Lemno partono non  solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli  Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli  accade di giustificar doppiamente il loro sog-  giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lon-  tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli  non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché  i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :  ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti  X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son  difatti concetti affini (su la cui origine non è  qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal  volta identificati. — Per spiegar poi la loro par-  tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza  tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola :  i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com-  binazione grama e non primitiva. — In fine,  i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa,  per quale si recarono in Tera? Esisteva, come  un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,  ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta  nellisola intorno al VI sec. ; e in esso si parlava  di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi  avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe  dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo  storico per far muovere parte de' Minii insieme con  quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe  fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque  su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, — bisogna sup-     k     250 V. - CIRENE MITIGA   porre, — i Minii si serbaron distinti dagli altri  cittadini, al meno come schiatta; laddove il  trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di  quel Tera (l).   [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e  discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola  di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'eca-  tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto  figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eu-  femidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie  lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose  di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo :  " Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel  moto : tu dunque comanda di far queste cose a qual-  cuno di questi giovini „. A un tempo disse queste  cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più  tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo  in qual luogo della terra fosse la Libia né osando  inviare una colonia in un'impresa ignota. — Per  sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i  quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.  Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò  la colonia in Libia. E poiché non avevano altro ri-  medio al male, mandarono in Creta messaggeri per ri-  cercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse per-  venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero  anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in  un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichia-  rava d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di  Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero     (1) Cfr. Erodoto IV 145-149.     i     GLI EUFEMin E BATTO 251   a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non  numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di  Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti  mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei  intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con-  venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito  una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in  Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii  appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi  per un anno... I Cirenei e i Terei strinsero a partir da  quel fatto grande amicizia coi Samii. — I Terei che  avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an-  nunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla  Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato  in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che  erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto.  Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1).   Questo racconto riesce notevole anche perché  vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza  che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro  preciso motivo; e perché vi appare la volontà  di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi  e ai Samii qualche parte nella colonizzazione  della Libia. Volontà, la quale risponde, eviden-  temente, a una tendenza politica tarda: a giu-  stificar le relazioni e di commercio e d'altro fra  lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora  a xDunto questo facile rilievo addita il luogo     (1) Cfr. Eeodoto IV 150-153. Il brano che riguarda l'ul-  teriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al  nostro mito. Edizione C. Hude (Oxford 1908).     252 V. - CIRENE MITICA   onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu  verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,  come si disse (1), due focolari mitici : l'uno dei  primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il  re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo  e avevan quindi desiderio di giustificar con il  mito non pure il regno dei Battiadi ma anche  la loro politica, raccolse la narrazione tradotta  pur ora.   Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re  e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La  quale non è se non questa medesima ove Ari-  stotele sia divenuto e balbuziente e bastardo, e  i coloni Terei appajano pochi di numero e cac-  ciati dall'isola per opera dei lor proprii concit-  tadini. E poiché Creta, per la sua stessa posi-  tm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva  facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu  tratto con accortezza profitto per far aiDparire  anche di impura discendenza il primo colono  Batto. Cosi:   Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re  Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frò-  nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,  volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,  procacciandole danni e macchinando ogni male contro  di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase  il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla  moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era  infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone.     (1) V. sopra § l II sostrato storico.     GLI EUFEMIDI E BATTO 253   Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu-  rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse.  Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua  propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla  nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del  giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese  la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare,  adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi  e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a  Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece  Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque  ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu  posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata  d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la  Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un  secondo comando inviarono i Terei Batto con due  navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro  non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.  Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che  si avvicinassero alla spiaggia ; ordinarono invece di na-  vigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e  occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale,  — come fu detto, — si chiama Platea (1).   Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso  scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non  serbava più in Erodoto la intima e possente vi-  goria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina  di comune e piatta concretezza umana, su questa  leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la     (1) Erodoto IV 154-156. Sono omesse le considerazioni  personali di Erodoto sul nome Batto.      254 V. - CIRENE MITICA   loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti,  ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha  rimesso della sua dignità religiosa, un poco a  pena, e a stento riesce a dargli valore di vene-  rando il sèguito delle sventure che puniscono  la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol  esser storia con esagerata pretesa : ne ingoffisce  ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della  sua evoluzione che permette la esegesi degli  eruditi o la prepara o quasi l'attende.     VII. — Conchiusione.   Gruardando ora a distanza questa tradizione  dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e  rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,  di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto  ripetono l'opera importante nell'impingere i co-  loni; Eufemo, capostipite della casata e com-  pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete  d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo  e con valore divino, della pili antica vita afri-  cana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto  dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma  Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di  Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia  in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna  in Callimaco come d'un re da cui la Signora  delle belve ha il trono. Si profila dunque ora  compiuta tutta l'ossatura di questa compagine  mitica.   Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo,     COSCHIUSION'E 255     luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il con-  tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,  la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni  sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la  origine delfica. Simili dunque e differenti. In  forza della lor dissimiglianza restano in più  d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo  tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi  tessalico ; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro,  la maggior sua umana pianezza; senza che si  formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza  della loro simiglianza giungono per diversa via,  in uno stadio della lor vicenda, a compene-  trarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nel-  l'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la  Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme  con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle  libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un  popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,  Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due  Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme  di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia  nona e Vergili© ; all'altro, Erodoto e la Pitia  quarta.   Lo schema di cotesta evoluzione mitologica  è dunque complesso come un quadro genealo-  gico. E per vero le singole forme della saga  son congiunte da intime attinenze di derivazion  vicendevole ; alle quali tutte predomina il nesso  fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto  vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi  capostipite, la origine prima.     CAPITOLO VI.  Kalypso.     I. — L'ÌTituizìone mitica.   Il mito è miracolo.   L'occliio vede il chicco di grano scender fra  le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer  le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta-  coli che appena lo affaticano lo abbagliano lo  trattengono, e che un nulla basta a significare (1).  Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza  nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato  di verginità animatrice, fuor dal mondo reale  il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano  la lor concretezza in trasparenza, sfumano i     (1) In questo capitolo gli esempii addotti son desunti  dai precedenti capp. II-V. Ma ci dispenseremo dalle con-  tinue citazioni. Cfr. anche cap. I § IV e V.   A. Ferrabino, Kalypso. 17     258 VI. - KALYPSO   loro contorni in nuove linee : — si tramutano  in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel  mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita  secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il  mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il  miracolo si è già compiuto: restio ad analisi  nella sua complessa essenza ed inesauribile ric-  chezza: figlio del mistero, perché nato da una  energia la quale tanto meglio si cela, quanto  più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo-  sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera  mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il  fondo vero, — il miracolo dello spirito transfi-  gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi,  il mito solare è di origine oscura come le vicende,  che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste-  rioso nel suo principio come la fecondazione  della gleba.   Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un  afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel-  l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere  con suggello suo proprio quel che i sensi avver-  tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dal-  l' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme  un' illuminata elaborazione intima, un assorbi-  mento dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco-  prir la natura, e le dà un nome e la umanizza.     (1) Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal  Einleitung in die Psychologie und Sprachtvissenschaft (1871)  §219 sgg. ; e quella dell' ap per ce z ione (impressione,  associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsycho-  logie II 1 (Leipzig 1905) p. 577 sgg.     l'intuizione mitica 259   per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha  segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto  istinto geometrico della stirpe e imponendo alla  Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto  con atto analogo colui che armerà di clava, per  assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro  il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il  miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta  la razza, le dà la sua anima come una divina  coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;  è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il  prorompente grido della vittoria, conseguita  sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin  nelle radici profonde ; è il mortale che, calcando  la terra, volge in breve giro il suo braccio, in  più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo  sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'Uni-  verso dei suoi sensi " ti capisco „. La malinconia  dello scienziato moderno che sa di non poter  dare alla forza ignota, o mal palese in talune  forme, che un nome, e non crede d'aver capito  l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano  il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha  scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il  cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion-  fando di felice ignoranza, che ha, allora solo,  veduto la luce il cielo ed il mare.   Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di  sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar-  cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di  scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto  come civile, non va però si oltre in questo suo  bello errore, da non serbar, della forza immane  rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui     260 VI. - KALTPSO     avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro,  traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più  efficace che trasportare il tutto in una sfera più  che la consueta possente e a cui esso medesimo  soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su  la scena del divino. E il fenomeno mitologico  s'intreccia e si compone con il fenomeno reli-  gioso, seguendo con questo una simigliante evo-  luzione dal naturismo all'animismo al perso-  nismo, per la quale si complica si allarga si  condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza  perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel  principio ogni mito della natura è un racconto  intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto  e rozzo il nume.   La creazione della saga, adunque, somiglia  per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion  spirituale : perché infonde la vita a individui che  la fantasia par animare di un soffio e la realtà  foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera del-  l'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi  li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben  destro, è affine ai procedimenti scientifici che  insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo,  induce l'animo a reverenza d'un potere più largo  più alto, or solo più forte or anche più buono,  rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. —  Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra  quei tre ordini disparati. Anche quello con cui  sembra meglio coincidere è per vero disforme :  l'opera dell'arte non è accompagnata dalla co-  scienza di certezza e di apprendimento che è  (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se-  guita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto,     l'intuizione mitica 261   per cui venga riprodotta e amata traverso le  succedentisi geniture. La fede mistica per contro,  quando sente la divinità vivere e spirare, e la  vede risplendere, non si menoma in individua-  zioni personificate e denominate, si più tosto in  formule ove all'Essere è congiunto l'attributo.  Dalla scienza che mira alle leggi generali su  dai fatti specifici, che raggruppa in classi, rior-  dina in ischemi, è necessario dir lontanissima la  saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua  materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole  farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme  scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le  ripetizioni delle apparenze e le identità fonda-  mentali; ed è già matura quando narra Cora  ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre  e al marito. — Anzi, lungo ciascuno di quei tre  ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente ;   ^fin che da l'una delle tre mete sopravviene a  deformare o incrinare o addirittura distruggere  il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie  il letterario, violi con la sua indomabile licenza  la primordial purezza della favola è in queste  pagine segnato con studio. Né qui si tace come  anche la religione scavi alacre nella polpa stessa  del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù ri-  posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca-  turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo  scienziato non erige ove non abbia prima di-  strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in  pari tempo la saga.   Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che  cos'è dunque il mito?  Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfaci-     262 VI. - KALYPSO     mento pseudo-scientifico non è essenziale quanto  il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver  pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la  specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo  torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri-  tico, si appaga della rappresentazione come di  causa; ed è quella medesima che stimola un  senso rudimentale di questa: o forse, è il con-  trario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e  per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-  mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli  inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di  sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della  causa preceda o segua la trasfigurazione, la de-  termini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si av-  verano entrambi i casi, cbé la fragile mente or  si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare,  " perché? „; ora con spontaneo moto traveste in  fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque,  sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito  serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto,  intatto dalla pseudo-scienza. Accade un tempo-  rale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)i-  riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si di-  mandano il motivo dello scompiglio dei bagliori  dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola  differente ; a tutti (supponiamo) la favola creata  è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità  dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi,  dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla  varietà delle creature mitologiche. Queste^, supe-  rando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate  da una congenita forza eh' è propria, splendenti  d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più     l'intuizione mitica 263   tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii  temporali e si adduce la falsa causa comune; ma  allora la saga non deve nascere, si trasforma  in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo  clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo  evolversi: dall'esterno dunque si muove questo  ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora  rapita sotterra e riapparsa in terra si compie  poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ;  ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine  scientifica non si maturi cosi da non poter più  arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare  e distruggere.   Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere  senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,  difatti, estremamente varia e vasta; trascen-  dendo la natura e le sue forze, si nutre anche  d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è  più specialmente umano. I primitivi avvertono  Dio nella famiglia, — e onorano di culto la dea  Madre e il dio Padre ; lo sospettano o persin lo  affermano nell'individuo che più sa e più intende,  onde inchinano il Vate. E pure ammesso che  primieramente la Divinità appaja traverso la  luce del Sole e il risucchio del mare, non si di-  mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si  pone in contatto con la sovrapotente forza della  Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che,  ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua  evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre-  dire ed entro il quale non intuisce, a dir vero,  se non se la sola Natura; che, quindi, il mito  coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto  un momento, transitorii e insufficienti, di quel     264 VI. - KALYPSO     senso. E allora è più esatto affermare, la saga  contener l'intuito della possanza naturale rive-  lata nel fenomeno.   Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana-  lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e in-  dividuazioni artistiche: il vecchio re che cade  dal suo trono e cui succede il figlio; la donna  che le rapiscono la figlia per nozze; il duello  fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'espe-  rienza consueta; qui accennano le figure che  jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani  di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito  il suo pensiero. Le forme della consuetudine so-  ciale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla  fantasia come una veste indistruttibile. E somi-  gliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni  artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi  le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha  l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del  proprio pollice ; la mano gli vale una certezza :  si che traverso questo possesso egli vede la statua  e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo  scrigno celato la materia ambrata del Verbo e  la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e  mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva  limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole  eran acconce a dire le vicende sociali e a de-  scriver le forme umane ; la vita arborea non  possedeva moto se non per braccia, e il suo prin-  cipio non era da esprimersi se non con l'imagine  dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in-  terno, immersi in lei; la Natura si affrontava  dall'esterno: a questa quella unica poteva per  tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il     l'intuiziqne mitica 265   Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi ;  come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella  spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è  diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso  dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la  creatura tolta alla madre. In progresso di tempo  l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso  apparente del Sole e il trapasso del chicco; non  li ha trovati allora. Allora serve per la Natura  l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione  naturalistica. — E l'analogia (non identità, si  badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche  su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le  diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec-  niche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme  umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci-  procità, si che queste par violino bensi quello,  ma par insieme che il primo esiga senza scampo  il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe  vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac-  cade quindi che si possa decidere dell'epoca in  cui una saga fu da principio narrata, per ciò  solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe-  rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi  o abondevoli. E accadde per converso che taluni  fenomeni non determinassero la loro leggenda,  se non quando li potè assalire e trascolorare una  copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi :   ^erseo contro la belva ed Ercole contro Caco  sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce   tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo,  la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece  3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e  costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vi-     266 VI. - KALYPSO     cende agresti del seme e della spiga non diven-  gono vicende, o siano trama narrativa, che a  patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente  non esistono, clié non sono intuibili. Come (con-  tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di  plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono  senza il consenso dello spirito seguace. — Ana-  logia, non identità. Che il divario è tosto sen-  sibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che  è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla  ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale.  Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costi-  tuiscono la preparazione voluta, né servono ad  altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove  che nell'arti. Il loro progredire è verso un affi-  namento che permetta di sottoporre sempre più  e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso  artistico. E il loro affinamento esalta sempre più  e sempre meglio le arti; non le nega non le di-  strugge già mai. La storia della mitologia per  contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come  sia salita a più grosso valore la somma delle  esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)  traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-  sfigurandosi, incontanente questo legame s'in-  frange, si che a due poli estremi la vita sociale  e gii spettacoli naturali si esprimono con indi-  pendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche  le discrepanze superando le affinità ; e la perizia  esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge  diverse da le dicevoli per le affinità. — Si di-  chiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è  una visione manchevole del mondo esteriore al-  l'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^     i     jH     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 267   mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per con-  verso, una vision manclievole di questo ultimo  mondo, ignara del suo contrapposto con quel  primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rap-  porto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla  doppia manchevolezza. Ma perché le due insuf-  iicienti visioni sono le uniche per ora acquisite,  e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul  fondamento delle crasse analogie, il rapporto  dev'essere ed è, anche, necessario e indispensa-  bile ; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.   Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un  detei'minato avvenimento naturale intuito come  forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano  in una mischianza che li deforma entrambi:   come forza sovrapotente e divina; — indi  il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del  culto, e il pregio di motivazione scientifica;   in una mischianza che li deforma entrambi ;  — indi la fine della mitopeja con l'eccesso della de-  formazione e l'imxDOssibilità della mischianza (1).   Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde  la morte, sarà detto appresso.     I     II. — Le manifestazioni mitiche.     Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor-  memente e si altera evolvendosi. Ma immutati     (1) Questo nostro risultato storico intorno al mito con-  traddice B. Croce {G. Vico pag. 66) per cui il mito è un  " universale fantastico „.     I     268 VI. - KALYPSO     restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e  di creazioni, i modi e i mezzi della manifesta-  zione mitica. La quale quindi è necessario pre-  cisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul  viver e sul morire mitopeico.   Poi che il fenomeno della Natura dovette, per  affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati  d'esser contemplato come l'umano, in tutti i ri-  spetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto  psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella ma-  teria, dipinto su le tavole, narrato con parole.  Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura  rimase luminoso della magnificenza divina, ri-  chiese di penetrare nei culti e nei riti in cui  ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro  puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi  categorie espressive ; e su i caratteri di ciascuna  in generale non è qui da far cenno, che ne trat-  tano apposite discipline. Qui basta notare come  sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due  agl'incunaboli della saga; la quale quindi le  trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità  impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la  crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe appa-  recchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi  non si sarebbe né meno levato in un respiro  immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte  al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu  dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento  di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di  svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi  verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli,  se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga  quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del     ■ritò     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 269   primo suo crearsi, e attuali divennero solo più  tardi. Il termine filosofico, la jDarola scientifica  (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come  si respingono sostanze non consentanee. E in un  dialogo di Platone la fiaba fu '' racconto,,, anche  se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione :  l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inade-  guatamente, dalla fiaba; mai questa da quella,  in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i  frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il  ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: —  qui la saga si foggia a rivelare or l'una or  l'altra delle sue congenite potenze, senza dis-  sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima  intuizione della Natura esala uno dei suoi pro-  fumi pili reconditi, e non tra i meno intensi :  il culto.   Il mito può esser nel culto.   AUor quando su l'Ara massima si sacrificano  tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del  dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste  di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo  della saga, se non certo, è possibile ; è in parte  sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non  si venera Demetra senza ripetere il ratto di  Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta-  mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo  le danze trovan riscontro con i leggendarii balli  dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia.   Le forme però di questa interferenza fra culto  e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un  tempo più semplice, il gesto del rito ripete la  vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli     270 TI. - KALTPSO     bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati (1) a  Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta  alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo  istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è  del ratto. E ad Eleusi si mostrava la " pietra  del pianto „, che aveva parte non piccola nel  culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel  cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo.  Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa-  tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto  mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione  è cosi moderna e lo spirito maturo cosi larga-  mente innova, è andato perduto il carattere pe-  culiare della tragedia o s'è cancellato il segno  delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e  il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma  appariva quasi la ripetizione gestita del mito,  il mito riprodotto attorno ad un altare, da per-  sone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che  ne rendevano la trama. Appariva, in somma,  una specie di culto in cui il rispetto religioso  era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei  numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi  a prendere il sopravvento. Appariva un culto  modellato sul mito.   Questa però, se è la più tipica interferenza tra  i due fenomeni umani, perché in essa la saga  offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non  è la sola né forse la più consueta. Un'altra è  frequentissima: per cui avviene appunto il con-  trario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii     (1) Pindaro Olimpica VI 95 e lo scolio.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 271   e tradizionali si riportano, idìiì che ad un deter-  minato racconto leggendario intorno al dio che  si venera, agli attributi di quel dio alle sue  mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si  invocano in circostanze favorevoli, si supplicano  benigne ; o vero si irrogano lontane, si distornano  con offerte e con formule ritenute idonee. Vi  hanno inoltre, pure estranei al mito, atti reli-  giosi sorti in momenti diversi, per caso, per  coincidenze fortuite, per iniziative, anche inten-  zionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno  infine templi e altari elevati, fuori di un certo  mito, per un nume cui il mito fu collegato  lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario  che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio  nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale,  che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza  contiguo al racconto leggendario, non ne dura  a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e  costituirvi un capitolo interpolato. E questa la  massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a  Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi-  geato del ladrone latino. Sempre, in questi  esempii, il contesto narrativo si amplia a van-  taggio e ad interesse della realtà religiosa : fe-  nomeno che attinse il suo vertice in quei casi,  — ma non ne appajono in questo scritto, — che  tutta quanta la leggenda nasce dal rito.   Ebbene. Nella prima delle due interferenze  notate, troviamo la leggenda esprimersi per  mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto.  Fra le due non difettano attinenze; né è diffi-  cile decidere intorno alla priorità. I miti etiolo-  gici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono     272 VI. - KALYPSO   senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto  più tardi degli spontanei miti naturalistici e per  solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche,  la prima interferenza intacca e interessa intiera  la leggenda: onde il culto di Demetra investe  tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico  tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda  interferenza presuppone la leggenda, l'adotta,  non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi,  la diversità non è tanto profonda quanto par-  rebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'anti-  tesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito  sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al  culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un  che di non riducibile: fra una scena e l'altra  del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma,  qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son  accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,  ma si riferiscono a un diverso contesto: nel-  l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore  e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve  narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i  Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo  tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di  Zeus insieme con l'altre vicende : prima che  Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe  e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto  delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ;  il che si deve dire, come in postilla, ma non  appartiene più al dramma sacro, bensi risale al  mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni  tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti;  ma si integra poi con interstizii d'ombra o con  premesse a pena accennate o con parentesi sup-     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 273   pletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi  sulla impotenza espressiva del mito rispetto al  culto ; la quale è però fatta più tosto di abbon-  danza, ijerché quello per solito trascende questo ;  consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura  mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del  culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie  0, in genere, greche in onore di Demetra non  sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Per-  sef one, si debbono venir comentate col sussidio  e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea  spettano in testi estranei a quella saga. Qui,  come altrove, il culto traspare nella leggenda,  ma per uno spiraglio solamente.   Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico  non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro.  Ciò può sembrare da prima strano, da poi che  si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano  invece cessa di essere, quando si ponga mente  (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura  di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con  lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af-  finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto  si modifica, e si perfeziona di disinteresse, col-  l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro  nasce da un'intuizione della natura che deve  permanere durabile, e vive nel suo profondo di  vita indipendente dalla religiosa. Due rami,  dunque, bensì dello stesso tronco; — ma rami  diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non  accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la  costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per  due motivi.  1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carat-     274 VI. - KALTPSO     tere scientifico che assume la saga o già prima  del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo  qual spiegazione del fenomeno essa tradisce  tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto  mai confacente alle menti primitive (né solo a  quelle). Se il fulmine è la clava immane che  un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con  braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà  la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al  Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte,  in culto. E della spiga granita, della messe co-  j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori  l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune  suona il tripudio, come comune il lutto per il  rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto  e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca,  si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle  nebbie rosate e si converte nell'egoismo quoti-  diano, ch'è il pane, il benessere, — la vita.   Ma l'altro motivo per cui culto e mito in-  terferiscono sta nella concretezza plastica, che è  di talune cerimonie del culto, e che le assempra  all'opera dello statuario, ossia le avvicina al-  l'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra  trasmigrante per le terre con due fiaccole accese  su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la  figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle ceri-  monie di Eleusi. E quando il ketos apparisse  vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,  riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa  del racconto. Il paludamento ed il gesto corri-  spondono all'elezione e alla disposizione verbale.  Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono  anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 275   volto contratto nell'angoscia sottintende ma non  significa il dolore medesimo che il poeta piange  nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea  nella carne vivente la divina maschera di Lao-  coonte.   Per tanto, non pure mito e culto non si so-  vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono  coincidere, il culto risulta una imperfetta espres-  sione del mito. Accanto alla quale perdura sempre,  e per integrarla nella quantità e per elevarla  nella qualità, la forma primaria e più acconcia :  — l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano,  quasi a compimento ed abbellimento, le varie  forme del culto, come i minerali alle fogge cri-  stalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme  con la ]3oesia, emergono, fiori di alto stelo, su da  quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti  e il disadorno ricordo delle generazioni.   Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa  efficienza di espressione. Il vasajo, che nel VI se-  colo affigura la saga di Andromeda su la materia  tornita e preparata alle vernici, si ripete, tra-  verso la serie dei suoi modelli, ad un'antica  forma del racconto caduta già in oblio nella let-  teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci a  costruire quella forma, di cui altre tracce non  sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo spe-  cialissimo caso ardimento soverchio asserire in-  dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in  tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a  simboleggiare un intero strato mitico, in quanto  la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa  risalire a una narrazione ; non ce la narra,     i^     276 VI. - KALYPSO   per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e  Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita  tre spighe (1), richiama le nostre cognizioni sul  ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le  fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le  esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non  possono essere indipendenti dal racconto parlato  quelle arti che non debbono né fermare l'istante  né descrivere il moto. Il momento è la loro mi-  sura, ai due estremi della quale sono invarcabili  colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per  rendere una vicenda, per fìngere il moto nella  statica. E né meno costituendo in serie i lor  prodotti riescono a rendersi autonome dalla  forma letteraria; che una Via Crucis raffigu-  rata da un genio non è se non mirabile chiosa  agli Evangeli (2).   Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua  espressione, a preferenza artistico; ma anche è  precipuamente letterario. La letteratura sola ha il  vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo  se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com-  pimenti né di premesse. Cotesto privilegio però  non s'intende tutto, che prescindendo da alquante  restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare  che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i  guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,  contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo     (1) " Annali dell'Istituto „ XIX (1847) tav. P.   (2) Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica  scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (= " Phi-  lologische Untersuchungen , V) Berlin 1881.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 277   dell'esame condotto intorno a quattro notevoli  miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee  omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per-  venute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte  plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non  cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia  basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini  onde è concbiuso il concetto di letteratura: non  fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla  ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma  comprendendo nel vocabolo anche le manife-  stazioni più povere e grame, il racconto d'un  antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la  favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi-  dera nella sua ampiezza tutta questa saliente  marea, che si diparte da bassissimi fondi ed  espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo  moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su  le forme come una legge fatale; se si scorge  il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi  da Pindaro all'atleta, da l'atleta a Vergilio, da  l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa  e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca  di Diodoro e la corte imperiale di Roma, per-  vadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista  dell'età travagliose: — si appalesa a pieno il  dominio, indipendente e incomparabile, che sul  Mito possiede la Parola.   Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime  su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre  originale, com'è sempre imprevedibile prima del  suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo.  E un castone che costringe il diamante ora a  smussare una punta ora ad arrotondare uno spi-     I     278     f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto  e parlato, ne è una forma nuova che non si può  ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra.  In questo, l'arte figurata e il culto, — a parte  la loro incompiutezza che si vide, — somigliano  alla letteratura; ma, anche in questo, le restano  addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e  l'altro, non appena possedutala, una certa forma  e una certa versione d'una saga incidendola  per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la  parola ha una sua duttile mobilità, una sua  invitta energia innovatrice, che si tradiscono  nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa-  j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si di-  lunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale  vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una  cosi fatta attività di dominio, come distingue  tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie  letterarie medesime, ed è il criterio del loro  pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al  poppante innova bensì, che non s'evita; ma per  vero minimamente, a confronto dello storico e  del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo,  al paragone, e la luce ne devia cosi poco che  si trascura. La personalità della parola è quella  di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema ;  o si invigorisce : e il mito ne riceve più o meno ]  individuate le sue forme. Onde è lecita per co-  modo di ricerca, se non esattissima in tutto, la  distinzione in due grandi categorie, separate per;  una diversa potenza creativa, dei contesti ver-  bali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno  gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:  fecondatori.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 279   Senza traccia, come senza nome e senza gloria,  rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori  menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono  la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,  senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri-  pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità  passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di  fantasia le fogge tradizionali, come utili a va-  gliar le innovazioni, che, diffidando, non accet-  tano se non quando una forza geniale le imponga,  e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col  ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spetta-  tori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi  le sorti delle loro creature, e che si serbavan  fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la  selezione e si conserva la vita. Cosi che quando  non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il  popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben  morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino  la resurrezione. Le radici sono inaridite.   Ma non possono d'altra parte raccogliersi in  un solo tutto i fecondatori del mito: che la  energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal  volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un  creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che  ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad  arazzo. Verità di non poca importanza, come  quella che serve a spiegare, perché il mito duri  e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si  tace, o compia anteriormente all'arte uno svi-  luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei  carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la  trasformazione profonda subita dalla fiaba indo-  europea j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nel-     280     Vlnno a Ermes di begli esametri omerici: o  pmi'e il comporsi della saga siracusana di De-  metra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né  senza traccia è rimasta, come senza nome d'in-  dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti o,  per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi.  Ai nomi delle persone, clie mancano e non var-  rebbero, possiamo sostituire quelli dei centri  onde il moto di elaborazione mosse e si propagò:  quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del  Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le  imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa  messe, tra cui raro langue il ciano e il papa-  vero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo  sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di Ver-  gilio il racconto di Ferecide. — In generale, per  conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un  progresso rispetto alla mitologia (1). E tale as-  serzione è sempre vera, se intesa a dovere: pe-  rocché il progresso può essere istantaneo e com-  piersi nell'attimo medesimo della innovazione,  ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se  l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il  lavoro mitologico di un predecessore o crei esso  medesimo la saga che contamina le pretese dei  Battiadi con la spedizione degli Argonauti al  lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la     1     (1) Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela-  borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'ela-  borazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi-  tologica dalla mitopoetica che sola ha pregio  estetico.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 281   verità elude con volti ambigui i nostri occki  incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile,  la contaminazione balza insieme con il ritmo  dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata  sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria  generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,  non raro; ed è ben motivato dalle premesse  nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo  raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo  e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi  jonici, che si dissero sopra, stringe membra  prima incoerenti in tale organismo d'intuizione  unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso  riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer  quello col verso; se appaja egli stesso anche  mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio,  che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembre-  rebbe quasi insolita la contingenza, in cui al  più dell'intuizione non rispondesse il meglio  dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno  che non sembri, a causa dell'indole propria di  ; talune stirpi e della natura speciale di certe in-  [novazioni mitiche. Nel fatto, tra i Romani è  [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un  [arido annalista e che quindi scada dal carme  )opolare allo schema di un rozzo diario: tale  [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco  [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con-  [•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur  [senza avere alcun intento, — si badi, — di ra-  sionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile  3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto  [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda  in una forma regrediente, che non attingeva     282 VI. - KALYPSO     alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un ne-  cessario margine a simili casi, per solito si varca  d'un salto dalla medesima mente il varco che  intercede, — non ampio e non breve, — fra la  innovazione mitica e la procreazione d'un'opera  d'arte.   Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o  per maturità conseguita nel tempo, e attinto il  vertice più bello, si apre una serie nuova d'in-  novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle  mitologiche. Ma un facile criterio le distingue  senza possibile equivoco. Le une hanno un fine  che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da  esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrit-  tore, che altera la leggenda nel comporre, ob-  bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con-  sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il  suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel  ritocco, mutar questo colore, adombrare una  figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe-  ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli  dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di conce-  dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup-  pare più ampiamente una parte. Per contro il mi-  tologo, che è tale prima d'essere artista, tende  a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen-  dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigo-  rosi rami, e a quello procura di recar contributo,  adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,  tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una  mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare  le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si  chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per  esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per     LE MAXIFESTAZIOXI MITICHE 283   comprimere mia città avversaria, quale Tera; per  lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico.  In ogni caso, muove da esigenze che non sono  quelle del suo tema letterario, né consistono nel  tono d'un poema su Enea o d'un canto su le  Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi-  rizzo mitologico.   I due ordini d'innovazioni però, pur essendo  tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci-  tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'ima-  gine che rende la loro reciproca condizione, è  quella della pila voltaica ove il succedersi alter-  nato dei dischi di rame e di zinco permette lo  scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito di-  fatti non potrebbe entrare in quel componimento  letterario ove deve alterarsi, se per effetto della  sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse  conseguito già un certo stadio; e per converso,  poi. il colore diversamente sfumato dall'arte  la variata prospettiva sono a punto cause  che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun-  gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del  popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo  il suo senso allegorico antichissimo, per assu-  merne, a gradi, uno storico ben diverso: allora  solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano,  e il gruppo delle etiologie incunearsi nel rac-  conto. E allora solo la fiaba di Perseo e An-  dromeda è matura per una interpretazione psi-  cologica e sociale nella tragedia, quando il  mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la  Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica  l'altro; un passo prepara il susseguente: non  importa se i fini del primo non sieno per l'ap-     284 VI. - KALYI'SO   punto quelli del secondo. Anzi, perché, come si  vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta  in una con la innovazione mitopoetica, lo storico  resta esitante, in quei casi, prima di decidere da  quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi  la precedenza, non nel tempo, ma nella respon-  sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.  Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in conget-  tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia,  per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo  di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,  identificato primo Persefone con Cora. I confini  sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri-  trova chiare le sue vere cause. Questi casi am-  moniscono lo storico a cancellare ogni categoria  empirica allor quando si accinge ad esporre  l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico  pagano.     IH. — L'evoluzione  della mitopéja letteraria.   Da due radici trae vigore la mitopéja al suo  arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi :  dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta  negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa.  Curiosità scientifica, senso del divino, intuito  dell'uomo e della natura, immanendo nella saga  costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli,  che attirano verso di essa i prodotti del più  maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito  di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre     l'evoluzione della mitopeja letteraria 285   nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali  son sorte non da uno sviluppo delle primissime  antiche, ma da un superamento deciso di queste.   Siffatta opera duplice e immane di rinnova-  mento si comijie entro certi ampi limiti tem-  porali.   Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del  medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura,  sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:  nuovo, se pur non profondamente diverso dal  complesso dei suoi analoghi. E il fermentante  rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici  che il suolo ferace esprime da sé, per l'esube-  ranza della sua forza, in unico impeto con le  roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano  disponendosi l'una a canto dell'altra, affini so-  relle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si  addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro,  simiglianti e differenti, e si dispongono in rac-  conti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome  personale, un peculiare suggello. La mitologia  |indiana serba traccia di questo pletorico groviglio  li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate  Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è  linore : perché già in essa sono sopravvissute  [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la  [singolarità medesima apprestasse vigoria e resi-  stenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò  stesso meno individuate, vennero assorbite da  pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli  lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che  man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di  [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di     286     VI. - KALYPSO     Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gor-  gone, di Perseo contro il ketos, attesta l'anti-  ch-issima fecondità originaria in favole dissociate  per minime differenze, per esigui e mal certi  confini, e prova anche come la mente creatrice  da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna  derivar notevole forza di vita e non scarsa energia  personale.   Di questo periodo di creazione mitica e di  moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio  additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori  tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età di-  fatti, che l'occhio della storia può riguardar  sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mi-  tica si accresce della fiaba duplice di Cirene e  della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi  vigorose e determinate che non possono in verun  modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né  Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi  tutto, perché non escono, — se bene adorne poi,  dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro  Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne do-  rate su la loro cetra, — non escono da un bisogno  lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un  fine pratico, in grazia del quale soltanto sussi-  stono, ma a malgrado del quale splendono di  magnificenza. Per ciò non creano, ma compon-  gono elementi noti, sfruttando intrecci ante-  riori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il  lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero,  e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e  dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono.  Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge  presso la palude Ciane, non sono se non le sosti-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 287   tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle  forme d'un antichissimo racconto greco. Singo-  lari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle  quali si unisce un cotale spirito di riflessione,  un quasi gretto senso di praticità, con una indu-  bitabile freschezza creativa, un abbandono lan-  guido di sogno. Questo permise il loro travesti-  mento poetico, e cosi grande permise che i  razionalisti antichi non s'accorsero punto dello  scopo politico e materiale onde le belle fiabe  che gì' irritavano erano mosse; né se ne accor-  sero, prima che sorgesse il metodo critico mo-  derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono  in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno  ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di rifles-  sione pratica è il non dubbio indizio che il pe-  riodo in cui si moltiplicano i miti è per finire.  Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle,  in genealogie stremate, in giuochi etimologici  trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi  in favolette che pochi eruditi ripetono; riven-  dica (1) il passaggio di Perseo per Micene ove  egli avrebbe perduto il puntale della spada  (ó /ivxt]g) ; attribuisce a Trittolemo discendenza  argiva (2) ; spiega il nome dei Pinarii pel dover  essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù),  ho fame) (3). Poi muore.   Entro i limiti di tempo cosi largamente se-  gnati, profondo e vasto è il rivolgimento.     (1) Pausania II 16, 3.   (2) Padsania I 14, 2.   (3) Servio Comm. a Verg. Eneide Vili 269.     288 VI. - KALYPSO   In apparenza, tutti coloro che trattarono let-  terariamente le fiabe della nostra ricerca, le  considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal  volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di  caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin-  nastica, l'ammaestramento georgico, la meta-  morfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza  d'una festa, il vanto della preistoria romana :  mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di  Euripide lo scopo vero è altro da quel che la  leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a-  tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole  il suo contenuto. L'interesse per la saga non è  quello primigenio della intuizion naturalistica  onde nacque: è, nei varii letterati, vario. —  Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si  conferma con tutti i testi del nostro studio, per  non dover essere tenuta in somma considera-  zione. Ma ecco che la realtà la contrasta dura-  mente. In tutti i carmi letti , in tutte le prose,  il mito entra non di straforo, si per le spalan-  cate porte: signore, certo del dominio che nel-  l'interno lo attende. Della Pitia IX come della IV  è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia ;  la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro  d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato  anche in certi j)articolari minuti : ospite sacro  che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto.  Non importa che Callimaco sia molto breve nel  cenno alla saga di Cirene : i pochi tòcchi bastano  perché gli elementi essenziali delle due leggende  contaminate appajano totalmente. Fin in Livio.  Fin in Dionisio. — Si contraddicono, dunque, le  cause e i modi onde la letteratura accoglie il     l'evoluzione della mitopeja letteraria 289   mito: controversia intima a Kalypso. Contro-  versia, da cui derivano e gli acquisti letterarii  della saga e le sue letterarie deformazioni; clié,  violata da interessi nuovi, cui già era estranea,  per quanto con tutta la preponderanza della sua  congenita foga imponga le sue forme, è co-  stretta ad accettare, dalla sede che l'ospita,  le luci.   Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la  intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella  il popolo par condensare, con la propria espe-  rienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi  fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici  delle fìgure che muove la sorte comune. Per  essa, traverso la fantasia delle masse, come at-  traverso un vaglio singolare, il complesso (ad  esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme  delle vii'tù e dei vizii che in genere presso  quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione  di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella  sintesi di un personaggio tradizionale con tra-  dizionali pregi e difetti: il pastore, — dico, —  o il pescatore soccorrevole e onesto che come  suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il  figlio non suo. La novella è dunque, per propria  natura, pregna della medesima umanità che, nel  mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le  creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano  a volte come nate da unico ceppo. E si accor-  dano quindi, sovente e bene, in un medesimo  testo : — tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua  affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da  le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non,   A. Feekabiso, Kalypso. 19     290 VI, - KALTPSO     però, riverbera simileraente la vampa solare, né  vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde  durante la divina estate: si che il volume flu-  viale acquista potenza di voce che s'ode da  lungi, vigore di empito che infrange le sponde ;  ma divino di stelle e di selve men vi trova echi  e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito  e novella il principio dell'abbassarsi quello verso  pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane :  in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del  tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che  più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago  velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la no-  vella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ;  accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura  mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe.  E a questo si deve a punto se di eroi sono  i miti. Quando i lor personaggi non sono  stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara  dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro-  tagonista della saga, e il " vecchio vecchio vec-  chio „ che i novellatori esagerando desumono  dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il  piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale,  se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,  non trovando altrove favori, con l'estinguersi o  diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia,  era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per  ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe-  scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chia-  mavasi, né si ricordava nome diverso, tempio  di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua so-  cietà il mito ; ed entrambi corteggiano il popolo  illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie     l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria 291   elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui,  ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un  meglio : gocciole di piova che rifrangono il Sole.  Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo-  gica, intenta a cercare la causa del fatto umano.  Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in  cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la  causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco  distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il  ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito  erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien-  tifici appajono per tal guisa paralleli nei due  fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti  gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per  causa del fatto il fatto medesimo, correggendo  solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom-  pagnano. La fiamma muta contorni divenendo  Caco e serba immutata la sua potenza deleteria.  E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,  identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La  giunta sta nell'episodio umano e abituale : il  costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei  Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leg-  genda integra per un lato quel suo volto che  par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue;  secónda per l'altro quella sua tendenza che si  origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. —  Questo tributo però non è solo copia. Rappre-  senta anche una riserva di potenze e di sviluppi,  che si determineranno in varia misura a seconda  dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un  poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi  individui entro queste diverse categorie, ne trar-  ranno spunto alla lor compiacenza differente. E     292 VI. - KALYP80   questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che  si disponga a fronte del più vero e antico nucleo  mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per  ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio-  logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,  il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto  di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. —  L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura  insieme con il deformarsi della saga sotto l'in-  flusso dei molteplici interessi cui la fa sottostare  il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro   Cosi il patriottismo adultera il mito; e per  vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo  ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto sto-  rico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro  mostruoso di tempi antichi ; Euripilo un re di età  lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della  porta infernale è perduto, perché una storia fal-  lace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato  naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato  storico; o fa prevalere questo su quello, ove si  trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme  con il complesso dei particolari cristallizzati, il  rapporto tra i protagonisti, però che il favore  patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe  che qual Dio aveva, nel primo significato, com-  battuto le tenebre ; e l'odio nazionale si accumuli  su la figura che era stata, nel primo significato,  ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg-  genda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto  questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto  favorevoli al serbarsi integro della saga. La psi-  cologica o la sensuale posson compiacersi del     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 293   mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e  della intelligenza clie li accomunano. La patriot-  tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida  al mito un sentimento, lo riscalda con un calore  affettivo che, dopo la sua origine, gli eran dive-  nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi  efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e  Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è  il nucleo effettivo : la simpatia dei coloni per  il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano,  e la protezione perenne assicurata dalla coppia  divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello  scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua  che il patriottismo di Callimaco crea indelebil-  mente : la statua del giovine Iddio che accenna,  sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,  onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle  libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con  la vita della sua stessa radice. E quando un  brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta-  tori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di  Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla  sorte che in allora il Fato volgeva su la città  marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio,  — Dio, qual era da prima, splendido al pari del  Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito  di innamorata estasi simigliante a quello che fu  verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo  mito s'era originato in una mente ingenua e  profonda; — se mai si creò, fu l'anno 412 sopra  una scena greca, auspice l'amor della Polis.  Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e  di vivezza.  Il senso religioso è, — già si vide più volte,     294 VI. - KALYPSO     — intrinseco al mito, che anzi se ne informa.  Esiste fra i due concordia come di gemelli. La  quale si svela però non molto jjrofonda. Le si  oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma  uno solo, fra i caratteri della saga ; ch'è ben piti  ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è  elle il carme inspirato alla fede tende inevita-  bilmente a sviluppare un membro della leggenda  a scapito degli altri, tende a farne vibrare una  corda sola. E la contemplazione del mito da un  punto vicinissimo, ma cosi accosto da non per-  mettere più che una visione unilaterale. Tal  incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il  mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza ;  non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua  crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di  immutabilità. Somiglia la formula d'un culto,  che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo  l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in  vece sono di lor natura non statici, ma energici  d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita  stessa in una delle sue sublimazioni migliori.  Presto, raggiungono, — se non presso tutti,  presso talune menti alte al meno, presso l'inspi-  rato poeta della fede quasi sempre, — uno stadio  superiore, e forse di gran lunga, a quello onde  il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è  bisogno di eliminar una figura, di scemar la  crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere  umano al cordoglio d'una dea : si deve informar  il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap-  presso Pindaro Chirone esita e sorride e si at-  teggia a loico furbo, prima di dir la sua pro-  fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare     l'evoluzione della mitopeja letteraria 295   leggendario rimane, non alterato ; ma il pensiero  critico lo discute e ne dubita: che è in appa-  renza guasto minore, maggiore in realtà. Per  quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la  leggenda immergendovisi : la projetta lungi e  fuori di sé, se la contrappone: per qualche  istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo.  Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che  ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos.  Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede  alla saga: il tradizionalismo mitico e il moder-  nismo religioso scendono a un compromesso: e  possono, fin che sono entrambi avvolti da una  atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi  avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della  Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno  l'indizio d'una religione povera e bambina.   Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle  origini, nel mito l'elemento sensuale e il psico-  logico. Poi che i fenomeni della natui-a si ve-  stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il  mare acquistavano volti membra ed atti nostri,  essi divenivan senz'altro passibili di figurazione  sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel  campo della psiche. Analizzare e graduare i sen-  timenti di un Perseo non è se non completar  l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro.  Perseguir con compiacenza, nelle particolari  movenze di grazia femminea, Cora mentre rac-  coglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le  brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in-  torno a Cirene nelle case cristalline di Penco,  non è che un rinvigorir di sangue, spremuto  dalla profonda voluttà umana, le creature cui     296 VI. - KALYPSO   ha dato un sesso il mito. Se non che, anche per  questa via la fiaba si trasforma: essa diviene  un modo di dire, una frase efficace per signi-  ficar un pensiero o una intuizione, una forma  vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade-  guatamente, a volta a volta. Perseo, — è l'esempio  già scelto, — può vestire di sé e delle proprie  avventure esteriori un ideal personaggio di Eu-  ripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di  molti individui. Cora, — è l'esempio già usato,  — si muove con la leggiadria un po' stereotipa  della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori  ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla  eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è  penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fit-  tizia, perché non è la prima, antica e vera. Per  ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com-  pagne di Cirene da un repertorio di nomi ; — e  non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a  un colore, non svela una persona. Demetra che  piange, e di cui si regola il pianto con magistero  di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era  anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce  il bisogno di sminuire, se non proprio soppri-  mere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare  fra Andromeda e Perseo una scena novissima,  di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce per-  sino la spiacevole inopportunità dell'intervento  di un Nume, in sul finire del dramma, per scio-  gliere, con atto oltreumano, una situazione di-  venuta umana.   Accanto a questa, che la psicologia e il sen-  sualismo gittano sul mito, è singolare la luce  che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 297   alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura  personificano e di cui con la loro vicenda ren-  dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevol-  mente. In pochi in vece si altera e deforma forse  tanto la saga. La Dea delle biade non domina  su la vegetazione lussureggiante, non vi regna,  qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del  quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra,  ma in mezzo alle messi che significa e possiede:  parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre-  sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che  si duole nella valle di Tempe, maravigliosa  di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un  privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni  antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è  per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il  passo similemente. La cintura dei monti lo com-  prime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra-  versare i regni del nonno, le sedi di cristallo,  gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi  ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre  ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro  della natura acquatile e pastorale che af figu-  rano, ma una cosi fatta magnificenza è concre-  tata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo  con perpetui doni ; li circonda non li costituisce.  La bellezza e il primato sono altrove che nelle  persone di entrambi : — nella Natura, effettiva  protagonista, cui convergono lo slancio del poeta  innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si  direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed  è vero : ma colà la Natura riprende il posto che  i suoi impersonati rappresentanti le avevano oc-  cupato. E una restaurazione.     298 VI. - KALYPSO   Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'eru-  dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene,  nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi  con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio,  nel nostro studio, di quanto essa possa, senza  scemo di pregio letterario, stremarsi della sua  vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte  si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La  qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto  al mito sia cànone più severo : per crescere al  magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa  agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son  tramutati i tempi.   Più in là, si ritrova, fra più ampio volume  di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,  la Storia.   Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.  Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce  troppo da Livio, Livio da Diodoro. La lor critica  e il loro metodo sono diversamente insufficienti.  Ma un intuito comune li induce a sopprimere,  nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di  certi silenzii, pel fine di non arrecare una sto-  natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio  che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono  alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i  Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non  hanno ancora una storia per sé, si adattano in  quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual  le raccorcia, esuberanti come son sempre.   Sopravvivono esse: attestando la loro incoer-  cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono  la lingua, conoscono il passato, partecipan co-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 299   scienti al presente del loro paese, pur avveden-  dosi del carattere favoloso di taluni racconti,  pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono  impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con  l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio  giunge persino a dichiarare in anticipo che non  vuol esser chiamato responsabile di quanto narra  per gli antichissimi tempi; — ma narra tuttavia.  Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),  il vero che si cela sotto il velame; — ma ripro-  duce tuttavia il velame. Del fenomeno una spie-  gazione sola è possibile: il pubblico esige la  parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio  patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che  non ammette si ignorino le origini prime della  propria stirpe, le vicende antiche della propria  città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti;  che si sente sodisfatto, — assai piti che dal  contenuto stesso della fiaba, — dalla sua forma  di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi  meglio della realtà; che ritiene di non poter  conoscere la vita dei padri se non traverso la  tradizione eredata da essi. E la consuetudine:  ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto  la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice  del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'orto-  dossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un  nuovo pensiero religioso o filosofico. Tucidide do-  veva saper di spiacere quando negava un nesso  fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli  Odrisi signore di Tracia (1) ; ma era da lui l'af-     (1) Tucidide II 29, 3.     300 VI. - KALTPSO   frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di  fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare  la resistenza che, per tradizione patriottica, è  insita nella leggenda.   Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto  dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni  però sono distinti. Il poeta, che canta la saga  patria, o nella saga introduce opportuni accenni  alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal  cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e  il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato :  sospira il presente nell'antico, e sotto le luci  dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe mae-  stosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del  re savio regnante Evandro: imagina la spada  del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole,  contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo sto-  rico in vece accade appunto l'opposto: per lui,  il mito emana su su dalla storia, come una causa  su dagli effetti, una premessa su dalle conse-  guenze: j)er lui il mito è una preistoria, una  motivazione. Il nesso genetico di causa ed ef-  fetto, ch'è insito nella storia ancor quando si  manifesta sol grossolanamente in un nesso di  precedenza e susseguenza cronologica, orienta  nel suo indirizzo anche la concezione della saga,  e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta  vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è  per lo storico in vece un dipendere causalmente  del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la  lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un  rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii  e di Tera e di Batto è una necessaria e suffi-  ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 301   valgono : perché giustificano. E il loro valore di  motivi è cosi grande, che si accettano come  ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la  fede su la veridicità del lor contenuto.   Si fatta deformazione del mito, per cui il ca-  rattere etiologico di taluni suoi particolari e,  qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il  nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,  segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle  origini. La saga aveva avuto negli inizii impor-  tanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi  in parte nel culto, e i bisogni scientifici; supe-  ravali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi  un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta  officio consono alla sua natura; tanto che, pur  connettendosi con etiologie cultuali, mantenne  su di esse il suo primato di bellezza e di forza,  presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando  alla fine si trasforma nella pura e semplice  causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini,  cessa dalla sua indipendenza, acquista un che  di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso  tra le fantasie.     IV. — Il flusso e riflusso delle saghe.   In seno al possente spirito mitopeico lette-  rario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto  della nostra recente esperienza, talune tappe ed  erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un  continuo nascere maturarsi ed estinguersi di  saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte  e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel     302 VI. - KALYPSO     grembo deirUmanità , che s'è originata e deve  a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso  è libero ; non perché non lo determinino sempre  forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è  schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo  disegno ; ma perché nessun nodo della contessi-  tm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o  analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi  è del pari degno d'istoria; v'accade regresso  in rapporto al livello mediano della mitopeja, e  anche progresso: entrambi in diverso modo no-  tevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte,  ch'è comune a quella ricchezza divèrsa.   Il mito, — ciò è, — ha due vite ; o forse vita  duplice. Una è la sua più propria: e consiste  nella capacità di evolversi, di assumer forme  nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in  individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra  è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in-  dividuo: della Pitia IV, del canto Vili nel-  l'Eneide, della lirica properziana, del racconto  di Livio. Uno stadio dell'evoluzione non elimina  i precedenti, né li comprende solo in potenza,  ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà  concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste  due vite pare uniformarsi a leggi diverse.   La vita seconda, delle singole individuazioni  mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale  s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com-  ponimenti e il sopravviver loro. Onde il carme  d'un poeta non affiora alla superficie che per la  strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu  più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche  tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 303   all'altro il primato, con decreto che non si di-  scute e che finisce col condur, tal volta, a pre-  valere una redazione e col tramutarla in volgata.  Fece cosi Pindaro per Cirene, Vergilio per Caco,  Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori  d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni  effettiva consistenza di strati e importanza di  varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-  riore si aggruppano intorno a quella cui più  riser le Muse, come forme incompiute d'uno  stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra :  di bellezza. E da tutte in selva risplende il  mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno  occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi pe-  renne la vita, perché ogni forma è capace d'im-  pulsi, e nella diversità degli spiriti sono impon-  derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme  dei sopravviventi miti; e la virtù della razza,  che diede la passione onde nacquero ; e la virtù  del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco,  che diede la materia onde si fusero. Di li ritor-  nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta  all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi  radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na.   La prima vita in vece non è né cosi varia  né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa  secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi  della quale però, — ed è sua prima peculiarità,  — permangono al mito, quasi irrimediabili stim-  mate, i segni che furono del suo nascimento :  resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Ci-  rene, che sorse imperniandosi su la Libia e la  Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lon-  tane la sua sorte ; e par che fino la più profonda     304 VI. - KALYPSO   violenza recata al suo schema confermi quel  carattere regionale. Similmente, per essersi for-  mato sopra un compromesso e in una contami-  nazione, il racconto siracusano di Cora rapita  si mischia, negli anni, in una sempre più larga  massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva  modo storico e religioso, quando prima s'insedia,  col suo nome, la sua memoria nei pressi del  Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual  forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto  dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo  per sempre caratteristico. Onde la trama di An-  dromeda non è da vero compiuta, non pure nei  particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro-  pria, se non allorché gli spunti novellistici si  immettono nel contesto naturalistico, — a prepa-  rare per l'avvenire la triplice serie di innova-  zioni, psicologiche romanzesche e religiose.   Quasi entro gli argini cosi definiti si muove  la corrente del tempo. E di mano in mano che  la storia della paganità procede, che il pensiero  pagano si trasforma, anche la saga è amata  sotto aspetti differenti. Nel V sec. a. C. De-  metra e Cora son narrate con intenti di gran  lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspi-  rano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione  distende sul mito una propria vernice : che è un  particolar modo di vederlo. A noi poco è j)er-  venuto di questo stratificarsi perché non ogni  strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e  artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando,  in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo  antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ri-  costruzione fosse riuscibile nei particolari, una     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 305   foggia mitica, — e sia pure a pena diversamente  .sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente  disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di  esse, nesso causativo, porremmo la sintesi crea-  tiva per cui l'intelletto comune, innovandosi, si  è superato.   Il caso opera poi su talune vicende della saga.  Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar  l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto  il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che  non esistesse un grande poeta quando il mito  di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di  caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire  di due linee causali la cui interferenza non con-  segue da nessuna delle due premesse. Dal caso  pertanto deriva, che non tutti gli strati della  evoluzione mitica hanno " lasciata traccia let-  teraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha  tramandate tracce più profonde e più varie. Del  mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra  due trame sostanzialmente diverse, la pindarica  e la erodotea; il quarto non ce ne concede al-  cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra-  manda ben cinque quadri con varianti colori e  linee; l'età di Giovenale nessuno. Vergilio ir-  radia del suo patriottismo il racconto, Properzio  della sua raffinatezza, Ovidio della sua sonora  compiacenza verbale, Livio della sua ingenua  critica, Dionisio del suo impotente razionalismo;  ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere  complessive nelle quali esso viene inserito e  dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava  che altre ne potesse assumere e che ancor taluna  di queste potesse non aver assunta.   A. Feeeabiko, Kalypso. 20     306 VI. - KALTPSO     Attinenze fra l'evoluzione spirituale comples-  siva stratificantesi sul mito, e le forme casuali  della leggenda, esistono visibilmente. Il modo  con cui i posteri di Ferecide di Vergilio di  Ovidio di Callimaco amarono e ripeterono le  saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene  deriva, come dalla trasformazione compiutasi  nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle pecu-  liarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che  il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera  loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra  quella che dicemmo trasformazione del pensiero  collettivo, e questa che potrem definire energia  plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali  d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela  letteratura d'una generazione compie su la ge-  nerazione successiva, non sono se non alcuni  degli effetti che tutta la mentalità della prima  compie su lo spirito della seconda. Vale a dire :  il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'in-  terferenza casuale di due linee causali riprende,  fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa.   Indi si spiegan anche, facilmente, le morti  dei singoli miti : quelle pause del loro evolversi  per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano  spinti alla trasformazione né si riprende che  tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la  mitopeja pagana. — Non è dubbio difatti che una  saga qua! siasi continua, più fioco più intenso,  il suo respiro fin che il genio mitopeico è una  operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di-  ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie  di ciascun mito si arrestino a un certo punto,  oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 307   più sonò il canto. Prova tipica, che non ve  n'ha forse più palmare, è la storia del mito di  Caco : languido già in quel torno di tempo che  segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se  bene seguano ad Augusto epoche di culto intel-  lettuale di esumazione erudita di compiacenza  artistica in cui l'abigeato violento e fumoso  avi'ebbe potuto, — possibilità vana, — trovar  non manchevoli espressioni. Persino i germi  dissolutori insiti nel testo di Vergilio e, più, di  Ovidio e, peggio, di Dionisio, tolleravano svi-  luppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe  mancato, di cui in vece manca fin l'eco. — Op-  posto ammaestramento porge la fiaba di Cora e  la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre  sotto il cielo d'Omero si levavano vie più fre-  quenti i crociati segni di Cristo, tenta di pos-  sedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma  il crollo dell'edificio male eretto non travolge  pure la perizia artistica di un uomo, pare in  vece che si ripercuota funereo fra peristilii e  celle dei templi cui men frequente stuolo di  fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'o-  maggio: già che, allora, la mitopeja pagana  sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro.  Non il caso terminando, quindi, in questo se-  condo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,  l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge,  del pensiero collettivo e delle passioni. — In  un rosajo si sfanno di molte corolle senza che  scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa  pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il  settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli  ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cor-     308 VI. - KALYPSO     tecce aride su stecchi rigidi, e odore di dis-  solvimento è nell'aria : il cespo si addorme nel-  l'imminenti brume.     V. — La fine.   Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che  non è scomparsa, ma fine di produzione. Ces-  sando d'immortalare afferma la sua mortalità.   L'agonia comincia con un periodo di rior-  dinamento, in cui i miti non si moltiplicano  ma si assommano, e che è già iniziato quando  l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del  resto, le stesse qualità psichiche proprie dei  Greci : di ordine di armonia di chiarezza. Qua-  lità che furono per fortuna, nel principio, assi-  stite da una levità di tocco e da un rispetto per  quanto è bello, i quali impedirono che le si tra-  mutassero tosto in ruvida villania distruggitrice  di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto,  in queste pagine, da chi raccolse in unico con-  testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella  della sua nascita, cui è congiunto il fatale as-  sassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa  G-orgone, il duello con la belva del mar etio-  pico. E un'attività solerte e diligente, cui poco  sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere,  compaginando rinsaldando, la sua galleria di   dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo   della verginità comune, Artemide e Atena.  Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra  tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.     309     Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta  né meno. Al contrario, tal volta crea: inven-  tando, per unire due leggende, un passaggio  accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibil-  mente sorelle, a fin di poterle narrare Funa ap-  presso l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi-  nando una circostanza, per colmare un vuoto ;  innestando un particolare nuovo su altri più  antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma  verbale perché a cotesti ordinatori di miti non  cada nel pensiero di trovarle un posto nel rac-  conto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella  del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è  il troppo trasparente riscontro di Atena a canto  di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,  perché non abbia a essere (e con questa altre  cause v'influiscono per diversa via) trasformata,  e mutata in amante.   Affinché però un cosi fatto procedere si man-  tenga utile, è necessario, da un lato, che le va-  rianti da comporre in ordine intorno a un mito  non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili  di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso  rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col  cessar di queste due circostanze l'attività assom-  matrice prende a divenire impotente, perché il  suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria,  perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo  motivo essa si riduce a una compilazione che,  come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar  le varianti inconciliabili con la volgata, a ri-  cordar Demofonte per preferirgli Trittolemo,  senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia  soverchio né a superare il dissidio contaminando     310 VI. - KALYPSO   e creando. Non anche creando : però che la forza  creativa scompaja in una colla simpatia con-  corde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito  diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo  scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà  tenace il serbarne i modi e i nomi di persone  e luoghi.   Ora, quando il mitologo ha esausta la forza  inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza  delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla  forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui va-  riare costituisce fogge nuove della saga, e per-  sino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua  credenza si sposta : non può più, come nel prin-  cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha  una redazione di ciascun mito cui sola presti  fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve  in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la so-  stanza, su quel che, in breve, è comune, oltre  ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi  occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto  somiglia quello che segue alla deformazione  storica del mito. Quando difatti l'artista non è  più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze  ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad  eleggere un suono per ciascun colore; quando  della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene,  per la storia, e il fatto poi vale come causa :  allora le vesti adorne e diverse cadono; im-  porta il corpo. — Ed ecco il razionalismo dare,  in entrambi i casi, una veste nuova a quel  corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più  seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco,  la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo,     LA FINE 311   il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto  il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto im-  mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due,  e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la com-  piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua  trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itine-  rarii con le norme d'età posteriori, concepisce  le tempeste invernali proibenti il tragitto alla  flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico  scheletro, die resta ed è creduto.   Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mi-  topeja, come un sentiero costrutto su scorie, il  mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita  non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole  errante per monti e piagge, in imprese di ca-  valleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,  non minore forza di vita che la leggenda del-  l'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno:  per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non  è ancor morta, quando essa saga si forma; e,  rimanendole al fianco, le è assidua pietra di  paragone. Per superarla e sostituirla, la saga  deve difendersi discutendo, far valere palesi le  sue origini logiche non artistiche. Onde il suo  vero e mortale scapito : però che la logica  chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa;  l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata.  Quindi è che il razionalismo non genera figli  morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col  soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla  cuna.   A questa capacità distruttiva, che il raziona-  lismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde  una eguale potenza deleteria per le belle favole:     312 VI. - KALTPSO   che diviene esso della fiaba la foggia estrema.  Né pure allora si serba indipendente; vive anzi  come un parassita accanto ai testi dei poeti e  degli storici. In tarde età riflessive il lettor di  Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fan-  tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del  suo sostrato. Dice: '' due eserciti si son combat-  tuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e  da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace espri-  mere altrimenti il fatto, approfittando della sua  libertà „. pure dice: " Caco era servo di  Evandro e devastava i campi col fuoco; questo  significa il vate con frase adorna „. E, se ha  sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera  e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto  da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito.  Ciascuna leggenda avrà molte di queste giu-  stificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte  ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in  cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua  e stentata energia, le forme più antiche, più  belle e da più possente alito nate. Malefica è  appena quando in una mente rozza, distruggendo  intorno a sé, predomina sola.   Notevole è sempre perché, ultima, contiene i  motivi del morir la mitopeja pagana. La favo-  letta pretensiosa del razionalista è tutta conte-  nuta nell'ambito di una esperienza soda della  pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso  Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non  possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento  umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte  per quello a poche linee sommarie e a rapporti     LA FINE 313   semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri  intimi all'anima: giacché nelle prime porta il  razionalismo una imaginativa più nutrita e più  competente, consona ai tempi progrediti e agli  instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una  certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile  acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'in-  genua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa  sua prestanza su la leggenda, il razionalista non  s'avvede d' una inferiorità che la compensa :  smarrendosi in lui pur ogni traccia del feno-  meno naturale come potenza che trascende,  come magnificenza ricca di colori di suoni e di  moti, come mistero pregno d' interrogazioni.  Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razio-  nalismo regna nella mitopeja, trovato ad espri-  mersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può  quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui  né anche l'uno dei tre vien più avvertito, — se  non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evi-  dentemente, dunque, è venuta meno la condizion  prima ch'era stata già bastevole e necessaria al  nascer dell'attività mitopeica; la condizione per  cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo  spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé,  non disponeva per cotale manifestazione se  non d'una imprecisa conoscenza degli avve-  nimenti umani onde era, nel suo grosso, assomi-  gliato; la condizione senza cui la spontaneità  mitologica si allontana nelle tenebre d'un pre-  tèrito memorando.   Se non che la fine della spontaneità mitolo-  gica, che cosi si spiega, non è la fine dell'inte-  resse spirituale verso il mito, interesse dal quale     314 VI. - KALTPSO     trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Nel  secolo VI a. C. e nel V vedemmo fioriture mi-  nori di saghe in forza di questo interesse; tanto  forte ancora nelle masse da indurre regnanti e  poeti a foggiare e contaminare fiabe per accre-  scimento di lor potenza e di favore. Più tardi,  se non induce a creazioni novelle con l'imitare  le prische e il ricomporle, spreme però nelle  guise più varie, secondo i gusti più diversi (se-  guimmo nei particolari tal opera), molteplici  aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e  ogni aroma si esala in seguito a una alterazione,  e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi-  cenda vasta si conferma la forza vitale del  genio mitologico e del mitopoetico. -- Ma lo  storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti  oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello  spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,  deducendo, dopo la fine della creazione spon-  tanea, il termine della ripetizione devota. Di-  fatti, ogni volta che un nuovo compiacimento  attrae l'antico verso la saga, quando il patriot-  tismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte  di essa, e la fede se ne turba, e il senso psico-  logico la scava; ogni volta, una virtù di quella  appare splendendo, — e si esaurisce vanendo :  perché, al pari d'ogni passione, patriottismo  fede sensualità, energie indipendenti e non fa-  ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma  da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia  nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore  degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci  vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli  approcci si rinnovano su una su vénti saghe ;     LA FINE 315   le energie si succedono, ad una due, a due  dieci; il culmine si attinge in cui il groppo pro-  fondo dell'anima è uncinato dal mito : ma poi  la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,  e canti di altro suono si intonano in loro ser-  vaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili  si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene  a poco a poco estraneo e si immerge in altre  creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui  l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a  foggiarsene e a riempirne un altro : — mag-  giore.   E il disinteresse mitopeico: la seconda morte  che la storia deve registrare nelle sue pagine.  Non è, né pur essa, senza compenso; però che  una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando,  e come, e perché, non è qui luogo opportuno  a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi  fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re-  centi e nel nostro raccoglie le tracce e cumula  le testimonianze della terza vita. Qui si elegge  la figura, tocca da melancolia, di Maurice de  Guérin, che rivide con questi nostri occhi mor-  tali il Centauro, avendolo i fragori marini e  l'albe di perla e le sere di ciano educato allo  spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine fa-  volosa esprimere nuove bellezze poi che, con-  cordando col mito nella sensibilità viva della  natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove  languiva la mestizia nata dalla coscienza della  propria debolezza in confronto con le cime sfio-  rate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto  mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro.  Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,     316 VI, - KALYPSO   che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe  e Driadi egli pure ; eran però fuggiasche, e l'a-  nelito del suo cuore si compose prima in sdegno  violento contro la presunta causa della fuga, —  Cristo, — che in ammirazione amorosa verso le  bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo,  Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando  da l'albero, " Non temere o uomo „; e il rim-  pianto strappa biasimo fiero avverso chi " più  non vede gli antichi numi italici : vivon eglino  pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi  entro le nari „. Ma non è giusto il suo rim-  proccio; il cuore non si sfa nel petto " come  frutto putre „. A lui medesimo, che pure vi  portava, nuova, la sua sensualità ferina e tor-  bida e tormentosa, il mito, creatura fraterna  alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implaca-  bile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte  " magnifica „ e fin troppo cosciente della sua  maraviglia valgano a fermarlo un istante, —  né meno presso le ruine del tempio antico, e  l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne   tronche. '' Si allontana melodiosamente „.   Perché? — Eumene di Cardia, nell'età dei  Diadochi, l'anno avanti Cristo 321, sogna, innanzi  a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di  Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di  una corona spicea. Il di seguente i soldati si  ricingono tutti del segno augurale; e la pro-  messa divina incita i cuori, come il calcagno  i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia  (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fati-  dica in hoc signo vinces ; e lo sprone è uguale.  Eloquenza del fatto minore ! Nei petti si muta la     317     fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le  credenze adusate e (è la forma di scetticismo  lor propria il mutare credenza) altre ne accol-  gono al posto; scompare l'aura benigna in cui  si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il  terreno fecondante ove ne penetravano le radici.  E accade che il valore religioso della fiaba, il  valore che sembrava, ed era presso molti, scom-  parso e ottenebrato, si riafferma non per rav-  vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru-  zione. G-li eroi non avevano cessato di essere,  — nel profondo delle coscienze, al meno, —  iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati,  di mano in mano che la Divinità si schiarisce  e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con  Demetra. Il resto opera la scienza. Non la  nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma  tutte, le rispettate durante i secoli come vere e  come sole, sostituiscono nelle menti la loro ve-  rità e il loro equivoco alle interpretazioni fan-  tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo  e mito pagano, che un appagamento della cu-  riosità pel fenomeno poteva ancor stringere.  L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcoba-  leno di Noè condannano Caco ed Iride, come  Sansone soppianta Perseo. — Si che l'elemento  scientifico, insito nella saga (se non intrinseco  a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il  religioso al suo perire, quando l'una e l'altra  sete umana, di sapere e di credere, abbian tro-  vato altr'acqua al loro bisogno.   Morta la capacità creativa della mitopeja,  stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, in-  dottesi le masse per diversi cammini; non restan     818 VI. - KALYPSO   più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simi-  glianti per sostanza o per forme ai pagani, e  l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo.  Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo  di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi.  E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di  quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'ori-  ginò la saga ; volonterosa in vano del passionato  amore, fra cui si svolse ; pallida, dinanzi l'ombre  crepuscolari ove si rifugian labili le figure fa-  volose evocate un istante, pallida di accorata  nostalgia.   Restano anche le storie dei miti e la storia  della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte  di nostalgia.     LIBRO II   INDAGINE     i     Avvertenza.     Ho procurato che la bibliografia speciale dei suc-  cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo  Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del  pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve  in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'in-  dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera  degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu-  tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etno-  logi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier  difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal ba-  sterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte  arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio (1). La omisi  dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici;  né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo  Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto-  rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte  alle varie correnti e agli opposti principii degli studii  mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e  generali, bensì dal giudizio particolare recato nella in-  dagine e nella storia dei singoli miti.     (1) Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il  recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione  bibliografica alla scienza delie religioni (Roma 1914): lavoro  che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce  utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo.     A. Ferrabino, Kalypso. 21     CAPITOLO I.  Andromeda.     I. Il racconto di Ferecide. — Il problema che si pre-  senta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda con-  siste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del  quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste  la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno  in Serifo e dell'impresa contro Medusa ; ci è pervenuta  anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vi-  cende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo  il ritomo di Perseo vittorioso ; ma difetta del tutto l'av-  ventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. IV 1091. 1515 =  Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'. I 75-77). Ma la parte mancante  del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza  bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (II 43-45,  Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto  il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel  che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima  simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Bi-  blioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna  ferecidea.     324 I. - ANDROMEDA     Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di  Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Fe-  recide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste,  ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi  a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche  particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche pro-  varsi ne' singoli casi. — In due punti ApoUodoro dà a  lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire  la paternità di Perseo a Giove, riferisce — senza espli-  cita preferenza — che altri l'attribuivano a Prete fll 34);  2. dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera  di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gor-  gone è uccisa da Atena (II 46). Ciò mostra ch'egli aveva  presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo  che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione  che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una  fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene  in modo aperto. — Di ben lieve natura difatti son le  varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod.,  separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella  Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa  del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa-  f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg (IT 36) ; nello scolio (IV 1.515)  si parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro  che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere , tanto  più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente  la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi  in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce  che non gli dà nello scolio (IV 1515) : evidentemente  chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce  è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per  recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando  la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, —  Steno, Euriale e Medusa, — là dove lo scolio (IV 1515)     IL KACCONTO DI FEEECIDE 325   dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. (Il 41)  narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna  a guardar Medusa nello scudo per non esserne impie-  trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Er-  mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv  àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov ; quando in Apollod. (Il 42)  dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso,  di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più  estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare  (II 45), mentre la pili concisa omette a dirittura ogni  accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara  in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teu-  tamida (II 47) re di Larisa in onore del padre defunto,  e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov  iv Tfl Aagioar] (IV 1091). Unica più profonda discre-  panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel  pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio)  ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco  diverse : contro la tradizione che ricordava un pentatlo  polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a suf-  ficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale  dev'essere a punto o la ferecidea accolta da ApoUodoro  altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno  scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo  che riassume e di cui cita l'autore.   Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Fere-  cide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse  identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli  particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di  Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tac-  ciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per  colmare la lacuna nel racconto ferecideo.   Col possesso in tal modo conseguito di una redazione  comparativamente antica del mito di Perseo e, in par-     326 I. - ANDROMEDA     ticolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie  per cui la critica deve procedere nel suo esame : però  che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno  a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ;  ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo  Fineo Cassiepea, da ultimo.   IL Perseo. — Le imprese di questo eroe sono nu-  merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non  esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;  decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la  madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie  in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari.  Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole,  suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole com-  peta la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del  Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tene-  brosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può  esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser  ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch? I 1,  Absch. VI Mythos und Religion e G. De Sanctis Storia  dei Romani I cap. Vili Religione primitiva dei Romani  e cap. III Gl'Indoeuropei in Italia. Un eroe solare ri-  tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.  Mythologie{\).   Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli , le argo-  mentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.  III 2, 2025: giacché egli dimentica la differenza profonda     (1) A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria  di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig. „ LXI (1910)  219 : * Perseus ' le destructeur ' n'est sans doute qu'un  vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée  comme Vakinekés l'était chez les Scythes „.     PERSEO 327   e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli  spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto.  A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per  reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe  videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in  ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nel-  l'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na-  turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo  significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di  R. Sciava in " Atene e Roma „ XVI (1913) 226 sgg. Assai  equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo  e la mitologia comparata Pisa 1867. Ma è notevole che  quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato  e l'origine della Sfinge (pag. 71); e quel primo, trattando  di Bellerofonte, non spiega la Chimera: entrambi quindi  appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del feno-  meno mitologico non a tutti.   È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel  mito cosi al naturalismo come alla novellistica (1). Il pro-  blema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro  le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in  parte è d'indole generale e vien trattato in questo vo-  lume nel libro I cap. VI. Qui diremo solo, in breve, che  l'intuizione naturalistica suppone una grossolana cono-  scenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già  densa di più larga e più ricca esperienza umana. Co-  munque, procureremo, dopo queste premesse, di sceve-  rare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei  varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez-  zarsi il racconto di Perseo.     (1) È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré-  viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. , XllI (1886) 169 sgg.     328 I. - ANDROMEDA     III. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. — Nel rac-  conto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto  dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare  della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Pelopon-  neso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa  la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov  in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R. IV 1091).  Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa-  lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert o. c. 2023). Ma ben  più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,  dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grand-  fragen der Homerkritik^ 223, intorno allo scambio fra  Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaa-  yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui  l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con  l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono  a questa attribuiti, — è molto probabile che l'Argo di  cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponne-  siaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine  al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e cri-  tici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con pro-  babilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un  nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già  constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.   Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo  alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito , il cui  valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto;  particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della  verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza  di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll.  I 88, in un luogo che non è, come il II 34 sgg., sotto  l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la  nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra-  tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34,     ACKISIO, PRETO; POLIDETTE E DITTI 329   che riferisce questa come una tradizione parallela alla  ferecidea, e lo Scoi. A II. S 319, che fa risalir la notizia  a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiara-  mente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due  salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici  della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pe-  lasgico, quella ha da essere la forma primitiva della  fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito  l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare  poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob-  biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus  padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non  possiamo non propendere a riconoscere carattere argo-  lieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella  vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che  fin " Argo „, l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo  fr. 137 RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr. 22,  MùLLER FHG. I 74). La tradizione pertanto che dice di  Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e  quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponne-  siaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto  si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie  irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche que-  st'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus.  Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. V 236-41 ; i quali  riproducono una tradizione già alterata da elementi  estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per  cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie  addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto  appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli  il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che  potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo tras-  porto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi  la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse     330     ANDROMEDA     anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo ana-  logo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era  poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo  obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, ap-  pare anche nella connessione con i Liei C Luminosi ,)  in cui egli è posto dtiìVIliade Z.   Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono  potrebbero appartenere a uno strato tessalico della  leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare  di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non  dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,  che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi-  tici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,  tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le in-  serzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama com-  piuta d'un mito: — serbate le due figure di Acrisio e di  Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è an-  teriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; —  serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R. IV 1091)  che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le at-  tinenze fra Delfi e la Tessaglia; — serbati Ditti e Po-  lidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente  notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;   — serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei:   — ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e  si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geo-  grafica uniforme quanto per la sua coerenza interiore.   Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tes-  salico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire  il nome e la figura di Danae : giacché se il secondo caso  fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse  un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che  nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae  si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e     ACRISIO, PRETO, POLIDETTE E DITTI 33l   caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la  presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R.  I 1212 e Antonino Liberale 32. Va pertanto conchiuso  che Danae può appartenere assai bene allo strato tes-  salico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini  della ricerca presente il vagliare il problema mitico di  Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi in-  torno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra  ottimamente.   Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratifica-  zioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro  mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è dif-  ficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda  si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come  congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete  tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto  di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del  passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,  cosi la sua comparativa antichità, — giacché anche le  meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abba-  stanza vetuste, — fa risalire non poco nei tempi l'inter-  vento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare  partitamente l'uno e l'altro strato.   Affermata una volta l'esistenza dello strato pelopon-  nesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico  consiste non tanto nel cercar le cause singole dei sin-  goli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Pelopon-  neso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire  passo passo, fin che è possibile, il processo di penetra-  zione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze  si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex. Ili 2,  2018 sgg. ; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha  dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in  Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo     332 I. - ANDROMEDA     non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la  diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si  attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta  germinazione di miti secondari sul ceppo del principale  dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e  propria della leggenda le peculiarità locali non han po-  tuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo  a Serifo : per cui è a priori possibile cosi che il culto  abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti  e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo  caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo  abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole  vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta  la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai  mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Ar-  golide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame  della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun  che (Febeo, fr. 13 -= Scoi. Apoll. R. IV 1091), come di quella  la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argo-  lide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde  Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza  dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più  tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita,  e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto  dicevole, — di cui per altro ignoriamo il nome. E non e  improbabile che questo fosse tale da determinar per ana-  logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole  che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne-  siaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta  avesse un motivo unicamente geografico — l'est — ; ma è  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda  all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo-  tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale  supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane     ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333   dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve  essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè  vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché  lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,  bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati  già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per  tutto il Peloponneso.   Un momento successivo è occupato dalla saga di Ti-  rinto (Apoll. II 48). Questa saga non si sarebbe dovuta  creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto  importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, co-  stringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra  parte se era plausibile che, — come si disse da quelli,  — dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si ver-  gognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare  la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se  a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor-  tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore  nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto  e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano en-  trambi che i personaggi della saga tessala attecchirono  assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte  l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Mi-  cene p. e. : Pads. II 16, 3), che sfuggono al racconto di  Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recen-  ziorità.   La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Pelopon-  neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data  dai genealogisti. Combinando Apollodoro (Il 21. 47 sgg.  con Ferec. fr. 13 e 26 -= Scoi. Ap. R. IV 1091) risulta il  seguente schema che può valere come volgata su questo  punto :     334 I. - ANDROMEDA     DANA.0       Linceo ^    Ipermestra    Lacedemone Abante   1 1    1  Euridice    1   ~ ACRISIO    1  Prkto    Zeus    ~ Danae    Megapente      PERSEO '    ^ Andromeda     Posidone ^- Amimone   Nauplio   I   Damaatore     I . I   I Pericastore   1 I   Peristene -^ Androtoe   I   Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette   I III   Anfitrione -^ Alcmene Euristeo Ippotoe  I !   ERACLE Tafio     Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti  fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert o. c. 2023 vi ve-  deva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie di-  vinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe  dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto  fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei  ceppi. Ma se al Kuhnert si può concedere che tardo sia  l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può  consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero  il posto che essi occupano nello schema genealogico è  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine  peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito  a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto  era possibile; ma due generazioni dovevano necessaria-  mente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra,  quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della  terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi  per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe  in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo  degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II.     ACRISIO, PEETO, POLIDETTE E DITTI 335   B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431  ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò  IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v  7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia  ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito  evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a  sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introdu-  zione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può  esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi  nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo  culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza  di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide :   — territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò  è probabile, ne deriva che Abante potè essere impor- .  tato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo  pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo,  fra Danao e Danae. — Per Ditti e Polidette non si trat-  tava in vece che di porli nella medesima generazione  di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per  meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi  come quello di Nauplio, — eponimo di Nauplia, — di  Damastore, — padre dell'argivo Tlepolemo in U. 21416,   — di Peristene, — sposo d'una danaide Elettra in Apoll.  II 19.   Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra  Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente  peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente pelopon-  nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie  di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert o. c. 2033)  rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto  eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che  la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II  44 Schone; Cirillo c. lui. X 342; Agost. de Civ. XVIII 13;     336 I. - ANDROMEDA     Scoi. Totr. IL 5" 319. Questa dev'essere la leggenda più an-  tica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert o. c.  2016-17) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo  penetrato in Argolide].   Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in  parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre  occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve  a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta  prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto no-  vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza  naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve  valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G? I 2, 63)  della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene  forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi  casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe so-  lare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo inne-  gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca  di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o,  più latamente, della vergine che contro un esplicito di-  vieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa  insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga dif-  fusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo  spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca in-  tuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di  Perseo contro il nonno. — Ugual carattere novellistico  si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il  generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana  postilla quella di Ferec. fr. 26 òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui  natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa-  store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo  abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe  bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la  cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide  Lahonische Kulte 126 e il Gruppe Gr. Myth. 254). Ma il con-     ACRISIO, PRETO, POLIDETTB E DITTI 337   testo della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre  che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che  cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un an-  tico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per  quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò  e rimase nel mito di Perseo. — Altro è di Polidette :  questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un  attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios  " Jbb. Phil. , CXXIII (1881) 302 ha creduto di identitìcar  con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipo-  tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due re-  strizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che  Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade-  Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma  tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui  significato trasparente fa intra vvedere un fondo natura-  listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della  saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione  da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo  con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'im-  portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del-  l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes)  libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del  mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie-  gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un con-  cetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva  nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, soprav-  venuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un  doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad  uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)  si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni  mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso  Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità  A. Ferrabino, Kalypso. 22     338 I. - ANDROMEDA     sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo  la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione fere-  cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba  spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica  per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica  rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre,  e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno.   Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui  vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui ten-  tammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici,  costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto  e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio  a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando,  ce ne darà conferma.   IV. Atena e la Gorgone Medusa. — Gli elementi  che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quel-  l'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata  da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi  jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci ri-  porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di  cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel  suo Lex. I 2, 2347 sgg.); il mostro che combatte e vince  è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade  {Iliade E 740); il luogo onde si muove è Serifo, colonia  di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie  che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo  in Serifo (Paus. II 15, 1, per le monete cfr. Head H. N'^  490), in Atene (Kchnert o. c. 2019-20), in Mileto (Strab.  XVII 801 cfr. Erod. II 15, Edrip. Elena 769, Kuhnert  0. e. 2021): — in Mileto, specialmente, tali da risalire  al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di  Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori  di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che     ATENA E LA GORGONE MEDUSA 339   quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e  che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai  principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un  effetto.   Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il  contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano  (presso [Esiodo] Teog. 274 sgg.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo  èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per-  tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte (1) che  dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto  contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che  abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea  a 22-24) (2). A Nord, ma con egual significato tenebroso,  stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di  Rodi appr. Tzetze Chil. VII 695) (3). Non è dunque dubbio,  anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette  pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e  con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che  quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im-  portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza  noto e chiaro.   E da origine rintracciabile con probabilità derivano  anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che  Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in     (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes  (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo  stesso tema non merita d'esser citato.   (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. „  VII) 17.   (3) Cfr. Knaack " Hermes , XXV (1890) 457. — Su  gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss. „  VIII (1905) 65 sgg., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.;  Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. ' CXXXVII (1908) 520..     340 I. - ANDROMEDA     particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.  Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa  trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose  Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto  al mito di Perseo, se Eurip. Jone 991 la ricorda e Apoll.  II 46 è costretto a farne menzione. E, — ultima riprova  di un fatto già a bastanza palese, — anche quando alla  Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a  lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo  (Ferec. fr. 26 e Apoll. II 41). — Se non che il capo di  Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A 36.  Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch?  I 1, 162) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Me-  dusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me-  dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo  della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso  ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradi-  zione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è  coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men-  zionata per lei in //. E 845 ("■^'■^os KvvérJ. — Di natura  diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati  e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono  mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della  vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché  un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene  [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet. 795; Apoll. II 37;  TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre.  Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la pa-  ternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran  numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp  in RoscHER Lex. 1 2, 1729 sgg.). Ma bisognava prima pro-  vare (e la prova manca) che la parentela e la paternità  sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella  fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine)     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 341   trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò  per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale  trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta-  lismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza  nelle fiabe. — Ufficio analogo (e analoga origine per con-  seguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la  falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi  a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes do-  veva essergli propizio, come quello che quando si scontrò  con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure  (Beloch Griech. Gesch}l I, 160) (1). Mentre inoltre le Graje  nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novel-  listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera  della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.   Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito  di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo  fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi perso-  naggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano  gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari);  e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche  quei personaggi vi intervengono con offici proprii della  novella.   V. Cefeo Fineo e Cassiepea. — Gli elementi onde  è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono  di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti  intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla  prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai     (1) In quanto al valore originario di Ermes lascio qui  intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A.  II pag. 97. — Ricordo anche Roscher Heìines der Wind-  gott (Leipzig 1878) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes  der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica  appunto col Roscher.     342 I. - ANDROMEDA     dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la  diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la  constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in-  ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri-  torio forse di formazione e probabilmente di diffusione  di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame  delle figure singole.   La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, — bisogna a pena  osservarlo, — parallela per significato all'impresa av-  verso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender  notizia intomo a un Nume che in quell'avventura com-  piesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi  fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimolo-  gica, da ravvisar in Andromeda , nel cui nome è non  dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima  non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst. „ X 52 ;  KuNHERT 0. e. 2047) in cui Andromeda appare non legata,  vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico  liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a  respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in  mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " aju-  tatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né  la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve  stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei  vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il  mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che  esso aveva pia anticamente assunta. — Questa ipotesi  però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto  evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser  stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),  pone anche il problema su le cause del passaggio da  quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non  potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno     CBFBO FINEO E CASSIEl'KA     343     appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito,  la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi-  milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile  innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no-  vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode  che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). — Se  non che alla medesima forma vetusta e primordiale del-  l'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto  dianzi (v. sopra pag. 339) come le sedi loro nella con-  cezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E  tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto,  mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i  luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato in-  dizio locale bastevole.   È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le  testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali  da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più  a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll. II 144,  di Paus. Vili 4, 8. 23, 3. 47, 5, di Apoll. R. Argoti. I  161 sgg., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea  in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto,  in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee  Lex. II 1, 1114): fissano in modo esplicito per l'età storica  la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Ar-  cadi (1). In particolare poi Paus. Vili 23, 3 asserisce che  da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il  problema, — che non in questo caso solo si presenta  alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due nomi  non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto  di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri-     (1) Cfr. W. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens  I (1891) 60. 65 sgg.; che mi sembra però superficiale.     344 I. - ANDROMEDA     vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle  attinenze non sono da negare. — E queste notizie sono  non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. 586 sgg.  ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v  OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei  punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel  restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor del-  l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,  cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte-  nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio  in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane  fr. 72 Bgk.* {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda-  où)v) ne aveva sentore : cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef.  Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda  irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja,  fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,  sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad.  B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11  TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude,  — senza peraltro addur motivi, — che queste parole de-  rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una  combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di  Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su  Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di  Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel  su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è  difficile chiarire la genesi, — posto che equivoco di nome  non siavi, — della notizia serbata in quello scolio. Le  genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni-  scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per     (1) Queste genealogie sono studiate ampiamente, se  non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „  XXXIII (1913) 53 sgg.     CBFKO FINEO B CASSIEPEA 345   eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo  dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste no-  tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta  alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri-  terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo  arcade è secondo Ellanico (fr. 59 = scoi. Apoll. R. I 162  combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.  Fenice 150; contro l'opinione del Tumpel a. e. 1109) figlio  di Posidone; e secondo Apoll. Ili 102 fratello di Licurgo  (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll. I 67). Questi  dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo  dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo ca-  rattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile  etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia  riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi  gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f),  sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e  tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante  nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge  il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la  localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più an-  tica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo  di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome ri-  velano del pari. — Mentre però il nesso fra Cefeo e gli  Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an-  tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con An-  dromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice ,  di Perseo, solo quando, — e fu, come si vide, assai per  tempo (v. sopra), — l'avventura dell'eroe contro il xijvos  fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa lo-  calizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo.   Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano  per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama  di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gas-     346 I. - ANDROMEDA     siepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve  venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di  quelle due figure.   Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio  che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „  (cfr. TùMPEL in Roschek Lex. II 1, 993) che compete in  bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I  luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non  hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser  stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con  Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come  moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo  fr. 23 Rz. ^), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un  luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B 533.  Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici  e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e  quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geogra-  fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con-  seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel  quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser  beota [o. e. 988 sgg.). — Ma se la " Millantatrice , è  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con  Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per con-  tiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli-  stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che  la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel mo-  mento in cui la figura di questa viene appunto novelli-  sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode  libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven-  tava necessario giustificare in qualche modo la cattività  della fanciulla; alla quale il vanto della " Millantatrice ,  potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel o. c.  989-90). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame     CBFEO FINEO E CASSIEPEA 347   di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipo-  tesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e  in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio  d'un'antica e diversa vita mitica.   Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr  VII 2417 sgg. ha messo a sufficenza in luce il sostrato  naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle  Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi  venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole  e di danno, contro i venti del Nord , che insorgono a  respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo  settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento  alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel  mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra  la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva  anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. — Ma se  le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-  traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a  l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintrac-  ciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello  l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimo-  nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex. Ili 2, 2354 sgg.).  Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po-  poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei  Fenici (Bkloch Griech. Gesch} I 2, 71) e con Egitto e Libia.  Di qui appare possibile anche l'ipotesi, — contraddicente  quella cui si pervenne pur ora, — che il nesso fra Fineo e  Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico  ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli  Etiopi in senso geografico. — Senza dubbio però le tracce  che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso  Apoll. Ili 97 ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone  e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar-  cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo     348 I. - ANDROMEDA     e determinate da questo. Né giova a sostegno del con-  trario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ;  perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo  de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi  erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dob-  biamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, rite-  nere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe  parte simili parte dissimili, senza che la località del-  l'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre.  Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e  Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in  tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario rico-  struire lo schema genealogico la cui esistenza sia presu-  mibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli  citi (1) del RoscHER Lex. II 1, 986 sgg. e 1107 sgg.) ha con-  siderati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach^) 31  e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica  di due Cassiepee, secondo questi due schemi :     I (fr. 23) :   Tronie ~ Ermes   I  Arabo   I  Cassiepea     II (fr. 31) :   Agenore  I  Cassiepea ~ Fenice   I  Fineo     Il testo SU cui si fonda è Strab, I 41-2: — che per vero  egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed  Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì     (1) Che han per fondamento, insieme con l'altro art.  del Lex. II 1, 293, il voluminoso saggio dello stesso  TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. XVI (188?) 129 sgg.  II concetto essenziale di questo saggio (che nella più  antica forma del mito la sede dell'episodio di Andro-  meda fosse Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu-  tato dal KuHNERT 0- e. 1021-2.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 349   TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv  ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso  omerico   Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84)   non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te :  perché, — dice, — non v'è corruttela di testo; v'è bensì  mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.  Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év  KaiaXóyqj conosce Arabo:   Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr. 23].   Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di  Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an-  cora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). — Di questo  passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :  Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua  volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia  fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,  degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il  nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu-  fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde  integra il fr. cosi:   Tronie ^ Ermes   1   Arabo   I  Cassiepea ~- Cefeo  1  Andromeda.   Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi-     li) Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. II 178 e  Anton. Lib. 40.     350 I. - ANDROÌWEDA     tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. — \Ì7tò  yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo-  yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl  TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol  'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié-  Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg  AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, — continua, — per tal  motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero:  in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati  nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie-  fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv  TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg  Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa-  rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj-  filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. — Come si vede, gli Etiopi  servono a dare un'idea della positura geografica degli  Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero  ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia  identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi-  tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la  discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia  spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta  integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg  TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~  ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ay-  voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov  fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul  zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano  adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli     (1) Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust.  Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia  del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa  e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte.     OEFEO FINEO E CASSIBPBA 351   Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi  questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice  (fr. 31 Rz.^) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo  lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse  ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,  COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo  altrimenti chiaro. — Concludendo, da Strabene, ben letto;  può risultar soltanto: 1) che Cassiopea era figlia di Arabo  in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per-  messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente  schema esiodeo :   I-f II (fr. 23 + 31):   Tronie -^ Ermes   I Agenore   Arabo j   I I   Cassiepea -^ Fenice   I  Fineo.   Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito ele-  menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi  principali raccolti nei due nessi " Cassiepea-Fineo „ e  "Fenice-Fineo „. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da  spiegarsi al modo medesimo del nesso " Arabo-Fenice ,  "Fenice-Egitto, ; come, ciò è, un avvicinamento di numi  eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stra-  nieri. — Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi  se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo  e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non  servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E  difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise  agli dèi e dagli dèi punite : l'una come " millantatrice „;  l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per-  mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione     352 I. - ANDROMEDA     addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo  avrebbe preferito una lunga vita alla vista , offendendo  Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via  a Frisso (ibid.); Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le  Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il 305  sgg.). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul se-  condo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla  localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che  il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di  questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando  il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò  inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto  legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è  pertanto improbabile che in quell'età comparativamente  non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli-  stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come  piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve-  dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di-  versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio (1 ),  Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia  esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si  connettessero primamente per i motivi or ora supposti,  sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del  quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri.  Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in-  dagini, veniamo a importanti ipotesi :   a) Cassiepea (1) offre al mito di " Perseo (ll)-Cefeo (III)-  Andromeda (Etiopi) , uno spunto, ed entra in quella trama  (pag. 346sgg.);   b) Fineo si unisce a Cassiepea (I) per lo spunto no-     (1) L'ipotesi è del mio maestro G. De Sanctis; la re-  sponsabilità dell'argomentazione è mia.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 353   vellistico che trova in questa la causa della pena di quello ;  o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice),  come rappresentante di genti straniere (pag. 352);   e) Fineo si unisce a Perseo (II) come nume del bujo  ad eroe solare ; o, in linea secondaria, a Cefeo (III) come  rappresentante di genti straniere.   Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sen-  sibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo ;  V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e  specie nel duello tra Perseo e Fineo.   Se non che questa è una matassa confusa di cui bi-  sogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e  d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato  etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo)  la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove ac-  canto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a so-  strato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la  preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso :  Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio  Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello  da Perseo (e). Un terzo gruppo infine è costituito da  quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso ;  Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5  Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  è testimoniato in Ferecide (■= Apollodoro) ; il pili ipote-  tico è il secondo : esso suppone in vero e una variante  su la causa della pena di Fineo (v. sopra), e una va-  riante su questa pena medesima : vale a dire tutto un  mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di  coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza  di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega  molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di  Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo;  A. Ferrabino, Kalypso. 23     354 I. - ANDBOMEDA     discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare  pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro  a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però  che non ci saprebbero render ragione né della singolarità  per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che  uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né  della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il  protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece  l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi ele-  menti tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza  casuale si può concedere solo quando la preferenza lo-  gica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi  nostra, — pur non pretendendo di rispondere con esat-  tezza alla verità né di essere perentoria, — spiega al-  meno nel modo che pare pili semplice tutte le testimo-  nianze che sono a noi conosciute. E, — ultimo vantaggio,  non piccolo, — ci fa intendere come il secondo gruppo e il  terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si  fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la  figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea  si vanta (a-b), la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo  la libera (b) col tradimento di Fineo che è ucciso da  Perseo (e).   Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar  conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secon-  dari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo  e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea  omerica : 11. / 381 Od. d 85 i 295; e sono trasparentissimi  simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.  Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in  RoscHEK Lex I 1, 102-4). Se si prescinde da II. A 467  A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio  del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza  eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 355   ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza  attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala  pena si collega per nessi insignificanti e punto caratte-  ristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv. 9, 4) singolare  di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-  nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un  Agenore argivo (Pads. II 16, I 14,2; Apoll. II 1, 2; Igino  Fav. 145; Ellan. app. scoi. A II. F 75) o un Agenore avo  di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads. VII 18, 5)   un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Ar-  cadia (Apollod. Ili 92) un Agenore etolico figlio di  Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll.   1 58 cfr. Igino fav. 244), se rendono non dubbia una  larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti  a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a  prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere  l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il   peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo  e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo  d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del  nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore  al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del-  l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra  fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico-  geografica, sembra da preferirsi la congettura che in  quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di  rappresentante dei popoli che abitavano la Troade ,  grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo  simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di  Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice  (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.^ I 774).   L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo  a noi pare, quel che affermammo nell'inizio (pag. 342).     356 I. - ANDROMEDA     11 personaggio fondamentale di questo episodio mitico,  Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come  Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si  diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa  il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel-  l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.  Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima,  in seguito vittima del n^rog : personaggi novellistici  della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi  la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle  quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il  risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,  credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché  ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese,  a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia  perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto  possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana.   VI. I miti etimologici presso Erodoto (VII 61)  ed Ellanico (frr. 159. 160). — Che il nome di Perseo  sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non  può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i  particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti  anzi tutto Erodoto VII 61, 2 : — 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1)  ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v  nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g  Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e  aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^  oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy-  ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov  oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: — 'Aliala,     (1) Sogg. : " i Persiani     I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO 357   Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av-  ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor-  dano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-'  aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel  popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che  ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo,  Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.  929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar  la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà  di pili un nome di " Cefeni , : con cui gli Artei (= Per-  siani) sarebbero stati noti presso i Greci : — in cui però  non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év  ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo eran, — come si vide,  — da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Per-  siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo  localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto  perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani.  Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare  un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „.  Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli  Etiopi „ : e tale concetto ritroviam difatti presso Stef.  Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre  FHG. m 25, 4 e GGM. II 375); in realtà però furon  concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca-  lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda  non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca-  lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi  (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con-  tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferente-  mente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex. II 1, 1104,  ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accetta-  bile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per-  siani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per  mito etimologico insediato; e che quel nome non ha     358 I. - ANDROMEDA     quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso va-  lore, Artei (1).   Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz.  XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi-  nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én  zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit]  TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà  XaÀSaloi. — Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere  XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto  (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.^ Ili 2061-62).  L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non  indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro  fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E,  come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da  questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non  che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino  alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano  da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen  in RoscHER Lex. Ili 2, 2370-1); e da Fineo rappresentati.  Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia)  e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono  conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce-  gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di  Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Ce-  feni vennero assunti a nomi pristini della regione e del  popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babi-  lonia, i Caldei.   VII. I frammenti dell' " Andromeda „ di Euri-  pide. — Su i framm. che di questa tragedia euripidea  ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck     (1) Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento  dello Stein come quello del Macan a Erodoto.     I FRAMMENTI DEtL'" ANDROMEDA , DI ECUll'IDE 359   FTG} 392 sgg. furon tentate piti di una volta ricostru-  zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm. (1829),  Wklckek Die Griechische Tragedie II (1839) 644 sgg.,  Hartcng Eurip. restitutus II (1844) 344 sgg., Wagner  fragni. Eurip. (1846) 646 sgg., Fr. Fedde De Perseo et  Andromeda (diss. 1860) 11 sgg., P. Johne Die Andromeda  des Euripidea in * Elfter Jahresbericht des K. K. Staats-  Obergymnasiums zu Landskron in Bòhmen , (1882-1883),  Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg.,  E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex. Ili 2, 1996 sgg.,  Wecklein in * Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss.  H.-Phil. Kl. „ 4 febbr. 1888 I 87 sgg., Edwin Mùller Die  Andromeda des Euripides in '' Philologus , LXVI (N. F. XX)  1907 pag. 48 sgg. (1).   Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra-  gedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i  singoli episodi nel loro succedersi, la struttura comples-  siva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei  varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine,  né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice  inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico  oramai che Euripide si deve essere pili o men libera-  mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro-  fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche  le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin-  cidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con  il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei par-  ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta     (1) Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. J. H. Hcddilston  Greek Trag. in the tight of vases painting (London 1898)  23. 35; con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.  zu den Trag. (Berlin 1900J 63 sgg.     360 I. - ANDROMEDA     tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile  dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual  non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti ap-  punto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a  quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi  medesimi.   Uscire da questi circoli viziosi, — che sono i fonda-  mentali e in cui altri minori si assommano, — non si può,  io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il  raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi  e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tra-  gedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi  suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scer-  nere.   I framm. 150-152-153 debbono venir lasciati in disparte  per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b  innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane  vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che  tale asserzione può colorire assai bene , cosi l'angoscia  di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia di  Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda  insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151  si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto  a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto  a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar  la figlia. I framm. 119-122 in vece lasciano trasparire  una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non  tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del  dramma: — debbono pertanto essi pure venire, al nostro  scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i fram-  menti 145-148, che tanto svelano in parte l'azione quanto  8on vuoti di contrasto passionale.   n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello  124-132. Perseo giunge volando traverso l'aria a una     I FRAMMENTI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 361   terra di barbari (124); scorge sùbito, su la riva del mare,  TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo)  riva, Andromeda (125). I versi che seguono (126-132) non  possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un  colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro  che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es-  sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen-  sare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e  Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del col-  loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,  attirano lo sguardo due frammenti specialmente: 129,  132. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual com-  penso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la  belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo An-  dromeda si offre, — ed è questo da ritener il compenso,  — ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da  entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile  dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un  lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di An-  dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;  dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite-  nersi libera nel disporre della propria persona. Onde,  confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll.  (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea-  aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo  Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv  yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discre-  panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui  il patto si stringe tra i due giovini ; la Ferecidea, per  la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo  grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza  bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non  dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboc-  camento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse     3G2 I. - ANDROMEDA     esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apol-  lodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti  che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quel-  l'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ;  poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomenta-  zione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la  genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata  che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.  Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo in-  sieme è costituito dai framm. 134. 135. 137. 138. 142.  143. 149. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo-  nendosi l'una all'altra. La prima (134. 137. 138. 143. 149)  è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale,  di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-  l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico-  lare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav  eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di gio-  vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono  alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv  èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla  felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara-  zione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po-  vero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che  non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco  anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog  tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv  ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il  verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex'  eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche  il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui  lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emen-  dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae  Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav  yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as-     I FBAMME^TI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 363   3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte  che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura  la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ;  e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi-  mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. —  Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu-  zione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non  può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passio-  nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve  dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama  del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti  troppo mal sicuri e fors'anche inutili.  Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :   èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv'  Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg  vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.   Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos-  sibili: 1. * non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi)  de' figli illegittimi „ ; 2. " non voglio che tu Andromeda  prenda (= generi) de' figli illegittimi ,. Il Wecklein 92  sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dom-  maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene  alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo  avvicinare al fr. 141 il verso 11 del V delle Metam. di  Ovidio :   " Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum  Juppiter eripiet „.   Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità  divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un  biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso  e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più     364 I. - ANDROMEDA     tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo  sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin-  ghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se  il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due  possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre  il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo  nelle condizioni sociali di Atene sul finir del V sec. —  Ora il fr. 141 insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del  quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine  simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge san-  cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg  yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio  di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per  regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo  la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece  ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che  una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^ 470 e  n. 1 cfr. 215 n. 1) pone i figli di una straniera (Andro-  meda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram-  menta che tal legge periclea ne amplia una soloniana,  ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di  cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra  tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati  a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese  potuto trovarsi e come uomini e come principi in con-  dizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,.  Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto  il suo vigore nel 412. Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa-  ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama  il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye  ^évrjg yvvaiKÓs (1651):   HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig ; IIEI. ah fiévroi vrj Ala,  &v ye iévrjg ywamóg     I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 365   HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,   vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà ,  odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv,  àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv  q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog.  èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ.   Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza  esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese  sui figli di straniera. — D'altra parte non mancano ragioni  per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più  tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa  di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché po-  tesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi  sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli  interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og;  là no.   Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai  framm. risaltano con certezza sono: 1. l'amore di An-  dromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica  libertà; 2. l'urto fra l'idealismo e la grettezza materia-  listica ; 3. il rincalzo che la quistione giuridica e sociale  dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro  lo slancio spirituale. — I problemi minori : se Fineo sia  parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra  loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con con-  getture esti-emamente mal certe.   Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Erato-  stene] nei suoi Catasterismi : il contrasto fra l'affetto figliale  e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 17 'Av-  dQOfiéSa).   Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati,  non potrà cader dubbio sul momento cui compete il  fr. 136, che solo, io credo, merita di venir assegnato al-  l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia:     366 I. - ANDROMEDA     ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog,  ^ fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd,  ■^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei  f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et.  Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj,  [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv  àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.   In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com-  battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein  97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui  Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi  tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore  (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto  più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli  ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo  l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati sogliono  addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e  FiLosTRATo im. I 29. Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv  fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv  aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L  d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj  Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta  frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era  sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al  posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai  dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le  parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpreta-  zione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passio-  nale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato     (1) Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb.   (2) Sogg. " gli Abderiti ,.     I FRAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 367   l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ  sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov.  Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro-  meda del Beri. Mus. Inv. 2337 (Bethe in " Jahrb. d.  Arch. Inst. , XI 1896), ch'è della fine del V sec. e di poco  posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nel-  l'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che  il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura  il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la com-  mozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappre-  sentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda  divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E  Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scio-  glier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da  Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta  anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore:  ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tra-  gedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava  Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guar-  data da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà  la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega  la Dea prima del duello. — Mentre dunque il testo di  Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il  silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani. IV 672 sgg.) assai  da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'a-  lessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto  si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'in-  vocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa  apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al  patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha  soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^ais-  Non si spiega, se si fa precedere il fr. 136 al duello,  perché in Ovidio il duello è rimasto ed è ampiamente  svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella     ■ Bvolt   i     368 I. - ANDROMEDA     attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la  più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della  tragedia.   La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che  dagli stessi frammenti vengono imposti.   Vili. Euripide nel 412. — Abbiamo tentato (sopra  p. 60 sgg.) di ricostruire le tendenze più spiccate dello  spirito euripideo nel 412 a. C. valendoci deìVEIettra (413)  e àeWElena (412). Naturalmente talune delle affermazioni  intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere,  per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo  opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di  impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio  soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre  (Paris 1893); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge  1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif-  klàrung (Stuttgart 1901) ; Masqueray Euripide et ses idées  (Paris 1905). Questi libri (1) però, notevoli per ampiezza  di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno  il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati,  di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di  Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo  spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di  esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono  in Croiset " Journal des Savants , VII (1909) 197-205 e  246 ; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei-  tung usw. ed Hera1cles~. Per le allusioni storiche di Eu-  ripide v. E. Bruhn * Jahrbb. f. class. Phil. „ Supplb. XV  (1887) 314 sgg. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI (1898)     (1) Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i!  recentissimo voi. di G. Murray Eur. and his age.     BUBIPIDB NEL 412 369   508. Il recente libro di H. Steiger Euripides, seine Dich-  tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten ,  Heft. V, Leipzig 1912) rappresenta senza dubbio un buon  tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è,  a mio credere, viziato per un lato da poca profondità,  per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen;  parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con cer-  tezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo-  gamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol at-  tribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per  Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche  pagine di E. Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Lite-  ratuì'^ I (1910) 36-46; le sue intuizioni colpiscono, se-  condo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero  solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche appro-  fondimento, maggiore.     A. Fkrkabiko, Kalypso. 24     CAPITOLO IL  Il culto di Demetra in Erma.     I. — Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per-  sefone in Enua si combattono due teorie. L'una è soste-  nuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)  I 172 sgg. che ritiene preesistente all'influsso greco il  culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si-  cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche  Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da  E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia  (Catania 1911) 3 sgg. 187 sgg. : questi difatti, pur non  negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea  alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera-  mente probante, di esser invece costretto a riconoscere  il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età sto-  rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamen-  tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la  non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa  da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire  della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via  per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola.     372 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   Per lui di fatti da Gela ed Agrigento il mito e il culto  delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna nel VI sec,  in Siracusa nel V.   Se non che pare che in tal modo il problema sia  posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser  entrato in Enna per opera di Greci già nei principi! del  V sec, pretende assai più che non sia necessario alla  tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro  traccia possibili vie di penetrazione in epoca compara-  tivamente tarda, dimostra assai meno che non sia ne-  cessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'e-  same merita di esser ripreso. E poiché le nostre testi-  monianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha  già assunto foggia greca, non resta da prima che esa-  minarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire  s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del  pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipo-  tesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti ap-  prossimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale.   II. I caratteri del culto ennense nell'età storica.   — Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i carat-  teri con cui il culto e il mito ennense si presentano a  noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si  trova raccolto da L. Bloch in Roscher Lex. II 1, 1284 sgg.  e a lui facciamo rinvio.   Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel  mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a De-  metra (v.446). Questo particolare, che il Bloch (col. 1319)  dice * siciliano-alessandrino ,, non può riferirsi alle con-  dizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora)  men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-  drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio.   Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso     I CARATTEEI DEL CULTO ENNENSE NELl'eTÀ STORICA 373   Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la  fa scender sotterra (Timeo in Diodobo V 3-4 = Geffcken  Timaios' Geogr. des Westens " Philolog. Unters. , XIII pag.  104-106; cfr. Ovidio Metamorf. V 409 sgg.). è necessario  intender tutto il valore di questo particolare essenziale.  Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del  culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della  città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor-  tasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffu-  sione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. X 39  8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa  vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare  l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Pro-  serpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori  (Steab. vi 256): conservò tuttavia — quel che importa —  il primato a Siracusa. — Per Enna avviene il contrario:  è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve ri-  spettare una tradizione autorevole che il ratto pone in  Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma  deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere  all'inferno.   Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo  (DioD. V 4 = Geffcken 105) su Atena ed Artemide che  avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e con-  seguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola  Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La  presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo  orfico (v. sotto pag. 389). La testimonianza di Diodoro fa  dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adat-  tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un parti-  colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca  assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef-  fettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera  contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch} Il 1, 322). Checché     374 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'anto-  logia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predo-  minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di  Artemide (sui quali v. Ciaceri o. c. 156. 165); ma si ac-  concia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra  in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,  secondo p. e. Ciaceri 193, il culto siracusano doveva su-  perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per ef-  fetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse  grande importanza , (Ciacebi 191).   Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en-  nense da parte di Siracusa (fin dal V sec, come sembra)  appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. V 462 sgg.  Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse  del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona  abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane;  poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto  Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso  Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate  ed Elios. L. Bloch o. c. 1317, 65 sgg. ritiene "priva di  significato „ questa forma del mito ; L. Malten "Hermes,  XLV (1910) 513 sgg. la spiega come un arbitrio del  poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane  e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si  ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, —  i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio  che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella  notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex. I 2 spec. 1888), —  la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i  Fasti ovidiani IV 575 sgg. (v. sotto), sostituiscono nell'uf-  ficio d'informatori presso Demetra figure più concrete  e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke-  leos in scoi. Aristid. Panai. 1816 (Frommel), scoi.  Aristof. Cavai. 698, Mit. Vat. 2, 96; Trittolemo in     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE NELL'eTÀ STORICA 375   Paus. I 14, 3, Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk  Patr. gr. 36 pag. 1019, Tzetze ad Es. Opp. 33; —  cittadini di Ermione, secondo Apoll. I 29, scoi.  Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov. 17; — Kabarnos,  della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch. s. v.)  presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro; — Chry-  santhis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus. I 14, 2 ;  — cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. 15 app.  Fozio Bibl. cod. 186. Di fronte a cosi numerose analogie  è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'infor-  matrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più  tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima  che presso la non lontana Ciane fa avvenire la di-  scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo  (su cui V. anche Ciackei o. c. 246). Né fa ostacolo il fatto  che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò  significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e  che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio del-  l'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradi-  zioni mitiche (1) e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque  si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane  e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara  l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto  in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in  senso siracusano.   Anzi per capire ancor meglio il valore di questa con-  siderazione va rilevato che un tentativo mitico in anti-  tesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano  il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di  Enna ma presso l'Etna: cfr. VEpitafio di Pione 33     (1) Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del rac-  conto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi  del CiACEEi 0. e. 166 sg.     376 li. - IL CULTO DI DÉMETKA IN ENNA   e G. Knaack "Hermes, XL (1905) 338-3 il quale senna-  tamente dimostra che non può né ivi né in altri testi  simili (Igino fav. 146, scoi. Pind. Nem. I 20, Giovanni Lido  de mens. IV 85, Oppiano Hai. Ili 486 sgg., Val. Flacco  Argon. V 343 sgg., Ausonio Epist. IV 49 sgg.) trattarsi di  uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario  che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore  a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché  su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta  omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato.  E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna-  riconoscere una incontestabile priorità initica.   Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere  a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna,  nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi ele-  menti essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il  centro dell'elaborazione di esso; — elaborazione che in  Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi ra-  dicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né  taciuto né artificiato favorevolmente.   A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più  antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una  litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H.  N.^ 137). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga  del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico  mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di  Imera, nel sec. V. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.  XI 26, 7) innalzò in Siracusa i templi di Demetra e di Cora,  iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria  donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area.  Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira-  Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ;  e in verità la litra, che è la testimonianza più antica,  è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE KELL'eTÀ STORICA 377   numismatici, al periodo fra il 461 e il 430 a. C. e dal Hill  Coins 91 al 480-413. Al sec. V pertanto può farsi di-  cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mi-  tica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; — e che  ha per indispensabile antecedente una credenza a divi-  nità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella  sostanza.   Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile  l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della  greca Demetra penetrasse in Enna per opera di Agri-  gento e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.  Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti,  questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né  anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni  l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'auten-  tenticità del culto ennense dì cui e menzione presso  Cicerone in Veri: IV 106-110 cfr. V 187. Noi difatti di  quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo  dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito  siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in-  tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri-  spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa  antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec.  con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe di-  menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo  Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla  Pindaro Pit. XII 1 sgg. (anno 490 a. C. Schhodek^)  e che quindi nella tradizione letteraria non poteva  essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo  lo stesso Cicerone {in Verr. IV 99 V 187 : cfr. Lattanz.  div. inst. II 4) sa di un signum vetusto di Cerere esi-  stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con-  forta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri.  Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto     378 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti,  — come si afferma, — da Gela si fosse partito, a non  molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense,  è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe  esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,  assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geogra-  fiche e politiche.   E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede,  dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si ap-  prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano  Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco  di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza  con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da  un frammento di Filisto (fr. 8 = FHG. I pag. 186) che  è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna  Grecia I 560 sgg.). Sembra in somma che nulla si sappia  di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul  tempo : certo è arrischiato il Ciaceri (o. c. 159) nel dire  Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero il Freeman  {H. of S. I 542) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per  ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en-  nense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con  i quali, concludendo, possiamo supporre nella metà del  V sec. un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene  però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non  possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna  né concedere che il supporli giovi a risolvere la que-  stione.   III. Il primitivo probabile nucleo siculo. — Dal-  l'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo  esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si  formò dovette tener conto di un precedente e forse molto  più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 379   ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente  quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la  sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spie-  gherebbe il forzato rispetto di Siracusa.   Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini  archeologiche e storiche (cfr. G. De Sanctis Storia dei  Romani I 98 sgg. 312 .sgg.) ci danno un quadro delle  condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a  quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la  tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe  italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi-  stesse una saga simigliante alla greca di Kora e che  questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa  foggiò nel sec. V.   Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma veri-  simile.   Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracu-  sana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a  suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma ri-  spetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna;  conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo es-  senziale del culto preesistente.   D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi  (Italici) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar  fra questi il piti antico embrione della leggenda e di at-  tribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia  che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel  di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (su i quali  V. in questo volume libro I cap. IV e libro II capo III;  cfr. inoltre G. De Sanctis o- c. I 281). Il più antico testo  che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a  Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna  naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti-  colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere,     380 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con  le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di mes-  saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le  Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra  le pili notevoli figure divine delle campagne feconde,  al par di Gea. — Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo-  ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); 2° Ar]/iii^Ti]Q ; B° IIeQaeq>óv£ia;  4° KÓQu.   Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni ele-  menti deìVInno induce una conseguenza : se nel VII sec.  (età probabile della composizione di esso) il mito era  già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e  localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre  non è probabile che a favor di questo centro appunto  sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto  senso è troppo intimamente connesso con i primordiali  riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che  doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una,  certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi  importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni con-  trastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone  5 sgg. ; Welcker Griech. Gotterl. I 395 II 474 ; Preller  Griech. Mith} 757 ; L. Bloch o. c 1311, 55 sgg. ; L. Malten  " Archiv. ftìr Religionswiss. , XII (1909) 309): soltanto  significa che mancò l'occasione o non fu colta per intro-  durvelo. — Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha  alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di  poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Per-  sefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:  ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al  re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col  suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P 76  e 125) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla  terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A 445     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 381   n 625 cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss. „ Vili (1905)  203 sgg. ; Maass Orpheus 219 n. 23 e Wilamowitz Reden  und Vortrage^ pag. 71). Dal quale s'è voluto dedurre che  l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad  asserire che la conseguenza troppo supera la premessa  (Prkller Dem. u. Pers. 4 sgg.). Tuttavia non si può né  si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla  saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è le-  cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos-  sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife-  rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli;  2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina del-  l'inferno.   Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non  la " Figlia , e il suo valore e significato è tutto conte-  nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi  anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a  dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è  confermato da quello che il mito narra di lei nella sua  forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di par-  tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da  escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA.^ I 1, 160 che  vede in Kora una divinità lunare (1); la cui vicenda do-  vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha  badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg.  Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe  lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi  (v. sotto) e che pertanto il carattere della seconda non  può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben  distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il     (1) La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St.  ant. „ I (1895) 35 sgg.     382 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN EKNA   Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and  of the wild voi. I 42; se bene egli sia stato un po'  schematico nella separazione delle due figure e lo tem-  perino opportunamente le osservazioni della J. E. Harrison  Prolegotnena to the study of greek Religione 271 sgg. In  breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in  confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui  ritorna.   Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti  del mito è quel di Esiodo Op. e Gior. 465, ove Zebs  Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore  al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}  298 lo ScHERER (in Roscher Lex. I 2, 1780) sostiene a  ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo  Zevg naxa%&óviog àoìVlliade (I 457. 569). Ed è certo  evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con  Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri-  cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede  solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis  St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso  Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso  ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma  gli è parallelo e simigliante. — Non bisogna però con-  fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse  tracce di una At]fti]Ti]Q ■aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5  raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra-  dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che  Persefone regina dei morti è divenuta figlia della  dea delle biade , allora questa assume un carattere  nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del  ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in  in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando  il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a tras-  formarlo in Plutone (v. i testi in Scherer o. c. 1786).     Ili PKIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 383   L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano  di pili ai primordii del mito conduce a costituire due  gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto  l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nel-  l'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra  Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non  appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta  contro l'ipotesi di R. L. Farnell Theeults ofthe greek States  III (Oxford 1907) 120 che suppone un'antica divinità  Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De-  metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui  (pag. 121-2) che Demetra-Kora costituisse una divinità  unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De-  metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem-  plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si  fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche  Carter in Roscher Lex. Ili 2, 3143). A ogni modo, si  tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è  quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché  questa non deve mai aver superato i primissimi stadii,  tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una  elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver  fatto della " rapita „ la regina dei morti.   A completar le caratteristiche di essa saga sicula, al-  cune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta  CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figura-  zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto  della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel  della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich  Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto  tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da  un unico centro (L. Bloch o. c. 1337), trova la sua ra-  gione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto  era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto II 171. — Sotto     384 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe  la " Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi  su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch.  281 sgg. e Frazer The golden bough^ V part., voi. I pag. 42).  Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più  significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe  si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana-  loghe alle " Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll.  Fil. class.. Vili 1900-1 p. 136) (1) e a Libero e Libera dei  Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella  deificazione dei membri delle famiglie che par consueta  fra gli Indoeuropei (De Sanctis St. d. R. I 278). Cosi si  spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come  dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma  come dea filiale riacquista una maggiore consistenza.  E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali  non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera,  unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom} 310); ma anche  oltre a Libera si venera la Madre Matuta. — In tal caso  si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il  particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto  alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli  Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un  tempo il mistero della vegetazione nel grembo della  terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la  forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu-  rando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con  quel che nel principio di questo § notavamo a proposito  del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga sira-  cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda.     (1) Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. , Vili  (1906) 53 sgg.     IL PBIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 385   Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva-  zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la mela-  grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a  giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme  si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riap-  parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse  né meno probabile che anche nella leggenda sicula esi-  stesse una parte a questa simile. Giacché la sua forma-  zione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili  rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo  dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'as-  senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per  tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello  stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di-  verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità  né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom. I 260-1).  Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa  storia.   Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei  primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo  valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-  statazione degli elementi che quel nucleo portò con in-  sistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca  del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo  affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insuffi-  cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una  Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia  rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei  morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del  seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del  matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,  ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as-  serire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi,   A. Ferrabino, Kalypso. 25     386 II. - IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA   IV. Le versioni greche del ratto di Kora. — Ofifri-  rebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le  forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero  abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi.  Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del  mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contri-  buendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per  contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire  dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla  constatazione senza cercare la spiegazione.   L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo  più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come  tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima  forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi  la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono  state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio-  logica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci  basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes  The homeric hymns 7 sgg. e al Jevons An introduction to  the history of religion ^ cap. XXIV e Appendice (pp. 358,  377). Solo un punto richiama qui il nostro esame ed  è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini cono-  scevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che  Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del  seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in  cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Me-  tanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi  riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.   La concezione che predomina nel V secolo è in vece,  com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra  altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna  l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch  in RoscHER Lex. II 1 col. 1317; Malten "Archiv ftìr Re-  ligionswiss. , XII (1909) 441 ; Pringsheim Archdol. Bei-     i     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 387   trdge zur Geschichte cles eleus. Kults 97 n. 3). Ora è anzi  tutto da vedere come questa concezione nuova, — che  contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup-  pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade,  e si può quindi chiamare neoattica, — si comporti con  Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci  dà Apollodoro I 31-32 che conserva Demofonte per la  magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e  tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so-  vrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito  l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti (IV 394-620)  Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la  magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e  Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in me-  schina capanna. Di qui due problemi : 1° È anteriore  la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo  che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo-  fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone  con varii materiali un " testo unico , della leggenda; so-  spetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia  erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col  proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In  Ovidio in vece la combinazione appare di mitologia poe-  tica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo soprav-  viene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto  negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà soprav-  viene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono-  scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel V se-  colo e nel santuario eleusinio una innovazione erudita  è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare  la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma  ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di  Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nel-  l'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Meta-     388 II. - IL CULTO DI DEMETBA. IN E»NA   nira, che digradarono a poveri vecchi. — 2° Questa in-  novazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si  il Malten loc. cit. 441 sgg. e "Hermes, XLV (1910) 532 :  perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli inter-  preta (pag. 431) óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat (1) „.  Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se  dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi-  natore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici  quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al  pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli  Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra  gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con  nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo  acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e  parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della  setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo  all'influenza orfica : che il particolare dei majali (v. 464),  non è orfico esclusivamente, come pare al Malten  (pag. 532 n. 2) e già al Forster {R. u. R. pag. 78 sgg.), ma  si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati al  V. 414. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno  si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin  la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale  deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;  altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi  par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo se-  minatore fu portato a soppiantare Demofonte e impove-  rire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e  determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci  sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di     (1) Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th.  pag. 57.     LE VEBSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 389   origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai ri-  vela neWEcale callimachea.   Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = semi-  natore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare  un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Ar-  gonauti V. 1193 si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot  "ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal  Forster o. c. 42 Atena Artemide e Afrodite. Il confronto  con EuKiPiDE Elena 1301 sgg. (cfr. il testo del Wilamowitz  in Comm. gramm. IV 27 e " Sitzb. Beri. Akad., 1902,  871) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar-  temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten  " Archi V, cit. pag. 422; ma le presenta nell'aspetto eu-  ripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in  quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il  Forster dall'altro il Malten (1), mi sembra che l'ipotesi  migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e  VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova  in Igino fav. 147 (non che in Claudiano), sia l'ammet-  tere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico so-  stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e  Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di  dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.   L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro-  toattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo  luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro V 3 e Geffcken  pag. 103 sgg.). Notammo già (sopra pag. 373) l'uso che ivi è  fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a  guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre-  mamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in     (1) Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la  Sicilia or. , I (1904) 76. 165.     390 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia  conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione  (pag. 103, 23 6.) ; in Sicilia le due Dee facevano spesso  soggiorno (pag. 104, 17 sgg.); avvenuto poi il ratto,  Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante  la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi,  agli Ateniesi (pag. 106, 10 sgg.); gli Ateniesi quindi eb-  bero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i  Siciliani (pag. 106, 23), i quali se l'erano avuto dalle  Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol-  KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo  e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per  intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleu-  sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del se-  minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo del-  l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa  premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la  famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi  e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una  Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli  altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante  umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar  bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i  Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo  con una figura indigena, — come quei di Sidone con  un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus. II 11, 2);  né di farlo entrare in genealogie locali, — come gli  Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.  I 14, 2); né di identificarlo con un antico loro iddio,  — come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach  Castrogiovanni (Leipzig 1912) 23. Essi poterono venerare  Trittolemo (Cicerone in Verr. IV 109. 110) come colui  che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo  il già loro secreto del seme.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 391   La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a  comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti IV 394-  620 e in Metamorfosi V 341-661. Si è discusso se si tratti  di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente  ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia di-  stinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione  alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten  'Hermes, XLV (1910) 506 sgg. cfr. 511 n. 1. Tennero la  seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d,  Pers. 72 sgg. poi Ehwald-Korn Metani, vs. 385. Noi cre-  diamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole  assenso dal Wilamowitz (" Sitzungsber. d. Beri. Akad. „  1912, 1 pag. 535 n. 1), sia in errore.   Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :  1° Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il  lago Pergo durante l'antologia (vv. 385 sgg.) ; 2° Cerere  ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su  l'Etna (vv. 438 sgg.); 3° veduta presso la fonte Ciane la  zona di Proserpina, se ne sdegna :   ...terras tamen increpat omnes  Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,  Trinacriam ante alias...   (vv. 474 sgg.) e distrugge gli aratri e impedisce la vege-  tazione del grano ; 4" Demetra, dopo le indicazioni di  Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo,  ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per  aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim  iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa  recultae (vv. 487 sgg. 646 sgg.). Ora, noi vedemmo sopra  (pag. 374) che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate  ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga  siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in     392 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA   Euna. Ma la concezione espressa nei versi 474 e 646  (già citati) non si copre con la siciliana: è più larga.  Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si  la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile (v. 476).  E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora  longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno  subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa  concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Ti-  meo ? Ognun vede che essa contiene : 1° del mito pro-  toattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la  vendetta divina ; 2° del neoattico, Trittolemo = semina-  tore. Ne rappresenta quindi un tentativo di concilia-  zione (1) in cui s'innesta la leggenda siracusana con  qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta,  della zona e la supplica di Aretusa che il Malten  (pag. 514) calcola a un anno, è chiaro che non è pre-  ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post  tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten,  che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten  (p. 516) diremo adesso che la metamorfosi di Lineo tra-  scinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ;  dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in  quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contami-  nazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia  orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena  e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non  è orfico (sopra pag. 388); e perché ha ragione il Malten  (pag. 533-4) di riconnettere con la volgata poetica degli  Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da     (1) Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis.  Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in  Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken pag. 107 =  DiOD. V 5).     LE VEKSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 393   amore per volere di Afrodite (1). E di modello alessan-  drino essendo tutte le metamorfosi (2), la nostra conclu-  sione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino  ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano fu-  rono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo  Ascalabo Aretusa e l'altre.   Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto av-  viene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di  fatti Aretusa ve le aveva invitate (v. 423 sgg.) e Cerere  vi era giunta da poco (modo venerai Hennam v. 455)  allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice  della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet  tirbes ecc. (v. 421), la frase, come vuole il verbo al pre-  sente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten  p. 507). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per  sua prata (v. 426), si deve intendere " i prati di cui è  dea„, che tutta la vegetazione è in lei compresa nel  tardo concetto poetico (contro il Malten p. 508 n. 1). —  2° Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga  per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della  quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso  Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice  pi'imus arabit — et seret et eulta praernia tollet humo  (559-60), togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti  dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi  di bacche duravano (cfr. il proemio vv. 401-2 Ceres,  homine ad meliora alimenta vocato, — mutavit glandes uti-     (1) Nel verso 533 Dixerat, at Cereri certum est educere  natam il Malten fp. 573) vuol vedere un riferimento al-  l'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che  basti.   (2) Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De  metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil.  Hai. , XXIV 1 (1912).     394 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   Uore cibo). — 3° Seconda tappa della ricerca è costituita  dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea,  Helice ed il Sole (w. 575 sgg.)- — 4» Da ultimo accade  il colloquio con Giove e il verdetto finale (vv. 585 sgg.).  Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina (vv. 605 sgg.).  Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che  ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe  proventi (non rediit) cessatis in arvis (v. 617), ossia nei  campi " incoltivati „ {cesso = non exerceo). L'interpreta-  zione comune ("nei campi trascurati ,) non può reggersi  confrontando i vv. 559-60 già citati (1). — Ora, dallo schema  cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre  le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità  che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo  il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e  si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si  connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca)  è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è  una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del-  Vlnno omerico (cfr. Malten p. 520); l'ordine cronologico  degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in  Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto  ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in-  tento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio  di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,  può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di  Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità  in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di  gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà     (1) può reggersi ammettendo un' incongruenza irra-  zionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana  nel poeta.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 395   (sopra pag. 372); e col gusto medesimo concorda l'accet-  tazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire  che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione  sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi  tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.  Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta  nelle Metamorfosi e definita sopra (pag. 393): là si ri-  cercava di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo  con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico  particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno  contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai  due componimenti unica fonte.   Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi  di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue  metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale  constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli  alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permette-  remo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di  spettanza degli storici della letteratura (1), e del tutto  secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver  determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora  che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito si-  racusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni.     (1) Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. , IX (1911)  87 sgg.     CAPITOLO III.  L'abigeato di Caco.     I, Il problema. — Intorno al mito che narra il furto  di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che  singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima  fra esse, — della quale basti citare rappresentanti il  Peter in Roscher Lexicon I 2, 2270 sgg. e il Binder  Die Plebs 108 sgg. fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il  De Sanctis Storia d. Rom. I 193, — il nucleo primordiale  del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e  di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le  sembianze di ' Eracle-Ercole ' ; il contenuto di esso è na-  turalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio  sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poe-  tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti  lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto-  rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per  l'altra teoria in vece, — che sostengono fra noi il Pais  Storia critica di Roma I 199 sgg. e all'estero il v. Wi-  LAMowiTZ Euripidea Herakles^ I 25, 1, il Wissowa in  PAtTLy-WissowA Real-Encykl.^ III 1165 sgg. ^non che, ora,  Rei. u. Kult. d. Romer- 282) e J. G. Winter The myth     398 lu - l'abigeato di caco   of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies,  Umanistic Series „ voi. IV Roman History and My-  thology edit. by H. A. Sanders (New York 1910), — il  mito è opera dell'influsso letterario greco, pur conceden-  dosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o  italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vul-  cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del fuoco  (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di  lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. — Il  problema era in questi termini quando fu ripreso recen-  temente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel  1911) (1). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo-  witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Ge-  winnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es  sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode  — Interpretation, Analyse, Vergleichung — mit moglich-  ster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet  werden , (p. 6). Difatti, dopo una indagine la quale  " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er-  schienen sein solite , (p. 68), giunge a sostener questa  tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii  della letteratura latina (p. 108). I più antichi annalisti  lo concretarono nella forma che ci appare in Livio I 7,  3 sgg.; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età  graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già raziona-  lizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo  di reale istoria; solo la * Romantik „ dell'età augustea     (1) Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella  " Beri. Phil. Woch. „ (XXXI 1911, p. 998 sgg.) una sua  ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente  teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo,  Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto (p. 409. 418) interpre-  tiamo con tutt'altro valore.     IL VALOKE DEL MITO INDIANO 399   riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage  einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen  allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,  Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende  Kleid der Poesie hullte „ (p. 111-112). Il nome Caco era  diffuso in antiche tradizioni italiche (p. 113); egli era  da prima concepito come semplice uomo, pastore o la-  drone, e da Vergilio solo fu mutato in un mostro tra di-  vino e bestiale (p. 75, 79, 81). 'Eracle-Ercole' era già  nella primitiva forma della narrazione e il nome di Ga-  rano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione eve-  meristica della versione volgata del racconto (p. 95).   A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di  Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di  questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi  con speciali pretese di saldezza logica e precisione me-  todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto  la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-  bianza sia falsa è per apparire.   IL II valore del mito indiano. — Nella mitologia  indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda I 6, 5 p, xxi)  ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza  esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta  di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono  dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra,  il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc.  (cfr. Peter o. c. 2279, 25 sgg.). — E ne furono tratte da  più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Her-  cule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris 1863),  da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. , XIII (1864)  386 sgg. — n MuNZER in vece ha creduto di poter tra-  scurare al tutto questa significativa coincidenza tra il  racconto indiano e il latino, appellandosi ai * nvich-     400 III. - l'abigeato di caco   ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e  n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo  al WiNTER 0. e.) l'errore fondamentale di tutta la sua  ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta  coincidenza può e deve avere non solo come argomento,  ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche.  Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possi-  bile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano,  ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,  il quale non è dubbio (Bréal o. c. 93 sgg.), dev'essere a  un di presso identico al significato di quello romano :  la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica  del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. —  Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito  assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante  al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al-  terth. , VI (1848) 117 sgg. 128 spec), par metodico con-  chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico  dalle radici arie, — e non è in vece l'imitazione delle  fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci.  Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un  modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a  riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,  prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman;  Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.),  — su cui si veggano Bréal o. c. 124 sgg. e 139, Spiegel  0. e. 387 sgg., — i miti greci di Apollo in lotta col Pi-  tone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche  il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo,  pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto  naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben  lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma  del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Ge-  rione Apollod. II 108, per Ermes l'omerico Inno a Ermes     VEBGILIO E OVIDIO; PROPERZIO 401   68-404, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad  Apollo.   Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'epi-  sodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a de-  cidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto  latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali  elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evo-  lutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag-  giormente esser antico un particolare e vetusta una fi-  gura quanto meglio collimi con le forme e le linee del  racconto indiano.   Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si  precluse la via a giudicar con metodica * Nùchternheit „  i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi  latini.   III. Vergilio e Ovidio; Properzio (1). — Il risultato  della ricerca che il Munzer conduce nel suo I cap. (se  si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali  non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe-  tiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto  del furto e la vendetta di Ercole corre nel material nu-  mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,  1:2 presso Ovidio, 2:1 presso Properzio. "Die Folge-  rung scheint unabweisbar , che appunto nella vendetta  di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tra-  dizione precedente per concedere alla propria fantasia  volo pili libero e più ampia indipendenza (p. 25).   Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di  contar i versi d'un carme per determinarne gli strati  mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo,  ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale     (1) Cfr. Eneide Vili 185; Fasti I 543 sgg.; Elegie IV 9.  A. Feebabino, Kalypso. 26     402 111. - l'abigeato di caco   da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice  lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)  è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco  olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener  in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi  si esercitasse piti liberamente e più profondamente in-  novasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte  leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del  racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il  poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili  ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti.  E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer  a preferir senz'altro la prima e a proclamarla " unab-  vreisbar ,. — Ecco in vece che il mito del Rigveda in-  terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di  Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso  che tutti i particolari noti da Vergilio ed Ovidio e co-  stituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial  parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è  da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac-  conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te-  nebroso costituisse non pur una rilevante porzione della  leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo  della vetustissima saga italica.   Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pe-  dissequamente imitato da Ovidio : cfr. En. Vili 190-197,  Fasti I 555-58. Ma perchè V. usa per la spelonca la  frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce  " vix ipsis invenienda feris „ a esprimere un concetto  affine, il Munzer insiste a lungo (p. 30-36) su la difi'e-  renza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti.   Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due  parole " semihomo , e " semifer „ che V. usa a designar  Caco accanto a l'altra di " monstrum „. Perché il sem-     TERGILIO E OVIDIO ; PKOPEBZIO 403   biante degli Dei è identico a quello degli ucraini, per  questo " semihomo , equivale ad " halb Gott , (p. 46).  Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore  metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose  deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di " vir ,  da 0. tribuito a Caco (vv. 553 e 576) non si conviene  alla concezione vergiliana del " semihomo „, sebbene 0.  imiti pel resto l'Eneide e ripeta (y. 554) la parola  " monstrum „ e la paternità del ladrone. Per vero il  " vir , ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Ver-  gilio, SI a quello del Mùnzer (p. 52). — Ugual giudizio  deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare  delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava,  presso V. ed 0. (p. 67). Nel mito indiano Indra usa il  fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le  saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi  solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del rac-  conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre  fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im-  possibile dire.   Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco  e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una de-  duzione che gli è fondamentale. A quel modo che nel-  l'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre,  cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili©  lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo  è accanto a una serie di altri " monstra , vergiliani  riportati ad analogia (pp. 43-48), l'unico argomento per  asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung  der dichterischen Phantasie „ (p. 50). Per qual motivo  Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco  e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla  " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als  eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens „ (ibid.).     404 III. - l'abigeato di caco   — Una confutazione ormai non è più necessaria. — Più  ragionevole è la tesi del Winteb o. c. p. 251 sgg.: che  Vergilio risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco  Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog. 820; Inno ad  Apollo 340-70). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica  e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la  tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, — si  può aggiungere, — per altri consimili mostri), a fine di  colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non  già di ricrearlo.   Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru-  dentissimo diviene il • Mùnzer (p. 65-70) ; e non a torto,  in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel  dell'Eneide (M. 21. 32) che il PtOTHSTEm (nota a IV 9, 9)  dichiara come riferimenti culti a Vergilio, potrebbero in  vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per  certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica  della saga: riferimenti p. e. ad Ennio. — E parimenti  antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre  teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in  vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Ge-  rione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che  il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto  per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di  Ercole. — Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori-  ginario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita  Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr.  sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a  una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A  ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra  avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio  di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione  di Evandro.     LIVIO E DIONISIO 405     IV. Livio e Dionisio. — Cfr. Liv. I 7, 4-9; Dion. I  39-40. 11 Caco di Livio è " pastor ... ferox viribus , (5) e  prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum  nequiquam , invoca. E in somma un uomo: — ben di-  verso dal " monstrum , di Vergilio. Di qui due possibi-  lità si presentano al critico : o la concezione liviana è  prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la  statura del personaggio; o la concezione vergiliana è  l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Il Mùnzer  che s'è, — come si vide, — chiusa la via a sceglier con  metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili  ragioni (p. 75). E nello stesso errore cade, per motivi  analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario  decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce  ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi  fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata  e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche  cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai  dall'origine naturalistica. — E poiché a ragione il Miinzer  afferma (p. 72) Livio indipendente da Vergilio e atti-  nente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere  che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo  ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra co-  lorita.   A punto perché anche il racconto della fonte di Livio  è coperto di una patina da fiaba, Dionisio (39) scrive :  UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv  fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il rac-  conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di  poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte  liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser  riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene  uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eser-  citi interi. Col che si confuta il Mùnzer (p. 76) quando,     406 III. - l'abigeato di caco   prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af-  ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der  Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „;  e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo  alla seconda versione, * più vera „ della prima e men  favolosa.   Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta  fra Ercole e Caco, — quella su cui si dilunga Vergilio  e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto  era il perno del mito e il fondo della sua allegoria;  quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M. p. 77).  — Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dio-  nisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios (39, 2). Tal diffe-  renza acquista valore se la si contrappone alla concordia  con cui due poeti indipendenti, Vergilio e Properzio, raf-  figurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in  questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli  storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non  identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif-  . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del-  l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel  yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro  MùNZER 78-79).   In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde  di non aver visto i buoi (39, 3). Ciò, — fu notato, —  corrisponde a Vergilio (263 " abiuratae rapinae „). In  Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se  non che cosi della presenza come dell'omissione è diffi-  cile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare  all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ri-  tornano nell'omer. Inno a Ermes (75-78, 211, 220 sgg.;  235-386). Nel quale, ove si narrano le astute imprese  del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono  burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba     I PABTICOLABI ETIOLOGICI DEL CULTO 407   di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce  contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze  COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due  i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso  letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi  spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio  e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i  buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del  tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer 77). — E  anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può  essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi-  cini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la  quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinseca-  mente connessa con la forma prima del mito. — Né si  erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste  imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei  poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei  suoi travestimenti razionali.   Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di  Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello  poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;  ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma pri-  mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune  agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito:  la etiologica, che attende ora il nostro esame.   V. I particolari etiologici del culto.— Quella parte  del racconto, in Vergilio Ovidio Properzio Livio Dionisio,  che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco  fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta  di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er-  cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bi-  sogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal pro-  posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: " dassin der Tat Cacus     408 III. - l'abigeato di caco   und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei  ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des  Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben,  rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind... ,. E  anche : " Der Einfluss der Verbindung mit Euander àus-  serte sich am frubesten und am bedeutssamsten da-  durch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher  bestimmt wurde „ (p. 89). A questa concezione si contrap-  pongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154) : " hanno  contribuito a suggerirne [del mito] i particolari l'Ara  Massima di Ercole vincitore nel Foro Boario e le vicine  scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino I 18; Diod.  IV 21). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco eti-  mologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico  del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del-  l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente  A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros) ,. La  tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile.   Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole ;  e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella  forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-  tiene il nome di Caco (" scalae Caci „) e uno ove si  rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che  questi due servissero a localizzar il mito e il primo in-  nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che  l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di  Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma  l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone,  prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole,     (1) Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^,  e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu,  — com'è noto, — interpretato " buon uomo „.     I PARTICOLARI ETIOLOGICI DEL CULTO 409   per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la  saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Ga-  rano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne  la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il  Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità  dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simi-  glianti figure.   Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) 6, 6 sgg.  a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato : " hic per-  peram idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re  vera auctor gentis Caciae ,. E il Mùnzer accetta, pur  ammettendo (p. 116) che il nome alle scale possa derivar  anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben  Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt  und Bedeutung war ,. — Ora il testo di Diod. IV 21, 2  (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog  xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig  Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv  àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet  Korà xìiv 'PiLfiTjv. TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv  UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco-  ftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p  HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv  òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg  zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara  l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono :  1) l'esistenza di scalae Caciae; 2) l'antichità dei Pinarii;  3) le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii  ed Ercole. Da questi dati sono desunti : 1) (per falsa eti-  mologia) il nome KaKtog; 2) il nome Ilivd^tog; 3) (per  analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le  cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan-  HuLSEN Topogr. I 8, 41) ove al culto erculeo i Pinarii  partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad     410 III. - l'abigeato di caco   ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra  Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche  il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché  i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa " R. E. ^ , VITI  1, 563), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel  culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di  quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran  inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi ap-  punto (cfr. Pais Storia critica di Roma I, 1 200 n.:  contro WiNTER 222 sgg. e 260 sgg.).   A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se  la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto  Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della  lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto  il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (Verg.  En. Vili, 231, Ovidio Fasti I 551), se ne deve concludere:  che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è  fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso  verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel-  l'altro verso l'Aventino (caverna).   La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la  quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,  tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.  (Cfr. Peter o. c. 2281 sgg.). — Che se il mito di Caco è,  come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle  greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo  alla figura di questo costituisca un secondo strato leg-  gendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in  genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sa-  crifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.  In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclu-  sione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno  tre versioni : da Properzio IV 9, 21 sgg. ; dallo scritto     I PAKTICOLAEI ETIOLOGICI DEL CULTO 411   OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,  in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi-  fica come un unico fatto venisse travestito in almeno  due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi in-  ventori che è ricordata in Dion. I 39, 4, Solino I 7, Origo  geni. rom. 6. Ovid. l. e. .579-81, e taciuta dagli altri. Il qual  silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al-  tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen-  ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topo-  grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole  (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). —  Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda in-  venzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe  erige l'ara a Giove (o. e. 2286, 32 sgg).   Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che  il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente  per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma  l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in-  torno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, — che è  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio  1. e, Dion. l. e, Ovid. l. e, Solino I 10, Serv. En. VIII  268-9 (= Myth. Vat. I 69 [II 153] III 13, 7) e nello scritto  Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si  sa bene perché (v. sopra § III), — è però narrata in fogge  diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui  la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio  in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,  fra gli spettatori del primo sacrifizio : e secondo Servio  egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu-  zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora  di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e  Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico     412 III. - l'abigeato di caco   (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché  la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a  nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato  e Temide son sue variazioni di sapore greco. E pari-  menti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio  della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però  con una base topografica non pseudo-etimologica. En-  trambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di  Evandro. — Se non che tutto cotesto processo semieru-  dito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età  Augustea, — in quelle medesime ove non è più incerta  la localizzazione della saga nel Foro boario ed è soli-  damente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne  deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo  di gran lunga più tardo. — Rappresenta dunque il terzo  strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui  un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la ve-  nuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su  Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom. 7).   Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria  la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno  in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (Der-  CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee IV 387); o di Fauno il  figlio, Latino (Conone Narr. 3 appr. Fozio Bibl. cod. 186;  cfr. anche Schweglee Rom. Gesch. I 374).   In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è,  a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre  strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aven-  tino) ; Ercole, con l'Ara Massima ; Evandro, con taluni  episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie,  come sul mito vero e proprio, si esercitò il razionalismo  degli eruditi.   VI. Gli eruditi. — Il riscontro degli errori in cui     GLI ERUDITI 413     cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal  suo cap. VI " die antike Forschung ,. Egli si trova di  fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra  tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi  incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Vili 203  (" Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam  Romani consentiunt : solus Verrius Flaccus dicit Garanum  fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit,  omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules  dictos ,) e nello scritto (1) Or. gen. rom. 6, 1 (e 2. 3. 5.  7; 8, l=sei volte) (" Recaranus quidam, Graecae ori-  ginis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui  erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appel-  latus ,) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe-  rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus  e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è  incerto (con Mukzee 104 contro Peter o. c. 2272, 60 sgg.,  Pais 0. e. 200 n., Winter 205, Bohm in Pault-Wissowa  " R. E.^ „ VII 752). Ma non è incerta, a noi pare, la in-  terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più  tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica,  lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto  due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che  gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non  potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole  per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Her-  cules dictos ,. Riteniamo per conseguenza legittimo at-  tribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui     (1) Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae „  in " Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu  Leipzig , Phil.-hist. Kl. LXIV (1912) 71 sgg.     414 III. - l'abigeato di caco   preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in  vece il Mùnzer (p. 95) deve asserire, giusta la sua tesi,  che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi  (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore,  dargli avversario un semplice pastore non un eroe fa-  moso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio,  sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario  di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Ga-  rano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato.  Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura  del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,  l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n.  e il WiNTER 205 accettano), Garano e Recarano esser  " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide,  fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti  può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non  ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale  dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,  giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi  latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia  un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi  di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile  che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso  della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta-  colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia  preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo  mito latino.   Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su  Caca (p. 98-102). Servio En. Vili 190 (= Myth. Vai. [II 153]  III 13, 1) parla d'una sorella di Caco, — Caca, — la  quale lo avrebbe denunziato : ed ivi pure è data notizia  di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei —  per virgines sacrificabatur {cod. Reginensis); — per vir-     GLI ERUDITI 415     gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); — pervigili igne  sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima  lettura è la preferita; la prima sceglie il M. (p. 101).  Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella  sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un  ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve  ridursi ad ammettere (pag. 102) l'esistenza del sacellum  a una dea Caca (1). Col che ha già ammesso troppo contro  la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro  pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio  Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrificava " sicut  Vestae , e l'altro emetteva fiamme dalla bocca, la dedu-  zione non può esser che una. — Verissimo tuttavia che  lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da  imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco  felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il  travestimento di queir " una boum , che appresso Ver-  gilio rivela il furto né meno il M. osa sostenere (p. 100).  — E se il " sacellum Cacae „ sia per il M. (p. 102)  oscuro al pari dell' " atrium Caci , e se entrambi oscuri  non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto  a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte.  Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvi-  cinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. Vili  190 si esprime : * Cacus secundum fabulam Vulcani filius  fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia  populabatur. veritas tamen secundum philologos et hi-  storicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum  servum ac furem; — ignem autem dictus est vomere,     (1) Cfr. su Caca, G. Giannelli II sacerdozio delle vestali  romane (Firenze 1913) pag. 23. 33.     416 III. - l'abigeato di caco   quod agros igne populabatur; — novimus autem malum  a Graecis kuhóv dici : quem ita ilio tempore Arcades ap-  pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut  'EÀévi] Helena „. (Cfr. Myth. Vat. I 66 [li 153] III 13, 1).  Poi a En. Vili 269 si danno le notizie sull'Ara Massima i  Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che  qui non c'interessa più (v. sopra § V). Il razionalismo si  è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar  il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il  nome.   Molto più si permette il racconto che si trova in Origo  gen. rom. (6, 1): " Recaranus quidam, Graecae originis,  ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat  forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus „;   — (6, 2) " Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et  praeter caetera furacissimus „ : — tali i due avversarii.  Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  è per partirsi quando (6, 4) " Enander, excellentissimae  iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum  noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora Recarano  dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara  Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.  Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne  son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo.   — Cotesto racconto è di gran lunga più finito e parti-  colareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione ra-  zionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava  da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore con-  cilia col più noto di Ercole, Ercole mutando in soprannome.  Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro  come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché  d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo  di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era  ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),     GLI ERUDITI 417     e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, — senza  dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non  si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale po-  tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la pro-  fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo  stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita  da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con-  fusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a  spiegarla.   Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza pro-  fonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimi-  glianza in altri. Di questa si comprende il valore com-  parando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che  Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla  prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i  concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su  l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha pre-  sente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne  vale solo saltuariamente rispettando molto pili il rac-  conto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte  di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore  àeWOrigo, è detto quivi al cap. 7, 1 : " haec Cassius  libro primo „. Ossia quasi certamente L. Cassio Emina.  Il Mùnzer (p. 107) a tal proposito suppone che a Cassio  venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, —  in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter  fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve-  risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco.  Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione  erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di  lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del  resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al rac-  conto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena  assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e   A. Ferrabino, Kalypso. 27     418 III. - l'abigeato di caco   Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e ar-  monica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi  definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.  p. 111).   Di natura opposta alle due testimonianze erudite che  furon or ora discusse sono i racconti di Dion. I 41-2 e  di Cn. Gellio appr. Solino 18 = Peter fr. 7*. Difatti là  dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a  due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eser-  citi. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si  conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di  Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.  Bom. I 173); per contro Gellio è oscurissimo, " hic  [= Cacus], ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno,  ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Me-  gale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et  unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa  Vulturnum et Campaniam regno... oppressus est. Megalen  Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti „.  — Il carattere che sùbito appare più evidente in tal rac-  conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se  esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito,  le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son  tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i  Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche  righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda  originaria accosti per tal modo tanti popoli. — Ora fin  che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato  sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, pos-  siamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a ima-  gine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima  Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste-  rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio  la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro.     «LI ERUDITI 419     E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da  un mito cumano o campano (il passo di Festo p. 266 b  26 sgg. s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e  nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e  i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi , trattarsi  d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimo-  logica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando  in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)  che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per  qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui  un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ri-  tratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi  [KòETE Etruskische Spiegel V tav. 127, Rilievi delle tirne  etnische II 2.54 sgg. ; Petersen * Jahr. D. Instituts „  XIV (1899) 43 sgg.; De Sanctis " Elio , lì (1902) 104;  MuNZER 0. e. 113 e " Rhein. Mus. , LUI (1898) 598 sgg.]  e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio  contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilis-  simo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere  se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre-  senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della  storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla  contaminazione d'una terza leggenda con la latina e  l'etrusca.   Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rap-  presentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla  leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne  esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla  poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire  la fiaba che sarà poi seguita da Vergilio. Questo, il rac-  conto che narrerà Livio. Per ciò Dionisio dopo aver  esposto il mito assai similmente a Livio, dà il suo àAri-  ^éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg =  liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna-     420 m. - l'abigeato di caco   lista pili tardo come ermeneutica del racconto " favo-  loso „ dell'annalista più antico. Allo stesso modo che  Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al  testo vergiliano, desunto da Ennio.   VII. Conchiusione. — Tra le due teorie che (cóme  vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è  da preferire quella che crede ad un antico mito latino»  in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze  ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coe-  rentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, con-  tradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del  De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati  (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)  si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è  elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un  annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succes-  cessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età  augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio-  nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma-  nifestazioni.     CAPITOLO IV.  Cirene mitica (1).     I. Bibliografìa e metodo. — Il complesso dei miti  raccolti attorno alla figura di Cirene fu studiato già da  J. P. Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae 1828) che rac-  colse i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe va-  gliarli. Ha trovato poi trattazione minuta ed accurata  per opera di Fbanz Studniczka Kyrene, eine altgriechische  Gottin (Leipzig 1890), che la stessa materia rielaborò  in RoscHER Lexicon III, 1717 sgg. ; e di Lddolp Malten  Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen  in " Philologische Untersuchungen , del Kiessling e Wi-  lamowitz XX (1911) ove è tenuto conto anche delle ipo-  tesi brevemente enunciate da A. Geecke in " Hermes .     (1) Nella sostanza identico e sol nella forma diverso  si vegga questo capitolo negli " Atti della R. Accademia  delle Scienze di Torino , XLVII 17 marzo 1912. Qui ap-  pare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora  consente.     422 IV. - CIRENE MITICA   XLI (1906) 447-459. Dopo i quali non si vuol citare che  lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in  " Ausonia , VII (1911) 27-38 (1). Indipendentemente il  Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una  stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si  contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede-  cessori. A prescindere di fatti dalle particolari discre-  panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler  cercare un significato recondito nei miti , (Costanzi 32)  0, com'io mi espressi (* Atti „ p. 505 n. 1), nel non volervi  cercare * la chiave delle più antiche vicende greche „ in  Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene  45 sgg.) negava di poter spiegare la leggenda di Cirene  senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalo-  beota in Tera; e il Malten (cfr. spec. p. 209-10) pure  stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia  fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelo-  pico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure  divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di pro-  vare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra  cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti  a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio  in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico  punto di veduta, passo ai particolari.   II. La ninfa Cirene. — Dopo che il Malten (spec.  62 sgg.) ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura  libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo  essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su  questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a  me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe (2).     (1) Cfr. inoltre sotto a p. 448.   (2) Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let-     LA NINFA CIRENE 423     ■* Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen  Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst  nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist...   " Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie   " dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist,  friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,   " war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und  es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter  des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es   " kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten  Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die  Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffs-  katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn   " des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der ky-  renaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Dio-  medes, kehren auf ganz engem Raum an der thraki-  schen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine   " ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit  einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden  Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten 63-65. 65   n. 1; Studniczka 134 sgg.). " Aber nicht genug damit.   " Auch in Kroton ist ein^ Kyrene (als Mutter des Laki-   " n[i]os) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte  ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios (1)   " mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist   " fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt,     tera, esprimeva il dubbio che le sue argomentazioni non  potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con  cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli-  gente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi,  manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso  sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria   (1) Jambl. vii. Pijth. 36 S. 265 (N. d. Gr.).     424 IV, - CIRENE MITICA   " aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem  " glaube ich entnehmen zu durfen: 1) dass Kyrana und  seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, Ur-  " spruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder  " der Quellnamen selbst — aus dem dann, aber wohl  " schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder   * Heroine geschopft sein mùsete — von Griechen tìber-   * tragen wurde ; 2) dass die vier Namen Euphemos, Ari-  " staios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordent-  " lich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus  " Grùnden, die ich nicht in der Kurze ent-  " wickeln kann(l), bin ich ùberzeugt, dass die Verknùp-  " fung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das im  " VlII.Jahrh. einbedeutendesKolonialreichbesessenhaben  " muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene  " und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von  " wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen  " wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen,  " will ich nicht behaupten obwohl ich es  "glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer  " Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von  " Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. ,   Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Tre-  zene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed  Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia;  bisogna provare: 1° l'esistenza di questo quadrinomio  a Trezene; 2" il ritorno costante di esso nei luoghi ras-  segnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da pos-  sibili equivoci; 3° l'insistente ripetersi, nelle forme e nei  luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo  alterarsi non sia ben motivato.     (1) Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascri-  zione.     LA NINFA CIRENE 425     1° Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insi-  stere " in der Kiirze „ : sorvoleremo noi pure.   2" A Crotone si sarebbero potute raccogliere tracce  di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è  riscontrata in Cirenaica; Ariste© e Cirene. Tuttavia farò  sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si *  basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:  il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una  persona non prova assolutamente nulla intorno al culto  locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente  da mantenere la forma Cirene per la madre di La-  cinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes 66;  cfr. Serv. a Verg. Eneid. Ili 552j. Localizzata di fatti  Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole,  reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia  dei Romani I 192-3), non è improbabile che a Crotone  si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli  di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'epo-  nimo del Lacinium promontorium li presso. — Ma se mal  sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in Crotone,  altr' e tanto incerte son quelle che il Gruppe ne riscontra  in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten 65  corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in  IIvQr^vrj. Per il Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nel-  l'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto  improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tra-  dizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di  Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera  e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;  credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la sup-  posizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse  il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa  ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso  " Cirene-Diomede ,, una corruzione * Pirene-Diomede ,, un     426 IV. - CIRENE MITICA   ampliamento * Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone „; né  è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apol-  lodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia,  nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricor-  rendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti-  ficata la supposizione del Malten : in territorio predomi-  nato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi  a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Ma-  ronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per  opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo  vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba rite-  nere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la  supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indi-  pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde  difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni (B 486-7),  e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio  del Fai^oxog. — Or come né in Crotone né in Tracia Ci-  rene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon-  datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici  profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a si-  miglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a  simiglianza degli Argonauti (v. sotto § VII); ma sol tanto  perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei  vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo  quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leg-  genda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare.  — In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in Crotone, dubbii  in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza iden-  tico all'avo dei Battiadi ; in Libia Diomede non esiste.  3" Per di più, oltre ad essere incerta la presenza  di tutt'e quattro i numi in Crotone in Tracia in Libia,  non si capisce, — se, come vuole il Grappe, tra quelli  lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi  altrove, — perché a Crotone il perno del mito sia il     APOLLO CARNEO 427     nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea  fondamentale della leggenda sia la discendenza di Dio-  mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito  dalla commessione * Cirene-Aristeo „. E né pure si ca-  pisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a  Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e  per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di  Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della  leggenda si distrugge e si trasforma: — senza causa  evidente.   Non posso dunque finora accettare la teoria del Gruppe ;  e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten.  Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamen-  tale del mito.   III. Apollo Carneo. — Non cade dubbio che Apollo  e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di  Wide e Hofeb in Roscheb Lex. II 1, 961 sgg.). Ma per  il mito di Cirene è di somma importanza il determinare  se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima  che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto  in Cirenaica (cfr. Malten 61 sgg.).   Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv  Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor  del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv...  ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig  ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer),  due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove  il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo,  separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o  pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propa-  gasse dal centro originario nelle altre sedi del culto. E  questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi  ritengo preferibile all'altra.     428 IV. - CIRENE MITICA   Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene,  giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen  Thera III 69) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico  di * Apollo-Carneo „, non è imprudente o arbitrario il  supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. an-  teriore. Né a tale ipotesi è contrario il Malten 60; il  il quale scrive : * Gewiss ist die Verbindung ' Apollon-  Kameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder  erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und  hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet „. Se  non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è lo-  gicamente possibile.   Poiché — difatti — tutta Vlliade (prescindendo dai  pili meno antichi strati) dimostra il carattere premi-  nentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del  santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben  riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.^ 1 1, 319 (cfr. II.  1 405) ; se si ammette che già in Tera Apollo preponde-  rasse su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si  ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Ci-  renaica avevano ormai alla loro principale divinità ricono-  sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto  del tutto superflua la opinione che un tal carattere a  quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.  La quale appar quindi non la causa del fondersi in-  sieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un ef-  fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e  per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,  Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo.   Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato,  crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga:  Aristeo.   IV. Aristeo. — Non è qui opportuno studiarne la dif-     AP.ISTKU 429   fusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto  dal Malten 77 sgg. e negli * Atti dell'Accad. di Torino „  citt., a p. 510 n. 1).   Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi.  Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton. 72, 2, scoi. Pit. IV 4 (ràv  'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g  dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possi-  bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo  il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)  e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di  quella connessione e la determina. Tra le due possibili  ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una  vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole  dell'Egeo, — quali Ceo (1) Chic l'Eubea, — e l'Arcadia:  onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche  strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse  culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che  nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e  dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo  manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si  può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto  teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco cono-  sciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei  più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro  la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che tra il  principio del VI sec. e il principio del V, cui risale la  Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per VEea di  Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si com-  mettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Ci-  rene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno     (1) Cfr. K. C. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos  Diss. Giessen 1912, pag. 7 sgg.     430 IV. - CIBENE MITICA   stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con  Zeus in Arcadia: cfr. Malten 77 sgg. (1). L'analogia è  sufficiente motivo.   Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero  originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere  un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito  venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo  ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti  riescono di minore rilievo a confronto con quelli che  riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico  Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire  nelle sue linee principali il componimento da cui quelle  tre figure vennero collegate in racconto: — l'Eea.   V. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. — Con-  vengo col Malten 1 sgg. che le fonti cui dobbiamo at-  tingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea  di Cirene sono : Pindaro Pit. IX, Esiodo t'r. 128 Rzach^,  Ferecide in scoi. Pit. IX 27, Seiivio a Veeg. Georg. I 14  = Esiodo fr. 129 Rz.', Apoll. Rodio II 500 sgg. : — cui  vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno  di grande valore, Timeo appr. Diod. IV 81. 82, Nonno Pan.  Dionis. V 215 sgg. 292 XIII 300 XIX 225 XXIV 83 sgg.  XXV 180 sgg. XXVII 263 XXIX 179 sgg. XXXVII 198 sgg.  XLV 21 XLVI 238 (Malten 35 sgg.).   Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono  attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti     (1) Il Malten a p. 82 lascia in dubbio * ob der Gott...  schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der  Kjrene v/urde „; ma a pag. 212, per amor della sua tesi,  asserisce quasi il contrario : " Hier [in Thessalien] erregte  sie [Kyrene] das Gefallen des Gottes... Ihr Sohn ward  Aristaios... ,.     LA RICOSTRUZIONE DKLl'eEA DI CIRENE 431   elementare : ritenni originario tutto che ritornasse co-  stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflet-  tenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più com-  plesso. Fu dimostrato poc'anzi (§ III) che non può venir  attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di  Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben  guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,  Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tes-  saglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo  dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del tra-  sferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasfor-  mare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto  del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cire-  naico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è  pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti  quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo  connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è pro-  babile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il rac-  conto sul figlio di lui Atteone (1). D'altra parte la figura  di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante  perché traverso essa e per sua causa non dovessero pene-  trare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti :  i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne  esiodeo alle sue più tarde propaggini.   Nei particolari i criterii esposti conducono a questi ri-  sultati; — 1. Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti;  Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo:  cfr. Malten 8. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit.     (1) Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del  nostro lavoro qui si omette, Malten 16 sgg. — Si vegga  inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea  di • Studi critici offerti a C. Pascal , (Catania 1913).     432 IV. - CIRENE MITICA   IX 27) fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone.  Se non che questa variante è sospetta, come quella che  tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chi-  rone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che  spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il cen-  tauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con  Aristeo prima che questo con Cirene. — 2. Apollo scorge  la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La  lotta col leone è ricordata da Pino. Pit. IX 26, da Nonno  loc. cit.; non da Apoll. R. II 500 sgg.: questi l'introduce  nell'officio di pastorella. Il Malten 62 resta per ciò in-  certo su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel  si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra  (v. p. 222), mostra come esso si allontani assai dall'ori-  ginaria forma del mito a causa dell'influsso del raziona-  lismo: al quale adunque si deve anche attribuire la sop-  pressione della belva e della lotta che troppo male  consentivano al paese tessalo. — 3. Chirone profèta le  nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka 41. Col  quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribel-  larsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio,  allor quando sopprime tutta la scena e induce il Cen-  tauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non  la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal  doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol-  lonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii es-  sendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in-  serto quello. — 4. Apollo trasporta la fanciulla in Libia  sul suo carro (Malten 8-9). — 5. Cirene è accolta da Libia.  Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai  vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten 11.  Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve  dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da pre-  ferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai.     LA KICOSTBUZIOXE PELL'eeA DI CIRFNE 433   vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in  cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito  pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato;  mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come  mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite  (v. 9). La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu in-  trodotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo-  óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit. V 24)  e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr.  Malten 207); giacché non trascurabile culto a essa dea  si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne  presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone  XVII 836). — 6. Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo.  Cosi Apoll. R. II 509. Pindaro Pit. IX 59 attribuisce quel-  l'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo  esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.  l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. 153 Rz.^ = Anton.  LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in  Euripide Ione 10 sgg. Ermes per ordine di Apollo reca  Ione, colatamente, in Delfi. — 7. Aristeo è allevato dalle  Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio  si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon. II 507 sgg.:  però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche  dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di  Bglaai (Aristot. fr. 511 Rose); l'altra pindarica che in-  troduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le  Muse ; varianti delle quali la prima troppo strettamente  Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del  carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'altera-  zione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricor-  dare B. A 603); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò  contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che  le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra-  scorso impreciso dell'autore che una vera e propria va-  A. Fersabi>-o, Kalypso. 28     484 IV. - CIBENE MITICA   riante. — 8. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone  ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo  (cfr. Malten 10 sgg.)-   Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado  delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino  all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello.  Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Ari-  steo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di  Eufemo su cui v. a p. 440) : cfr. Malten 25. 61 che qui  si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini  tessaliche del culto di Asklepios in " Rassegna di Antichità  classica „ I (1897) 237 sgg. contro Kjellberg Asklepios,  mythologisch-archdologische Studien in " Sàrtr. u. Sprakv.  Sàllsk. forhandl. 1894-97 i Upsala Universitets Arsskrift,].  Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sa-  natrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} I 1, 156 e Wilamowitz  Isylìoi 93. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;  poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che,  secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo  e poi la si trasporta in Tessaglia.   Riassumendo dunque in breve i risultati di queste  ricerche (§ II- V), abbiamo: che Cirene è nome libio-greco  della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad  Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante  il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene;  che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia ;  che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene  ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Co-  ronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo  centro di elaborazione mitopoetica.   VI. Euripilo ed Eufemo. — Le due principali figure  del racconto di Pindaro Pit. IV han dato occasione alle     EURIPILO ED EUFEMO 435   più diverse ipotesi: cfr. Studniczka 111 sgg, e Malten  95 sgg. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre-  parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito  cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della  ninfa Cirene.   1. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Eve-  mone B 736; in Cos, figlio di Posidone, B 677; in Misia,  figlio di Telefo e condottiero dei Cetei À 519; in Acaja,  Pads. vii 19. — Ora è probabile che l'Euripilo di Cos  si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. Wilamo-  wiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti  gli altri sono indipendenti. — L'Acaico viene bensì da  Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che  altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de  i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri-  jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p  PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég  "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden-  temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine  dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era  ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu-  ripilo di Tessaglia. — Il re dei Cetei è dal Malten 118  ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon-  dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne  senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe  esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in  Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui  lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo.  Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipen-  dente di un Euripilo in Misia. — Alla schiera adunque     (1) Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens  I 257. 259.     436 IV. - CIKENB MITICA   di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)  viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro  i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omo-  nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manife-  stazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima  unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia fa-  cilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia  porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,  questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato  presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli  appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che  impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del  Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino 1912)  308 sgg.] che era ritenuta appunto apertura di Dite  (cfr. Strab, XIV 647 XVII 886; Tolemeo Geog. IV 4, 4, 8;  Plinio V 31).   In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da  uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo  [scoi. Pind. Pit. IV 57) cfr. Malten 116 sgg.:   Atlante  I  PosiDONE ->- Celeno £lios   I I ^^^   Tritone Euripilo —- Sterope Pasifae  LicAONE Lbdcippo   Se non che questo schema ci appare sùbito una com-  binazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.  Kul. 249), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. XVII 836 e  Pind. Pit. IV 20), L i e e o = Zeus Liceo (Eeod. IV 203, 2  eSTUDNiczKA 14 Sgg.) souo accertati in Libia da altre fonti:  elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce  (cfr. Maass " Hermes „ XXV 401-2 e Studniczka 126 sgg.).  A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di  Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi. II. 2 486, Apoll.     EUBIPILO ED EUFEMO 437   Bibl. Ili 111) è padre Posidone e madre Celano, Atlan-  tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inse-  rendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una genera-  zione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio  della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito  lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios.   Sia però questo o altro il procedimento seguito dal-  l'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla  più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta  e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze  commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a  quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se  non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio  fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condi-  zioni geografiche.   2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit. IV) con-  nesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera  con la Libia. La connessione con Lemno è una conse-  guenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con  questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito  vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo  {scoi Pit. V 99, scoi. Apoll. R. IV 1750). Resta adunque  ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per  patria (Pind. l. e. 430 : ol'aoi), i Battiadi di Cirene per  vantati discendenti. — Ora in Beozia v'è traccia della sua  supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad. II 43) : e non  v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non  originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteri-  sticamente beota. Col che si connette la sua presenza in  Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia :  a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti  beotici e tessalici. — Ma perché i Battiadi ne avrebbero  fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co-     438 IV. - CIRENE MITICA   Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten 151  che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne fa-  cessero il proprio avo. Il Costanzi 33 mi par ben più  vicino a una probabile ipotesi: * I Battiadi stanno ad  Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli  Euripontidi a Prode „; come, soggiungo, i dinasti Mo-  lossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste ana-  logie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno  cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;  Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille  nell'epopea: — e similmente ArcesLlao, appellativo di  quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade {B 495  329 cfr. Pads. IX 39, 3). E se è errato sostenere col  Mììller Orchomenos ~ 350 che di Beozia fu tratto il nome,  non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome  beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quan-  d'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genea-  logia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio,  le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzio-  nate al fatto che vogliono spiegare. — Non resta da vagliare  che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo  che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,  importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide  Lak. Kulte 33 sgg.). Non solo, ma i caratteri di Eufemo  (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più  vicini a quelli di Apollo (Stodniczka 1 14 sgg.) e, in ge-  nere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che  a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo riten-  nero Eufemo p. es. lo Studniczka (p. 155) e il Maass  (Gòtt. Gel. Anz. 1890, 354; Orpheus 157) (1) solo sulfonda-     (1) Ben altrimenti il Gruppe Gr. Myth. 1149. I rapporti  di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro  un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha     EUKIPILO ED EUFEMO 439   mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :  fondamento per cui s'indussero anche a forzare il signi-  ficato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,  eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia.  Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta ar-  tificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra  Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osser-  vazioni, si legge la IV Pitia, vien fatto d'interpretarla  nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro  punti si dovevano necessariamente far toccare, tre for-  niti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso,  Tera, la Libia. Or bene : a Lemno abbiam già veduto  Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spie-  gare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per  Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Pelo-  ponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo  era figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto  di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.  Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa  ipotesi molto più semplice che non quella del Malten  95 sgg. (1). Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,  e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di in-  trodurlo nelle genealogie laconiche ; difatti lo troviamo  nipote dell'Eurota (Tzetze Chil. II 43); o figlio di una  Doride [scoi. Pind. Pit. IV 15); o sposo di una Laonome  sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit. IV 76). Ma ha torto il  Malten (p. 134) di dar peso a tali genealogie, e in ispecie  all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indi-  pendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo     attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd ' Abh. Beri.  Akad. Wiss. ' 1850, 174 sgg.).  (1) Su Eufemo re dei Ciconi v. sopra pag. 426.     440 IV. - CIRENE MITICA   e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif.  IV 76.   Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare,  già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre  dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello  con cui al Tenaro si venerava Posidone:   fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri   •^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi ^Evvoacyaiq)   fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g.   Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R. I 179-84,  IV 1568. 1575; Igino fav. 14; Acesandro e Teoceesto in  scoi. Apoll. B. IV 1750. Se dunque è vero che la localiz-  zazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat-  tiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cire-  naico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia  anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)  di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché  l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singo-  lare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in  quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un  modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre  regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar  Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,  per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Te-  naro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten 160.   3. Crediamo adunque di aver mostrato e che Euri-  pilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo  a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo  beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,  certo è estraneo al Tenaro. Al Malten 139 pertanto che  afferma Euripilo ed Eufemo costituire " eine Reihe, die  ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thes-  salien hat , e con l'uno d'essi collegarsi intimamente     EUBIPILO ED EUFEMO 441   Atlante e Posidone, " urpeloponnesisch „ (124), possiamo  rispondere di aver troncato a quella " Reihe „, per Eu-  ripilo r " Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo  l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa  sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo,  reciso i nervi a quella teoria.   Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In  LicoFEONE 901 sgg. naufragano su la costa libica Euri pilo  (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo  magnete. Onde il Malten 132 sgg. sostiene che il nau-  fragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cire-  naica (LicoFB. 597-99, Apollod. VI 15 e 15 a Wagner) : e  rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi  però abbiamo già osservato a proposito di Diomede  (cfr. sopra pag. 426) che nei vóaroi la spiaggia libica  appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leg-  gende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il  trovare ora che un mito secondario, attinente per conte-  nuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un  Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un  omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra  opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo  non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,  per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio  la " feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und  " Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die  " in Arkadien ihren Knotenpunkt hat , (Malten 138).   Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi,  Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli  era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una  zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente  le due figure, non resta che studiare la trama narrativa  in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argo-  nauti in Libia.     442 IV. - CIRENE MITICA   VII. Gli Argonauti in Libia. — Poiché su questo  punto io profondamente mi allontano dal Malten 126 sgg.  terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggen-  darie dobbiamo por mente: Pindaro Pit. IV 1-63, 251-262;  Erodoto IV 178-9; Licofronk 877 sgg.; Apoll. Rodio IV  1231 segg.; e tutte bisogna esaminare.   Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con  Medea dall' Oceano sopra VArgo , debbono per dodici  giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino  al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro  Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone,  una zolla: fatidico dono (1). In questo racconto non v'è  nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla  quindi che non paja inventato per il loro compiacimento;  fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il  lago, di cui Strab. XVII 836, presso Berenice (Bengasi)  che esiste tuttora (" i laghi salati „). E non si vede bene,  svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto  per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della prefe-  renza; però che paja invece piti probabile il contrario:  Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra  parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat-  tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo  a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il  che lascia supporre che in Libia una leggenda più  antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possi-  bilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che  l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo  mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi.     (1) Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una  interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si  potrebbero moltiplicare.     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 443     Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esi-  steva una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque  da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava cir-  cumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio,  per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improv-  visamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle  strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la  nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode.  Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo  presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città:  Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat,  TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il  dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.  Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non  ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli  altri CosTANzi 0. e. 29-30) un riflesso del tentativo com-  piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo  nel 515 circa. Ma il dono del tripode non è che fittisiia-  mente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo :  suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone  la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localiz-  zato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte.  Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati.  L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione  infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di  Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è  assai più antico, e preesiste a Dorieo : gli appartengono  i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di  Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, gros-  solanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro.   Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi  simili. Identico è il nome della palude ; ma diversi sono  i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione     444 IV. - C'IBENE MITICA   con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte  (cfr. RoscHER nel Lex. I 1, 676 e Costanzi o. c. 29). Iden-  tico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e  non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso,  risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente  dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma  la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo  degli Argonauti si convenga il dono che serve a favorire  il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto  vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato  adunque più antico di Erodoto appare alla nostra ana-  lisi come la forma su cui vennero foggiate : da un lato  la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, — con alcune  alterazioni dicevoli ; dall'altro la leggenda spartana in  favor di Dorico, — con altri mutamenti opportuni.   Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e  Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo  ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non  lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già  gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda  giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Ki-  vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten 129, che fluisce, in  vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argo-  nauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere,  per compenso del quale egli insegna loro la via, e pro-  fèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché  riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impau-  riti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il  cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena  son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i  luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica.  Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazio-  nalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il  mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 445   Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che  in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio  (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr. 902) (contro  Malten 130). In breve, Licofrone contamina; mischia in-  sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto  sirtico-spartano del mito.   Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Ar-  gonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano  a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giun-  gono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti  nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una  zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati :  il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo  (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il  poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contamina-  zione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge  con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a  oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella,  di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia.   Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'ar-  bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia  la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano  d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra  come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola  Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse  trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro  lago Tritonio, a Bengasi.   Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse  furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e  Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona con-  ferma delle premesse medesime.   Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che,  nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degli Ar-  gonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la     446 IV. - CIRENE MITICA   conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Ero-  doto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna  dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben  possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicita-  mente, ma solo parenteticamente, degli Argonauti. Inoltre  la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo  del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi  che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esi-  genze poetiche o l'estro dell'ispirazione.   E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati  delle ricerche (§§ VI-VII) sul mito dei Battiadi. A favore  di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico mo-  tivo favoloso su gli Argonauti in Libia : conducendo quivi  e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei  Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando  i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di  Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come al-  trove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento  di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifaci-  mento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note,  non già altre, anteriori e ignote.   Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre-  diamo si possano mostrare contaminate parzialmente in  Callimaco.   Vili. Callimaco e il mito di Cirene. — Il Malten  41 sgg. 58-9, vede nel nesso ' Cirene-Euripilo ' la forma  più antica della leggenda, quella che l'Eea avrebbe adul-  terata. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come Ace-  SANDRO {scoi. Apoll. R. II 498) e Filakco (ibid.), storici,  cirenaico l'uno, egizio forse l'altro (III-II sec. a. C), sente  una più viva eco e più genuina della primitiva forma  mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tes-  saglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui-     CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE 447   tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea  avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con  quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con  Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia era invero  signore di Ormenio un Euripilo (B 736) figlio di Evemone.  Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro,  è pur posteriore alla leggenda dinastica degli Eufemidi,  già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha  preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che  Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura  ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degli Argo-  nauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia  una posteriore forma indigena della leggenda che fu og-  getto del nostro studio; a quel modo che Vergilio (v. so-  pra pag. 223 sgg.) rispecchia una posteriore forma stra-  niera.   A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase  di lui fievà jiÀeióvùìv : Cirene di fatti sarebbe pervenuta  in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'  diverso, è Giustino XIII 7, 8: mandati dal padre di Ci-  rene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fer-  mati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora,  come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di  Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano  in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso  indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,  bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che  vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi  di questo processo mitopeico sono : 1) Euripilo è in Libia  quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ;  dunque molto prima di Batto; 2) Cirene è in Libia ra-  pita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto;  3) Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli  antichi tempi; 4) con Cirene, che ha il trono da Euri-     448 IV. - OIBENE MITICA   pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro)  processo, adunque, le cui forme non si debbon confon-  dere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee.   IX. Esegesi novissima. — Storia e indagine su Ci-  vette mitica erano in questo volume già per intero com-  poste quando apparvero di G. Pasquali le Quaestiones  Callimacheae (Gottingae MCMXIII) ove (pag. 93-147) il  mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo  altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle  Scienze di Torino „ 1914, 17 Maggio).     Torino, Giugno 1914.     FRATELLI BOCCA, EDITORI — TORIXO     Piccola Biblioteca di Scienze Moderne 

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